L’omicidio di Regina Martínez, la voce di Veracruz

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L’omicidio di Regina Martínez, la voce di Veracruz
The Cartel Project

La giornalista Regina Martínez Pérez, un metro e cinquanta per quaranta chili di peso, per difendersi ha graffiato il suo assassino come una gatta. Il killer è entrato di soppiatto nella sua casa di Xalapa, capitale dello Stato messicano di Veracruz. Ha scassinato la porta di ferro che si apriva sul patio che lei tanto amava; un piccolo angolo di tranquillità che l’ha trattenuta dal trasferirsi in una casa più sicura di quel modesto blocco di cemento, tipico di queste zone del Messico. L’ha sorpresa da dietro, in bagno, hanno ricostruito le perizie. Regina si è dovuta arrendere dopo il colpo che le ha rotto la mascella, sferrato col tirapugni. L’ha lasciata senza le forze di opporsi allo straccio che l’ha strozzata.

Quattro mesi prima dell’omicidio, i suoi nemici le avevano lasciato un avvertimento: qualcuno le era entrato in casa, durante le vacanze di Natale, lasciando la vasca da bagno piena di schiuma e tutti i flaconi di sapone aperto, per farle sapere di avere violato il suo spazio protetto. Non aveva denunciato l’accaduto, però, perché Martínez aveva ormai da tempo perso qualunque fiducia in polizia e sistema giudiziario, dopo tutto quello che aveva visto e raccontato. Aveva paura. Un anno e mezzo prima di essere uccisa, in un articolo pubblicato sul giornale per cui lavorava aveva scritto sotto forma anonima: «Vivo in uno stato di terrore. Chiudo a chiave tutte le porte di casa, non dormo e quando esco controllo sempre se sono seguita».

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Anni dopo l’omicidio di Regina Martínez una squadra di giornalisti da Messico, Europa e Stati Uniti ha ripreso le sue indagini da dove è stata fermata. Il progetto è coordinato da Forbidden Stories, organizzazione francese nata per concludere le storie dei giornalisti assassinati. Questa inchiesta appartiene al Cartel Project, un progetto collaborativo che ha coinvolto 60 giornalisti di 25 media in 18 Paesi. IrpiMedia è partner italiano dell’inchiesta.

Speranza per la giustizia e la verità a Veracruz: ecco cosa incarnava Regina Martínez Pérez, uccisa a 48 anni per il suo lavoro, il 28 aprile 2012. Corrispondente locale per il settimanale Proceso, Regina ha raccontato come i cartelli del narcotraffico, con la complicità della polizia locale e federale, si sono impadroniti dello Stato di Veracruz. I suoi articoli avevano un forte impatto. Pochi colleghi, in Messico, hanno osato rifiutare tangenti o ignorare le pressioni dei cartelli per censurare le notizie. «Quello che la stampa locale non pubblicava, usciva tramite la penna di Regina Martínez nella cronaca nazionale», ricorda Jorge Carrasco, oggi caporedattore di Proceso. Dal 2000, sono 28 i giornalisti assassinati nello Stato di Veracruz. Altri otto sono desaparecidos.

Con la sua lunga costa affacciata sul Golfo del Messico e l’omonimo porto internazionale, Veracruz è un luogo strategico per le attività criminali dei cartelli del narcotraffico. Mulattiere isolate connettono il nord al sud di questa lingua di terra, fornendo facili possibilità di estorsione nei confronti dei migranti; le foreste montagnose sono nascondigli ideali per latitanti; il porto di Veracruz è passaggio importante per le principali rotte che connettono il Nord America all’Europa. Questo Stato messicano, ormai in mano ai boss della droga, è tra i posti più pericolosi al mondo dove fare i reporter.

Ostinata capobanda di un gruppo di indesiderati

Di origini modeste, cresciuta in una famiglia numerosa, Martínez Pérez conosceva Veracruz a menadito. Aveva studiato giornalismo e aveva iniziato a lavorare nel 1980 per una televisione locale, capendo da subito come molti giornalisti fossero pagati dall’establishment per pubblicare solo notizie gradite. Lei, la “chaparrita”, la “passerotta”, appellativo affibiatole per la corporatura minuta, no. Per questo, piano piano, è stata isolata sempre di più. Passava il tempo libero da sola, a casa a curare il giardino. «Il lavoro era la sua vita – ricorda la collega e amica di sempre Norma Trujillo -. Era molto interessata a temi sociali e violazioni dei diritti umani e sapeva essere vicino alla gente; questo era il suo superpotere».

«Il lavoro era la sua vita. Era molto interessata a temi sociali e violazioni dei diritti umani e sapeva essere vicino alla gente; questo era il suo superpotere»
Norma Trujillo

Collega e amica di Regina Martinez

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Cuochi messicani per la metanfetamina olandese

Laboratori di droga scoperti tra Belgio e Paesi Bassi sono gestiti da chimici venuti dal Messico. Li reclutano intermediari via EncroChat, un sistema di comunicazione (mal)ritenuto a prova di indagini

Ha fatto molti scoop in carriera, le cui conseguenze si riverberano ancora nelle cronache odierne. Nel 2006, tre anni prima dello scoppio dell’influenza suina H1N1, ha svelato le miserabili condizioni in cui vivevano i maiali alla fattoria La Gloria, un piccolo villaggio di Veracruz, da cui è poi partita l’epidemia. Nel 2007 ha denunciato la morte di Ernestina Ascencio Rosario, una donna indigena di 72 anni che sarebbe stata stuprata e uccisa dall’esercito messicano. Il 4 dicembre 2020 il principale organismo che si occupa di diritti umani nelle Americhe, la Commissione interamericana per i diritti umani, ha stabilito che la morte è stata invece provocata da «anemia acuta e ulcere».

Fidel Herrera Beltràn e Javier Duarte de Ochoa, i politici che si sono succeduti dal 2004 al 2016 nel ruolo di governatore dello Stato di Veracruz, sono stati figure centrali delle inchieste di Regina su politica, corruzione e cartelli.

Regina Martinez – Foto: Proceso

Dai primi del 2000, Xalapa – la capitale dello Stato – ha iniziato la sua trasformazione per mano dei cartelli. Impercettibile all’inizio: solo il continuo rumore sordo dei fuoristrada e anonimi signori che compravano bar, casinò e locali a luci rosse.

Nel 2008, il cartello dei Los Zetas esce dall’ombra, riversando per le strade una violenza fino allora sconosciuta. «C’erano sparatorie per le strade a tutte le ore, da quando Fidel Herrera era diventato governatore», ricorda Norma Trujillo, l’amica e collega di Regina, testimone oculare di quei cambiamenti. In quella fase storica «il confine tra i cartelli e chi è in quel momento al governo diventa labile: la polizia non fa nulla per fermare la violenza, al contrario è complice del crimine organizzato».

Martínez ha criticato apertamente Duarte e il suo predecessore Herrera per avere lasciato che lo Stato di Veracruz cadesse nelle mani dei cartelli. Scriveva delle sparatorie, della vera conta dei morti che le autorità cercavano di insabbiare, degli affari di imprenditori locali con politica e cartelli. Era una vera spina nel fianco tanto che nel 2010 il suo nome è comparso su una lista di giornalisti indesiderati, trapelata dal palazzo del governo di Herrera. Martínez ha indagato anche le connessioni di Herrera con la criminalità organizzata e nel 2008 ha scritto che l’amministrazione Herrera era in affari con il cartello dei Los Zetas. Le connessioni di Herrera con il cartello, che si sono concretizzate anche con l’assegnazione di appalti pubblici a Veracruz a società riconducibili al cartello stesso sono emerse anche in un processo negli Stati Uniti che ha portato alla sbarra i riciclatori di denaro degli Zetas.

Dall’ascesa politica di Herrera e Duarte a Veracruz il governo locale aveva organizzato un’unità di spionaggio per controllare i giornalisti, oltre che attivisti e dissidenti, ognuno con un file che conteneva i nomi di familiari, colleghi e luoghi frequentati, oltre che una nota sulle affiliazioni politiche e le preferenze sessuali. «Il governo poteva controllare i cellulari delle persone e sapere, in ogni momento, cosa stessero facendo», conferma un ex funzionario della pubblica amministrazione.

L’unità di spionaggio riteneva che Regina Martínez, la più esperta e carismatica, guidasse un gruppo di cinque giornalisti, meritevoli di “attenzioni extra”: «la banda degli indesiderati», l’ha ribattezzata uno dei componenti, che ha chiesto di restare anonimo per timore di ritorsioni. I cinque coordinavano le pubblicazioni in modo che le notizie uscissero in contemporanea, impedendo alle autorità di individuare un unico responsabile.

Per approfondire

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«Nella mia carriera non avevo mai visto una tale alterazione di una scena del crimine»

Laura Borbolla Moreno

Procuratrice federale

El Silva, il capro espiatorio costruito a tavolino

Il 29 aprile 2012, 24 ore dopo l’assassinio di Regina Martínez Pérez, il procuratore locale Amadeo Flores Espinosa è stato incaricato di condurre le indagini per scoprire il colpevole. Quattro giorni dopo, da Città del Messico, è arrivata anche una procuratrice federale, dell’ufficio speciale che indaga i crimini contro la libertà d’espressione (FEADLE), Laura Borbolla Moreno. È la magistrata che ha estradato alcuni dei più grandi criminali del Messico, incluso il figlio di Mayo Zambada – attuale boss del cartello di Sinaloa, una che le inchieste le conduce sul serio.

«Ripercorrere questo caso mi causa un estremo stato di rabbia», dice al Cartel Project senza mezzi termini. A cominciare dalla scena del crimine: la polizia locale ha usato un quantitativo eccessivo della polvere che si sparge sulla scena per raccogliere le impronte digitali. Un errore banale: questa tecnica si insegna nei primi mesi del corso di criminologia. «Non può essere un errore», sottolinea la magistrata. Accusa il capo della polizia locale, Enoc Maldonado, di avere volontariamente ritardato la consegna delle prove, diventate con il tempo inutilizzabili.

«Mi diceva: “Ma certo, signora procuratrice, tutto ciò che vuole” e poi si girava e diceva ai suoi uomini di non darmi nulla», ricorda la pm. Altri oggetti sulla scena del crimine, come ad esempio delle bottiglie di birra, le sono stati consegnati mesi dopo, manipolati. Le due impronte digitali che, con fatica, è riuscita a rintracciare nonostante gli errori della polizia non sono mai state identificate. «Nella mia carriera non avevo mai visto una tale alterazione di una scena del crimine», dichiara Borbolla.

L’abitazione di Regina Martinez dopo l’omicidio / Proceso. Scorri le immagini

Nonostante affiancasse il procuratore locale nell’indagine, Borbolla ha saputo dell’arresto del colpevole dell’omicidio Martínez guardando la televisione sei mesi dopo, come tutti gli altri messicani. Flores, durante una conferenza stampa il 31 ottobre 2012, ha annunciato di avere «risolto con successo il caso dell’omicidio Martínez». Il movente: una rapina finita male. Il killer, diceva Flores, ha già confessato.

«Un perfetto capro espiatorio», secondo Borbolla Moreno. Eccolo, incappucciato e ammanettato e circondato da poliziotti armati fino ai denti: «Alza la testa, imbecille», gli dicevano. Il suo nome è Jorge Antonio Hernández Silva, meglio conosciuto come “El Silva”. Tossicodipendente, alcuni precedenti per piccoli reati, era un’anima dannata che viveva di espedienti.

Mai per un momento le autorità locali hanno indagato questo omicidio come legato al lavoro di Regina. Stando alla ricostruzione ufficiale, infatti, El Silva aveva cercato di derubarla, in compagnia di un amico che secondo le autorità locali era l’amante del ragazzo. Vista la resistenza di Martínez al furto, i due l’avrebbero picchiata e uccisa.

Mai per un momento le autorità locali hanno indagato questo omicidio come legato al lavoro di Regina

«Se ci fosse stata una rapina – evidenzia Borbolla -, in casa ci sarebbe dovuto essere tutto in disordine. Invece non era così e gli effetti di valore come un nuovo lettore cd, una stampante, il portafogli e i suoi orecchini d’oro erano lì».

El Silva ha ritrattato la sua confessione il giorno dopo la conferenza stampa, dicendo in una nota inviata all’autorità giudiziaria di essere stato torturato, bendato, per spingerlo a confessare. Diana Coq Toscanini, avvocata di El Silva, ha cercato invano di farlo scarcerare: «È un 34enne positivo all’Hiv che in carcere finirà per morire – dice -. È il perfetto capro espiatorio».

Veline e inchieste interrotte

Il Cartel Project ha avuto accesso al fascicolo dell’omicidio di Regina, composto da più di mille pagine. Le impronte di El Silva non sono mai state rilevate sulla scena del crimine. L’unica testimonianza che lo “inchioda” è il racconto di una persona che lo avrebbe visto vagare nel quartiere. Un testimone che Borbolla Moreno non è mai riuscita a rintracciare. Come non è riuscita mai ad avere accesso a El Silva da sola. Borbolla – che è rimasta al FEADLE fino al 2015 – si è rifiutata di chiudere il suo fascicolo, parallelo a quello di Flores.

In Messico, la procura federale non ha potere d’influenzare le indagini condotte da quelle statali. El Silva, alla fine, è stato quindi condannato a 38 anni di galera, pur dichiarandosi sempre innocente. Flores oggi è notaio. Contattato dai giornalisti del Cartel Project, non ha voluto commentare la vicenda. «Sta tutto sul fascicolo» sono state le sue uniche parole.

Il Cartel Project ha avuto accesso al fascicolo dell’omicidio di Regina, composto da più di mille pagine. Le impronte di El Silva non sono mai state rilevate sulla scena del crimine

La conferenza stampa di Flores con cui è stato dichiarato chiuso il caso è stata ripresa – tra i primi – dal sito di informazione locale ElGolfo.info, il cui editore, in quel momento era consulente del governo Duarte. L’articolo è stato immediatamente condiviso da 190 bot che l’hanno reso virale. Quegli stessi bot hanno rilanciato anche tutti gli articoli che mettevano positivamente in mostra il governatore Javier Duarte. Erano la macchina della propaganda del governatore, un megafono delle sue veline.

Dopo l’arresto di El Silva, Jorge Carrasco è stato inviato dal settimanale Proceso a Veracruz per provare a capirci di più. Dopo mesi di ricerche, il 14 marzo 2013, ha pubblicato un articolo sulle incongruenze nell’indagine: «Il modo in cui la “verità” è stata costruita – scriveva – sembra un copione scritto male». Da quel momento Carrasco ha iniziato a ricevere minacce di morte. Alla fine, il direttore del giornale ha deciso di impedire che Carrasco o altri reporter continuassero l’inchiesta sull’omicidio della collega: era troppo pericoloso.

«Il modo in cui la “verità” è stata costruita sembra un copione scritto male»

Jorge Carrasco

Inviato settimanale Proceso

Le due ipotesi sul movente

Ci sono due ipotesi sul movente dell’omicidio di Regina. La prima sostiene che la giornalista sarebbe stata uccisa a causa dei contatti con Anonymous Messico, rete informale di hacker che stava raccogliendo informazioni sui cartelli.

La vicenda di Anonymous parte l’anno prima dell’omicidio. Nel 2011, due hacker legati alla rete sono stati rapiti e uccisi dal cartello dei Los Zetas, che poi ne rapisce un terzo. In tutta risposta, Anonymous lancia #opCartel, minacciando di pubblicare tutti i nomi dei membri dei cartelli e dei loro complici. L’ostaggio verrà liberato e #opCartel cancellata perché ritenuta troppo rischiosa.

Stando alle dichiarazioni di due ufficiali dell’intelligence messicana intervistati da Cartel Project, l’hacker rapito avrebbe dichiarato sotto tortura di avere passato informazioni a Regina Martínez Pérez. Oggi entrare in contatto con gli hacker che nel 2011 agivano sotto l’effige di Anonymous è impossibile: «Molti si erano messi a fare hacking for hire (cioè operazioni per conto di terzi, ndr), e poi sono stati eliminati (per ciò che sapevano); altri sono stati uccisi per il loro attivismo», spiega una fonte del settore a IrpiMedia. I colleghi di Proceso non erano a conoscenza di contatti tra Regina e Anonymous.

La seconda teoria, invece, lega l’omicidio a una pubblicazione mai realizzata a cui si ritiene stesse lavorando la reporter. Riguardava le fosse comuni a Veracruz, un tema che Regina seguiva già dal 2009. In quelle tombe, rimaste segrete fino a quel momento, finivano per lo più individui che i cartelli volevano silenziare per sempre: imprenditori che si rifiutavano di pagare il pizzo, giovani donne che erano state usate come escort alle feste del potere, dissidenti.

Ci sono due ipotesi sul movente dell’omicidio di Regina. La prima sostiene che la giornalista sarebbe stata uccisa a causa dei contatti con Anonymous Messico, rete informale di hacker che stava raccogliendo informazioni sui cartelli

Regina aveva confidato a un amico di essersi «imbarcata nell’inchiesta più pericolosa di tutta carriera» perché, al di là delle fosse comuni dei cartelli, era convinta di avere scoperto uno scandalo più grande: cimiteri collettivi in cui venivano fatte scomparire persone “scomode” dalle autorità stesse.

Per questo, con il fotografo Julio Argumedo era andata a visitare vari luoghi, compresa una fossa a Palo Verde, vicino Xalapa. «Le tombe erano così piene che traboccavano di corpi», ricorda Argumedo che decide di parlare per la prima volta da allora. Mentre lui scattava, Regina intervistava le persone intente a scavare e determinare l’origine di quei corpi ammassati.

Una prima inchiesta Regina l’aveva pubblicata, con altri colleghi di Proceso, a luglio del 2011. Ma il lavoro non era terminato. Le altre foto sono andate perdute un mese e mezzo dopo l’omicidio di Regina, quando il computer e l’hard-disk del fotografo sono stati rubati.

Secondo le stime ufficiali, tra le 24mila e le 25mila persone sono scomparse a Veracruz durante i governi di Herrera prima e Duarte poi e non si sa quanti di loro sono stati sepolti in cimiteri clandestini.

Una fossa comune a Palo Verde – Foto: Julio Argumedo
Le inchieste sulle fosse comuni oggi

Nel 2015 la giornalista Marcela Turati, co-fondatrice del centro di giornalismo d’inchiesta Quinto Elemento Lab, ha iniziato a mapparli, arrivando a contarne oltre 2mila. Un dato che rappresenta solo la punta dell’iceberg. «In alcune regioni i procuratori sono ancora in combutta con i cartelli – spiega Turati – preferiscono nascondere i corpi che essere trasparenti sui numeri».

Dove Martínez stava indagando già quasi dieci anni fa, a Palo Verde, è stata trovata da poco una fossa comune. Mentre nel 2016 un’altra è stata trovata nel giardino della scuola di polizia di Veracruz. Il segretario di pubblica sicurezza del governo Duarte, Arturo Bermúdez, è stato accusato di aver guidato uno squadrone della morte ma il processo a suo carico – dal 2018 – langue.

Il pericolo di indagare le fosse comuni oggi non è diminuito. La giornalista Marcela Turati e la sua squadra hanno ricevuto ripetute minacce di morte. Mentre lo scorso 9 novembre un giornalista del giornale El Salmantino, Israel Vázquez, è stato ucciso mentre stava indagando la scoperta di resti umani nello Stato di Guanajuato.

I governatori corrotti

Contando anche Regina Martínez Pérez, sono 16 i giornalisti uccisi durante il mandato da governatore di Javier Duarte de Ochoa, cominciato nel 2010. Sei anni dopo, Duarte si è dimesso, dopo essere stato accusato di appropriazione indebita di milioni di dollari di fondi pubblici, riciclaggio e associazione a delinquere. Nel 2018, è stato condannato a nove anni di carcere e una multa da 3mila euro.

Forbidden Stories ha contattato il suo legale per un commento. A rispondere è stato lo stesso Duarte che si trova attualmente in carcere, o meglio, chi in questo momento gli cura la comunicazione sui social. Affidandosi a Twitter l’ex governatore ha fatto sapere che «i giornalisti sono sempre stati rispettati, tanto che i loro articoli sono sempre stati pubblicati senza censure». Allo stesso modo nella giornata del 12 dicembre ha affidato a un lungo tweet la negazione di ogni addebito riguardo la morte di Regina Martìnez.

«Durante i miei anni di servizio – ricorda un ufficiale della DEA in pensione che è stato di stanza in Messico – ho visto vari governatori messicani colpevoli di appropriazione indebita e violenze, ma Duarte li supera tutti».

Ha imparato dal predecessore, Fidel Herrera, un altro importante esponente del Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI, centro-destra) il partito che ha governato il Messico per oltre 70 anni (dal ‘36 al 2000 ininterrottamente, poi dal 2012 al 2016 con Enrique Peña Nieto).

Martínez non smetteva di ripeterlo nei suoi articoli. Herrera aveva accumulato un impressionante livello di ricchezza per un governatore: un jet privato, 22 auto (di cui una blindata), varie fattorie, un hotel e uno yacht. A suo dire grazie alla lotteria vinta due volte in due anni: quasi sette milioni di dollari nel 2008 e tre e mezzo nel 2009. In realtà, il sistema più probabile con cui si è arricchito è un meccanismo di spartizione delle tangenti, che in Messico viene chiamato “diezmo,” il “decimo”: permette ai governatori di ottenere il 10% di ogni contratto pubblico. La DEA conferma che Herrera l’ha utilizzato largamente.

Javier Duarte de Ochoa, governatore di Veracruz dal 2010 al 2016 – Foto: Proceso

Riaprire il caso Martínez

Il 17 novembre scorso, durante una conferenza stampa, il presidente del Messico Andrés Manuel López Obrador ha promesso ai giornalisti del Cartel Project di impegnarsi per far riaprire il caso sull’omicidio di Regina Martínez Pérez.

Dopo otto anni la cortina di silenzio è ancora invalicabile. A Veracruz oggi è il cartello Jalisco New Generation Cartel (CJNG) a farla da padrone, dopo avere soppiantato i Los Zetas. Il rischio per i giornalisti resta altissimo al punto che non nominano più i singoli cartelli ma li chiamano genericamente “criminalità organizzata”.

Oggi anno, all’anniversario della morte, si cerca di squarciare il silenzio. La sua amica Norma Trujillo pianta ogni volta una targa al centro della piazza antistante il palazzo del governo con scritto «Piazza Regina Martínez». E ogni anno, le autorità la rimuovono. Anche da morta, Regina dà fastidio.

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Antonio Baquero (OCCRP)
Paloma Dupont de Dinechin (Forbidden Stories)
Veronica Espinosa (Proceso)
Nina Lakhani (The Guardian)
Dana Priest (The Washinton Post)
Lilia Saùl (OCCRP)
 

In partnership con

Adattamento

Lorenzo Bagnoli

Foto

Norma Trujillo

Traduzione

Cecilia Anesi

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Sorveglianza: giornalisti ancora nel mirino dei software spia

22 Giugno 2020 | di Cecilia Anesi, Raffaele Angius

Un altro giornalista è caduto vittima delle tecnologie di sorveglianza di NSO Group, azienda israeliana specializzata nello sviluppo di software di sorveglianza, grazie alla quale i governi di mezzo mondo possono spiare media, attivisti e oppositori politici. A farne le spese stavolta, in Marocco, è stato Omar Radi, giornalista d’inchiesta del giornale indipendente LeDesk, che grazie ad Amnesty International ha scoperto di essere stato il bersaglio di una campagna di intrusioni informatiche contro il suo telefono durata almeno un anno: dal gennaio del 2019 allo stesso mese del 2020. Dietro l’operazione si sospetta ci siano le autorità del Paese, da tempo tra i clienti ai quali NSO Group fornisce sistemi di intercettazione tra i più avanzati al mondo.

È questo il quadro che emerge da un’analisi condotta dagli esperti di sorveglianza di Amnesty International, condiviso in esclusiva con Forbidden Stories, piattaforma che prosegue le inchieste di giornalisti minacciati o uccisi, di cui IrpiMedia è partner per l’Italia.

Aggiornamento del 24 giugno 2020

Oma Radi è stato convocato dalla Brigata nazionale di polizia giudiziaria del Paese per chiarimenti. La misura è stata disposta all’indomani della pubblicazione dell’inchiesta che state leggendo condotta dal consorzio di giornalismo investigativo Forbidden Stories, di cui IrpiMedia è membro, nella quale si sono rivelati i numerosi episodi nei quali attaccanti informatici non identificati hanno preso di mira lo smartphone del giornalista, utilizzando il software-spia Pegasus. Questa tecnologia è sviluppata dall’azienda israeliana NSO, di cui il Marocco è ritenuto da tempo un cliente. Omar Radi dovrà presentarsi alle autorità domani, 25 giugno 2020, alle 9:00 del mattino ora locale (le 10:00 in Italia). L’inchiesta internazionale era stata pubblicata tre giorni prima.

Forbidden Stories

Forbidden Stories è una piattaforma che prosegue le inchieste di giornalisti minacciati o uccisi, di cui IrpiMedia è partner per l’Italia. Nel mondo questo approfondimento è pubblicato anche da Le Monde, Radio France, Die Zeit, Süddeutsche Zeitung, WDR, SVT, Utrikesmagasinet, Washington Post, Toronto Star, The Guardian, OCCRP, Daraj, Haaretz, NDR.

Il nome di NSO Group è ben noto nell’ambito della sicurezza informatica e delle organizzazioni per la tutela dei diritti umani. Il software-spia da loro sviluppato – nome in codice Pegasus – è estremamente efficace per condurre intercettazioni e acquisire qualsiasi informazione contenuta nei telefoni dei suoi bersagli: funzionalità particolarmente gradite a governi autoritari e regimi repressivi. Il nome di Pegasus è emerso tra l’altro più volte nel caso dell’omicidio del giornalista saudita Jamal Kashoggi, spiato e poi ucciso al consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul.

«Amnesty International aveva già scoperto altre violazioni prima della mia, ma nulla è cambiato»

Omar Radi, giornalista

«Amnesty International aveva già scoperto altre violazioni prima della mia, ma nulla è cambiato: possiamo solo continuare a cambiare telefono ma è come la lotta tra Davide e Golia», ricostruisce Omar Radi. E il problema non è solo che il telefono di Omar sia stato infettato al fine di controllarne il contenuto, ma anche che alcuni di questi episodi siano avvenuti dopo che NSO aveva pubblicato le nuove policy di rispetto dei diritti umani che cercavano di “ripulire” l’immagine di un’azienda su cui Amnesty aveva già pubblicato dati preoccupanti.

Le ripetute campagne di intercettazione nei confronti del dispositivo di Omar dimostrano come, nonostante le promesse, Nso Group abbia continuato a distribuire i propri prodotti senza condurre delle adeguate verifiche di valutazione sul rispetto dei diritti umani da parte dei suoi clienti.

Eppure tutto sarebbe dovuto cambiare

«I prodotti Nso sono utilizzati esclusivamente da agenzie di intelligence nazionali e organi di polizia al fine di combattere il crimine e il terrorismo», si legge sul sito dell’azienda israeliana. Tuttavia, numerosi studi e ripetuti casi venuti alla luce nell’ultimo anno raccontano una storia diversa, nella quale i bersagli prediletti dei clienti di Nso sono piuttosto attivisti e giornalisti. Tra questi, sempre in Marocco, anche lo storico e co-fondatore del movimento Freedom Now, Maati Monjiib, e l’avvocato Abdessadak El Bouchattaoui, coinvolto nella difesa dei manifestanti arrestati durante le proteste berbere del movimento Hirak El-Rif, tra il 2016 e il 2017.

Grazie all’analisi dei loro dispositivi, gli esperti di Amnesty International non solo avevano scoperto le ripetute operazioni ai danni dei due attivisti, ma erano anche stati in grado di determinare l’evoluzione tecnologica delle tecniche d’intrusione perfezionate da NSO Group, che sembra ora in grado di inoculare Pegasus semplicemente sfruttando il controllo della rete alla quale sono collegati gli smartphone.

Tecnicamente si chiama network injection (dall’inglese, iniezione su rete) e consiste nella capacità di deviare la connessione di un dispositivo su un indirizzo scelto dall’autore dell’attacco informatico. Dall’analisi condotta a ottobre del 2019, sarebbe proprio questa la tecnica utilizzata con lo smartphone di Maati Monjib, che durante una normale navigazione su internet si è visto reindirizzato, cliccando sul link di un sito d’informazione sull’app di Facebook, verso la pagina free247downloads[.]com. Di fatto una trappola, che una volta scattata ha permesso di inoculare Pegasus nel suo smartphone. Tre giorni dopo che Amnesty International ha condiviso il risultato della sua ricerca con NSO Group per chiedere un commento, il dominio free247downloads[.]com è stato disabilitato.

Il sito Internet di NSO Group/IrpiMedia

Ma non per questo la tecnica è stata cestinata. La network injection è estremamente efficace in quanto permette all’autore di un attacco informatico di acquisire il controllo di un dispositivo senza che il bersaglio debba interagire con la trappola. La tecnica più comune osservata fino al 2018 prevedeva l’invio di Sms apparentemente legittimi al telefono del bersaglio, contenenti un link malevolo. In questo scenario la “preda” avrebbe dovuto cliccare erroneamente sul link perché avvenisse l’inoculazione.

Se da un lato possono rivelarsi estremamente utili nel contrasto alla criminalità e al terrorismo, questi strumenti possono essere molto dannosi se abusati da Paesi nei quali non è garantita a pieno la libertà di espressione e di critica nei confronti del governo. 

È questo il caso del Marocco che, come denunciato più volte dalle organizzazioni per i diritti umani, ha intensificato la stretta contro proteste pacifiche e dissidenti, arrestando arbitrariamente giornalisti, attivisti, artisti, youtuber e in generale chiunque abbia osato criticare apertamente il Re o le autorità. Da novembre 2019 a oggi, Amnesty ha documentato dieci casi di persone irregolarmente arrestate e detenute

Tra questi anche Omar Radi, che a novembre del 2019 è stato arrestato per un tweet pubblicato mesi prima, ad aprile, nel quale criticava il sistema giudiziario e la condanna delle persone che avevano protestato nel 2017 durante le proteste della popolazione berbera

Rilasciato dopo alcuni giorni, a marzo del 2020 Radi è stato condannato a quattro mesi di carcere (con il beneficio della sospensione della pena) e a pagare una multa di 500 dirhams (circa 50 euro). L’analisi condotta dagli esperti di Amnesty International ha permesso di individuare sullo smartphone di Omar Radi una cartella nascosta creata il 27 gennaio del 2019, nel cui nome compare il medesimo indirizzo riscontrato sul telefono di Maati Monjiib: free247downloads.com.

Come funziona Pegasus: quei decisivi tre millisecondi

Tre millisecondi. Tanto è servito allo smartphone di Omar Radi per essere reindirizzato verso il sito dal quale gli è stato inoculato il malware Pegasus. Almeno questo è quanto ha riscontrato Amnesty International in uno degli episodi identificati sul suo smartphone, il 27 gennaio 2020. Come ricostruito dai tecnici, Radi era sull’app di Facebook quando ha cliccato sul link di un sito d’informazione ed è stato immediatamente reindirizzato verso l’indirizzo contenente il malware. Ma questa volta si trattava di un dominio non noto ai ricercatori – urlpush[.]net -, corrispondente a un server messo in servizio un mese dopo la pubblicazione di Amnesty di ottobre. Il precedente dominio, free247downloads[.]com, era stato cessato il 4 o il 5 ottobre, due giorni dopo che Amnesty International contattasse NSO Group e una decina di giorni prima che il report fosse reso pubblico. Precedenti attacchi sul telefono di Omar sono stati rilevati il 27 gennaio 2019, l’11 febbraio e il 13 settembre. L’ultimo attacco riscontrato risale al 29 gennaio 2020, due giorni prima del precedente. «Mentre le tempistiche suggeriscono un link a NSO – si legge nel report – alcuni dettagli tecnici dell’attacco, compreso il fatto che entrambi i domini riconducono verso lo stesso sito è una prova decisiva per collegare gli strumenti di NSO Group all’attacco contro Omar Radi».

«Questo [tipo di attacco] è tipicamente condotto grazie all’uso di apparecchiature tattiche», spiega a IrpiMedia Claudio Guarnieri, esperto di sicurezza informatica e autore dello studio condotto da Amnesty International. Il riferimento è agli IMSI Catcher: apparecchi che simulano una cella telefonica e quindi si frappongono tra uno smartphone e l’operatore telefonico. Un’altra ipotesi è che chi conduce l’operazione di spionaggio possa avere accesso agli stessi operatori telefonici. In tutti e due i casi, chi attacca ha accesso al traffico dati dell’utente. «Una volta stabilita la posizione di vantaggio, come nel caso di Omar a gennaio o prima ancora di Maati, gli attaccanti possono monitorare il traffico dei dispositivi». L’unico presupposto affinché il dirottamento della connessione avvenga è che l’utente provi ad accedere a siti non protetti da un certificato SSL: si tratta delle pagine il cui indirizzo è preceduto da un “http://”. Da anni è in fase di introduzione in tutto il regno di Internet il protocollo “https://”, la cui “S” identifica che la pagina è protetta. In tutti i casi analizzati, sia Maati Monjib sia Omar Radi stavano navigando su pagine prive di questo tipo di protezione.

«Qualsiasi sito visitato, sia tramite una ricerca manuale su Safari (il browser di default in iOS, ndr) sia visitando un link condiviso su Twitter o Facebook potrebbe causare la trasmissione [del malware], purché la pagina a cui si accede non sia criptata», precisa Guarnieri: «Il tutto avviene in modo automatico e non richiede alcuna interazione né da parte del bersaglio né da quella dell’attaccante: il sistema è autosufficiente».

Ma Pegasus non è solo un software d’intercettazione, anzi: «questo è solo un nome in codice che gli è stato affibbiato ormai diversi anni fa», spiega Guarnieri. «Versioni precedenti scoperte anni fa hanno fornito qualche indicazione su che tipo di dati raccolga, dai registri di Viber e IMO (due app di messaggistica, ndr) fino alle chiamate Whatsapp e agli Sms. Insomma, i dati che tipicamente ci si aspetta vengano esfiltrati da un telefono», aggiunge.

Ma a quali dati acceda oggi nessuno può saperlo con precisione, né è nota la lista dei clienti di NSO Group. A fornire una prima ricostruzione della fisionomia di Pegasus ci aveva pensato, nel 2018, il Citizen Lab della Munk School of Global Affairs di Toronto, che aveva accertato l’impiego di Pegasus in Arabia Saudita, Bahrain, Kazakistan, Marocco, Messico e Emirati Arabi Uniti. Una testimonianza del suo successo è però ben rappresentata anche dal valore del gruppo: a febbraio del 2019 il fondo privato britannico Novalpina Capital ha supportato l’acquisto dell’azienda da parte dei suoi dirigenti. Un’operazione costata un miliardo di dollari (circa 900 milioni di euro) e alla fine della quale il fondo d’investimento ha mantenuto una quota dell’azienda.

In seguito all’operazione, Novalpina Capital si era impegnata a promuovere una migliore definizione delle linee guida e dei principi di NSO Group al fine di meglio tutelare i diritti umani, istituendo addirittura un “Governance, Risk, and Compliance Committee”. Tre giorni dopo l’annuncio, Omar Radi è stato vittima di uno dei tentativi di inoculazione di Pegasus.

Sfortunatamente nessuno ha mai potuto analizzare una versione più recente di Pegasus – «Per quanto ne sappiamo», dice Guarnieri di Amnesty – dal momento che l’azienda ha sviluppato capacità e tecniche tali da renderlo irreperibile a qualsiasi analisi esterna: «L’azienda è molto più prudente di quanto non fosse cinque anni fa».

Le prime tracce di Pegasus risalgono proprio al 2016, quando un’inchiesta del New York Times ne svelò l’esistenza in collegamento con una massiccia campagna di spionaggio internazionale. All’epoca era possibile eseguire l’inoculazione del malware su dieci telefoni al costo di 650 mila dollari, più 500 mila dollari di supporto tecnico.

Ma della tecnologia “dual use” – termine che identifica gli strumenti impiegabili sia in scenari di pace sia bellici – si è tornati a parlare a maggio del 2019, con la scoperta che i tecnici di NSO Group erano in grado di installare il proprio prodotto sul dispositivo di un bersaglio attraverso una semplice videochiamata su Whatsapp, a causa di una vulnerabilità non nota e immediatamente riparata dagli sviluppatori dell’app di messaggistica. Tutt’ora Facebook, proprietaria dell’app per chattare, è in causa con NSO Group. Un miliardo e mezzo di utenti dovettero aggiornare l’app sui propri dispositivi.

Il confronto di Nso Group con l’opinione pubblica era iniziato proprio con quell’episodio, denunciato dagli esperti del Citizen Lab. I ricercatori avevano scoperto che la vulnerabilità di Whatsapp aveva permesso di infettare il telefono di un avvocato londinese coinvolto in un processo proprio proprio contro NSO Group, che doveva difendersi dall’accusa di aver fornito gli strumenti utilizzati per spiare il dissidente saudita Omar Abdulaziz. Tra il 2016 e il 2018 si stima che Pegasus sia stato impiegato in 36 diverse installazioni indipendenti tra loro in tutto il mondo, per un totale di 46 Paesi coinvolti.

«Gli attaccanti possono vedere qualunque cosa venga mostrata sullo schermo del bersaglio», ha commentato a Forbidden Stories un portavoce del Citizen Lab, una volta che l’organizzazione è stata messa al corrente della prossima pubblicazione di questa inchiesta. «Non abbiamo avuto alcuna significativa dimostrazione del fatto che le nuove regole sui diritti umani di NSO Group siano stati efficaci – commenta Citizen Lab – ma è importante notare che una volta venduto il prodotto c’è anche un’intensa attività di collaborazione tra il cliente e NSO. Per esempio, per la fornitura degli aggiornamenti»

Contattata il 16 giugno per una richiesta di commento, NSO Group ha risposto: «L’NSO è profondamente disturbata dalle accuse contenute nella lettera di Amnesty International. Stiamo verificando le informazioni in essa contenute e inizieremo un’investigazione», commenta un portavoce. «La lettera di Amnesty International pone diverse questioni riguardanti il rapporto che NSO Group potrebbe avere nei confronti delle autorità del Marocco, e delle azioni che avevamo preso in seguito a un rapporto di Amnesty International riguardo potenziali abusi dei prodotti di NSO da parte di quelle autorità. L’NSO intende essere quanto più trasparente possibile in risposta a tali accuse riguardanti gli abusi del suo prodotto. Ma dal momento che sviluppiamo e distribuiamo tecnologie che assistono la lotta al terrorismo, ai crimini seri e alle minacce di sicurezza nazionale, NSO è obbligata a rispettare un vincolo di confidenzialità e non può rivelare l’identità dei suoi clienti».

Gli altri attacchi e il lavoro di Omar

Omar ci racconta che da tempo sospettava di essere intercettato. Sia perchè in passato il governo aveva già spiato il suo computer grazie a un virus prodotto dalla italiana Hacking Team (erano state infettati più di 2.000 target in Marocco) e sia perché, sostiene Omar, «le autorità marocchine stanno comprando qualsiasi tipo di tecnologia di sorveglianza e spionaggio possibile. Vogliono sapere tutto, sono diventati un’azienda di spionaggio. D’altronde siamo in uno stato di polizia, quindi è normale». 

Omar ha lavorato come giornalista d’inchiesta per oltre 12 anni seguendo la politica, il potere locale e le relazioni con l’industria e la finanza. Ha anche lavorato e lavora sul tema della giustizia sociale, soprattutto la questione del land grabbing. Proprio in questi giorni su LeDesk è stato pubblicato un nuovo lavoro di Omar sul tema che è stato più difficile del previsto: le vittime che avevano deciso di parlargli sono state poi minacciate dalla polizia e Omar prima di pubblicare ha dovuto togliere le loro storie per proteggerli. Durante la primavera araba, Omar aveva contribuito al lancio della piattaforma di informazione in francese Lakome.com che è stata censurata dalle autorità e il suo direttore imprigionato per avere «glorificato il terrorismo».

Il giornalista Omar Radi – Foto: Fanny Hedenmo

Durante il lockdown a causa del Covid-19, Omar con la redazione di LeDesk ha lavorato sulla mancanza di trasparenza negli appalti per le forniture mediche. Ma per Omar non è solo la voglia di scoprire i temi su cui lavorano i giornalisti il motivo delle intrusioni delle autorità marocchine con il software spia Pegasus. «Faccio parte di un gruppo di persone ritenute “teste calde”, “nemici della nazione”. E ci sorvegliano, anche elettronicamente. È fastidioso perché è una invasione della nostra privacy, lo Stato ha in mano il tuo passato, presente, le tue foto, i tuoi messaggi, le tue cose personali», spiega Omar. Ma non è solo questo, è la rete dei contatti che secondo il giornalista è la gallina dalle uova d’oro che cercano le autorità. «C’è in corso un vero e proprio processo di mappatura delle persone, e probabilmente spiano principalmente i soggetti che hanno più contatti, come i giornalisti. Ed è una cosa che credo sia iniziata da molto tempo, almeno dal 2009», conclude Omar Radi.

Il 7, 9 e 14 giugno di quest’anno il tabloid Chouftv ha pubblicato una campagna di delegittimazione su alcuni giornalisti di punta, tra cui Omar. Le vittime sospettano che sia stata una manovra pilotata dai servizi segreti. Le informazioni riportate erano sicuramente state estrapolate dai telefoni dei giornalisti. «Hanno pubblicato informazioni su di noi di vario tipo, chi siamo, dove viviamo, con chi viviamo, se paghiamo l’elettricità o no, se beviamo alcolici e cose di questo genere. Tutto per fare passare un messaggio: vi controlliamo». Nel caso di Omar, è stato pubblicato il nome della sua coinquilina descrivendo la cosa come una «relazione illegale, fuori dal matrimonio» ma anche materiale di lavoro, per lo più conversazioni avvenute su Whatsapp, e in particolare una conversazione con un ricercatore americano avvenuta sulla app Signal (in teoria sicura, ma non se Pegasus buca il telefono).

Alcune delle informazioni però, erano chiaramente frutto di un’altro tipo di sorveglianza, quella classica, fisica, e non meno preoccupante. Significa che chi spia i giornalisti marocchini con i software NSO, poi li segue anche per strada e potrebbe facilmente attaccarli. Ma per Omar questo non è l’aspetto peggiore. L’aspetto peggiore sono le smear campaign che vengono costruite, campagne di delegittimazione che isolano il giornalista e che terrorizzano potenziali fonti, su cui si basa il lavoro di informazione. «In questo modo le persone diventano riluttanti a parlare con noi giornalisti, se sanno che sono intercettato. Ci organizziamo con altri sistemi come SecureDrop», spiega Omar. Questo però, conclude il giornalista «rallenta i processi, per le persone è complicato capire come usare i sistemi di comunicazione sicura. Ma non importa, anche se ci vorrà più tempo e se ci sorvegliano, non smetteremo di fare il nostro lavoro». Il governo marocchino, contattato da Forbidden Stories per il consorzio, non ha voluto commentare.

In partnership con: Forbidden Stories | Foto: Shahadat Rahman/Unsplash

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