Il fondo speculativo e l’advisor senza investitori: come è fallito il rilancio della GKN
28 Aprile 2023 | di Edoardo Anziano, Giovanni Soini
«Ora: 05:24 Data: 9/07/2021». Così si legge sull’etichetta di uno degli ultimi pezzi usciti dalla fabbrica GKN Driveline Firenze Spa di Campi Bisenzio, uno stabilimento di 26 mila metri quadrati incastrato fra il multisala UCI e il centro commerciale I Gigli. Siamo nella Piana di Firenze-Prato-Pistoia, a una dozzina di chilometri dal centro del capoluogo toscano. Il prodotto è un semiasse, uno dei componenti che trasferiscono l’energia del motore alle ruote, destinato a un mezzo Fiat. Questo stabilimento, che inizialmente si trovava a Novoli (sempre in provincia di Firenze), è appartenuto al gruppo fondato dalla famiglia Agnelli fino al 1994. La cessione alla GKN, storica azienda britannica leader nella fabbricazione delle componenti automobilistiche, rientrava nel piano cominciato in quegli anni di esternalizzazione della produzione di automobili. Il gruppo Stellantis – l’ultimo agglomerato di cui FCA, l’erede di Fiat, fa parte – è rimasto fino all’ultimo il principale committente di GKN.
Quel semiasse da quasi due anni giace immobile al termine di una delle linee di produzione. È lo specchio del fallimento di politiche per il rilancio del settore automobilistico da realizzare senza investitori, con piani industriali che esistono solo su carta e con traghettatori che alla fine hanno cercato di battere cassa allo Stato per tenere in piedi i loro progetti. Dentro la fabbrica, occupata da quando è iniziato lo stallo produttivo, il Collettivo dei lavoratori cerca di trovare in autonomia un’altra strada per salvarsi. La soluzione sembra però dover necessariamente passare da un sostegno con fondi pubblici.
Acquisire, smembrare, rivendere
La crisi entra in fabbrica la mattina del 9 luglio 2021. Gli operai del turno di notte hanno da poco lasciato lo stabilimento, quando l’amministratore delegato Andrea Ghezzi invia un’email certificata ai rappresentanti dei lavoratori. In modo del tutto improvviso, Melrose «intende avviare una procedura di licenziamento collettivo relativamente a tutta la forza lavoro occupata». Sono 442 dipendenti a tempo indeterminato, di cui la maggior parte operai.
Ghezzi scrive che l’automotive è un comparto in crisi da tempo e non sarebbe riuscito a riprendersi dopo la pandemia. Lo stabilimento toscano non è più competitivo, con previsioni di fatturato al 2025 in calo di quasi la metà rispetto a prima della pandemia. Ghezzi parla di «indifferibile ed irreversibile decisione di chiudere lo Stabilimento», di «immediata interruzione della produzione», con la «consapevolezza che eventuali ulteriori investimenti non cambierebbero la situazione attuale».
Per i sindacati, il motivo reale è invece la decisione di delocalizzare la produzione dei semiassi per Stellantis nell’Europa dell’Est, dove costa meno. I lavoratori entrano quindi in presidio permanente, occupando lo stabilimento fiorentino: nasce il Collettivo di fabbrica dei lavoratori ex GKN . Intanto, i sindacati promuovono una vertenza per denunciare il mancato dialogo dell’azienda sui licenziamenti. A settembre 2021 il giudice del lavoro di Firenze condanna GKN per comportamento antisindacale. In parallelo, si aprono i tavoli di crisi presso il ministero dello Sviluppo economico (Mise) – oggi ministero delle Imprese e del Made in Italy (Mimit) – per trovare una soluzione al licenziamento collettivo. Soluzione che ad oggi ancora non si trova.
Chi possiede Melrose
Fra i principali azionisti di Melrose ci sono diversi hedge fund, fondi speculativi che puntano a massimizzare i rendimenti a prescindere dall’andamento dei mercati. Possiedono azioni Melrose due delle maggiori società di investimenti al mondo: le statunitensi BlackRock e Vanguard Group. Due giganti che, sommati insieme, gestiscono patrimoni per oltre 16 mila miliardi di dollari. Uno dei più antichi fondi d’investimento, Capital Group, possiede la maggioranza relativa delle azioni. Completano la lista dei maggiori azionisti un fondo più piccolo e di più recente costituzione come Select Equity, e Norges Bank, la banca centrale norvegese.
Fino a dicembre 2021, proprietaria dell’intera GKN è il fondo Melrose Industries Plc, che aveva acquistato il gruppo al prezzo di 8,1 miliardi di sterline nel 2018. Il fondo, di “mestiere”, incassa: il suo modello di business si basa sull’attrazione di investitori ai quali stacca dividendi ogni anno, a seguito di una strategia finanziaria di acquisizioni, ristrutturazioni o dismissioni. Il motto di Melrose è «compra migliora vendi». Un ciclo che, nel caso dello stabilimento di Campi Bisenzio, si è chiuso in tre anni, ma saltando la fase di miglioramento. Come ricostruisce Dario Salvetti, portavoce del Collettivo di fabbrica GKN, in un suo intervento alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, a Campi Bisenzio iniziano ad affluire macchinari per la produzione automatizzata, facendo calare la redditività dello stabilimento.
Chi possiede Melrose
«Quando arriva la crisi del Covid, questa valanga di macchinari, che stando fermi perdono valore e scaricano i propri ammortamenti sullo stabilimento, diventano ancora più devastanti», spiega Salvetti. Giovanni Dosi, Andrea Roventini e Maria Enrica Virgillito – tre docenti di economia della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa – in un articolo sulla rivista il Mulino hanno definito il modello di Melrose, già noto nel settore per precedenti simili, «chiusura e spezzatino»: le imprese vengono «spacchettate e date in pasto ai migliori offerenti». In venti anni di attività, è scritto sul sito di Melrose, i suoi azionisti hanno ricevuto oltre cinque miliardi e mezzo di sterline.
Nel bilancio 2021 di Melrose Industries Plc, lo stabilimento fiorentino è definito «insostenibile» – stessa definizione applicata in Gran Bretagna per quello di Erdington, nella periferia di Birmingham – nonostante nel 2017, prima dell’acquisizione, ci fossero già stati dei tentativi di riconversione. Se per la fabbrica inglese i lavoratori erano d’accordo nel procedere con la chiusura, a Firenze no, tanto è vero che nel bilancio si legge che il fondo inglese è riuscito «a garantire un futuro di reindustrializzazione del sito con un nuovo proprietario». Ecco perché il management dell’azienda insiste tanto sulla riconversione: è una parte del disegno di Melrose. La storia, in realtà, non è andata così e, a dispetto di quanto si legge nel bilancio, il destino dei lavoratori di Campi Bisenzio non sembra mai essere stato davvero sul piatto delle decisioni del fondo. La preoccupazione era invece proseguire nei progetti di «ristrutturazione», tra cui la «reindustrializzazione dell’impianto GKN Automotive di Firenze», in quanto queste operazioni possono contribuire fino al 4% del bonus incassato dai direttori del fondo.
Mentre Campi Bisenzio chiude, l’altro stabilimento italiano, quello di Brunico, in Valtellina, rimane aperto, perché l’intenzione è trasformarlo in un polo altamente tecnologico. Come analizzato da Fondazione Feltrinelli, nel quaderno Un piano per il futuro della fabbrica di Firenze, però, i dati non supportano la scelta di liquidare in particolare Campi Bisenzio, dato che anche altri stabilimenti, fra la cinquantina che compone il gruppo GKN Driveline nel mondo, vedono i loro margini di profitto, produttività e vendite diminuire a partire dal 2018.
La crisi del settore automotive
La vicenda di GKN va inserita in un processo di crisi più ampio, che non riguarda solo il settore della componentistica. Il destino del sito produttivo di Campi Bisenzio infatti, è legato all’intero comparto automotive, che comprende tutte le imprese coinvolte nella produzione di autoveicoli, dalla progettazione alla commercializzazione. La pandemia ha comportato l’accelerazione di tendenze pregresse, come i processi di delocalizzazione e digitalizzazione delle imprese, che hanno causato l’impoverimento tecnologico e reddituale di intere aree geografiche. Basti pensare che, nell’agosto 2021, un mese dopo il licenziamento collettivo dei dipendenti di Campi Bisenzio, risultavano in corso 87 tavoli di crisi aziendale presso il Mise.
Il ramo della componentistica dovrà affrontare anche un altro processo imminente: la transizione verso la mobilità elettrica. Con lo stop alla vendita dal 2035 di auto ICE, acronimo che indica tutte le auto a benzina, diesel, metano e GPL, l’Unione europea ha già intrapreso la strada dell’elettrificazione. La transizione, che coinvolgerà l’intera filiera automotive italiana, necessita quindi di una riconversione industriale che, al momento, contrasta con le prospettive occupazionali. Questo è dovuto anche al fatto che un’auto elettrica ha un quinto delle componenti mobili di un’auto a combustione interna, e quindi comporta un minor fabbisogno di manodopera, sia per la produzione che per la manutenzione. E il nostro Paese, forte di una lunga tradizione nell’industria del motore a scoppio, è fra i più esposti sul piano occupazionale.
Un consulente di chiara fama
Per uscire di scena, Melrose ha bisogno che la cessione dell’azienda si concluda. La controllata GKN incarica come «advisor specializzato di comprovata fama» Francesco Borgomeo, imprenditore fiorentino di nascita e laziale d’adozione con alle spalle già varie operazioni di riconversione industriale.
Borgomeo è diventato un volto pubblico quando nel 2018 ha partecipato all’edizione della Leopolda, il festival delle idee di Matteo Renzi, con un accorato discorso sulle potenzialità dell’«economia circolare». Aveva in mano un sanpietrino prodotto da un suo gruppo di aziende, Saxa Gres, con le ceneri dei termovalorizzatori. Saxa Gres, nel 2018, ha acquisito e riconvertito una fabbrica di sanitari di Ideal Standard, all’epoca a rischio chiusura (oggi Saxa Gres è in crisi a causa dell’aumento vertiginoso dei prezzi del gas). La sua presenza alla kermesse renziana si spiega dal fatto che per rendere possibili le sue operazioni, Borgomeo afferma di aver pescato a mani piene dai provvedimenti promossi da Matteo Renzi quando era primo ministro. Tra questi, il principale è il Jobs Act, per il quale a settembre 2018, un mese prima del discorso di Borgomeo, la Corte Costituzionale ha sancito l’incostituzionalità per quanto concerne l’indennità di licenziamento, ossia il provvedimento che voleva modificare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
«A me – diceva dal palco della Leopolda l’imprenditore – interessa quella gente che da decenni sa fare la ceramica perché c’è una cultura del saper fare che è un patrimonio straordinario». Belle parole che sembrano applicarsi perfettamente alla situazione della GKN, sostituendo a “ceramica” “giunti di trasmissione”. Dal 2020, Borgomeo è anche presidente di Unindustria Cassino, l’associazione regionale che appartiene al sistema Confindustria, con la quale continua a puntare sulla presenza del litio nella regione per trasformare l’area in un polo industriale dell’auto elettrica.
L’opacità dei tavoli di trattativa del governo
Online sono pubblicamente disponibili solo dei riassunti dei tavoli di crisi, che evidenziano le posizioni espresse di volta in volta dalle parti in causa. Questi riassunti, tuttavia, non vengono concordati con le parti stesse, ma vengono pubblicate dal Ministero. Inoltre, secondo il Ministero «non esistono […] trascrizioni integrali relativamente all’attività svolta», come comunicato ai giornalisti che hanno chiesto formalmente di accedere agli atti integrali. IrpiMedia è però venuta in possesso delle trascrizioni delle registrazioni complete degli incontri presso l’ex Mise effettuate da chi era presente.
Già da novembre 2021, Borgomeo «ha approntato un piano di reindustrializzazione sottoposto con positivi riscontri a potenziali investitori», scrive la dirigenza a Mise e Ministero del Lavoro. Per il governo significa chiudere la procedura di licenziamento collettivo e avviare la richiesta degli ammortizzatori sociali con la nuova proprietà. Il piano prevede, in una prima fase, che sia proprio Borgomeo il nuovo proprietario dell’azienda, per poi annunciare a gennaio 2022 gli investitori che prenderanno il suo posto e reindustrializzeranno la fabbrica. «Sarei un pazzo se non avessi almeno un candidato affidabile, ne ho due», dice durante il tavolo di crisi del dicembre 2021, secondo una trascrizione integrale di cui è venuta in possesso IrpiMedia.
Si è così ufficialmente chiusa l’era Melrose ed è iniziata quella di Borgomeo. Prezzo e clausole dell’operazione sono dati confidenziali, conosciuti solo da Invitalia, l’agenzia controllata dal ministero dell’Economia, chiamata a partecipare al tavolo di crisi come garante dell’interesse pubblico.
A mani vuote
La nuova GKN di Borgomeo assume il nome di QF Spa, acronimo che sta per “Quattro F”, ovvero Fiducia nel Futuro della Fabbrica a Firenze Spa. Con il sostegno del Presidente della Regione Toscana Eugenio Giani, il piano per far ripartire la produzione a Campi Bisenzio sembra procedere su premesse solide: cassa integrazione ordinaria da inizio del nuovo anno, non più due ma ben tre investitori disponibili ad entrare nella ormai ex GKN.
Alla fine di dicembre 2021 c’è molto ottimismo. In una presentazione riservata che Deloitte ha realizzato per QF Spa ci sono anche i profili dei tre potenziali compratori individuati da Borgomeo. Il primo è una «corporation italiana» che vorrebbe produrre a Campi Bisenzio dei macchinari per l’industria farmaceutica; il secondo è una società quotata in Italia, che realizza principalmente impianti fotovoltaici e che nell’ex GKN vorrebbe produrre gli inverter, ossia gli strumenti che consentono di regolare la velocità di un motore elettrico; il terzo è una holding finanziaria che è a caccia di opportunità di investimento in un’ottica che sembra simile a quella di Melrose. È sul primo dei tre che Borgomeo si sente di puntare: «Sono più avanti rispetto ad altri, e potremmo quindi garantire un closing (cioè la cessione, ndr) entro questa estate, forse anche prima».
Tuttavia, nel caso qualcosa andasse storto, l’imprenditore dichiara di essere disponibile a prendersi personalmente la responsabilità. «Se le operazioni non andranno in porto comunque io ci sarò», afferma Borgomeo. Una promessa che viene messa su carta bollata con la stipula, a gennaio del 2022, dell’accordo quadro con tutte le parti in causa: se al 31 agosto 2022 la fabbrica non verrà ceduta al nuovo investitore, sarà QF, cioè Francesco Borgomeo in prima persona, a farsene carico.
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Dalle trascrizioni integrali dei tavoli di negoziato, si comprende che – durante tutto il periodo delle negoziazioni – le preoccupazioni di Borgomeo sono principalmente due: «Trovare un accordo con le organizzazioni sindacali», ovvero mettere fine all’occupazione della fabbrica e «coinvolgere il pubblico», per quanto il progetto industriale debba comunque «stare in piedi da solo».
Già nella presentazione di Deloitte però, realizzata proprio per l’entrata in scena di Borgomeo, si legge che «il progetto dovrà avere la possibilità di accedere ai fondi europei del Pnrr, agli incentivi speciali destinati agli investimenti in settori strategici oltre ai “Contratti di sviluppo” locali», ossia degli altri fondi messi a disposizione dal Mise. «Per favorire l’investitore dobbiamo eliminare i simboli del passato», dichiara l’imprenditore durante uno dei primi tavoli. Anche in questo caso, il riferimento è all’occupazione della fabbrica e alle lotte sindacali per impedire il trasferimento della produzione. La tensione con il sindacato sarà anche la scusa accampata dall’imprenditore per decretare la fine di un progetto industriale mai nato.
I segni di cedimento del castello di carte si vedono da marzo 2022. Secondo il resoconto sintetico del tavolo di crisi, disponibile online, Borgomeo parla di «difficoltà a portare avanti il progetto a causa dell’inagibilità dello stabilimento». La fabbrica, in realtà, è perfettamente accessibile nonostante il presidio degli operai, come provano le numerose visite istituzionali e le attività di sorveglianza e manutenzione regolarmente svolte dai lavoratori su mandato della stessa azienda.
Durante lo stesso tavolo di crisi, Borgomeo presenta le linee guida del nuovo piano industriale: investimenti per 80 milioni di euro e «produzioni customizzate nel settore della mobilità elettrica, della propulsione elettrica e delle energie rinnovabili, all’interno delle linee strategiche del Pnrr». «Questa fabbrica avrà un cuore molto importante di ricerca e sviluppo – afferma l’imprenditore secondo le trascrizioni integrali. Lo dico con un pizzico di orgoglio, perché siamo riusciti a convincere i grandi player industriali».
Passano i mesi, e gli investitori, invece di farsi avanti, iniziano a tirarsi indietro prima ancora di annunciare pubblicamente il loro interesse. Borgomeo chiede altro tempo ma non presenta un dettagliato piano industriale, condizione fondamentale anche per attivare gli ammortizzatori sociali. Il 4 agosto al Ministero si svolge una riunione il cui resoconto non è stato pubblicato online. Sono presenti gli attori istituzionali, i sindacati, ma non l’azienda. Qualche giorno prima, infatti, la QF di Francesco Borgomeo aveva costituito il Consorzio Iris Lab, insieme ad altre imprese dell’automotive e dell’elettronica, per far ripartire l’ex GKN.
«Borgomeo o no, questa reindustrializzazione la vogliamo portare a casa. Non ci sono stati presentati a questo tavolo tecnico, poco male, li chiameremo noi», dichiara un dirigente del Mise presente al tavolo. Se le aziende del Consorzio non si presentano al tavolo di crisi è semplicemente perché non sono investitori. È un’operazione di propaganda, che serve a mascherare la mancata presentazione di chi finanzierà il rilancio della fabbrica. Infatti, è lo stesso Borgomeo a confermare che sarà solo QF, e non il Consorzio Iris Lab, a farsi carico della reindustrializzazione.
La costruzione di un’alternativa dal basso
A settembre 2022 la promessa di investimento autosufficiente e privato si è rapidamente trasformata in un progetto dipendente da soldi pubblici. «Al momento non ci sono investitori che entrano in QF», spiega Borgomeo durante un tavolo di crisi. Per questo «ho bisogno come QF di finanziamenti pubblici», aggiunge, parlando di «sostegno delle istituzioni nazionali e regionali, tra cui Invitalia».
Rispetto agli albori dell’operazione, l’investimento si è già ridotto da 80 a 50 milioni di euro. Di questi, la quota più rilevante, 15 milioni, dovrebbe versarla un investitore istituzionale, come Invitalia o Cassa depositi e prestiti. Sono dieci i milioni di «finanziamento soci e/o bancario» da trovare.
La stessa bozza di accordo con Invitalia è ancora a uno stadio embrionale: si accenna a un «prodotto di massima avanguardia, altamente customizzato», realizzato all’interno di uno stabilimento «completamente governabile da remoto e dotato di intelligenza artificiale». Persino la data di avvio del progetto è indicata con «31.12.XX». Nei fatti, però, il piano industriale non esiste. Lo afferma anche la Direzione provinciale dell’Inps di Firenze, che rigetta la richiesta di attivazione della cassa integrazione ordinaria, anticipata da gennaio 2022 dalla nuova proprietà di GKN per quasi 11 mesi. Scrive l’Inps che «la relazione tecnica è molto scarna e non illustra il reale andamento degli ordini e delle commesse». Rispetto alla capacità di ripresa della produzione, condizione essenziale per l’erogazione della cassa integrazione ordinaria, «le dichiarazioni aziendali sono molto vaghe e, nelle domande, è riportato testualmente: “ripresa attività prevista ma non certa”».
La parola fine la mette Borgomeo stesso, annunciando il 21 febbraio 2023 la messa in liquidazione di QF e certificando il fallimento della propria strategia imprenditoriale. Ai giornali racconta la propria frustrazione: «Tutti mi hanno trattato come un delinquente e invece io sono l’unico che ci ho (sic) messo i soldi», dice, accusando il Ministero per non aver preso in mano la situazione. Non la pensano così i lavoratori: «Più che gettare la spugna – scrivono i rappresentanti sindacali di GKN -, Borgomeo ha probabilmente gettato la maschera. Tutto quanto abbiamo sostenuto si è realizzato. Temiamo che come sempre la risposta delle istituzioni sarà debole o addirittura nulla». Intanto, i lavoratori spiegano dalla loro pagina Facebook, che «il liquidatore non sappiamo che faccia ha o che voce ha. Non paga gli stipendi, ferie, non consegna le buste paga, non agisce come sostituto di imposta, non consegna i Cud», mentre 200 decreti ingiuntivi sono stati accolti e sono iniziati i pignoramenti per ripagare i creditori.
Mentre Borgomeo si faceva avanti con il suo piano poi fallito, a marzo 2022, anche il Collettivo di fabbrica dei lavoratori ex GKN ha proposto la sua riconversione alternativa. Lo ha fatto grazie all’apporto del mondo accademico: in una conferenza stampa di fronte ai cancelli della fabbrica è stato presentato il «piano delle competenze solidali», a cura di docenti, ricercatori e ricercatrici dell’Istituto di economia della Scuola superiore Sant’Anna e del gruppo di ricerca solidale. È stato inviato alla proprietà e alle istituzioni che compongono il tavolo di trattativa già aperto da mesi presso il Mise.
Il piano prevede tre scenari: produzione di componenti meccanici per il trasporto pubblico locale verde, di componentistica per la filiera dell’idrogeno verde e impianti fotovoltaici o, infine, sistemi di robotica. I vari scenari sono tutti contraddistinti dal ruolo di Invitalia come garante dell’interesse pubblico. Il Collettivo ha lanciato un crowdfunding per lavorare “senza padroni” che scadrà l’8 maggio (hanno raccolto circa 120 mila euro per ora).
Nè Francesco Borgomeo, nè GKN hanno risposto alle richieste di commento di IrpiMedia.
Foto: Lo stabilimento della GKN Driveline Firenze Spa a Campi Bisenzio – Edoardo Anziano
Infografiche: Edoardo Anziano
Editing: Lorenzo Bagnoli
Ha collaborato: Carlotta Indiano