La promessa dei dieci minuti

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La promessa dei dieci minuti

Laura Carrer

Mentre scivolano per Milano i tram attraversano quartieri, viali e direttrici importanti, fermando agli incroci e davanti alle vetrine dei bar. Le aziende che vogliono pubblicizzarsi li scelgono perché permettono di arrivare dritto agli occhi di chi aspetta alle pensiline, di chi passeggia in una certa zona, di un target che in sostanza possa aumentare il “ritorno di investimento”, il ROI, come lo chiamano gli addetti ai lavori. Dall’inizio dell’anno fino alla fine di Aprile, l’azienda che ha attratto di più gli sguardi dei cittadini milanesi è senza dubbio Getir (dal turco “portare”), una delle ultime start up tecnologiche entrate nel mercato urbano del delivery. La campagna pubblicitaria Out Of Home arriva per le strade di Milano dopo nemmeno tre mesi dal debutto della start up turca in città, ricoprendo venti tram e cento autobus per una spesa totale di circa 370.000 euro.

Dalla mente dell’utente passando per il pagamento dei prodotti nel carrello, fino ad arrivare alla consegna dell’ordine: ciò che promette Getir è la nuova chimera del quick commerce. Portare un pollo fritto dal ristorante al cliente è già realtà, ma portarlo in dieci minuti è ben altro. I rider di Getir e dei suoi concorrenti Macai e Gorillas fanno la spola da un punto all’altro della città per recapitare il più velocemente possibile tutto ciò di cui il cliente ha bisogno, che sia una spesa o anche solo dell’acqua.

Simbolo del settore italiano della spesa veloce è Macai, che nasce nel 2020 dalla fusione delle prime start up nazionali della distribuzione del cibo MyMenu (ancora esistente) e Sgnam, le quali hanno acquisito due anni prima anche la milanese BacchetteForchette. L’adattabilità all’evoluzione del mondo del delivery e la possibilità di sfruttare la scia delle aziende più grandi ha fatto sì che le tre start up siano sopravvissute, anche se in forma diversa, all’interno di un mercato estremamente competitivo: a differenza delle altre Macai non consegna dopo le 22, prevede costi di spedizione per la spesa e copre solo alcune zone della città.

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#LifeIsAGame, il progetto

Life is a game è il progetto con cui IrpiMedia indaga il mondo delle piattaforme di food delivery. Dagli algoritmi alle questioni del lavoro che coinvolge tanto i rider che sfrecciano per le strade quanto i dipendenti delle piattaforme stesse. Ciò che possiamo descrivere è l’ascesa di un nuovo modello organizzativo fortemente improntato sull’utilizzo di tecnologie digitali, nonchè sull’estrazione di dati e informazioni.

Il valore è duplice: l’espansione nel mercato (della ristorazione) attraverso un’agguerrita concorrenza, colmando i vuoti laddove i dati indicano; e il controllo algoritmico dei lavoratori, effettuato attraverso la “gamificazione” (cioè l’utilizzo di elementi mutuati dai giochi in contesti non ludici) del lavoro che rende sempre più labile la separazione tra vita personale e professionale.

Se conoscete o siete rider o lavoratori delle piattaforme di food delivery e volete condividere informazioni è a disposizione la nostra piattaforma per le segnalazioni anonime e sicure, IrpiLeaks. Ogni segnalazione verrà vagliata e valutata dalla redazione di IrpiMedia.

La città è un grande magazzino virtuale

Sebbene il mercato del food delivery sia praticamente un oligopolio di feroce concorrenza nato perlopiù cinque anni fa, l’avvento di sempre nuovi player è sintomo di una possibile differenziazione dell’offerta fornita agli utenti. In questo senso le start up, dopo essere diventate un punto di riferimento per il cibo d’asporto e aver puntato ad appropriarsi anche di parte del settore della ristorazione, aggiungono un altro tassello.

La promessa dei dieci minuti e delle micro spese veloci è possibile solo in un modo: attraverso i dark store. Glovo li chiama magazzini urbani e sono dislocati in aree strategiche della città che permettono di ridurre il chilometraggio di distanza tra merce e utente, garantendo una risposta al significativo aumento nella richiesta di prodotti consegnati a casa avvenuta durante la pandemia. Filiali indipendenti dalle imprese madri, che possono operare come supermercati tradizionali. In questi magazzini dalle vetrine mascherate e non accessibili al pubblico i picker, dipendenti delle piattaforme, stoccano i prodotti più vari, dall’alimentare alla pulizia della casa, una sorta di just in time perennemente rifornito attraverso accordi con distributori e fornitori.

La parola: Just in time

Organizzazione del processo produttivo che prevede il rifornimento del materiale di trasformazione esattamente nel momento in cui viene richiesto, allo scopo di ridurre i costi legati all’accumulo di scorte; tale modello è applicato talvolta anche alla gestione di magazzino nella grande distribuzione.

I dark store di Glovo, Deliveroo, Gorillas e Getir si inseriscono a decine nello spazio urbano, tra un negozio e un passo carrabile, senza troppe cerimonie né annunci: le piattaforme di delivery comprano locali svuotati dalla pandemia da Covid-19, sfruttando anche le maglie larghe del Piano di Governo del Territorio del comune di Milano, basato sulla cosiddetta “indifferenza funzionale”. Come si legge all’art. 5 delle norme di attuazione del piano non esistono infatti zone adibite unicamente ad attività commerciali o all’edilizia residenziale, e questo per «affrontare istanze di innovazione e integrazione che stanno interessando la città soprattutto nei modi d’uso legati al lavoro e ai servizi alla persona».

Una scelta che però, come riportato da BBC News a febbraio, in altre città come Amsterdam, Rotterdam, Parigi, Lione e New York è stata sottoposta all’attenzione delle amministrazioni comunali, anche a seguito delle lamentele avanzate dai residenti davanti all’ennesima apertura di dark store nei loro quartieri. A Barcellona, città già in vista per le politiche contrarie alla diffusione indiscriminata delle piattaforme, la sindaca Ada Colau ha presentato una proposta di regolamentazione dei dark store e delle dark kitchen: se i primi sono di aziende come Glovo, Getir o Gorillas non possono più essere aperti; mentre sulle seconde sono piovute ampie restrizioni. Una decisione che mette sul tavolo anche le richieste dei sindacati, che in questo senso chiedono alle aziende, ad esempio, di prendersi carico dei momenti di attesa dei rider, ospitandoli all’interno dei “supermercati fantasma”. La start-up Getir ha dichiarato alla BBC di lavorare in concerto con le amministrazioni locali delle città in cui opera, ma ad oggi non risulta esserci nessun dialogo aperto con l’amministrazione milanese.

Visibile e invisibile

Cosa ne sarà degli alimentari e dei negozi multietnici di quartiere nei quali ci si reca per la spesa veloce d’emergenza, spazi della città che spesso hanno anche una valenza comunitaria, non è dato sapere. Dopo aver ammaliato clienti e ristoratori attraverso un servizio veloce a qualsiasi orario, le multinazionali del delivery occupano spazi che precedentemente erano aperti al pubblico e ora sono tecnicamente occupati da merce, ma funzionalmente vuoti. Il vuoto delle città rimodella quartieri, tessuto sociale, relazioni e connessioni tra persone che quel luogo lo abitano. Un dark store di Glovo è anche nel quartiere Giambellino, nella periferia sud-ovest di Milano, evidentemente non più così lontano dalla gentrificazione e dalla clientela che ricercano le piattaforme.

Milano, Maggio 2022 - Un rider di Gorillas entra in un dark store del brand tedesco al civico 13 di via Eugenio Carpi. Il dark store è posizionato negli spazi di un ex gommista che ha chiuso durante la crisi pandemica - Foto: Luca Quagliato

Milano, Maggio 2022 – Un rider di Gorillas entra in un dark store del brand tedesco al civico 13 di via Eugenio Carpi. Il dark store è posizionato negli spazi di un ex gommista che ha chiuso durante la crisi pandemica – Foto: Luca Quagliato

Milano, Maggio 2022 - Lavoratori di Getir in attesa di effettuare delle consegne nel cortile del civico 64 di via Teodosio - Foto: Luca Quagliato
Milano, Maggio 2022 – Lavoratori di Getir in attesa di effettuare delle consegne nel cortile del civico 64 di via Teodosio – Foto: Luca Quagliato

Anche il settore immobiliare registra investimenti cospicui in questo senso: Stoneweg, società svizzera operante nel mercato immobiliare, fornisce proprietà in affitto alla multinazionale spagnola Glovo in Spagna, Italia, Portogallo ed Europa dell’est. L’investimento accordato è di 100 milioni di euro per i prossimi cinque anni. Se le ripercussioni sul tessuto urbano non sono ancora del tutto comprensibili, certo è che l’esistenza delle piattaforme tecnologiche continua a definirsi attraverso la dicotomia visibile/invisibile: entrano nel mercato urbano e si rendono visibili con la pubblicità, distribuiscono cibo attraverso lavoratori invisibili per chiunque, svuotano spazi a volte invisibili della città e li rendono “visibili” solo online. I dark store forse sono l’emblema delle implicazioni sul lungo periodo dell’e-commerce.

L’impatto sul lavoro dei braccianti metropolitani, invece, c’è e si fa sentire già forte. Delle circa 800 persone che Getir ha assunto a Milano con contratti a tempo determinato circa un quarto non sono state rinnovate, e i dipendenti di alcuni dark store sono stati dimezzati. Un copione che le start up tecnologiche mascherate da aziende del food delivery (Getir si definisce «70% tecnologia, 20% commercio al dettaglio e 10% società di logistica») utilizzano da tempo per entrare in un mercato del lavoro già di per sé vulnerabile: nel primo anno di attività le assunzioni di personale con contratti (a termine) è indispensabile a posizionarsi tra i player della concorrenza, salvo poi fare marcia indietro quando la flotta di rider è al completo.

Niente di diverso dal dietrofront che Deliveroo aveva fatto nel 2018 in Belgio, quando è stata riconosciuta dal governo come «piattaforma digitale per l’economia collaborativa» attraverso la Loi De Croo. Similmente alla nostra normativa sul lavoro, anche in Belgio i rider che superano la soglia dei 5.000 euro annui devono aprire una posizione da liberi professionisti e non godono di nessuna certezza economica né copertura assicurativa. Una legge che di fatto rende più precari i corrieri che superano un introito annuale così basso da non permettere un vero e proprio sostentamento; e che dall’altra parte autorizza le piattaforme a sottrarsi alle richieste di subordinazione di una parte dei rider.

La GDO si accorda con Glovo e Deliveroo

Anche se la promessa non è completamente rispettata (le consegne avvengono realmente in venti o trenta minuti), l’illusione è stata venduta anche a grandi player o catene che operano nella vendita al dettaglio da decenni. Nel marzo 2021 la spagnola Glovo ha sottoscritto un accordo in esclusiva con Gruppo Vegé, che conta 33 imprese nel settore della distribuzione di prodotti, volto a consegnare questi ultimi attraverso i suoi rider in un tempo massimo di 40 minuti. In merito, la general manager di Glovo Italia Elisa Pagliarani, dichiara che la partnership con il gruppo serve proprio ad assicurare la capillarità necessaria a rendere sempre più veloci le consegne ai clienti.

Milano, Maggio 2022 - Un negozio Glovo Express in via Filzi che ha preso il posto di un punto vendita di prodotti per l'igiene personale - Foto: Luca Quagliato
Milano, Maggio 2022 – Un negozio Glovo Express in via Filzi che ha preso il posto di un punto vendita di prodotti per l’igiene personale – Foto: Luca Quagliato

Simili accordi sono stati stipulati dalla start up di Barcellona anche con Carrefour (su territorio nazionale), Sole 365 in Campania e Prezzemolo & Vitale in Sicilia. Il valore aggiunto per queste grandi catene, che hanno una vasta capillarità sul territorio nazionale, è poter fornire il loro assortimento allo stesso prezzo che espongono nei supermercati ma sulla vetrina digitale delle app delle piattaforme, 24 ore su 24 e sganciandosi dal vincolo delle fasce orarie di consegna dovuto all’orario di lavoro dei dipendenti della GDO.

Parallelamente l’azienda ha stipulato accordi anche con altre multinazionali come Kasanova, Kiko e Flying Tiger, ampliando ancor di più l’offerta e permeando la quasi totalità delle richieste dei clienti, che comprano un panino insieme a un bloc notes olandese e a uno smalto.

All’inizio di maggio tre grandi player della grande distribuzione nel nord e nel sud Italia hanno siglato collaborazioni con l’inglese Deliveroo: Apulia Distribuzione, Crai e Despar avranno a disposizione la flotta di rider della piattaforma che, secondo quanto dichiarato dal general manager per l’Italia Matteo Sarzana, raggiungerebbe metà della popolazione italiana. Il servizio di consegna è sempre più integrato anche con altre multinazionali della logistica e del commercio elettronico come Amazon, insieme alla quale Deliveroo ha deciso di fornire ai clienti Amazon Prime consegne gratuite e illimitate sugli ordini. Deliveroo Plus, attivo dalla fine di marzo 2022, è una nuova direttrice del food delivery, crasi tra intrattenimento e settore della ristorazione.

I ristoratori tornano indietro

L’evoluzione delle start-up che reggono il food delivery nazionale ed europeo è rapida e continua. Eventuali limitazioni da parte delle amministrazioni comunali sull’apertura dei dark store potrebbero portare le piattaforme a stabilirsi in aree periferiche della città, da una parte mettendo fine alla chimera del quick commerce e dall’altra obbligandole a dimostrare la loro redditività a medio e lungo termine. Guardando indietro poi a chi in un primo momento ha accettato le piattaforme e gli ha affidato, spesso e volentieri, quasi completamente la propria attività, il gioco non sembra essere valso la candela.

Milano, Maggio 2022 - Un rider di Macai all'ingresso del dark store in Via dei Transiti 21 - Foto: Luca Quagliato
Milano, Maggio 2022 – Un rider di Macai all’ingresso del dark store in Via dei Transiti 21 – Foto: Luca Quagliato

«Finalmente un modello di gestione della delivery che la rende sostenibile perché costruito dai ristoratori per i ristoratori», appare scritto su TakeLocal, un servizio di consegna dei pasti organizzato da alcuni ristoranti delle zone milanesi di Isola, Porta Venezia e Loreto che, più che una rivoluzione, sembra aver riportato indietro le lancette del delivery agli speedy pizza che consegnavano solo nei quartieri limitrofi alla pizzeria. I ristoratori battono su alcuni punti in particolare: le app delle piattaforme tecnologiche hanno allontanato chi cucina da chi mangia, il servizio di consegna è soggetto a sfruttamento e le compagnie di delivery richiedono commissioni troppo elevate su ogni ordine.

Stando a quanto riportato da Il Fatto Quotidiano in un articolo del febbraio 2021 sulla situazione della ristorazione milanese post Covid-19, l’ingresso nelle vetrine digitali costerebbe ai ristoratori 200 euro così come sarebbe richiesta una percentuale su ogni ordine (che varia da piattaforma a piattaforma) che può arrivare fino al 35%.

Un ritorno al passato, quello di TakeLocal, che però è arrivato forse troppo tardi, quando le conseguenze delle zone grigie in cui opera l’economia delle piattaforme sono ormai visibili anche nella conformazione fisica delle città. Sembrerebbe che a guadagnarci davvero siano state, finora, solo loro.

CREDITI

Autori

Laura Carrer

Editing

Luca Rinaldi

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Luca Quagliato

Con il sostegno di

European Cultural Foundation

Fabbriche di cibo

#LifeIsAGame

Fabbriche di cibo

Laura Carrer

Itavoli, il servizio, il profumo della cucina e le comande. Se c’è una cosa alla quale anche durante la pandemia da Covid-19 non ci siamo disaffezionati, è andare al ristorante. Un’abitudine e un’idea tutta italiana, che parte dalle materie prime fino ad arrivare alla preparazione dei cibi. Nel nostro Paese, secondo stime della Federazione italiana pubblici esercizi relative al 2020 i ristoranti sono 188.631, soprattutto in Lombardia e nel Lazio. Nel 2020, poco più di 9.000 attività di ristorazione hanno aperto i battenti ai clienti che tra un’ondata e l’altra hanno deciso di mangiare fuori casa, ma ben 22.000 hanno invece abbassato definitivamente le serrande.

Tra la pandemia da Covid-19 e i lockdown imposti dal governo fino alla fine della primavera scorsa (e a cicli anche successivamente), in un lasso di tempo ridotto il settore della ristorazione ha subìto importanti cambiamenti. Camminando per le strade di Milano da alcuni mesi ci si imbatte sempre di più in piccoli locali agli angoli delle vie, sovente in pieno centro o appena fuori, che si mimetizzano nella giungla urbana. Alle vetrine di questi locali, spesso senza neanche un’insegna, si accalcano, soprattutto nell’orario di pranzo e cena, i rider. Con i loro telefoni in mano si avvicinano al vetro chiedendo un riscontro sulla preparazione dell’ordine che devono ritirare, e si fermano ad aspettare. L’attesa è difficile da stimare. Può dipendere dal ristoratore, che comincia a cucinare il cibo al loro arrivo perché non è sicuro di quanto ci metteranno ad arrivare, oppure dalle piattaforme digitali, che non segnalano la partenza del fattorino. Quando tutto si allinea, ecco una mano che esce fuori dalla vetrina per consegnare il pacchetto.

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Si chiamano in vari modi, anche se seguono lo stesso filo rosso: dark kitchen, ghost kitchen e cloud kitchen sono attività commerciali che non offrono la classica interazione vis a vis con il cliente, bensì producono cibo per poi affidarlo alle piattaforme di food delivery che arrivano a quest’ultimo. La dark kitchen è semplicemente una porzione della cucina (di proprietà) di un ristorante messa a disposizione del delivery, mentre per ghost kitchen si intende un modello di ristorante realizzato in un laboratorio-cucina, all’interno del quale un ristoratore sviluppa uno o più brand culinari dedicati esclusivamente al food delivery o al take away.

La cloud kitchen consiste invece nella creazione da parte di un imprenditore – anche estraneo al settore culinario – di più cucine nello stesso spazio, che non hanno un legame tra loro tranne quello della divisione dei costi e della pubblicizzazione dei brand online. In tutti e tre i casi si lavora con e per le piattaforme digitali di consegna dei pasti.

Cosa è un “brand” culinario

I ristoranti virtuali, anche chiamati “brand virtuali”, non sono altro che ristoranti definiti da un menù molto ristretto e che generalmente produce unicamente una pietanza. Un classico esempio è quello di piatti come i burrito o gli hamburger. Altro aspetto di diversità rispetto ai ristoranti tradizionali è quello di non avere necessariamente una presenza fisica all’interno della città, bensì più spesso una cucina presso una cloud kitchen.

Alcuni di questi “brand virtuali” riportano il nome di ristoranti già avviati che semplicemente si sono affidati al sistema delle cloud kitchen, altri invece – la maggior parte -, nascono proprio in seno a queste cucine 3.0 e sono studiati nei minimi dettagli per essere performanti non tanto nella produzione di cibo (tendenzialmente vendono pietanze molto semplici e perlopiù conosciute) ma più di tutto sul web. Per questo motivo il termine brand, mutuato dalla terminologia afferente la sfera economica e del marketing, racchiude appieno e in modo chiaro la strada che le piattaforme digitali stanno aprendo verso una ridefinizione del settore.

Cucina 3.0: virtuale, in serie, veloce

Ghost kitchen e dark kitchen sono ancora ristoranti veri e propri, con un proprietario che decide di sfruttare il mercato fornito dalle piattaforme per ampliare la propria clientela. Nulla di nuovo sotto il sole, semplicemente qualcosa in più dei take away che hanno iniziato a operare all’inizio degli anni 2000 i sempre maggiori ristoranti di immigrati cinesi. Le cloud kitchen sviluppano invece un vero e proprio nuovo modello di business che definisce un ristorante non tanto sulla base della sua presenza fisica nella città, bensì nel concetto di “cloud” come contenitore invisibile delle più svariate pietanze.

Niente più tovaglia a quadretti bianchi e rossi, gambe sotto il tavolo e sguardi al cameriere per chiedere il conto. La sala e i camerieri non sono proprio nella fotografia. All’interno la cloud kitchen è una struttura che ospita più cucine (tre, quattro, fino anche a sei se c’è spazio) che producono cibi differenti, ed è quindi possibile ricreare nello stesso luogo più di un ristorante. Da una parte si tira la pasta secondo la ricetta emiliana, dall’altra si preparano burrito, poké, hamburger e cannoli. Le cucine sono affidate a ristoratori che hanno deciso di investire nel modello di business delle cloud kitchen.

Viste dalla strada, queste destano particolare interesse: non hanno (tendenzialmente) specifiche insegne che ne identificano il nome, la presenza o lo scopo dell’esercizio commerciale. Alcune riportano i nomi delle piattaforme di food delivery, altre invece sono quasi invisibili al superficiale sguardo del passante medio. Tutto avviene online: sui principali social network, i brand virtuali e le loro pietanze sono proposti a coloro che ordinano a casa con immagini che risultano succulente già alla vista. Ad occuparsi della pubblicizzazione del ristorante non è il gestore o il cuoco che prepara le pietanze ma è, appunto, il sistema creato dal proprietario della cloud kitchen.

La rampa di accesso alla cloud kitchen del brand Helbiz a Milano. La cucina nasce all’interno degli spazi di un ex concessionario di automobili – Foto: Luca Quagliato

I “virtual brands”, ovvero i ristoranti, vengono spesso dagli strascichi della pandemia da Covid-19, e questo poiché l’investimento di denaro è decisamente minore rispetto a quello richiesto per l’apertura di un ristorante tradizionale. Un cuoco all’interno di una cloud kitchen racconta di come abbia pensato di aprire lì dopo la chiusura del suo locale, fuori Milano: con una spesa di qualche decina di migliaia di euro è riuscito ad avere in meno di un mese una cucina attiva. «È un esperimento, d’altra parte continuo a investire denaro nell’acquisto di un locale in centro a Milano che costa molto. Questa – racconta il ristoratore a IrpiMedia è un’esperienza che è utile e voglio portare avanti».

In queste cloud kitchen il ristoratore paga i costi della cucina mensilmente all’imprenditore che l’ha aperta, così come una fee (quota) sulle performance che ha raggiunto il proprio brand virtuale. Termini, questi, che si avvicinano molto di più al linguaggio aziendale che a tecniche culinarie come il flambé, la glassatura o la mantecatura.

Riders in attesa all’esterno di una cloud kitchen a Milano – Foto: Luca Quagliato

Il ritiro di una consegna dallo sportello di una ghost kitchen a Milano – Foto: Luca Quagliato

Il food delivery è poi il principale canale di contatto con i clienti: il cibo viene creato per essere trasportato. Viene scelto un involucro adatto allo sbalzo termico, che possa tenere in caldo o al riparo i cibi anche decine di minuti dopo la partenza del rider. Di fatto l’attività di ristorazione è al servizio delle piattaforme digitali per la consegna di cibo.

Al lavoro per le piattaforme digitali

Le cloud kitchen si configurano come l’anello mancante nell’attuale filiera del delivery, che avvicina cliente e multinazionali digitali ancor di più e che, portando nuovi “brand” sulla strada del delivery, non fanno altro che ampliare il mercato delle grandi piattaforme. Ad uno sguardo esterno dunque sembra proprio che non siano più solo i rider o i clienti (con i loro dati e preferenze) a lavorare per JustEat, Glovo, UberEats o Deliveroo, ma ormai anche queste nuove cucine, che forniscono una fotografia ancor più nitida delle abitudini e dei gusti di chi ordina cibo da asporto.

L’esterno di una cloud kitchen a Milano – Foto: Luca Quagliato

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Ad oggi non risulta però esserci nessun accordo tra cloud kitchen e piattaforme, soprattutto per quanto riguarda le statistiche, i dati e le informazioni relative al lavoro di preparazione dei cibi. Non svolgendo ancora una funzione definita, la loro presenza può potenzialmente avvantaggiare le piattaforme nella sempre maggiore espansione delle consegne al cliente. Da considerare anche il fatto che le cloud kitchen, più delle altre due modalità, possano sostituire il ruolo delle piattaforme nel rapporto con i rider, al momento praticamente assente in quanto non esistono canali di comunicazione adeguati per qualsiasi problematica inerente il lavoro che svolgono. Il luogo fisico che occupano può essere definito come un punto di riferimento per i rider, anche se è ancora presto per dirlo.

A seconda della cloud kitchen, all’interno i locali sono minimali: una cucina, un bancone e un paio di schermi che, attraverso un gestionale, informano i cuochi del prossimo ordine da realizzare e di quelli in coda, degli ingredienti e dell’orario previsto per il ritiro. All’entrata invece si trova il posto del kitchen manager, la persona che si occupa di gestire i rapporti con e tra le cucine, con i pochi clienti che ordinano per mangiare all’esterno e che fornisce i pacchetti ai rider che bussano al vetro per ritirare l’ordine. A vista controlla anche tutti i dispositivi che, schierati l’uno a fianco dell’altro, si collegano per ogni ristorante virtuale ospitato dalla piattaforma con la quale si distribuiscono i suoi piatti. Sempre accesi e funzionanti, con pulsanti da schiacciare per parlare con le cucine, che squillano ad ogni nuovo ordine.

L’interno del desk all’entrata di una cloud kitchen a Milano a cui IrpiMedia ha avuto accesso. Tablet e device sono connessi a un sistema gestionale centralizzato che smista gli ordini alle cucine della sede – Foto: Luca Quagliato

Il modello di business che regola questo nuovo mercato massimizza l’efficienza del processo di creazione del cibo (potenzialmente dall’antipasto al dolce) e la unisce alla velocità di consegna operata dai rider, ormai presenti a migliaia nella città di Milano. Tutto sotto il controllo e per il mercato delle piattaforme digitali. Visto il modo in cui sono pubblicizzate, queste realtà sembrano più vere e proprie fabbriche del cibo che hanno come migliori amici il marketing online, la tecnologia e i social network che, combinati tra loro, permettono di abbattere non di poco i costi fissi di un investimento nella ristorazione e l’avvio di più brand in contemporanea.

Glovo punta più in alto

Quando abbiamo incontrato Paolo, nome di fantasia di uno chef di cucina da cinque anni, aveva appena lasciato il suo lavoro all’interno di una gastronomia milanese. Ha iniziato a lavorare per Glovo non da rider o perché avesse un ristorante, ma perché ha risposto all’annuncio di lavoro come chef trainer. Durante la sua giornata lavorativa parla con i ristoratori che sono interessati a far parte di GlovoConcepts, attività a latere della piattaforma di delivery, soprattutto a causa della pandemia da Covid-19 che ha imposto la chiusura dei ristoranti per molti mesi. Attraverso la sua capillarità e quindi quantità di informazioni che possiede, Glovo ha infatti deciso di allargare il proprio raggio di azione identificando quelle che sono le ultime novità e tendenze nel settore culinario per poi svilupparle all’interno delle proprie cucine laboratorio. «Questa idea è nata in Spagna a settembre del 2020. Glovo, attraverso analisi di mercato cerca quali brand possano essere avvicinati all’idea, sulla base ovviamente della città in cui si vuole ampliare il mercato», racconta Paolo.

Per approfondire

Life is a Game

Attraverso l’estrazione di dati e informazioni il capitalismo delle piattaforme governa un’economia finora considerata informale. L’oligopolio della gig economy si mostra attraverso decisioni algoritmiche e precarietà

«A quel punto, partendo dal presupposto che funzioni fare i burrito o i tacos da asporto, Glovo si inventa un menù apposito da dare ai ristoratori affinché li cucinino con i giusti ingredienti. Inoltre fornisce anche il materiale per il trasporto e le grafiche per la pubblicità», continua Paolo. La sua figura vende al ristoratore un contratto simile a quello di franchising che opera McDonald’s, ma a prezzi decisamente minori. Nello scegliere il ristoratore la piattaforma Glovo preferisce piccole realtà che già hanno rapporti con l’azienda, ovvero gli anelli “deboli” della catena del settore. In questo senso Glovo utilizza un modello economico definito in economia e marketing “coda lunga”, che non si basa unicamente sulla vendita di un numero elevato di prodotti best seller, bensì anche sulla vendita di molti oggetti diversi riducendo le quantità. Principale esempio di questo modello è senza dubbio la grande multinazionale Amazon.

Lo sportello con affaccio su strada per il ritiro dei pasti preparati nella cloud kitchen del brand Kuiri a Milano. Lo schermo in alto segnala la coda di ordini in preparazione e quelli pronti per il ritiro da parte dei riders delle piattaforme – Foto: Luca Quagliato

Dopo aver siglato il contratto, il ristoratore che fino a poco prima aveva solo una pizzeria ora cucina anche tacos o hamburger ai clienti che si affidano al delivery di Glovo. In questo caso siamo davanti ad un’idea che va oltre la definizione ancora precaria di “cucine 3.0”: il ristoratore non ha bisogno di assumere personale o di comprare materie prime, se non affidandosi direttamente ai fornitori individuati da Glovo che consegnano i cibi surgelati, e prepara pietanze simili a quelle che già cucinava in precedenza.

Dalla parte della multinazionale spagnola ci sono sicuramente molti più dati e informazioni rispetto a quelli che possono produrre, per poi custodire gelosamente, delle normali cloud kitchen. Sorge spontaneo chiedersi se a questo punto saranno le piattaforme del food delivery a dettare cosa i ristoratori debbano cucinare pur di non fallire, e cosa i clienti dovrebbero consumare soltanto perchè scelgono di affidarsi alla consegna a casa. Burrito, tacos, hamburger sono ordinati infatti senza troppa differenza nel Lazio, in Sardegna, in Lombardia e in Sicilia perché, come racconta Paolo, «chi ha un ristorante da quarant’anni si trova a dover cambiare il modo di lavorare ma non ha abbastanza soldi per farlo. Ha il vantaggio della capillarità sul territorio, la quale aiuta Glovo nel raggiungimento del suo obiettivo: creare pietanze che siano riconosciute come “i burrito di Glovo”, esattamente alla stregua degli hamburger di McDonald’s», conclude Paolo.

L’interno di una delle cucine ospiti della cloud kitchen del brand Kuiri a Milano. Ogni cucina è indipendente dalle altre presenti e personalizzata secondo le esigenze specifiche dei brand affittuari – Foto: Luca Quagliato

Ad una prima occhiata sembra che le piattaforme digitali siano entrate appieno non solo nel mercato del delivery, ma anche in quello più ampio della ristorazione italiana. Probabilmente il ristorante in futuro sarà un luogo fisico nel quale mangiare cibi raffinati come un’aragosta o bere del vino d’annata, mentre il delivery – una cucina più adatta al trasporto e meno curata – soppianterà tutto il resto. Una cosa è certa: ancora una volta le piattaforme digitali fanno passi da gigante in un settore estremamente importante per l’economia italiana, e agiscono ancor prima che un passante si accorga della comparsa di una piccola vetrina dalla quale un rider afferra un pacchetto o che vi sia un quadro legislativo chiaro al quale fare riferimento a cavallo tra lavoro e concorrenza.

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Autori

Laura Carrer

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Luca Quagliato

Editing

Luca Rinaldi

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European Cultural Foundation

Gig Economy tra caporalato e dittatura dei dati

4 Gennaio 2022 | di Francesca M. Chiamenti

Il lavoro digitale, ormai, è merce low cost. Con la pandemia si è assistito a uno sviluppo massiccio del comparto della gig economy – piattaforme di food delivery, scalata di Amazon, imprese low cost del trasporto –portando con sé, travestite da processo tecnologico, nuove questioni economico-sociali. Sempre più assuefatti da quantità e rapidità dell’offerta, consumatori moderni e aziende finiscono per smaterializzare e svalutare questo processo lavorativo, credendolo frutto di “fabbriche invisibile”. Ma cosa c’è davvero dietro? Ci sono sfruttamento, lacune contrattuali e di tutele, costante precariato e lotte sindacali.

Secondo i dati del rapporto annuale dell’Inps si stima che in Italia vi siano circa 700 mila gig-workers, che non comprendono solo l’ormai emblematica figura del rider che lavora per le piattaforme di food delivery ma anche i driver di Uber, gli host di AirB&b, gli impiegati di Amazon e tutte quelle figure legate al mondo del digitale. L’aumento di forza lavoro in questo particolare settore si è osservato soprattutto con l’avvento della pandemia ma quello della gig economy è un settore in crescita da diversi anni e che da tempo appunto sta facendo i conti con tematiche che stanno riscrivendo l’assetto socio-culturale del mondo del lavoro come lo conoscevamo. Dapprima legato a un iniziale svalorizzazione di questo tipo di lavoro, a un indebolimento del suo riconoscimento sociale che stava tramutando il lavoratore da soggetto socialmente e politicamente caratterizzato a semplice merce, ingranaggio irrilevante di un meccanismo molto più grande di lui alimentato dalla foga capitalistica, negli ultimi anno il lavoro digitale ha visto combattere a suo nome diverse battaglie e tra queste quelle dei riders sono quelle che più hanno smosso le acque.

Già dal 2017 a Bologna, come ricorda Marco Marrone autore di Rights against the machines! Il lavoro digitale e le lotte dei rider e parte attiva nella fondazione di Rider Union Bologna, erano iniziate le prime proteste per richiamare l’attenzione sulle paghe che l’azienda unilateralmente riduceva sempre di più: «Inizialmente aveva proposto stipendi decenti ma via via che il servizio si era radicato li avevano iniziati ad abbassare per passare poi al cottimo». Ma le questioni erano molte, come ad esempio il tema di valutazione (ranking) per controllare le prestazioni dei riders fino a quella che fece scattare il primo sciopero nel novembre 2017 riguardante il “fattore rischio”.

I lavoratori della GIG economy in Italia

Quello del rider è infatti un lavoro pericoloso che si svolge nel traffico e all’epoca privo di assicurazione (con il primo “Decreto rider” si è poi esteso l’obbligo di assicurazione Inail a tutti i lavoratori a prescindere dal contratto, anche quelli autonomi). Da li poi è preso il via un percorso che ha condotto alla Carta dei diritti dei lavoratori digitali in contesto urbano di Bologna, alla nascita della rete nazionale Rider X i Diritti, al Decreto Rider e al contratto di JustEat. Nonostante alcune conquiste però, le battaglie dei gig-workers non possono ancora dirsi concluse e continuano a scontrarsi con l’ostracismo delle piattaforme verso le rivendicazioni sindacali.

La nuova subordinazione

Caso Napster vs Metallica vi dice qualcosa? Nel 2000 la band aveva intrapreso un’azione legale contro il sito di file sharing Napster a seguito della circolazione di una versione demo della canzone I Disappear prima della sua uscita ufficiale. Napster, che perse la causa e chiuse i battenti, aveva usato come strategia difensiva quella di presentarsi come semplice infrastruttura digitale che metteva a disposizione degli utenti la possibilità di interagire tra loro senza però gestire cosa essi si scambiassero.

Cosa c’entra questo con i riders? La strategia delle piattaforme è la stessa anche oggi: «Metto a disposizione la piattaforma, il rider è un lavoratore autonomo, c’è il ristorante e il cliente e questa triangolazione di utenti io mi occupo solo di coordinarla. E sulla base di questo loro spiegano il lavoro autonomo», dice Marrone. Ma questi sistemi oltre a coordinare prevedono in realtà anche meccanismi di sanzionamento e premiazione (ranking) e obblighi che riguardano ad esempio ciò che viene indossato (riporta Marrone come alcuni licenziamenti si sono avuti perché i riders avevano il cubo di una piattaforma mentre consegnavano per un’altra, conseguenza della fluidità di questi rapporti di lavoro). I riders imprenditori di se stessi sono dunque menzogna. Motivo per cui si è iniziato a domandare il riconoscimento della subordinazione.

L’Italia però è ancora indietro. Se in Spagna la “rider law” prevede che i corrieri siano considerati dipendenti ordinari e in Inghilterra siano riconosciuti come “workers” beneficiando di una porzione seppur limitata di tutele (salario minimo e ferie annuali) nel nostro Paese serve prima ridefinire i confini del lavoro subordinato di tutte le tipologie di gig-workers. Secondo il Codice civile esso è il «lavoro organizzato nel tempo e nello spazio» ma appare cristallino come questa definizione risulti stretta in un’epoca post-pandemica di espansione digitale e lavoro ubiquo. «Quindi il dipendente in smart working dato che è a casa e non è più organizzato nel tempo e nello spazio non è più un lavoratore subordinato? No. Da qui – spiega Marrone – il nostro slogan “Non per noi ma per tutti” e la volontà di rivedere l’idea di lavoro subordinato come tutto il lavoro che va a beneficio di qualcun altro a prescindere da come è organizzato».

No al cottimo e alle prestazioni occasionali, monte-ore garantito con paghe orarie regolate da un contratto collettivo nazionale, riconoscimento di Tfr, tredicesima, ferie, malattia, congedo di maternità/paternità. Queste le richieste avanzate alle piattaforme. Piattaforme che nel frattempo sono state colpite da veri e propri “deliverygate”. Come nel caso che ha visto indagate sei persone tra amministratori delegati, legali rappresentanti o delegati per la sicurezza di Uber Eats, Glovo-Foodinho, JustEat e Deliveroo dalla Procura di Milano a febbraio 2021. Conclusasi con sentenza di multe pari a 733 milioni di euro, l’indagine ha parlato di sistema schiavistico e caporalato digitale, come ha evidenziato il procuratore capo milanese Francesco Greco. Una vera e propria «tangentopoli del food-delivery» il commento del portavoce di Riders Union Bologna Tommaso Falchi. 60 mila le posizioni lavorative dei fattorini controllate. Mille i controlli fatti su strada. In tutti è emersa una profonda condizione di moderna schiavitù, che ha portato le autorità giudiziarie a pretendere l’assunzione regolare dei ciclofattorini.

“Growth before business” vs lotta di classe

«Il digitale sta portando alla formazione di una coscienza di classe tra lavoratori mentre i padroni continuano ad accoltellarsi tra loro». Questa affermazione di Marrone scatta un’istantanea nitida della moderna gig-economy. Ma partiamo dalle piattaforme. Una parola le descrive bene: oligopolio. Alleanze di comodo e modelli di business aggressivo stanno dominando le strategie di mercato con l’obiettivo di creare regimi monopolistici. Come analizzato da Marrone, se si studiano i bilanci di queste piattaforme si osserva come siano perennemente in rosso, non perché non guadagnino ma perché il modello di management utilizzato è il growth before business, che porta a spendere grosse somme in elementi che consentono di espandersi prima dell’arrivo dei concorrenti (pubblicità, aperture in diverse città).

Stessa strategia usata da Facebook con l’acquisto di Whatsapp. Obiettivo? Essere l’unica piattaforma della comunicazione. Consce che solo una di loro conquisterà l’intero mercato, il gioco è resistere per vendere la propria piattaforma al prezzo più alto possibile. Ma questa competizione si è dimostrata essere il loro principale elemento di debolezza.

Al primo tavolo di trattative aperto dal Governo le venticinque piattaforme presenti giocavano ognuna per sé, finendo per dividersi in due gruppi, uno capitanato da Deliveroo-Glovo e l’altro da Foodora (poi assorbita da Glovo) ed evidenziando la perenne spaccatura tra le piattaforme multinazionali e italiane. «La Carta di Bologna – racconta Marrone – noi la riuscimmo a fare perché firmò MyMenu, la più grande piattaforma italiana». Esempio che mostra in modo chiaro questa dinamica è il caso AssoDelivery–JustEat.

Dopo sole due settimane dalla creazione del contratto con AssoDelivery (un’associazione datoriale basata però sulla non-contrattazione) JustEat decide di uscirne annusando nell’aria i cambiamenti dovuti alle lotte sindacali e sceglie quindi di cambiare modello produttivo riconoscendo la subordinazione, mettendo riders capitain a supervisione di flotte di 10-20 riders, comprando immobili a Milano per farne hub per i riders e dark kitchen. E tutto questo non in un’ottica di giustizia sociale ma con l’intento di sottrarre platea ai concorrenti.

A drogare questa economia c’è poi la finanza. Una delle ragioni che ha ostacolato il riconoscimento dei sindacati ai gig-workers è proprio la presenza dietro le piattaforme di azionisti come Deutsche Bank, JP Morgan, Intesa San Paolo che nel caso in cui «ci avessero visti come controparte riconosciuta – spiega Marrone parlando di Riders Union Bologna – avrebbero spostato gli investimenti finanziari da un’altra parte». Oggi però, grazie alle lotte dei lavoratori, la situazione si è ribaltata facendo si che siano realtà come AssoDelivery a chiedere ai sindacati di aprire tavoli proprio perché il modello di business che non riconosce il contratto regolare è stato sconfitto e le realtà che non si adeguano perdono investitori. In tema di lotta di classe i riders hanno fatto dunque un piccolo miracolo e vinto una battaglia culturale in un contesto difficile come quello digitale e in un momento storico complesso in cui l’idea di sindacato è stata massacrata. Recuperando pratiche storiche come il mutualismo che ha visto nascere ad esempio ciclo-officine autogestite, i lavoratori hanno rimarcato la necessità di una coscienza di classe ben salda.

Nonostante però l’onda di sindacalizzazione dei riders abbia portata globale l’obiettivo ora è estendere queste vittorie anche ad altre tipologie di lavoratori digitali, esempio Uber e Airb&b. Quest’ultimo ad esempio non possiede sindacati ma Facebook è pieno di gruppi di host che si scambiano informazioni sulle questioni legali.

Dati, il nuovo petrolio

C’è un altro aspetto però che rende la gig economy difficile da inquadrare nella cornice del lavoro tradizionalmente inteso ed è quello dei dati. Il termine algoritmo è ormai entrato nel linguaggio comune ma per il mondo del lavoro questo cosa comporta? Come spiega Marrone, lo step da compiere ora è far comprendere che il rider non lavora solo quando ha la consegna, l’autista di Uber non lavora solo quando ha le mani sul volante ma lavorano ogni volta che sono costretti a interagire con l’app perché magari si è liberato un turno e nella logica fagocitante dell’economia digitale vince (e lavora) chi si collega per primo. In questo modo si assiste a una ridefinizione di modi e tempi lavorativi e a una riorganizzazione della società attorno a queste infrastrutture digitali.

A riprova di questo, nella storia delle imprese nessuno ha mai raggiunto i livelli di Amazon in termini di capitalizzazione e tra le dieci aziende più grandi al mondo sette sono piattaforme. Oggi riusciremo a vivere senza di esse? Pensiamo al down recente del pacchetto Facebook-Instagram-Whatspp. L’intera economia informale di Paesi come l’India si è bloccata perché dipendente da questi strumenti. Dove sta però il nodo della questione? Nel fatto che questi dati li produciamo noi in quanto utenti utilizzatori delle app e il nostro utilizzo ormai imprescindibile di queste piattaforme rende complesso l’equilibrio tra continua espansione di esse e garanzia di un lavoro non succube della schiavizzante logica capitalista.

Logica che ad esempio ha reso impossibile ai sindacati dei riders contrattare la questione della gestione dell’algoritmo al momento della stipulazione del contratto con JustEat.

Foto: un momento della protesta dei drivers di food delivery a Bologna il 17 ottobre 2020 – Michele Lapini/Getty
Infografica: Lorenzo Bodrero
Editing: Luca Rinaldi

Life is a game

Life is a game

#LifeIsAGame

Le piattaforme digitali sono sempre più presenti nell’attività quotidiana: app di lavoro, consumo, tempo libero. Quando la pandemia da Covid-19 ha obbligato la chiusura delle città, una parte del processo di digitalizzazione che si sta imponendo nel contesto urbano è emersa prepotentemente in superficie. Le immagini dei rider che sfrecciano per consegnare cibo hanno reso l’idea di quanto ormai il loro lavoro sia diventato essenziale. Ad oggi però non ne conseguono tutele per i lavoratori, senza contrattazione nazionale, e governati da un processo decisionale e organizzativo automatizzato.

A sedere al tavolo dell’oligopolio delle piattaforme digitali non ci sono datori di lavoro veri e propri con obblighi legislativi o doveri fiscali, bensì start up multinazionali che erodono i costi del lavoro e prevedono scenari futuri grazie alla “datificazione” della città.

Ad uno sguardo più approfondito le piattaforme raccontano ben altro rispetto a quanto la narrazione aziendale vuole imporre: l’ascesa di un nuovo modello organizzativo fortemente improntato sull’utilizzo di tecnologie digitali, nonchè sull’estrazione di dati e informazioni.

Il valore è duplice: l’espansione nel mercato (della ristorazione) attraverso un’agguerrita concorrenza, colmando i vuoti laddove i dati indicano; e il controllo algoritmico dei lavoratori, effettuato attraverso la “gamificazione” (cioè l’utilizzo di elementi mutuati dai giochi in contesti non ludici) del lavoro che rende sempre più labile la separazione tra vita personale e professionale.

Più che un lavoro quello dei rider del food delivery sembra un gioco incerto basato su punteggi, feedback e bonus, e nel quale sembra vinca quasi sempre il banco.

Per questo motivo la nostra piattaforma di whistleblowing, IrpiLeaks, si rivolge da oggi ai rider e alle rider che consegnano gli ordini utilizzando le piattaforme digitali per comprendere quali impatti hanno profilazione e automatizzazione sul loro lavoro e sulla loro vita.

Ci rivolgiamo poi anche a chi lavora per le grandi aziende di food delivery e vuole segnalare fatti o informazioni che possano gettare luce sulla gestione interna del lavoro, sulle dinamiche di creazione e funzionamento dei processi decisionali automatizzati nonché sull’uso massivo di dati e informazioni.

In entrambi i casi la piattaforma garantisce sicurezza e anonimato attraverso il browser Tor.

Il questionario per i rider è disponibile anche attraverso questo form (qui il form in lingua inglese).

Ricorda che il form non ti assicura il livello di sicurezza e protezione delle informazioni che ti fornisce la piattaforma IrpiLeaks.

Nella città delle piattaforme

Nella città delle piattaforme

Sullo sfondo del lavoro precario del delivery ci sono parchi, piazze e marciapiedi: i luoghi di lavoro dei rider. Dimostrano la colonizzazione urbana operata dalle piattaforme

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La promessa dei dieci minuti

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Le piattaforme di delivery stanno mangiando sempre di più lo spazio urbano delle città. Dall’ordine alla consegna della spesa veloce c’è in mezzo il dark store, il “vecchio” alimentari sotto casa

Fabbriche di cibo

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Come il mercato del delivery, tra brand virtuali e cucine laboratorio, sta inghiottendo il settore della ristorazione italiana. Non solo clienti e fattorini: ora anche le cucine lavorano con e per le piattaforme

CREDITI

Autori

Laura Carrer

Foto

Luca Quagliato

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi

Con il sostegno di

European Cultural Foundation