Pirateria: il business dei rapimenti che sostiene l’economia nel Delta del Niger

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Pirateria: il business dei rapimenti che sostiene l’economia nel Delta del Niger

Lorenzo Bagnoli

Il porto di Lagos, il più vicino, dista 230 miglia nautiche, circa 426 chilometri. Da giugno, la Curacao Trader, petroliera gestita dalla compagnia greca Alison Management Corp, si spinge a quelle latitudini con una certa frequenza: fa la spola tra i porti di Lomé e Cotonou (in Togo e Benin) e le zone intorno alle piattaforme petrolifere antistanti la Guinea Equatoriale e il Congo Brazzaville. Sono mari agitati: dall’inizio del 2020 circa il 90% dei rapimenti degli equipaggi marittimi è avvenuto qui, a largo del Golfo di Guinea, soprattutto nelle acque antistanti la Nigeria. Il 17 luglio è toccato anche all’equipaggio della Curacao Trader.

Per dare l’idea della portata del fenomeno della pirateria nel Golfo di Guinea, l’International Maritime Bureau, il dipartimento marittimo della Camera di Commercio internazionale, già a gennaio riportava nel suo report del 2019 un «incremento senza precedenti» dei rapimenti, che si è confermato nel primo semestre del 2020.

Sono le 11 del mattino in Nigeria. Sembra una giornata qualunque. Poi, d’improvviso, sbucano dall’orizzonte pirati non meglio identificati e abbordano la Curacao Trader. Non si hanno i particolari di come si è svolta l’azione. Si sa però che è l’arrembaggio più distante dalle coste mai registrato nel Golfo di Guinea, un segno tangibile di come il paradigma dei pirati del Golfo si sia evoluto: da pirati della foce del fiume, a pirati in acque profonde.

I criminali rapiscono 13 dei 19 membri dell’equipaggio, di cui sette russi e cinque ucraini. Lasciano che gli altri marinai portino l’imbarcazione al porto di Cotonou, dove è ancorata dal 19 luglio. Il giorno seguente, durante una conferenza stampa, la portavoce del ministro degli Esteri russo Maria Zakharova spiega che i rapitori «non hanno presentato ancora alcuna richiesta». Da allora non si hanno più loro notizie.

La distesa d’acqua che nessuno può sorvegliare

Disavventure come quella vissuta dall’equipaggio della Curacao Trader sono avvenute almeno 36 volte tra gennaio e luglio nell’enorme specchio d’acqua del Golfo di Guinea. L’area copre oltre seimila chilometri di costa, dalla Liberia fino all’Angola. È un’enorme frontiera, oggetto di dispute territoriali tra i Paesi africani e di accordi internazionali rimasti, in buona parte, lettera morta. In tutto il mondo oggi l’Africa occidentale «è l’unica regione dove si assiste a vere e proprie azioni di pirateria tradizionale», spiega a IrpiMedia Munro Anderson, partner di Dryad Global, agenzia di consulenza per la sicurezza marittima.

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Se nella prima decade degli anni Duemila era la Somalia il punto focale della pirateria, oggi si è spostato nel Golfo di Guinea. «Un’enorme distesa d’acqua che nessun Paese della regione è in grado di sorvegliare con successo», lo definisce Florentina Adenike Ukonga, ambasciatrice nigeriana e segretaria generale della Commissione Golfo di Guinea, istituzione a cui appartengono otto Paesi della regione. La Nigeria guida l’iniziativa diplomatica, in qualità del suo ruolo di potenza regionale. Coordina operazioni di pattugliamento congiunte, ma dispone ugualmente di una flotta insufficiente per coprire un territorio tanto vasto. L’Italia è tra i Paesi che assistono le marine militari africane nel pattugliamento del Golfo di Guinea.

La missione, prorogata con il Decreto Missioni di giugno, prevede la presenza di fino a 400 militari in unità aeronavali per «attività di presenza, sorveglianza e sicurezza nel Golfo di Guinea». L’Italia dispone anche di due mezzi navali e due mezzi aerei e l’operazione costa 9,8 milioni di euro per il 2020. Tra gli scopi della missione, in cima alla lista c’è «proteggere gli asset estrattivi di Eni (piattaforme petrolifere che si trovano in particolare a largo di Nigeria e Ghana, ndr), operando in acque internazionali». Il 27 marzo la nave Rizzo, la fregata al momento in navigazione nelle acque del Golfo di Guinea, è intervenuta per evitare un abbordaggio.

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La pirateria nel diritto internazionale
Il termine pirateria è definito dall’articolo 101 della Convenzione Unclos delle Nazioni Unite, trattato internazionale che definisce le responsabilità degli Stati nella gestione dei mari e degli oceani. Parafrasando l’articolo, un atto di pirateria è un atto di violenza rivolta verso equipaggi e imbarcazioni «fuori dalle acque territoriali». Questa caratteristica differenzia la pirateria dalle «rapine a mano armata», che invece avvengono all’interno delle 12 miglia nautiche, che sono per convenzione ancora giurisdizione di uno Stato rivierasco. Questa distinzione esiste perché nelle acque internazionali non c’è nessuno che ha una vera e propria giurisdizione: tutti possono perseguire un atto fuorilegge, il che significa il più delle volte che nessuno si prende la responsabilità di farlo. Secondo quanto riporta Dryad Global, l’aver esasperato l’attenzione sulle «rapine a mano armata» in mare, piuttosto che sulla pirateria in senso più ampio ha contribuito a una generale sottostima del fenomeno nel Golfo di Guinea. Dryad Global infatti sottolinea come nel 2020 la metà degli attacchi dei pirati sia avvenuta oltre le 12 miglia delle acque territoriali. Sul conteggio e sulla metodologia della raccolta dati per raccogliere eventi di pirateria, ci sono diversi punti di vista tra le società che si occupano di consulenza.

«Non c’è un coordinamento regionale, mancano le forze di polizia per i pattugliamenti. La Nigeria è riluttante ad aprirsi alla cooperazione, anche con il privato: una tipica situazione da burocrazia africana».

Munro Anderson

Dryad Global

Nonostante gli sforzi, tuttavia, dal 2019 ci sono stati nove attacchi a imbarcazioni scortate, l’ultimo dei quali, a gennaio 2020, si è concluso con il rapimento dell’equipaggio.
Nonostante le intenzioni, quindi, la situazione resta molto complicata: «Non c’è un coordinamento regionale, mancano le forze di polizia per i pattugliamenti. La Nigeria è riluttante ad aprirsi alla cooperazione, anche con il privato: una tipica situazione da burocrazia africana», commenta Munro Anderson.

Seppur non solcate con la stessa frequenza dei mari del Sud-Est asiatico, le acque africane rimangono comunque un crocevia internazionale. La stessa Nigeria, il Congo Brazzaville, l’Angola, la Guinea Equatoriale sono infatti Paesi produttori di petrolio. E nel Golfo di Guinea ci sono piattaforme petrolifere sulle quali operano tutte le principali aziende mondiali del settore. La Cyprus Shipping Chamber (Csc), la camera di commercio dell’industria marittima di Cipro, a maggio si è espressa con un comunicato per chiedere che venisse presa seriamente la questione della pirateria nel Golfo di Nigeria: «C’è la crescente preoccupazione – si legge nella nota – che la comunità internazionale non stia attivamente cercando di eliminare la pirateria nella regione e stia invece trattando il problema degli attacchi attuali all’industria marittima come in qualche modo tollerabili». Tra il 2015 e il 2017 l’agenzia Onu Unodc stima per l’Africa occidentale una perdita complessiva di 777 milioni di dollari all’anno a causa della pirateria. Con la crisi economica che sta attanagliando l’industria petrolifera provocata dall’emergenza Covid, il danno potrebbe avere conseguenze ancora più dure nel 2020.

L’economia del Delta dipende dai rapimenti

L’attività principale dei pirati del Golfo di Guinea è il sequestro di persona. Casi come quello della Curacao Trader dimostrano tuttavia quanto abbia perso di interesse il controllo delle petroliere: per i pirati è più semplice ottenere un riscatto anziché costituire delle organizzazioni dedite al contrabbando di petrolio. Secondo i dati raccolti da Dryad Global, da gennaio a luglio 2020 i marinai rapiti sono stati 91, contro i 177 dell’intero 2019 e i 156 dell’intero 2018. Il tempo medio di prigionia è di 56 giorni. L’equipaggio rapito è sempre di provenienza straniera, «asiatici e indiani, soprattutto», precisa Anderson. «I numeri dimostrano il fallimento della messa in sicurezza dell’area e l’incremento del valore dei rapimenti per riscattii come componente economica importante in parti del Delta del Niger», analizza il ricercatore.

Secondo quanto osservato da Dryad Global a partire dal 2017, le zone dove avvengono con maggiore frequenza gli attacchi dei pirati si sono progressivamente spostate al largo. Inizialmente erano minori in termini di ampiezza, fatta eccezione per la foce del Niger, zona ampia e saldamente sotto il controllo dei criminali. Oggi, però, paradossalmente gli attacchi avvengono con maggiore frequenza nelle zone intorno all’arcipelago di Sao Tomé e Principe, oppure intorno al porto di Cotonou o alle principali piattaforme petrolifere offshore, distanti decine di miglia dalla costa. Questo dato di fatto è frutto di due circostanze, aggiunge Anderson: da un lato, la Marina nigeriana ha aumentato la sua capacità di intervenire nelle acque del Delta del Niger (tanto è vero che si sono ridotte le rapine alle navi ormeggiate); dall’altro, i pirati hanno aumentato il loro raggio d’azione, sconfinano oltre la Nigeria, mantenendo ugualmente la stessa impunità.

Da gennaio a luglio 2020 i marinai rapiti sono stati 91, contro i 177 dell’intero 2019 e i 156 dell’intero 2018

Chi sono i pirati

I pirati che operano nel Golfo di Guinea sono nella quasi totalità nigeriani. Il Delta del Niger è la storica area dove trovano protezione e dove si nascondono. La regione è il corrispettivo nigeriano delle catene montuose sarde per l’Anonima sequestri oppure dell’Aspromonte per la ‘ndrangheta degli anni Settanta: ambienti ostili, remoti, che conoscono in pochi, dove lo Stato centrale non riesce a intervenire. È qui, in mezzo a queste paludi, dove si concentrano gli investimenti delle grandi multinazionali energetiche straniere, a partire dagli anni Sessanta, dagli oleodotti fino alle prime esplorazioni.

Quelle dei pirati «sono organizzazioni gerarchiche, guidate da individui verso i quali gli altri hanno grande stima», aggiunge Munro Anderson. Inutile però cercare di mapparli: le organizzazioni si creano e si disfano velocemente, a volte hanno un nome con il quale si identificano, altre solo la bandiera – spesso, con scarsa fantasia, rappresentante un teschio bianco su sfondo nero – che sventola a poppa delle loro imbarcazioni.

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Accanto alle realtà dei gruppi di pirati esistono sigle storiche che vengono definite in Nigeria militant group, ossia “miliziani”. Spesso sono gruppi armati che hanno accettato il processo di demilitarizzazione cominciato nel 2009 ma che mantengono un importante controllo del territorio, sia a terra, sia in mare. Le organizzazioni dei pirati e dei militanti non vanno tuttavia confuse: per quanto spesso abbiano obiettivi simili, non vanno sovrapposte.

Ci sono poi casi di organizzazioni che danno anche pubblicità alle loro azioni di pirateria. Come i Niger Delta Avengers, i quali nel 2018, dal proprio sito, lanciavano una campagna per distruggere le unità navali di stoccaggio del gas (Fpso) del Delta. Le Fpso sono obiettivi tuttora sensibili degli attacchi dei pirati, come dimostra l’attacco coordinato di due motoscafi veloci avvenuto il 3 ottobre alla Sendje Berge, imbarcazione che lavora per la compagnia petrolifera asiatica Addax Petroleum a un giacimento identificato dalla licenza Oml 126. L’esito, riporta Dryad Global, sarebbe il rapimento di 11 persone a scopo di estorsione. La Coalizione degli agitatori del Delta del Niger (Cnda), un’organizzazione-ombrello che racchiude alcune delle sigle storiche della lotta armata nella regione, aveva dichiarato l’intenzione di colpire gli impianti petroliferi.

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Autori

Lorenzo Bagnoli

Editing

Luca Rinaldi

Infografiche

Lorenzo Bodrero