Il grande gioco delle piattaforme

01 Maggio 2023 | di Laura Carrer

Una delle cose più normali che ci viene insegnata sin da quando siamo piccoli è possedere. “Mio” e “tuo” sono aggettivi o pronomi possessivi per definire, ad esempio, cosa possiamo portare a casa con noi o meno, in un contesto di relazione con gli altri. La proprietà è un concetto fondante della nostra società e determina in modo inequivocabile il rapporto che abbiamo con chi ne fa parte. Le piattaforme digitali sempre più presenti nelle nostre vite di consumatori hanno superato questo concetto. Seppur in maniera molto controversa, vanno infatti esattamente nella direzione opposta: spingono verso la condivisione e l’uso dei loro prodotti, disponibili in ogni momento e luogo, al fine di mettere tutti al centro di un nuovo modo di consumare (più che di vivere). Lo vediamo con i contenuti musicali, che Spotify ha tolto dai cd che si riponevano con cura nelle custodie sopra gli scaffali.

Da un certo punto di vista, anche utilizzare una macchina per spostarsi in città o per le vacanze senza possederla è al passo con i tempi: in un sistema economico capitalistico che ha portato ineluttabilmente all’attuale crisi climatica è preferibile utilizzare mezzi sostenibili, che permettono di risparmiare soldi e incentivare indirettamente una pratica di società differente. Il concetto di condivisione è nobile, ma funziona se nessuno degli attori coinvolti guadagna più di altri.

La giungla del food delivery

#LifeIsAGame è la serie che ha indagato l’oligopolio del food delivery per raccontare l’ascesa di un nuovo modello organizzativo fortemente improntato sull’utilizzo di tecnologie digitali. Il nome della serie deriva da un ragionamento in merito alla vita lavorativa, e di riflesso anche personale, che i rider si trovano a sperimentare: definita dagli ordini che impartisce un’applicazione attraverso un processo continuo di “gamificazione” del lavoro, sempre più impersonale, fatto di bonus monetari, percorsi più veloci e in cui a guadagnare sono solo le piattaforme che hanno un infinito ricambio di lavoratori disposti a inforcare la bici e mettersi a competere. Consegnare pasti non è un gioco, ma da fuori può sembrarlo. Le sue regole sono fissate da algoritmi opachi e precarietà sul lavoro. Ciò che #LifeIsAGame ha esplicitato è il gioco invasivo che l’economia delle piattaforme del delivery continua a sperimentare, grazie a regole di sfruttamento mascherate da nuove, in contesti come il mercato del lavoro, la città, il settore della ristorazione.

Nell’ambito delle consegne a domicilio, la storia delle piattaforme nasce nei primi anni 2000 in Danimarca e si spinge fino all’Italia undici anni dopo. Si chiamava JustEat e faceva perlopiù da collante tra ristoratori e clienti che ordinavano pizze online tramite fattorini in bicicletta. Ricordo che un amico all’università lavorava negli uffici di questa piattaforma, e che il primo interrogativo che io e un gruppo curioso di compagni gli avevamo posto era: chi mai ordinerebbe del cibo a casa? Evidentemente molti di più di quelli che pensavamo.

Il cambiamento nel consumo di cibo, almeno nelle città, è stato radicale in poco più di dieci anni. Da quel momento in poi, JustEat ha acquisito una serie di competitor tra Spagna, Regno Unito, Canada e anche Italia, definendo la cifra di una strategia orientata all’aggregazione. Altre piattaforme hanno preso la stessa direzione assorbendo sempre più aziende e rendendo un mercato economico importante il lavoro del fattorino della pizza, fino a poco prima considerata solo un’economia informale. A separare il consumatore dal cibo che ordina c’è però una filiera determinata nella sua interezza dai distributori, per l’appunto l’oligopolio delle piattaforme, che spinge all’estremo limite, e come mai prima, il sistema capitalistico.

L’anello debole della catena

I protagonisti della filiera sono tre: il consumatore finale, che dalla sua app ordina cibo da casa e viene profilato nelle sue minime scelte e abitudini di consumo e al quale le varie piattaforme lasciano anche l’onere di decidere quanto valga la prestazione del fattorino. I ristoratori, piegati alla logica della “fabbrica di cibo” che prevede la creazione in serie di piatti pronti e adatti al trasporto in città, e che snatura la loro stessa attività commerciale. E gli ultimi, non solo nell’elenco ma anche di fatto, i fattorini. L’anello debole della catena, composta perlopiù da migranti spesso senza documenti in tasca nè diritti minimi sul lavoro e alla mercè di tutti.

Le piattaforme del delivery li hanno infatti relegati a capro espiatorio: sono vittime dei ristoratori, che spesso li lasciano in mezzo alla strada sotto la pioggia o sotto il sole perché la loro presenza dentro il ristorante disturberebbe i clienti; sono vittime dei consumatori, che li additano come motivo del ritardo nel portare il cibo all’uscio della loro porta e li puniscono di conseguenza con una valutazione negativa; e sono vittime anche della città che attraversano quotidianamente. Il lavoro per le piattaforme della gig economy, e quindi anche del food delivery, è precario per natura: anche se per la maggior parte dei lavoratori è l’unico lavoro, il guadagno che ne traggono non è assimilabile nemmeno a un ipotetico salario minimo, le ore lavorate sono esponenzialmente più alte che per ogni altro impiego, e l’unica costante che accompagna i lavoratori quotidianamente è un mix tra fragilità e insicurezza.

Per approfondire

Life is a game

Attraverso l’estrazione di dati e informazioni il capitalismo delle piattaforme governa un’economia finora considerata informale. L’oligopolio della gig economy si mostra attraverso decisioni algoritmiche e precarietà

Per le donne, poi, tutto peggiora. L’economia delle piattaforme ha portato indietro la lancetta dei diritti basilari sul lavoro all’inizio del Novecento: nonostante sia un lavoro considerato “innovativo”, tecnologico e moderno, che apparentemente si può svolgere quando si vuole durante la giornata e in autonomia, è invece ancor più degli altri un impiego che non fa che nutrirsi e reiterare dinamiche tipiche della struttura di una società patriarcale. Non permette un vero e proprio bilanciamento tra lavoro fuori casa e lavoro di cura, non fornisce neanche l’ombra di un sostentamento economico fisso, non garantisce sicurezza fisica né psicologica. In sostanza non è strumento di liberazione per le donne, al contrario di quello che racconta la retorica del lavoro autonomo.

Inghiottiti anche i ristoratori

Pensare che gli utili delle piattaforme del food delivery, tra l’altro scarsi, derivino dall’intermediazione tra ristoratori e clienti è ormai ipocrita. La nuova idea di impresa che propugnano è governata dall’estrazione di dati e informazioni grezze dal valore non solo strettamente commerciale ma anche organizzativo e politico, estrazione silente che viene compiuta su tutti gli attori della filiera.

Come detto, seppur in modo diverso, tutti i protagonisti della filiera contribuiscono indirettamente a tenerla in piedi e su questo il lockdown imposto dall’emergenza Covid-19 ha gettato una luce ormai difficile da spegnere. Non è sbagliato infatti dire che le piattaforme dettano le regole di un gioco al quale però poi non partecipano.

Nel Paese della cultura del cibo, i pesanti costi da sostenere per l’apertura e la gestione di un’attività nella ristorazione hanno portato le piattaforme a ritagliarsi il ruolo di “risolutrici”, introducendo un nuovo modello di cucina a basse spese iniziali che parimenti significa bassa qualità del cibo prodotto in serie. Fenomeni come le cloud e le ghost kitchen sono i più evidenti passaggi dall’intermediazione tra consumatore e ristorante a un’idea di cucina 3.0. Niente più sala né camerieri, niente più tovaglie a quadretti né sguardi per chiedere il conto. Solo il menù rimane vario, e il cliente lo può ordinare da un’app: va dal primo al dolce, attraversando più ristoranti che per sostenere le spese si sono riuniti sotto un unico brand virtuale.

In queste cucine che si vedono in zone della città ad alta richiesta di delivery un cuoco per ogni pietanza, in modo veloce e ordinato, impacchetta la sua parte di pranzo o cena e la aggiunge a quella prodotta dagli altri. Una piadina o un poké, ma anche una pasta alla carbonara e un cannolo siciliano. Associato ad un numero il pacchetto confezionato è poi dato nelle mani di un rider attraverso una finestrella, alla quale si affaccia senza sapere troppo chi c’è dentro e cosa stia facendo. Non conoscere cosa fa chi viene prima e chi dopo è un’altra regola del gioco del delivery.

Città visibile, città invisibile

Quando la pandemia da Covid-19 ha obbligato la chiusura delle città, una parte del processo di digitalizzazione che si sta imponendo già in altri campi nel contesto urbano è emersa prepotentemente in superficie. La città è diventata sempre di più un bene pubblico assoggettato a scopi privati. Di fatto, per i rider la città è il luogo di lavoro quotidiano senza formalmente esserlo. L’algoritmo sul quale si basano le piattaforme di delivery, e che regola il lavoro dei rider, non solo è segreto e inaccessibile, ma sta incessantemente ridisegnando la geografia urbana attraverso nuovi percorsi e nuovi luoghi. Una città scollata dalla città “reale”, alla quale i lavoratori oppongono quotidianamente una resistenza silenziosa fatta di scelte diverse e soste in luoghi non previsti. I rider si ritrovano ad aspettare gli ordini di consegna del cibo ai margini delle strade, sulle scalinate delle piazze, nei parchi deserti che per un processo lento di abbandono dello spazio pubblico da tempo non accolgono più i residenti.

Anche per Luca, rider italiano, il luogo più importante della città è il parco pubblico dietro alla stazione di Porta Romana: «Un luogo per me essenziale, che mi ha dato la possibilità di conoscere e fare davvero amicizia con alcuni colleghi. Un luogo dove cercavo di tornare quando non c’erano molti ordini perché questo lavoro può essere molto solitario». Come lui anche altri, soprattutto migranti, si trovano ad accontentarsi di spazi urbani pubblici non adatti alle loro esigenze e spesso insicuri. Una coppia di rider sudamericani che lavora in stazione Centrale, da dove parte per il turno tutte le sere, è l’emblema di questo senso di insicurezza e porta inevitabilmente con sé le storture di questo lavoro.

Magazzino fantasma

La trasformazione dello spazio urbano da parte delle piattaforme di delivery, con tutto ciò che in esso è inglobato e si può inglobare per uno scopo squisitamente privato, ha percorso però anche strade più tradizionali. Per permettere una consegna veloce della spesa a domicilio, la “promessa dei dieci minuti”, è stato necessario aprire decine di magazzini in città. Arrivare al cliente fornendo i prodotti acquistati a pochi minuti dall’ordine non è solo questione di quanto veloce corre il rider. Dipende inevitabilmente dalla quantità di magazzini ai quali può recarsi sfrecciando in velocità per ritirare la merce, luoghi prima riservati ad attività commerciali ben diverse. Negozi falliti, attività chiuse dopo la pandemia, vuoti urbani sono stati comprati dalle piattaforme di delivery per stoccare merce come di solito si fa nelle aree fuori dal centro.

In questi magazzini dalle vetrine mascherate e non accessibili al pubblico si riassume il visibile/invisibile delle piattaforme, perfettamente definite da una dicotomia che ha molte ripercussioni sul tessuto urbano. Una su tutte quella di svuotare spazi che avevano una valenza comunitaria o erano attività commerciali di quartiere, per renderli nuovamente vuoti e visibili unicamente online. All’interno ci sono infatti migliaia di prodotti ma nessuno può entrare a comprarli, solo ordinarli tramite app. Dieci minuti per consegnare potrebbe tutto sommato sembrare un fatto positivo per i fattorini: più ordini per tutti. La realtà è che le piattaforme di delivery non svelano come vengono ripartiti gli ordini dal proprio algoritmo, e nemmeno quanto di umano possa esserci nel controllarlo. I rider sono costretti a migliorare continuamente le loro prestazioni, o almeno cercare di farlo, e questo avviene di nuovo aumentando l’unico parametro sul quale hanno il controllo: la velocità. In giro non si vedono più bici normali ma quasi esclusivamente elettriche, con batterie acchittate alla bell’e meglio con il nastro adesivo.

Se non hai diritti, difendili

Nonostante le grandi problematiche che affrontano quotidianamente, dall’insicurezza sul lavoro alla mancanza quasi totale di tutele lavorative, i sindacati europei fanno molta fatica a sindacalizzare i rider. Questo, insieme al continuo finanziamento alla ricerca e sviluppo delle tecnologie che utilizzano, permette alle piattaforme di delivery di continuare incontrastate a crescere in barba anche a sanzioni di milioni di euro per la mancata adozione di contratti di lavoro subordinati.

L’Ispettorato del Lavoro spagnolo ha comminato una sanzione di 79 milioni di euro a Glovo, che ha sede proprio in Spagna, ma la compagnia ha fatto spallucce. Le strutture elefantiache dei sindacati tradizionali hanno il loro peso in questa perdita di potere nella contrattazione con le piattaforme. I collettivi e i movimenti dal basso legati alle lotte per i diritti dei lavoratori giocano invece un ruolo inedito: cercano i fattorini, ci parlano e li aiutano nelle questioni più basilari del loro lavoro quotidiano, li sottraggono alle maglie di un destino già scritto e a volte riescono anche nell’arduo compito di renderli coscienti della loro condizione. I collettivi fanno anche da ponte perché le loro lotte sono poi inglobate dai sindacati maggioritari.

Nonostante ciò, questo lavoro politico non risulta ancora sufficiente a rendere le piattaforme responsabili dello sfruttamento che operano davanti alla collettività. Un settore come quello della ristorazione, in Italia già ampiamente basato sulla precarietà e sullo sfruttamento degli addetti ai lavori, è stata la chiave di volta per le piattaforme di delivery: lì sono state lasciate indisturbate nell’ignorare deliberatamente le più basilari tutele sul lavoro, processo coadiuvato dalla tecnologia che esse stesse producono come più importante e vero prodotto della loro attività commerciale. Tecnologie abilitanti basate su infrastrutture che permettono a milioni di persone di connettersi l’una con l’altra, supportate da device che si interpongono tra il prodotto, chi lo vende e chi lo compra.

La narrazione del lavoro autonomo come liberatorio poi, di matrice anglosassone e fondata sul guadagno del singolo rider per ogni ordine come base da integrare con mance o bonus di ogni sorta per raggiungere un salario accettabile, è ancora cavallo di battaglia delle aziende di delivery. In fin dei conti, il modello che propongono è moralmente corrotto: né la crescita dei loro profitti, né la quotazione in borsa o le multe milionarie che vengono comminate a queste aziende cambieranno materialmente in alcun modo il lavoro dei fattorini. Lo spiraglio, forse, va trovato cambiando punto di vista perché le regole delle piattaforme di delivery non sono le nostre. L’alternativa, per noi, è giocare totalmente ad un altro gioco.

Foto: un frame di Emma, protagonista del documentario Life Is A Game in uscita prossimamente su IrpiMedia e al cinema – Marco Meloni
Editing: Lorenzo Bagnoli

Fattorini di tutta Europa, unitevi

24 Aprile 2023 | di Laura Carrer

Quando arriva in Place de la Bourse, nel centro storico e turistico di Bruxelles, Martin Willems porta la bici con un braccio e indossa un gilet giallo catarifrangente simile a quello dei lavoratori delle strade. Sembra di poche parole, ma in fondo fare il sindacalista significa usarle per bene e nel momento giusto. Martin lavora per il sindacato nazionale belga ACV-CSC: più di un milione e mezzo di iscritti, praticamente quasi il 30% della popolazione in età lavorativa. Nel 2019 ha creato insieme ad altri una sezione interna al sindacato chiamata United Freelancers, che ha lo scopo di sindacalizzare perlopiù i lavoratori senza un contratto dipendente, spesso giovani e impiegati nella cosiddetta gig economy. Il leitmotiv, dice Willems, «è che puoi anche non avere un contratto, ma devi comunque difendere i tuoi diritti». E i rider hanno pochi contratti e ancora meno diritti.

In molti Paesi europei, l’economia delle piattaforme sta ulteriormente affossando le tutele lavorative e sindacali, già indebolite da tempo. Il processo è in corso in molti settori e i rider non sono i soli rappresentanti di questa economia. Nello spazio urbano, sono i più visibili e le attenzioni dei sindacati maggioritari si sono concentrate inevitabilmente su di loro. Il compito però è molto arduo.

Le aziende di food delivery generano utili bassi, a volte nulli, ma i gruppi multinazionali che le possiedono attraggono continui investimenti internazionali grazie alle loro attività di ricerca e sviluppo in ambito tecnologico. Per i sindacati, contrastare il potere di queste imprese è più difficile di quanto non lo sia con aziende considerate più tradizionali, per diversi ordini di motivazioni. Una prima è che, nella maggior parte dei casi, i rider non vengono assunti o considerati lavoratori subordinati dalle aziende. E questo rende più complicato raggiungerli e far valere i loro diritti. Una seconda motivazione è il controllo esercitato dalle aziende su questi lavoratori che, nonostante la mancanza di contratti, è molto forte e non si limita al tempo delle consegne.

Una situazione paradossale che però continua grazie agli investimenti in tecnologia, attraverso i quali le piattaforme sono in grado di mettere a valore grandi moli di dati. E anche grazie all’intensa attività di lobbying svolta dalle stesse piattaforme.

L’inchiesta Uber Files

La scorsa estate, l’inchiesta Uber Files ha scoperchiato il vaso di pandora sulle attività di lobbying di una delle aziende tech più importanti, grazie alle migliaia di documenti forniti al Guardian dall’ex lobbista di Uber Mark MacGann. Tra gli episodi rivelati, uno dei più emblematici è nel 2015 lo scambio di messaggi tra MacGann ed Emmanuel Macron, oggi presidente della Repubblica francese. Il lobbista chiedeva a Macron, allora ministro dell’economia, dell’industria e del digitale, di far cessare i disordini scoppiati tra i driver di Uber e i tassisti, raggiungendo in poco tempo il suo obiettivo.

Uber ha un budget per le attività di lobbying tra i 700 e gli 800 mila euro all’anno e cinque lobbisti registrati presso le istituzioni Ue. Wolt e Bolt, altre due aziende di delivery, ne hanno rispettivamente nove e sei. Il loro impegno si è particolarmente intensificato da quando, a inizio 2022, a Bruxelles si discute di una direttiva che garantisca la subordinazione ai lavoratori della gig economy. Tra gennaio e maggio 2022, i rappresentanti dei Paesi Bassi al Consiglio dell’Unione europea, solo per fare un esempio, hanno incontrato tre volte i lobbisti di Wolt, due quelli di Deliveroo e una quelli di Bolt.

Lo scorso febbraio, il Parlamento europeo ha votato la sua posizione sulla direttiva. Ora, però, bisogna attendere che anche il Consiglio approvi la sua e che le due istituzioni trovino un accordo prima della fine della legislatura, nella primavera del 2024. Intanto, a seguito dell’inchiesta Uber Files, Francia e Belgio hanno aperto indagini parlamentari per esaminare le attività di Uber nei loro Paesi.

Persino in un Paese come il Belgio con una sindacalizzazione molto forte, che arriva a toccare punte del 60%, i rider e, più in generale, i lavoratori atipici sono orfani di tutele. Willems spiega che per diverso tempo «le sigle sindacali non si sono rivolte ai freelance». Poi, nel 2017, «abbiamo creato United Freelancers e, in pochi anni, si sono affiliati più di duemila tra freelance e dipendenti atipici», continua. Pur rivolgendosi principalmente ai lavoratori indipendenti, infatti, United Freelancers è aperto anche ai lavoratori subordinati atipici. Una commistione che, per i sindacati, è inedita, difficile da affrontare, ma ormai ineludibile. Secondo Willems, in Belgio «sono più di 90 mila gli iscritti al sindacato (come subordinati, ndr) che lavorano collateralmente anche come freelance per le piattaforme della gig economy». Flessibilità però fa spesso rima con precarietà.

A ottobre dello scorso anno, è stato reso noto che Uber e il sindacato belga di autisti di limousine UBT avevano firmato segretamente un accordo non totalmente condiviso dalle altre organizzazioni sindacali. La tempistica di questo avvenimento suggerirebbe una strategia da parte di Uber per ripulirsi l’immagine dal caso Uber Files, anche se indirettamente racconta in modo significativo come le piattaforme siano totalmente disinteressate ad instaurare una reale interlocuzione tra parti sociali. Questi accordi infatti non chiariscono affatto quale potere negoziale abbiano in mano i sindacati dopo aver abbracciato le richieste delle piattaforme.

D’altronde il caso inglese che nel 2021 ha visto Uber siglare un accordo con le organizzazioni sindacali IWGB e App Drivers and Couriers Union (ADCU) sembrava aver chiarito l’andazzo della piattaforma: a un anno dalla firma Uber è stata fortemente criticata dai sindacati, e non solo, perché non aveva ancora applicato lo status di lavoratore dipendente ai driver, con relativo stipendio (minimo) e orario di lavoro definito.

Da tutto a niente

Nessun contratto, incidenti sul lavoro, paga mai sicura. Le condizioni dei rider sono frammentate, cambiano da Paese a Paese. La loro precarietà, mascherata da flessibilità e autonomia, è fulcro di un conflitto perenne. L’offerta di manodopera nel settore è molto alta e sempre in crescita, mentre l’offerta di lavoro rimane imponderabile: non si sa quando l’azienda avrà bisogno di un fattorino. Non ci sono obblighi della piattaforma nei confronti del rider, quindi la quantità di lavoro è sempre un’incognita. È chiaro però che più rider ci sono, meno lavoro ci sarà a disposizione di ciascuno e di conseguenza la paga sarà più bassa. Ma meno lavoro non significa necessariamente meno rider: dipende invece dalla possibilità di un fattorino di trovare un altro impiego.

Nell’economia delle piattaforme il rischio economico è dei corrieri, e le multinazionali non applicano i diritti sul lavoro perché i costi sarebbero molto più alti degli attuali e quindi insostenibili mantenendo lo stesso modello di business. «In una prima fase molti lavoratori dicono che è facile trovare un lavoro con le piattaforme perché alla fine basta loggarsi, utilizzare le app. Ma non è per questo che si ha un lavoro. Così si sono solo iscritti ad una app, e dopo alcune settimane o mesi realizzano che fare il rider non basta per campare perché devi impegnare troppe ore della giornata», dice Willems riportando le sensazioni che raccoglie sul campo.

La curva dell’incasso dei fattorini ha continue salite e discese, come un ottovolante. All’inizio più cresce il tempo dedicato al lavoro più sembrano crescere i guadagni. Il salario però non sarà mai sufficiente. Per aumentare il numero di consegne assegnate dall’algoritmo e portate a termine, il rider deve quindi migliorare i suoi strumenti di lavoro e passare a un mezzo più veloce per muoversi. La fase uno è passare da una bici muscolare a una elettrica e se il rider non si può permettere l’investimento installa alla bell’e meglio una batteria sulla sua bici normale, senza la certezza che questa funzioni e, soprattutto, senza nessuna sicurezza.

Visto che tutti i fattorini si trovano imprigionati in questa dinamica, è solo questione di tempo ritrovarsi di nuovo in una condizione di stallo che non permetterà loro di guadagnare a sufficienza. A quel punto il rider cercherà un’alternativa qualunque, anche a condizioni peggiori, innescando il primo passo del meccanismo di turnover. Fuori uno, assorbito magari dal settore edile o della sicurezza privata, e avanti un altro, meglio se in una condizione di vulnerabilità economica o un richiedente asilo preso direttamente dai Centri di accoglienza, come è emerso dall’inchiesta della procura di Milano sul caso di caporalato digitale che ha coinvolto Uber Italy nel 2021. I sindacati, ancora una volta, avrebbero un ampio spazio di manovra ma si trovano a discutere con gruppi di lavoratori sempre diversi, con i quali ogni volta è necessario ripartire da zero.

Nell’ultimo report realizzato da Uiltucs in Italia e risalente al 2019, il 45% dei lavoratori della gig economy intervistati ha dichiarato di non vedere nessuno nel ruolo di rappresentante della categoria. Il sindacato è stato scelto dal 32% di loro. Dati significativi che, però, non è detto restituiscano un’immagine fedele del settore perché basati sull’opinione di pochi lavoratori. Un problema, quello della mancanza di dati affidabili, che sarebbe decisivo risolvere per svelare le zone grigie che caratterizzano buona parte dell’economia delle piattaforme, come la mancanza di sicurezza sul lavoro o anche semplicemente il numero di lavoratori che coinvolge.

Rappresentanza dal basso

A più di 1.300 chilometri da Bruxelles, poco lontano dalla Catedral de Barcelona, ha sede la Confederaciòn sindical de comisiones obreras (CC.OO.) della Catalunya. Nata in Spagna negli anni ‘70, è il sindacato più grande del Paese e ha cominciato a lavorare sul tema dei rider e dell’economia delle piattaforme da alcuni anni. «Nel caso dei rider molti lavoratori sono immigrati che entrano nel mondo del lavoro in una situazione di svantaggio e vulnerabilità», racconta Liliana Reyes Hernàndez, sindacalista di origine messicana e coordinatrice del settore dedicato alle nuove realtà lavorative del CC.OO. La legislazione sull’immigrazione, le difficoltà con la lingua, la fatica di vedersi riconosciuti i titoli di studio esteri sono tutti elementi che, secondo la sindacalista, portano molti cittadini stranieri, soprattutto di Paesi extra Ue, «a essere più facilmente vittime di abusi da parte dei datori di lavoro, e di violazioni di diritti che non conoscono quando arrivano per la prima volta» in Spagna.

Anche per le donne le difficoltà sono più grandi. Reyes Hernàndez è ferma e sicura: nella gig economy, sono più soggette a incorrere in episodi di molestie sessuali e di sfruttamento, questione legata alla precarietà del lavoro ma anche a una certa visione culturale che riserva alle donne solo precisi ruoli di genere.

Nell’estate 2021 è entrata in vigore in Spagna la Ley Rider, una legge che aveva lo scopo di regolarizzare e migliorare le condizioni dei lavoratori del food delivery ed è stata sostenuta proprio da CC.OO insieme a un altro sindacato (UGT) e all’associazione spagnola dei datori di lavoro (CEOE). L’unica piattaforma a non voler sottostare alla legge dello Stato in cui ha sede è stata Glovo, multata lo scorso autunno dall’Ispettorato del lavoro spagnolo per questo motivo con una sanzione da 79 milioni di euro. Nonostante ciò, oggi i rider di Glovo, insieme agli autisti di Uber, sono ancora assunti su base autonoma, e le aziende confermano di voler proseguire nella stessa direzione. Il vantaggio competitivo sul mercato spagnolo per loro è dato dalla violazione di una legge a tutela dei lavoratori del settore.

Gli attivisti Felipe Corredor Álvarez e Nuria Soto discutono anche di questo, seduti a un tavolino di un bar in una zona di Barcellona vicina al mare. Raccontano di aver scelto un percorso diverso da quello intrapreso dai sindacati tradizionali per tutelare i rider, fondando RidersXDerechos. Sono stati aspri contestatori della Ley Rider sin dall’inizio, perché, a loro giudizio, il testo proposto dal governo dava troppo spazio di interpretazione alle piattaforme e questo avrebbe potuto portare a una querelle giudiziaria continua. «Dovrebbe essere ampliata a tutti coloro che esercitano in questo settore, come las rider de la limpieza (le donne delle pulizie, ndr), oppure gli insegnanti o i giornalisti freelance che lavorano tramite piattaforme.

Soprattutto è necessario che le multinazionali siano controllate sul fronte della garanzia dei diritti basilari sul lavoro, e che non servano altre cinquanta sentenze per darci ragione o addirittura che si scomodi di nuovo la Corte Suprema spagnola», afferma Soto, riferendosi alle sentenze già emesse dalla magistratura spagnola. Il rapporto con CC.OO esiste ed è di scambio reciproco, anche se, dicono i due attivisti, «i sindacati non riescono ad uscire da schemi pregressi ed evolversi in un mondo per molti versi cambiato». Le piattaforme di delivery sembrano infatti immuni a inchieste giudiziarie, giornalistiche e parlamentari: insistono nel voler continuare a non assumere i lavoratori. E, proprio per questo, i sindacati maggiori si ritrovano ancor più depotenziati che nei settori lavorativi tradizionali.

Perciò, sin da subito, il collettivo si è mosso per cercare un contatto negli ambienti dei sindacati alternativi trovando un alleato in una realtà esistente dal 1997, la confederazione Intersindacale Alternativa de Catalunya. «Conosciamo molte persone alla base dei sindacati maggioritari che svolgono un lavoro meraviglioso, ma sono strutture molto verticali e con grandi dispute di potere al loro interno nonché intorno. Che spesso vanno al di sopra degli interessi dei lavoratori», afferma Soto, raccontando come molte azioni sindacali in questo settore siano state messe in moto dai collettivi dal basso e, solo in seguito, siano state sostenute dai grandi sindacati storici.

I collettivi sono strutture orizzontali, autorganizzate, spesso composte da rider o ex rider attivi politicamente anche su altri fronti, e che agiscono al di fuori dai tradizionali rapporti consolidati tra aziende e organizzazioni sindacali. A rappresentare queste nuove forme di sindacalismo a Bruxelles sono Collective de coursiers e Coursiers en lutte, mentre a Barcellona è appunto RidersXDerechos. Realtà come queste spesso trainano lavoratori precari molto più facilmente, e svolgono approfondimenti e mappature utili a stimolare la conoscenza e la coscienza del settore dentro e fuori l’orario di lavoro.

«Dopo aver creato gruppi Telegram per organizzarci tra rider in tutta la città, abbiamo deciso di fare un passo ulteriore creando il collettivo RidersXDerechos nel 2017», afferma Soto. In quel periodo le multinazionali spagnole del delivery si scontrarono per la prima volta con i movimenti dal basso, ai quali spesso non garantivano un’interlocuzione diretta perché sono, di fatto, realtà informali. Un processo molto sofferto dicono i due sindacalisti, anche da un punto di vista personale. Spesso Soto ha ricevuto insulti a sfondo sessuale online e per la strada proprio a causa del suo lavoro sindacale.

Niente stipendio, niente assistenza sanitaria

In Germania la maggior parte dei rider, così come molti altri lavoratori, è assunta con un contratto dipendente che stabilisce ferie, salario minimo, assicurazione sanitaria e cassa previdenziale. Nonostante ciò non è sempre detto che le tutele promesse dal contratto si concretizzino poiché dipendono da altri fattori, uno su tutti il pagamento puntuale del salario mensile da parte del datore di lavoro.

Il quartiere di Friedrichshain di Berlino è da anni al centro di un processo di riqualificazione simile a quello che ha investito molte città europee. Nei nuovi palazzi in classe A a ridosso del quartiere vivono famiglie di mezza età mediamente benestanti, che spesso utilizzano le app di delivery per ordinare la cena. «Un’ottima coincidenza per sindacalizzare altri rider», dice in tono sarcastico Avik Majumdar, rider e membro del consiglio dei lavoratori di Gorillas a Berlino. Al piano terra di una delle palazzine che circondano il parco comune, infatti, c’è la sede del consiglio dei lavoratori, uno spazio che il servizio di consegna della spesa a domicilio Gorillas ha dovuto riconoscere per legge come luogo di incontro ufficiale del sindacato spontaneo nato all’interno dell’azienda.

Punto di riferimento di molti rider berlinesi, di Gorillas ma non solo, lo spazio è gestito da Majumdar e da altri sindacalisti dal basso. Anche in Germania il livello di sindacalizzazione nelle aziende è molto alto, ma i settori di mercato investiti dalla tecnologia come il food delivery non sono rappresentati come gli altri. «L’idea dietro a questo posto è fornire supporto legale e comunitario ai rider tutto il giorno e anche la notte, visto che gli store di Gorillas chiudono solo per sei ore al giorno», racconta Majumdar.

Gorillas ha operato brevemente anche nel nostro Paese. Lo scorso anno, però, la piattaforma ha abbandonato il mercato italiano, causando il licenziamento di più di 500 dipendenti nonostante l’accordo sottoscritto con la Fit-Cisl proprio per garantire ai rider un contratto nel settore logistica. Una mossa che sembra essere solo uno dei tanti esempi del comportamento poco lineare delle aziende di delivery. Spesso non sembra vogliano entrare nel mercato in maniera oculata, seguendo un’attenta strategia, ma con grandi finanziamenti alle spalle. In gergo finanziario le aziende che si espandono in maniera così veloce si chiamano “unicorni” e Gorillas è stata definita tale lo scorso anno, quando ha ricevuto finanziamenti per 290 milioni di dollari che le hanno reso possibile raggiungere una valutazione aziendale di un miliardo.

Ma come detto, alla crescita improvvisa non ha fatto seguito una visione di lungo periodo che potesse includere anche i diritti dei lavoratori, anzi. Secondo il sindacalista Majumdar, sembra esistere una «questione sistemica» che riguarda il «mancato o errato pagamento dei salari dei rider» da parte di Gorillas.

In un tardo pomeriggio primaverile, all’interno della sede del consiglio dei lavoratori, seduti attorno a un grande tavolo tra faldoni e post-it, ci sono una decina di rider che compilano i documenti per esortare l’azienda a pagargli lo stipendio. «Stiamo cercando di risolvere i problemi di più di trecento rider di Gorillas, che dopo cinque o sei mesi che non ricevono lo stipendio oltrepassano questa porta», dice Majumdar, indicando tra gli altri anche una ragazza italiana emigrata in Germania ormai da tempo, Chiara. Come per altri rider, anche per lei il ritardo nel pagamento del salario comporta un ridimensionamento concreto delle tutele stabilite dal contratto subordinato.

«La Krankenkasse (l’assicurazione sanitaria tedesca, ndr) è pagata in parte da me sulla base del mio reddito e in parte dal datore di lavoro, ma dopo due sole settimane che Gorillas non mi pagava lo stipendio ho ricevuto una lettera nella quale l’ente sanitario mi chiedeva di dimostrare se fossi ancora assunta», afferma Chiara.

L’assistenza sanitaria in Germania può essere pubblica o privata. Molte persone sono iscritte a quella pubblica per legge poiché hanno un salario dipendente lordo mensile sotto i 5.000 euro, sono studenti universitari sotto i trent’anni oppure tirocinanti e apprendisti. I lavoratori dipendenti come Chiara dividono una parte dell’importo dovuto per la loro assicurazione sanitaria con il datore di lavoro, mentre l’altra parte è direttamente detratta dall’ente sanitario in busta paga. Nel momento in cui Gorillas ha smesso di corrisponderle il salario mensile l’ente sanitario le ha inviato una comunicazione in cui le spiegava che per le successive due settimane sarebbe stata coperta da un’assicurazione minima, che le permetteva ad esempio di recarsi dal dentista per un controllo ma che non le avrebbe coperto le spese di un’eventuale operazione chirurgica o di interventi più complessi. Se il prerequisito dell’assunzione da dipendente manca, in Germania il lavoratore passa ad un regime sanitario riservato agli autonomi e liberi professionisti che comporta l’esborso dell’intera quota dell’assicurazione sanitaria a suo carico.

Un paragone con l’Italia

In molti Paesi europei, il lavoro del fattorino è svolto perlopiù da migranti spesso in una situazione di irregolarità. In Italia, iscriversi al sistema sanitario nazionale significa avere in tasca un permesso di soggiorno e svolgere un’attività lavorativa dipendente o autonoma regolare, e ciò rende la platea degli aventi diritto più ristretta. Inoltre, ottenere un documento di identità, un codice fiscale o un tesserino sanitario – anche se regolari – non è sempre facile a causa di una mancanza di rete sociale che avrebbero nel loro Paese d’origine, e per via di barriere linguistiche o culturali.

Alle Questure italiane ad esempio occorrono mesi prima di rilasciare alle persone straniere con il permesso di soggiorno scaduto un appuntamento per il rinnovo. Come in un sistema a matrioska, senza quel documento non è possibile ottenerne altri ed accedere anche all’assistenza sanitaria. La procura di Milano a fine marzo ha annunciato di aver aperto una seconda inchiesta sul mondo del food delivery volta a tracciare un quadro sullo scambio di account personali tra rider in regola e non, mezzo al quale ricorrono molti fattorini per ovviare alla mancanza di documenti di soggiorno in Italia, e sulle eventuali responsabilità delle piattaforme in merito.

A ottobre 2021, durante le elezioni del consiglio dei lavoratori, Majumdar si è recato insieme ad altri sindacalisti immigrati in ogni store di Gorillas e Getir – un’altra piattaforma di spesa a domicilio – per informare rider e picker (coloro che mettono insieme la spesa da dare poi ai rider per la consegna, ndr) delle elezioni in corso e invitarli a votare. «Dovrebbe farlo l’azienda, come dovrebbe dire ai lavoratori che quel tempo è pagato ed è un diritto andarci. Di fatto non lo fanno. Abbiamo incontrato rider che si convincevano in poco tempo, altri che ci hanno messo mezz’ora, altri ancora che ci hanno guardato spaventati», commenta Majumdar.

Il lavoro di sindacalizzazione, soprattutto se svolto dal basso e se non poggia su una rete che invece le sigle tradizionali possiedono, è estenuante e quasi totalmente gestito da pochi individui che dedicano buona parte della loro giornata agli altri. «In quei cinque giorni ho lavorato tutto il giorno e dormivamo dalle tre alle cinque ore a notte», continua. A suo parere, nonostante ci sia un rapporto con la politica e i sindacati maggioritari, si può fare di meglio. Anzi, si deve fare di meglio. Per questa fetta di lavoratori del digitale, spiega Majumdar, la sindacalizzazione «non è una questione di volere. È una questione di bisogno».

Foto: Luca Quagliato
Editing: Paolo Riva

La promessa dei dieci minuti

#LifeIsAGame

La promessa dei dieci minuti

Laura Carrer

Mentre scivolano per Milano i tram attraversano quartieri, viali e direttrici importanti, fermando agli incroci e davanti alle vetrine dei bar. Le aziende che vogliono pubblicizzarsi li scelgono perché permettono di arrivare dritto agli occhi di chi aspetta alle pensiline, di chi passeggia in una certa zona, di un target che in sostanza possa aumentare il “ritorno di investimento”, il ROI, come lo chiamano gli addetti ai lavori. Dall’inizio dell’anno fino alla fine di Aprile, l’azienda che ha attratto di più gli sguardi dei cittadini milanesi è senza dubbio Getir (dal turco “portare”), una delle ultime start up tecnologiche entrate nel mercato urbano del delivery. La campagna pubblicitaria Out Of Home arriva per le strade di Milano dopo nemmeno tre mesi dal debutto della start up turca in città, ricoprendo venti tram e cento autobus per una spesa totale di circa 370.000 euro.

Dalla mente dell’utente passando per il pagamento dei prodotti nel carrello, fino ad arrivare alla consegna dell’ordine: ciò che promette Getir è la nuova chimera del quick commerce. Portare un pollo fritto dal ristorante al cliente è già realtà, ma portarlo in dieci minuti è ben altro. I rider di Getir e dei suoi concorrenti Macai e Gorillas fanno la spola da un punto all’altro della città per recapitare il più velocemente possibile tutto ciò di cui il cliente ha bisogno, che sia una spesa o anche solo dell’acqua.

Simbolo del settore italiano della spesa veloce è Macai, che nasce nel 2020 dalla fusione delle prime start up nazionali della distribuzione del cibo MyMenu (ancora esistente) e Sgnam, le quali hanno acquisito due anni prima anche la milanese BacchetteForchette. L’adattabilità all’evoluzione del mondo del delivery e la possibilità di sfruttare la scia delle aziende più grandi ha fatto sì che le tre start up siano sopravvissute, anche se in forma diversa, all’interno di un mercato estremamente competitivo: a differenza delle altre Macai non consegna dopo le 22, prevede costi di spedizione per la spesa e copre solo alcune zone della città.

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#LifeIsAGame, il progetto

Life is a game è il progetto con cui IrpiMedia indaga il mondo delle piattaforme di food delivery. Dagli algoritmi alle questioni del lavoro che coinvolge tanto i rider che sfrecciano per le strade quanto i dipendenti delle piattaforme stesse. Ciò che possiamo descrivere è l’ascesa di un nuovo modello organizzativo fortemente improntato sull’utilizzo di tecnologie digitali, nonchè sull’estrazione di dati e informazioni.

Il valore è duplice: l’espansione nel mercato (della ristorazione) attraverso un’agguerrita concorrenza, colmando i vuoti laddove i dati indicano; e il controllo algoritmico dei lavoratori, effettuato attraverso la “gamificazione” (cioè l’utilizzo di elementi mutuati dai giochi in contesti non ludici) del lavoro che rende sempre più labile la separazione tra vita personale e professionale.

Se conoscete o siete rider o lavoratori delle piattaforme di food delivery e volete condividere informazioni è a disposizione la nostra piattaforma per le segnalazioni anonime e sicure, IrpiLeaks. Ogni segnalazione verrà vagliata e valutata dalla redazione di IrpiMedia.

La città è un grande magazzino virtuale

Sebbene il mercato del food delivery sia praticamente un oligopolio di feroce concorrenza nato perlopiù cinque anni fa, l’avvento di sempre nuovi player è sintomo di una possibile differenziazione dell’offerta fornita agli utenti. In questo senso le start up, dopo essere diventate un punto di riferimento per il cibo d’asporto e aver puntato ad appropriarsi anche di parte del settore della ristorazione, aggiungono un altro tassello.

La promessa dei dieci minuti e delle micro spese veloci è possibile solo in un modo: attraverso i dark store. Glovo li chiama magazzini urbani e sono dislocati in aree strategiche della città che permettono di ridurre il chilometraggio di distanza tra merce e utente, garantendo una risposta al significativo aumento nella richiesta di prodotti consegnati a casa avvenuta durante la pandemia. Filiali indipendenti dalle imprese madri, che possono operare come supermercati tradizionali. In questi magazzini dalle vetrine mascherate e non accessibili al pubblico i picker, dipendenti delle piattaforme, stoccano i prodotti più vari, dall’alimentare alla pulizia della casa, una sorta di just in time perennemente rifornito attraverso accordi con distributori e fornitori.

La parola: Just in time

Organizzazione del processo produttivo che prevede il rifornimento del materiale di trasformazione esattamente nel momento in cui viene richiesto, allo scopo di ridurre i costi legati all’accumulo di scorte; tale modello è applicato talvolta anche alla gestione di magazzino nella grande distribuzione.

I dark store di Glovo, Deliveroo, Gorillas e Getir si inseriscono a decine nello spazio urbano, tra un negozio e un passo carrabile, senza troppe cerimonie né annunci: le piattaforme di delivery comprano locali svuotati dalla pandemia da Covid-19, sfruttando anche le maglie larghe del Piano di Governo del Territorio del comune di Milano, basato sulla cosiddetta “indifferenza funzionale”. Come si legge all’art. 5 delle norme di attuazione del piano non esistono infatti zone adibite unicamente ad attività commerciali o all’edilizia residenziale, e questo per «affrontare istanze di innovazione e integrazione che stanno interessando la città soprattutto nei modi d’uso legati al lavoro e ai servizi alla persona».

Una scelta che però, come riportato da BBC News a febbraio, in altre città come Amsterdam, Rotterdam, Parigi, Lione e New York è stata sottoposta all’attenzione delle amministrazioni comunali, anche a seguito delle lamentele avanzate dai residenti davanti all’ennesima apertura di dark store nei loro quartieri. A Barcellona, città già in vista per le politiche contrarie alla diffusione indiscriminata delle piattaforme, la sindaca Ada Colau ha presentato una proposta di regolamentazione dei dark store e delle dark kitchen: se i primi sono di aziende come Glovo, Getir o Gorillas non possono più essere aperti; mentre sulle seconde sono piovute ampie restrizioni. Una decisione che mette sul tavolo anche le richieste dei sindacati, che in questo senso chiedono alle aziende, ad esempio, di prendersi carico dei momenti di attesa dei rider, ospitandoli all’interno dei “supermercati fantasma”. La start-up Getir ha dichiarato alla BBC di lavorare in concerto con le amministrazioni locali delle città in cui opera, ma ad oggi non risulta esserci nessun dialogo aperto con l’amministrazione milanese.

Visibile e invisibile

Cosa ne sarà degli alimentari e dei negozi multietnici di quartiere nei quali ci si reca per la spesa veloce d’emergenza, spazi della città che spesso hanno anche una valenza comunitaria, non è dato sapere. Dopo aver ammaliato clienti e ristoratori attraverso un servizio veloce a qualsiasi orario, le multinazionali del delivery occupano spazi che precedentemente erano aperti al pubblico e ora sono tecnicamente occupati da merce, ma funzionalmente vuoti. Il vuoto delle città rimodella quartieri, tessuto sociale, relazioni e connessioni tra persone che quel luogo lo abitano. Un dark store di Glovo è anche nel quartiere Giambellino, nella periferia sud-ovest di Milano, evidentemente non più così lontano dalla gentrificazione e dalla clientela che ricercano le piattaforme.

Milano, Maggio 2022 - Un rider di Gorillas entra in un dark store del brand tedesco al civico 13 di via Eugenio Carpi. Il dark store è posizionato negli spazi di un ex gommista che ha chiuso durante la crisi pandemica - Foto: Luca Quagliato

Milano, Maggio 2022 – Un rider di Gorillas entra in un dark store del brand tedesco al civico 13 di via Eugenio Carpi. Il dark store è posizionato negli spazi di un ex gommista che ha chiuso durante la crisi pandemica – Foto: Luca Quagliato

Milano, Maggio 2022 - Lavoratori di Getir in attesa di effettuare delle consegne nel cortile del civico 64 di via Teodosio - Foto: Luca Quagliato

Milano, Maggio 2022 – Lavoratori di Getir in attesa di effettuare delle consegne nel cortile del civico 64 di via Teodosio – Foto: Luca Quagliato

Anche il settore immobiliare registra investimenti cospicui in questo senso: Stoneweg, società svizzera operante nel mercato immobiliare, fornisce proprietà in affitto alla multinazionale spagnola Glovo in Spagna, Italia, Portogallo ed Europa dell’est. L’investimento accordato è di 100 milioni di euro per i prossimi cinque anni. Se le ripercussioni sul tessuto urbano non sono ancora del tutto comprensibili, certo è che l’esistenza delle piattaforme tecnologiche continua a definirsi attraverso la dicotomia visibile/invisibile: entrano nel mercato urbano e si rendono visibili con la pubblicità, distribuiscono cibo attraverso lavoratori invisibili per chiunque, svuotano spazi a volte invisibili della città e li rendono “visibili” solo online. I dark store forse sono l’emblema delle implicazioni sul lungo periodo dell’e-commerce.

L’impatto sul lavoro dei braccianti metropolitani, invece, c’è e si fa sentire già forte. Delle circa 800 persone che Getir ha assunto a Milano con contratti a tempo determinato circa un quarto non sono state rinnovate, e i dipendenti di alcuni dark store sono stati dimezzati. Un copione che le start up tecnologiche mascherate da aziende del food delivery (Getir si definisce «70% tecnologia, 20% commercio al dettaglio e 10% società di logistica») utilizzano da tempo per entrare in un mercato del lavoro già di per sé vulnerabile: nel primo anno di attività le assunzioni di personale con contratti (a termine) è indispensabile a posizionarsi tra i player della concorrenza, salvo poi fare marcia indietro quando la flotta di rider è al completo.

Niente di diverso dal dietrofront che Deliveroo aveva fatto nel 2018 in Belgio, quando è stata riconosciuta dal governo come «piattaforma digitale per l’economia collaborativa» attraverso la Loi De Croo. Similmente alla nostra normativa sul lavoro, anche in Belgio i rider che superano la soglia dei 5.000 euro annui devono aprire una posizione da liberi professionisti e non godono di nessuna certezza economica né copertura assicurativa. Una legge che di fatto rende più precari i corrieri che superano un introito annuale così basso da non permettere un vero e proprio sostentamento; e che dall’altra parte autorizza le piattaforme a sottrarsi alle richieste di subordinazione di una parte dei rider.

La GDO si accorda con Glovo e Deliveroo

Anche se la promessa non è completamente rispettata (le consegne avvengono realmente in venti o trenta minuti), l’illusione è stata venduta anche a grandi player o catene che operano nella vendita al dettaglio da decenni. Nel marzo 2021 la spagnola Glovo ha sottoscritto un accordo in esclusiva con Gruppo Vegé, che conta 33 imprese nel settore della distribuzione di prodotti, volto a consegnare questi ultimi attraverso i suoi rider in un tempo massimo di 40 minuti. In merito, la general manager di Glovo Italia Elisa Pagliarani, dichiara che la partnership con il gruppo serve proprio ad assicurare la capillarità necessaria a rendere sempre più veloci le consegne ai clienti.

Milano, Maggio 2022 - Un negozio Glovo Express in via Filzi che ha preso il posto di un punto vendita di prodotti per l'igiene personale - Foto: Luca Quagliato

Milano, Maggio 2022 – Un negozio Glovo Express in via Filzi che ha preso il posto di un punto vendita di prodotti per l’igiene personale – Foto: Luca Quagliato

Simili accordi sono stati stipulati dalla start up di Barcellona anche con Carrefour (su territorio nazionale), Sole 365 in Campania e Prezzemolo & Vitale in Sicilia. Il valore aggiunto per queste grandi catene, che hanno una vasta capillarità sul territorio nazionale, è poter fornire il loro assortimento allo stesso prezzo che espongono nei supermercati ma sulla vetrina digitale delle app delle piattaforme, 24 ore su 24 e sganciandosi dal vincolo delle fasce orarie di consegna dovuto all’orario di lavoro dei dipendenti della GDO.

Parallelamente l’azienda ha stipulato accordi anche con altre multinazionali come Kasanova, Kiko e Flying Tiger, ampliando ancor di più l’offerta e permeando la quasi totalità delle richieste dei clienti, che comprano un panino insieme a un bloc notes olandese e a uno smalto.

All’inizio di maggio tre grandi player della grande distribuzione nel nord e nel sud Italia hanno siglato collaborazioni con l’inglese Deliveroo: Apulia Distribuzione, Crai e Despar avranno a disposizione la flotta di rider della piattaforma che, secondo quanto dichiarato dal general manager per l’Italia Matteo Sarzana, raggiungerebbe metà della popolazione italiana. Il servizio di consegna è sempre più integrato anche con altre multinazionali della logistica e del commercio elettronico come Amazon, insieme alla quale Deliveroo ha deciso di fornire ai clienti Amazon Prime consegne gratuite e illimitate sugli ordini. Deliveroo Plus, attivo dalla fine di marzo 2022, è una nuova direttrice del food delivery, crasi tra intrattenimento e settore della ristorazione.

I ristoratori tornano indietro

L’evoluzione delle start-up che reggono il food delivery nazionale ed europeo è rapida e continua. Eventuali limitazioni da parte delle amministrazioni comunali sull’apertura dei dark store potrebbero portare le piattaforme a stabilirsi in aree periferiche della città, da una parte mettendo fine alla chimera del quick commerce e dall’altra obbligandole a dimostrare la loro redditività a medio e lungo termine. Guardando indietro poi a chi in un primo momento ha accettato le piattaforme e gli ha affidato, spesso e volentieri, quasi completamente la propria attività, il gioco non sembra essere valso la candela.

Milano, Maggio 2022 - Un rider di Macai all'ingresso del dark store in Via dei Transiti 21 - Foto: Luca Quagliato

Milano, Maggio 2022 – Un rider di Macai all’ingresso del dark store in Via dei Transiti 21 – Foto: Luca Quagliato

«Finalmente un modello di gestione della delivery che la rende sostenibile perché costruito dai ristoratori per i ristoratori», appare scritto su TakeLocal, un servizio di consegna dei pasti organizzato da alcuni ristoranti delle zone milanesi di Isola, Porta Venezia e Loreto che, più che una rivoluzione, sembra aver riportato indietro le lancette del delivery agli speedy pizza che consegnavano solo nei quartieri limitrofi alla pizzeria. I ristoratori battono su alcuni punti in particolare: le app delle piattaforme tecnologiche hanno allontanato chi cucina da chi mangia, il servizio di consegna è soggetto a sfruttamento e le compagnie di delivery richiedono commissioni troppo elevate su ogni ordine.

Stando a quanto riportato da Il Fatto Quotidiano in un articolo del febbraio 2021 sulla situazione della ristorazione milanese post Covid-19, l’ingresso nelle vetrine digitali costerebbe ai ristoratori 200 euro così come sarebbe richiesta una percentuale su ogni ordine (che varia da piattaforma a piattaforma) che può arrivare fino al 35%.

Un ritorno al passato, quello di TakeLocal, che però è arrivato forse troppo tardi, quando le conseguenze delle zone grigie in cui opera l’economia delle piattaforme sono ormai visibili anche nella conformazione fisica delle città. Sembrerebbe che a guadagnarci davvero siano state, finora, solo loro.

CREDITI

Autori

Laura Carrer

Editing

Luca Rinaldi

Foto

Luca Quagliato

Con il sostegno di

European Cultural Foundation

Fabbriche di cibo

#LifeIsAGame

Fabbriche di cibo

Laura Carrer

Itavoli, il servizio, il profumo della cucina e le comande. Se c’è una cosa alla quale anche durante la pandemia da Covid-19 non ci siamo disaffezionati, è andare al ristorante. Un’abitudine e un’idea tutta italiana, che parte dalle materie prime fino ad arrivare alla preparazione dei cibi. Nel nostro Paese, secondo stime della Federazione italiana pubblici esercizi relative al 2020 i ristoranti sono 188.631, soprattutto in Lombardia e nel Lazio. Nel 2020, poco più di 9.000 attività di ristorazione hanno aperto i battenti ai clienti che tra un’ondata e l’altra hanno deciso di mangiare fuori casa, ma ben 22.000 hanno invece abbassato definitivamente le serrande.

Tra la pandemia da Covid-19 e i lockdown imposti dal governo fino alla fine della primavera scorsa (e a cicli anche successivamente), in un lasso di tempo ridotto il settore della ristorazione ha subìto importanti cambiamenti. Camminando per le strade di Milano da alcuni mesi ci si imbatte sempre di più in piccoli locali agli angoli delle vie, sovente in pieno centro o appena fuori, che si mimetizzano nella giungla urbana. Alle vetrine di questi locali, spesso senza neanche un’insegna, si accalcano, soprattutto nell’orario di pranzo e cena, i rider. Con i loro telefoni in mano si avvicinano al vetro chiedendo un riscontro sulla preparazione dell’ordine che devono ritirare, e si fermano ad aspettare. L’attesa è difficile da stimare. Può dipendere dal ristoratore, che comincia a cucinare il cibo al loro arrivo perché non è sicuro di quanto ci metteranno ad arrivare, oppure dalle piattaforme digitali, che non segnalano la partenza del fattorino. Quando tutto si allinea, ecco una mano che esce fuori dalla vetrina per consegnare il pacchetto.

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Si chiamano in vari modi, anche se seguono lo stesso filo rosso: dark kitchen, ghost kitchen e cloud kitchen sono attività commerciali che non offrono la classica interazione vis a vis con il cliente, bensì producono cibo per poi affidarlo alle piattaforme di food delivery che arrivano a quest’ultimo. La dark kitchen è semplicemente una porzione della cucina (di proprietà) di un ristorante messa a disposizione del delivery, mentre per ghost kitchen si intende un modello di ristorante realizzato in un laboratorio-cucina, all’interno del quale un ristoratore sviluppa uno o più brand culinari dedicati esclusivamente al food delivery o al take away.

La cloud kitchen consiste invece nella creazione da parte di un imprenditore – anche estraneo al settore culinario – di più cucine nello stesso spazio, che non hanno un legame tra loro tranne quello della divisione dei costi e della pubblicizzazione dei brand online. In tutti e tre i casi si lavora con e per le piattaforme digitali di consegna dei pasti.

Cosa è un “brand” culinario

I ristoranti virtuali, anche chiamati “brand virtuali”, non sono altro che ristoranti definiti da un menù molto ristretto e che generalmente produce unicamente una pietanza. Un classico esempio è quello di piatti come i burrito o gli hamburger. Altro aspetto di diversità rispetto ai ristoranti tradizionali è quello di non avere necessariamente una presenza fisica all’interno della città, bensì più spesso una cucina presso una cloud kitchen.

Alcuni di questi “brand virtuali” riportano il nome di ristoranti già avviati che semplicemente si sono affidati al sistema delle cloud kitchen, altri invece – la maggior parte -, nascono proprio in seno a queste cucine 3.0 e sono studiati nei minimi dettagli per essere performanti non tanto nella produzione di cibo (tendenzialmente vendono pietanze molto semplici e perlopiù conosciute) ma più di tutto sul web. Per questo motivo il termine brand, mutuato dalla terminologia afferente la sfera economica e del marketing, racchiude appieno e in modo chiaro la strada che le piattaforme digitali stanno aprendo verso una ridefinizione del settore.

Cucina 3.0: virtuale, in serie, veloce

Ghost kitchen e dark kitchen sono ancora ristoranti veri e propri, con un proprietario che decide di sfruttare il mercato fornito dalle piattaforme per ampliare la propria clientela. Nulla di nuovo sotto il sole, semplicemente qualcosa in più dei take away che hanno iniziato a operare all’inizio degli anni 2000 i sempre maggiori ristoranti di immigrati cinesi. Le cloud kitchen sviluppano invece un vero e proprio nuovo modello di business che definisce un ristorante non tanto sulla base della sua presenza fisica nella città, bensì nel concetto di “cloud” come contenitore invisibile delle più svariate pietanze.

Niente più tovaglia a quadretti bianchi e rossi, gambe sotto il tavolo e sguardi al cameriere per chiedere il conto. La sala e i camerieri non sono proprio nella fotografia. All’interno la cloud kitchen è una struttura che ospita più cucine (tre, quattro, fino anche a sei se c’è spazio) che producono cibi differenti, ed è quindi possibile ricreare nello stesso luogo più di un ristorante. Da una parte si tira la pasta secondo la ricetta emiliana, dall’altra si preparano burrito, poké, hamburger e cannoli. Le cucine sono affidate a ristoratori che hanno deciso di investire nel modello di business delle cloud kitchen.

Viste dalla strada, queste destano particolare interesse: non hanno (tendenzialmente) specifiche insegne che ne identificano il nome, la presenza o lo scopo dell’esercizio commerciale. Alcune riportano i nomi delle piattaforme di food delivery, altre invece sono quasi invisibili al superficiale sguardo del passante medio. Tutto avviene online: sui principali social network, i brand virtuali e le loro pietanze sono proposti a coloro che ordinano a casa con immagini che risultano succulente già alla vista. Ad occuparsi della pubblicizzazione del ristorante non è il gestore o il cuoco che prepara le pietanze ma è, appunto, il sistema creato dal proprietario della cloud kitchen.

La rampa di accesso alla cloud kitchen del brand Helbiz a Milano. La cucina nasce all’interno degli spazi di un ex concessionario di automobili – Foto: Luca Quagliato

I “virtual brands”, ovvero i ristoranti, vengono spesso dagli strascichi della pandemia da Covid-19, e questo poiché l’investimento di denaro è decisamente minore rispetto a quello richiesto per l’apertura di un ristorante tradizionale. Un cuoco all’interno di una cloud kitchen racconta di come abbia pensato di aprire lì dopo la chiusura del suo locale, fuori Milano: con una spesa di qualche decina di migliaia di euro è riuscito ad avere in meno di un mese una cucina attiva. «È un esperimento, d’altra parte continuo a investire denaro nell’acquisto di un locale in centro a Milano che costa molto. Questa – racconta il ristoratore a IrpiMedia è un’esperienza che è utile e voglio portare avanti».

In queste cloud kitchen il ristoratore paga i costi della cucina mensilmente all’imprenditore che l’ha aperta, così come una fee (quota) sulle performance che ha raggiunto il proprio brand virtuale. Termini, questi, che si avvicinano molto di più al linguaggio aziendale che a tecniche culinarie come il flambé, la glassatura o la mantecatura.

Riders in attesa all’esterno di una cloud kitchen a Milano – Foto: Luca Quagliato

Il ritiro di una consegna dallo sportello di una ghost kitchen a Milano – Foto: Luca Quagliato

Il food delivery è poi il principale canale di contatto con i clienti: il cibo viene creato per essere trasportato. Viene scelto un involucro adatto allo sbalzo termico, che possa tenere in caldo o al riparo i cibi anche decine di minuti dopo la partenza del rider. Di fatto l’attività di ristorazione è al servizio delle piattaforme digitali per la consegna di cibo.

Al lavoro per le piattaforme digitali

Le cloud kitchen si configurano come l’anello mancante nell’attuale filiera del delivery, che avvicina cliente e multinazionali digitali ancor di più e che, portando nuovi “brand” sulla strada del delivery, non fanno altro che ampliare il mercato delle grandi piattaforme. Ad uno sguardo esterno dunque sembra proprio che non siano più solo i rider o i clienti (con i loro dati e preferenze) a lavorare per JustEat, Glovo, UberEats o Deliveroo, ma ormai anche queste nuove cucine, che forniscono una fotografia ancor più nitida delle abitudini e dei gusti di chi ordina cibo da asporto.

L’esterno di una cloud kitchen a Milano – Foto: Luca Quagliato

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Ad oggi non risulta però esserci nessun accordo tra cloud kitchen e piattaforme, soprattutto per quanto riguarda le statistiche, i dati e le informazioni relative al lavoro di preparazione dei cibi. Non svolgendo ancora una funzione definita, la loro presenza può potenzialmente avvantaggiare le piattaforme nella sempre maggiore espansione delle consegne al cliente. Da considerare anche il fatto che le cloud kitchen, più delle altre due modalità, possano sostituire il ruolo delle piattaforme nel rapporto con i rider, al momento praticamente assente in quanto non esistono canali di comunicazione adeguati per qualsiasi problematica inerente il lavoro che svolgono. Il luogo fisico che occupano può essere definito come un punto di riferimento per i rider, anche se è ancora presto per dirlo.

A seconda della cloud kitchen, all’interno i locali sono minimali: una cucina, un bancone e un paio di schermi che, attraverso un gestionale, informano i cuochi del prossimo ordine da realizzare e di quelli in coda, degli ingredienti e dell’orario previsto per il ritiro. All’entrata invece si trova il posto del kitchen manager, la persona che si occupa di gestire i rapporti con e tra le cucine, con i pochi clienti che ordinano per mangiare all’esterno e che fornisce i pacchetti ai rider che bussano al vetro per ritirare l’ordine. A vista controlla anche tutti i dispositivi che, schierati l’uno a fianco dell’altro, si collegano per ogni ristorante virtuale ospitato dalla piattaforma con la quale si distribuiscono i suoi piatti. Sempre accesi e funzionanti, con pulsanti da schiacciare per parlare con le cucine, che squillano ad ogni nuovo ordine.

L’interno del desk all’entrata di una cloud kitchen a Milano a cui IrpiMedia ha avuto accesso. Tablet e device sono connessi a un sistema gestionale centralizzato che smista gli ordini alle cucine della sede – Foto: Luca Quagliato

Il modello di business che regola questo nuovo mercato massimizza l’efficienza del processo di creazione del cibo (potenzialmente dall’antipasto al dolce) e la unisce alla velocità di consegna operata dai rider, ormai presenti a migliaia nella città di Milano. Tutto sotto il controllo e per il mercato delle piattaforme digitali. Visto il modo in cui sono pubblicizzate, queste realtà sembrano più vere e proprie fabbriche del cibo che hanno come migliori amici il marketing online, la tecnologia e i social network che, combinati tra loro, permettono di abbattere non di poco i costi fissi di un investimento nella ristorazione e l’avvio di più brand in contemporanea.

Glovo punta più in alto

Quando abbiamo incontrato Paolo, nome di fantasia di uno chef di cucina da cinque anni, aveva appena lasciato il suo lavoro all’interno di una gastronomia milanese. Ha iniziato a lavorare per Glovo non da rider o perché avesse un ristorante, ma perché ha risposto all’annuncio di lavoro come chef trainer. Durante la sua giornata lavorativa parla con i ristoratori che sono interessati a far parte di GlovoConcepts, attività a latere della piattaforma di delivery, soprattutto a causa della pandemia da Covid-19 che ha imposto la chiusura dei ristoranti per molti mesi. Attraverso la sua capillarità e quindi quantità di informazioni che possiede, Glovo ha infatti deciso di allargare il proprio raggio di azione identificando quelle che sono le ultime novità e tendenze nel settore culinario per poi svilupparle all’interno delle proprie cucine laboratorio. «Questa idea è nata in Spagna a settembre del 2020. Glovo, attraverso analisi di mercato cerca quali brand possano essere avvicinati all’idea, sulla base ovviamente della città in cui si vuole ampliare il mercato», racconta Paolo.

Per approfondire

Life is a Game

Attraverso l’estrazione di dati e informazioni il capitalismo delle piattaforme governa un’economia finora considerata informale. L’oligopolio della gig economy si mostra attraverso decisioni algoritmiche e precarietà

«A quel punto, partendo dal presupposto che funzioni fare i burrito o i tacos da asporto, Glovo si inventa un menù apposito da dare ai ristoratori affinché li cucinino con i giusti ingredienti. Inoltre fornisce anche il materiale per il trasporto e le grafiche per la pubblicità», continua Paolo. La sua figura vende al ristoratore un contratto simile a quello di franchising che opera McDonald’s, ma a prezzi decisamente minori. Nello scegliere il ristoratore la piattaforma Glovo preferisce piccole realtà che già hanno rapporti con l’azienda, ovvero gli anelli “deboli” della catena del settore. In questo senso Glovo utilizza un modello economico definito in economia e marketing “coda lunga”, che non si basa unicamente sulla vendita di un numero elevato di prodotti best seller, bensì anche sulla vendita di molti oggetti diversi riducendo le quantità. Principale esempio di questo modello è senza dubbio la grande multinazionale Amazon.

Lo sportello con affaccio su strada per il ritiro dei pasti preparati nella cloud kitchen del brand Kuiri a Milano. Lo schermo in alto segnala la coda di ordini in preparazione e quelli pronti per il ritiro da parte dei riders delle piattaforme – Foto: Luca Quagliato

Dopo aver siglato il contratto, il ristoratore che fino a poco prima aveva solo una pizzeria ora cucina anche tacos o hamburger ai clienti che si affidano al delivery di Glovo. In questo caso siamo davanti ad un’idea che va oltre la definizione ancora precaria di “cucine 3.0”: il ristoratore non ha bisogno di assumere personale o di comprare materie prime, se non affidandosi direttamente ai fornitori individuati da Glovo che consegnano i cibi surgelati, e prepara pietanze simili a quelle che già cucinava in precedenza.

Dalla parte della multinazionale spagnola ci sono sicuramente molti più dati e informazioni rispetto a quelli che possono produrre, per poi custodire gelosamente, delle normali cloud kitchen. Sorge spontaneo chiedersi se a questo punto saranno le piattaforme del food delivery a dettare cosa i ristoratori debbano cucinare pur di non fallire, e cosa i clienti dovrebbero consumare soltanto perchè scelgono di affidarsi alla consegna a casa. Burrito, tacos, hamburger sono ordinati infatti senza troppa differenza nel Lazio, in Sardegna, in Lombardia e in Sicilia perché, come racconta Paolo, «chi ha un ristorante da quarant’anni si trova a dover cambiare il modo di lavorare ma non ha abbastanza soldi per farlo. Ha il vantaggio della capillarità sul territorio, la quale aiuta Glovo nel raggiungimento del suo obiettivo: creare pietanze che siano riconosciute come “i burrito di Glovo”, esattamente alla stregua degli hamburger di McDonald’s», conclude Paolo.

L’interno di una delle cucine ospiti della cloud kitchen del brand Kuiri a Milano. Ogni cucina è indipendente dalle altre presenti e personalizzata secondo le esigenze specifiche dei brand affittuari – Foto: Luca Quagliato

Ad una prima occhiata sembra che le piattaforme digitali siano entrate appieno non solo nel mercato del delivery, ma anche in quello più ampio della ristorazione italiana. Probabilmente il ristorante in futuro sarà un luogo fisico nel quale mangiare cibi raffinati come un’aragosta o bere del vino d’annata, mentre il delivery – una cucina più adatta al trasporto e meno curata – soppianterà tutto il resto. Una cosa è certa: ancora una volta le piattaforme digitali fanno passi da gigante in un settore estremamente importante per l’economia italiana, e agiscono ancor prima che un passante si accorga della comparsa di una piccola vetrina dalla quale un rider afferra un pacchetto o che vi sia un quadro legislativo chiaro al quale fare riferimento a cavallo tra lavoro e concorrenza.

CREDITI

Autori

Laura Carrer

Foto

Luca Quagliato

Editing

Luca Rinaldi

Con il sostegno di

European Cultural Foundation

Gig Economy tra caporalato e dittatura dei dati

4 Gennaio 2022 | di Francesca M. Chiamenti

Il lavoro digitale, ormai, è merce low cost. Con la pandemia si è assistito a uno sviluppo massiccio del comparto della gig economy – piattaforme di food delivery, scalata di Amazon, imprese low cost del trasporto –portando con sé, travestite da processo tecnologico, nuove questioni economico-sociali. Sempre più assuefatti da quantità e rapidità dell’offerta, consumatori moderni e aziende finiscono per smaterializzare e svalutare questo processo lavorativo, credendolo frutto di “fabbriche invisibile”. Ma cosa c’è davvero dietro? Ci sono sfruttamento, lacune contrattuali e di tutele, costante precariato e lotte sindacali.

Secondo i dati del rapporto annuale dell’Inps si stima che in Italia vi siano circa 700 mila gig-workers, che non comprendono solo l’ormai emblematica figura del rider che lavora per le piattaforme di food delivery ma anche i driver di Uber, gli host di AirB&b, gli impiegati di Amazon e tutte quelle figure legate al mondo del digitale. L’aumento di forza lavoro in questo particolare settore si è osservato soprattutto con l’avvento della pandemia ma quello della gig economy è un settore in crescita da diversi anni e che da tempo appunto sta facendo i conti con tematiche che stanno riscrivendo l’assetto socio-culturale del mondo del lavoro come lo conoscevamo. Dapprima legato a un iniziale svalorizzazione di questo tipo di lavoro, a un indebolimento del suo riconoscimento sociale che stava tramutando il lavoratore da soggetto socialmente e politicamente caratterizzato a semplice merce, ingranaggio irrilevante di un meccanismo molto più grande di lui alimentato dalla foga capitalistica, negli ultimi anno il lavoro digitale ha visto combattere a suo nome diverse battaglie e tra queste quelle dei riders sono quelle che più hanno smosso le acque.

Già dal 2017 a Bologna, come ricorda Marco Marrone autore di Rights against the machines! Il lavoro digitale e le lotte dei rider e parte attiva nella fondazione di Rider Union Bologna, erano iniziate le prime proteste per richiamare l’attenzione sulle paghe che l’azienda unilateralmente riduceva sempre di più: «Inizialmente aveva proposto stipendi decenti ma via via che il servizio si era radicato li avevano iniziati ad abbassare per passare poi al cottimo». Ma le questioni erano molte, come ad esempio il tema di valutazione (ranking) per controllare le prestazioni dei riders fino a quella che fece scattare il primo sciopero nel novembre 2017 riguardante il “fattore rischio”.

I lavoratori della GIG economy in Italia

Quello del rider è infatti un lavoro pericoloso che si svolge nel traffico e all’epoca privo di assicurazione (con il primo “Decreto rider” si è poi esteso l’obbligo di assicurazione Inail a tutti i lavoratori a prescindere dal contratto, anche quelli autonomi). Da li poi è preso il via un percorso che ha condotto alla Carta dei diritti dei lavoratori digitali in contesto urbano di Bologna, alla nascita della rete nazionale Rider X i Diritti, al Decreto Rider e al contratto di JustEat. Nonostante alcune conquiste però, le battaglie dei gig-workers non possono ancora dirsi concluse e continuano a scontrarsi con l’ostracismo delle piattaforme verso le rivendicazioni sindacali.

La nuova subordinazione

Caso Napster vs Metallica vi dice qualcosa? Nel 2000 la band aveva intrapreso un’azione legale contro il sito di file sharing Napster a seguito della circolazione di una versione demo della canzone I Disappear prima della sua uscita ufficiale. Napster, che perse la causa e chiuse i battenti, aveva usato come strategia difensiva quella di presentarsi come semplice infrastruttura digitale che metteva a disposizione degli utenti la possibilità di interagire tra loro senza però gestire cosa essi si scambiassero.

Cosa c’entra questo con i riders? La strategia delle piattaforme è la stessa anche oggi: «Metto a disposizione la piattaforma, il rider è un lavoratore autonomo, c’è il ristorante e il cliente e questa triangolazione di utenti io mi occupo solo di coordinarla. E sulla base di questo loro spiegano il lavoro autonomo», dice Marrone. Ma questi sistemi oltre a coordinare prevedono in realtà anche meccanismi di sanzionamento e premiazione (ranking) e obblighi che riguardano ad esempio ciò che viene indossato (riporta Marrone come alcuni licenziamenti si sono avuti perché i riders avevano il cubo di una piattaforma mentre consegnavano per un’altra, conseguenza della fluidità di questi rapporti di lavoro). I riders imprenditori di se stessi sono dunque menzogna. Motivo per cui si è iniziato a domandare il riconoscimento della subordinazione.

L’Italia però è ancora indietro. Se in Spagna la “rider law” prevede che i corrieri siano considerati dipendenti ordinari e in Inghilterra siano riconosciuti come “workers” beneficiando di una porzione seppur limitata di tutele (salario minimo e ferie annuali) nel nostro Paese serve prima ridefinire i confini del lavoro subordinato di tutte le tipologie di gig-workers. Secondo il Codice civile esso è il «lavoro organizzato nel tempo e nello spazio» ma appare cristallino come questa definizione risulti stretta in un’epoca post-pandemica di espansione digitale e lavoro ubiquo. «Quindi il dipendente in smart working dato che è a casa e non è più organizzato nel tempo e nello spazio non è più un lavoratore subordinato? No. Da qui – spiega Marrone – il nostro slogan “Non per noi ma per tutti” e la volontà di rivedere l’idea di lavoro subordinato come tutto il lavoro che va a beneficio di qualcun altro a prescindere da come è organizzato».

No al cottimo e alle prestazioni occasionali, monte-ore garantito con paghe orarie regolate da un contratto collettivo nazionale, riconoscimento di Tfr, tredicesima, ferie, malattia, congedo di maternità/paternità. Queste le richieste avanzate alle piattaforme. Piattaforme che nel frattempo sono state colpite da veri e propri “deliverygate”. Come nel caso che ha visto indagate sei persone tra amministratori delegati, legali rappresentanti o delegati per la sicurezza di Uber Eats, Glovo-Foodinho, JustEat e Deliveroo dalla Procura di Milano a febbraio 2021. Conclusasi con sentenza di multe pari a 733 milioni di euro, l’indagine ha parlato di sistema schiavistico e caporalato digitale, come ha evidenziato il procuratore capo milanese Francesco Greco. Una vera e propria «tangentopoli del food-delivery» il commento del portavoce di Riders Union Bologna Tommaso Falchi. 60 mila le posizioni lavorative dei fattorini controllate. Mille i controlli fatti su strada. In tutti è emersa una profonda condizione di moderna schiavitù, che ha portato le autorità giudiziarie a pretendere l’assunzione regolare dei ciclofattorini.

“Growth before business” vs lotta di classe

«Il digitale sta portando alla formazione di una coscienza di classe tra lavoratori mentre i padroni continuano ad accoltellarsi tra loro». Questa affermazione di Marrone scatta un’istantanea nitida della moderna gig-economy. Ma partiamo dalle piattaforme. Una parola le descrive bene: oligopolio. Alleanze di comodo e modelli di business aggressivo stanno dominando le strategie di mercato con l’obiettivo di creare regimi monopolistici. Come analizzato da Marrone, se si studiano i bilanci di queste piattaforme si osserva come siano perennemente in rosso, non perché non guadagnino ma perché il modello di management utilizzato è il growth before business, che porta a spendere grosse somme in elementi che consentono di espandersi prima dell’arrivo dei concorrenti (pubblicità, aperture in diverse città).

Stessa strategia usata da Facebook con l’acquisto di Whatsapp. Obiettivo? Essere l’unica piattaforma della comunicazione. Consce che solo una di loro conquisterà l’intero mercato, il gioco è resistere per vendere la propria piattaforma al prezzo più alto possibile. Ma questa competizione si è dimostrata essere il loro principale elemento di debolezza.

Al primo tavolo di trattative aperto dal Governo le venticinque piattaforme presenti giocavano ognuna per sé, finendo per dividersi in due gruppi, uno capitanato da Deliveroo-Glovo e l’altro da Foodora (poi assorbita da Glovo) ed evidenziando la perenne spaccatura tra le piattaforme multinazionali e italiane. «La Carta di Bologna – racconta Marrone – noi la riuscimmo a fare perché firmò MyMenu, la più grande piattaforma italiana». Esempio che mostra in modo chiaro questa dinamica è il caso AssoDelivery–JustEat.

Dopo sole due settimane dalla creazione del contratto con AssoDelivery (un’associazione datoriale basata però sulla non-contrattazione) JustEat decide di uscirne annusando nell’aria i cambiamenti dovuti alle lotte sindacali e sceglie quindi di cambiare modello produttivo riconoscendo la subordinazione, mettendo riders capitain a supervisione di flotte di 10-20 riders, comprando immobili a Milano per farne hub per i riders e dark kitchen. E tutto questo non in un’ottica di giustizia sociale ma con l’intento di sottrarre platea ai concorrenti.

A drogare questa economia c’è poi la finanza. Una delle ragioni che ha ostacolato il riconoscimento dei sindacati ai gig-workers è proprio la presenza dietro le piattaforme di azionisti come Deutsche Bank, JP Morgan, Intesa San Paolo che nel caso in cui «ci avessero visti come controparte riconosciuta – spiega Marrone parlando di Riders Union Bologna – avrebbero spostato gli investimenti finanziari da un’altra parte». Oggi però, grazie alle lotte dei lavoratori, la situazione si è ribaltata facendo si che siano realtà come AssoDelivery a chiedere ai sindacati di aprire tavoli proprio perché il modello di business che non riconosce il contratto regolare è stato sconfitto e le realtà che non si adeguano perdono investitori. In tema di lotta di classe i riders hanno fatto dunque un piccolo miracolo e vinto una battaglia culturale in un contesto difficile come quello digitale e in un momento storico complesso in cui l’idea di sindacato è stata massacrata. Recuperando pratiche storiche come il mutualismo che ha visto nascere ad esempio ciclo-officine autogestite, i lavoratori hanno rimarcato la necessità di una coscienza di classe ben salda.

Nonostante però l’onda di sindacalizzazione dei riders abbia portata globale l’obiettivo ora è estendere queste vittorie anche ad altre tipologie di lavoratori digitali, esempio Uber e Airb&b. Quest’ultimo ad esempio non possiede sindacati ma Facebook è pieno di gruppi di host che si scambiano informazioni sulle questioni legali.

Dati, il nuovo petrolio

C’è un altro aspetto però che rende la gig economy difficile da inquadrare nella cornice del lavoro tradizionalmente inteso ed è quello dei dati. Il termine algoritmo è ormai entrato nel linguaggio comune ma per il mondo del lavoro questo cosa comporta? Come spiega Marrone, lo step da compiere ora è far comprendere che il rider non lavora solo quando ha la consegna, l’autista di Uber non lavora solo quando ha le mani sul volante ma lavorano ogni volta che sono costretti a interagire con l’app perché magari si è liberato un turno e nella logica fagocitante dell’economia digitale vince (e lavora) chi si collega per primo. In questo modo si assiste a una ridefinizione di modi e tempi lavorativi e a una riorganizzazione della società attorno a queste infrastrutture digitali.

A riprova di questo, nella storia delle imprese nessuno ha mai raggiunto i livelli di Amazon in termini di capitalizzazione e tra le dieci aziende più grandi al mondo sette sono piattaforme. Oggi riusciremo a vivere senza di esse? Pensiamo al down recente del pacchetto Facebook-Instagram-Whatspp. L’intera economia informale di Paesi come l’India si è bloccata perché dipendente da questi strumenti. Dove sta però il nodo della questione? Nel fatto che questi dati li produciamo noi in quanto utenti utilizzatori delle app e il nostro utilizzo ormai imprescindibile di queste piattaforme rende complesso l’equilibrio tra continua espansione di esse e garanzia di un lavoro non succube della schiavizzante logica capitalista.

Logica che ad esempio ha reso impossibile ai sindacati dei riders contrattare la questione della gestione dell’algoritmo al momento della stipulazione del contratto con JustEat.

Foto: un momento della protesta dei drivers di food delivery a Bologna il 17 ottobre 2020 – Michele Lapini/Getty
Infografica: Lorenzo Bodrero
Editing: Luca Rinaldi