Scandalo Predator: il mercato intra-europeo della sorveglianza è un buco nero

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Scandalo Predator: il mercato intra-europeo della sorveglianza è un buco nero

Lorenzo Bagnoli
Riccardo Coluccini

Giornalisti, ministri, editori, imprenditori: ci sono tutti nel Watergate di Atene. È così che i media greci chiamano lo scandalo sulle intercettazioni illegali che coinvolge direttamente il governo di Nea Dimokratia, il partito di centrodestra del primo ministro Kyriakos Mitsotakis, e che proprio nel Paese ellenico sono vietate dalla leggeL’ultimo colpo al governo è stato assestato il 6 novembre, quando il giornale Documento, vicino al partito di opposizione Syriza, ha pubblicato una lista di 33 nomi di chi è finito intercettato da Predator, un software spia simile al più noto Pegasus di origine israeliana, di cui IrpiMedia ha già scritto. Il primo ministro di Nea Demokratia, il partito di liberal-conservatore al governo, avrebbe autorizzato l’operazione condotta dai servizi segreti greci (Eyp) allo scopo di raccogliere informazioni per compilare dossier su avversari, uomini di potere e persino membri del suo stesso governo. La posizione ufficiale è che l’esecutivo non ha nulla a che fare con l’operazione, ma le connessioni tra gli imprenditori coinvolti nell’affaire Predator e il governo sono sempre più circostanziate.

Lo scandalo è deflagrato lo scorso gennaio in Grecia, quando alcuni giornalisti locali – tra cui i colleghi del consorzio giornalistico di Reporters United – hanno cominciato a pubblicare informazioni in merito alle vittime dello spionaggio e alla rete di imprenditori che ha portato questa tecnologia ad Atene. In particolare uno degli articoli riporta i legami tra uno dei proprietari delle società coinvolte nello scandalo e la politica. Per tutta risposta, gli autori sono stati oggetto di querele definite da Reporter senza frontiere puramente intimidatorie. 

L’ombra del Watergate greco si allunga in Europa

Il software spia in questione, Predator, è sviluppato dall’azienda Cytrox, sede originaria nella Macedonia del Nord e ora parte del gruppo Intellexa Alliance: un conglomerato con sede in Grecia e guidato da Tal Dilian, un ex membro dell’intelligence israeliana che vanta però la cittadinanza maltese, acquisita attraverso uno schema di vendita dei passaporti. La joint venture da lui guidata è presente in Grecia, Cipro, Irlanda, Francia e Ungheria. Ma se è Cytrox a produrre Predator, l’azienda che ha fornito il software allo Stato si chiama Krikel. Secondo quanto rivelato dal giornale greco Inside Story, per quanto sulla carta siano entità differenti, Krikel e Intellexa sono riconducibili sempre agli stessi uomini d’affari greci molto vicini al governo.

Lo scandalo greco è oggetto dell’attenzione della Commissione d’inchiesta Pega del Parlamento europeo. Quest’ultima è stata costituita nel 2022 per raccogliere informazioni sui sistemi di sorveglianza che violano la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. È scaturita dalle rivelazioni del Pegasus Project, inchiesta giornalistica guidata da Forbidden Stories che ha fatto emergere casi di abuso dello spyware Pegasus in Polonia, Ungheria e altri Paesi europei. Quegli abusi hanno però portato a comprendere che il problema è molto più ampio del singolo spyware.

Proprio di recente, alcuni membri della Commissione sono stati in Grecia per approfondire gli effetti della campagna di spionaggio. Secondo le ricerche della Commissione Pega non è tuttavia possibile stabilire nemmeno nei documenti ufficiali chi sia il titolare effettivo dell’azienda, a conferma dell’opacità dell’intera operazione. Krikel ha ottenuto sei contratti con il ministero della Protezione dei cittadini – che ha competenze su lotta alla criminalità, pubblica sicurezza e gestione delle situazioni di emergenza – per gestire la manutenzione di un sistema di comunicazione radio della polizia greca, tecnologie di contro-sorveglianza e altri due sistemi di radio portatili. Sei contratti che l’hanno trasformata da una società con un bilancio a zero nel 2017, a incassare, solo con l’ultima gara, 7,4 milioni di euro nel 2021. Quello stesso anno i servizi segreti ellenici hanno acquistato attraverso Krikel un sistema di intercettazione dell’azienda italiana Rcs Lab, di cui Krikel è rivenditore autorizzato in Grecia. Rcs è stata da poco acquisita dal gruppo Cy4gate, azienda italiana che si pone nel mercato come concorrente dell’israeliana Nso, ovvero la società che sviluppa Pegasus.

«La Grecia è un Paese dove, nel 2021, un solo pubblico ministero che si occupa dell’attività dell’intelligence nazionale ha firmato 15.975 autorizzazioni per le intercettazioni, giustificate da motivi di sicurezza nazionale», ha spiegato alla Commissione d’inchiesta sugli spyware del Parlamento Europeo Thanasis Koukakis, uno dei primi giornalisti finiti nel mirino di Predator. 

Koukakis è un giornalista investigativo specializzato nel settore finanziario. Ad aprile 2022 scopre di essere stato infettato con uno spyware dal 12 luglio al 24 settembre 2021, ma il suo cellulare era già stato posto sotto intercettazione anche nel 2020 per alcuni mesi. Da lì lo scandalo si allarga a macchia d’olio, fino a coinvolgere, stando al report della Commissione Pega, almeno 33 persone. «Giornalisti critici e pubblici ufficiali che combattono contro frodi e corruzione affrontano intimidazioni e ostacoli e non c’è alcuna protezione per i whistleblower», si legge nella versione di bozza, ancora non approvata, del report circolato dopo una conferenza stampa della rapporteur, l’europarlamentare olandese Sophie in ‘t Veld. «Il commercio degli spyware beneficia dal mercato interno e dal libero commercio – prosegue il testo -. Certi Paesi membri sono attrattivi come poli di esportazione dal momento che, nonostante la reputazione dell’Unione europea di essere un regolatore molto rigido, l’applicazione effettiva di tali regole sia debole»

Finora le critiche alle esportazioni dei sistemi di sorveglianza erano legate al fatto che i Paesi destinatari fossero regimi totalitari o repressivi. Invece il caso Predator in Grecia mostra tutte le falle che esistono anche all’interno dell’Unione. A queste fragilità che già esistono da tempo, si aggiunge il fatto che il nuovo regolamento sul controllo dei beni a duplice uso (cioè utilizzabili sia in campo civile che in campo militare) non monitora però il mercato intra-europeo. La maggiore trasparenza resta solo una promessa e di fatto gli Stati membri mantengono un’ampia discrezionalità sulle informazioni che rilasciano riguardo i Paesi verso cui sono esportati i prodotti di sorveglianza.

Tal Dilian, l’ex militare dietro l’“Alleanza”

Le attività di Predator sono note da quasi un anno. A dicembre 2021 i ricercatori del Citizen Lab, un laboratorio interdisciplinare dell’Università di Toronto, hanno segnalato pubblicamente l’esistenza di uno spyware passato fino ad allora inosservato. Analizzandolo i ricercatori hanno scoperto che si chiama Predator e che è prodotto da Cytrox, fino a questo momento sconosciuta. La struttura societaria è labirintica: Cytrox ha iniziato come start-up in Macedonia del Nord ma non sembrano esserci tracce nel registro delle aziende locali, mentre sembra invece registrata in Israele e Ungheria.

Dall’analisi di Citizen Lab emerge la presenza di server – con i quali lo spyware comunica – proprio in Grecia. La conferma arriva anche da un secondo report, pubblicato questa volta dall’azienda statunitense Meta (proprietaria di Facebook e Whatsapp) sempre a dicembre 2021, in cui è indicato un elenco di indirizzi web dai quali, semplicemente con un click, un utente potrebbe consapevolmente “contrarre” l’infezione di Predator sul proprio dispositivo. È questa peraltro la metodologia con la quale comunemente si introduce un malware all’interno del dispositivo di un bersaglio, che viene indotto a cliccare per errore su un indirizzo malevolo. Tra quelli individuati da Meta ne ricorrono alcuni che riprendono i siti delle testate greche Kathimerini e Inside Story: kathimerini[.]news e insider[.]gr[.]com. Meta ha rimosso circa 300 account presenti su Facebook e Instagram collegati a Cytrox e ha sottolineato chiaramente come tra i vari clienti ci sia anche la Grecia.

Come detto, Cytrox fa parte del gruppo Intellexa Alliance – insieme a Nexa Technologies, WiSpear e Senpai Technologies. Intellexa fa la sua prima apparizione pubblica nel 2019, riporta la testata Gizmodo, quando viene presentata alla fiera Idex di Abu Dhabi, evento in cui aziende del settore mostrano i propri prodotti in cerca di nuovi potenziali clienti. Intellexa viene descritta dal fondatore Tal Dilian come un’attività multiservizi che offre una vasta gamma di prodotti per hackerare un obiettivo: dallo sfruttamento di vulnerabilità della rete Wi-Fi fino all’uso di captatori informatici. Certamente una materia che mastica bene Dilian, che nel suo curriculum vanta di essere stato a capo dell’unità 81 dell’esercito israeliano che rappresenta la risposta alla National security agency (Nsa) americana ed è incaricata quindi di intercettazioni.  

Prima di Intellexa, una volta congedato, Dilian crea la Circles, compagnia che nel 2014 finisce sotto l’ombrello di Nso. Circles offriva la possibilità di sfruttare le vulnerabilità della rete telefonica per localizzare una persona in qualsiasi parte del mondo. Persino l’italiana Hacking Team entra in contatto con Circles, come rivelano delle email pubblicate pochi anni dopo da WikiLeaks. Dilian avrebbe incontrato un manager di Hacking Team nel 2013 a Monaco per parlare delle attività tra le due aziende.

Al vertice di Intellexa c’è una holding con sede nelle Isole Vergini Britanniche, Aliada Group Inc, controllata al 32% da un fondo d’investimento israeliano. Aliada è nominata in un caso giudiziario in Israele che risale al giugno 2016 e in cui la società è descritta come «un gruppo di aziende di cyber armamenti prodotti a marchio Intellexa»

Le società collegate a Intellexa

Le capacità di Intellexa sono frutto di una partnership tra diverse aziende, ognuna esperta in un campo specifico. Alcune di queste sono già state coinvolte in operazioni sospette. C’è ad esempio Nexa Technologies/Amesys, società di diritto francese che ha venduto tecnologie di sorveglianza al dittatore libico Muammar Gheddafi nel 2007 e al presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi nel 2014. Il 16 e 17 giugno 2021 quattro suoi dirigenti sono stati accusati dalla Corte di Giustizia di Parigi di essere complici di episodi di tortura e sparizioni forzate in Libia nel 2013 e di sparizioni forzate in Egitto.

Un’altra è la WiSpear – oggi Passitora Ltd – che offre la possibilità di intercettare il traffico delle reti wifi, secondo quanto riportato in una recente inchiesta della testata israeliana Haaretz in collaborazione con la testata greca Inside Story basata su un documento di presentazione dei prodotti del gruppo Intellexa. Proprio WiSpear aveva messo nei guai lo stesso Dilian: a novembre 2021 l’azienda ha ricevuto una sanzione di oltre 900 mila euro per aver raccolto illegalmente dati di identificazione di computer e smartphone che passavano nei pressi dell’aeroporto di Larnaca, a Cipro. Per farlo WiSpear avrebbe usato un furgone equipaggiato con i vari prodotti offerti dall’azienda e che erano persino stati mostrati in una rara intervista rilasciata a Forbes. Dilian è stato inizialmente arrestato ma successivamente rilasciato dopo che il procuratore ha ritirato le accuse nei suoi confronti e di altre due persone legate all’azienda. La Corte Penale di Larnaca ha però inflitto una sanzione di 76 mila euro all’azienda.

E infine c’è Cytrox, che si occupa di estrarre i dati dai dispositivi dei bersagli grazie al suo spyware. Originariamente, nell’intervista a Gizmodo, Tal Dilian ha dichiarato che ci sarebbero altri cinque partner che non sono pubblici. Sempre secondo la presentazione visionata da Haaretz, una quarta azienda cipriota è Poltrex. Non è chiaro quali prodotti offra ma IrpiMedia ha potuto individuare su LinkedIn almeno un suo ex dipendente che subito prima di passare a Poltrex ha lavorato anche per Nso.

Nel 2022 siti e account Twitter specializzati hanno condiviso i documenti relativi a un accordo tra Intellexa e un governo di cui non si conosce l’identità. Secondo Haaretz si tratta di una delle componenti di un pacchetto composto di tre parti: la prima è il sistema di hackeraggio in grado di colpire fino a dieci obiettivi in contemporanea; la seconda è un software, Nova Platform, capace di mettere insieme i dati raccolti con l’attività di spionaggio; la terza – continua Haaretz – prevede la vendita di servizi di supporto e gestione del progetto (fino ad arrivare a fornire supporto tecnico, operativo e metodologico), servizio che secondo la legge israeliana non potrebbe essere venduto. Possono mettere sul mercato tecnologie, infatti, e non servizi. Il pacchetto completo sarebbe ceduto al prezzo di 8 milioni di dollari. 

A luglio 2022 Sophie in ‘t Veld invia per conto di Pega una lettera all’amministratore di Intellexa, chiedendo informazioni sulla struttura societaria e su quale sia precisamente il contesto giuridico al quale è sottoposta. Un portavoce dell’europarlamentare ha confermato a IrpiMedia che al momento non è stata ricevuta alcuna risposta. Nel frattempo si apprende che Europol ha chiesto a cinque Paesi europei se siano state aperte altre indagini sui software Pegasus e Predator.

Il mercato intra-europeo è un colabrodo

Non è la prima volta che un’azienda di sorveglianza straniera riesce a entrare nel mercato europeo direttamente dalla porta d’ingresso nonostante le regolamentazioni esistenti. Intellexa, infatti, è un’alleanza israeliana ma sfrutta le sedi a Cipro e in Grecia, grazie alle sue affiliate, per mettere un piede in Europa. Così come l’israeliana Nso, la quale conta su aziende collegate con sede nei Paesi dell’Unione europea. Una delle chiavi d’accesso al mercato europeo per Nso era proprio la stessa Circles fondata da Dilian.

Nelle mail rubate ad Hacking Team e pubblicate da Wikileaks appare anche un’allora piccola start-up che dichiara di offrire servizi simili a quelli di Circles e che, proprio su modello dell’azienda di Dilian, sta valutando dove aprire la propria sede. Si legge nella mail: «Circles e altri aprono in Paesi come la Bulgaria anche se i fondatori non vengono dalla Bulgaria in modo che l’approvazione delle vendite ai governi sia più facile da un punto di vista dei regolamenti». In altri termini, sfruttando il fatto che la Bulgaria si trova nell’Unione europea: quando l’export di tecnologie di sorveglianza riguarda Paesi intra-Ue infatti il regolamento prevede il rilascio di autorizzazioni solo per specifici prodotti in larga parte non legati a tecnologie di sorveglianza digitale.

Nel 2019 le autorità bulgare, insieme a quelle cipriote, hanno negato di aver concesso licenze di export a Nso, dopo aver ricevuto una richiesta di chiarimenti da parte dell’associazione per i diritti digitali Access Now. Gli uffici di Nso a Cipro usati da Circles sarebbero stati chiusi nel 2020, secondo quanto riportato da Vice che ha parlato con due ex dipendenti. 

In un’audizione, Nso ha spiegato alla Commissione Pega che dodici Paesi Ue utilizzano in totale 15 sistemi Pegasus (la lista è ancora incompleta). Due Paesi europei sono stati in precedenza clienti di Nso ma i loro contratti sono poi stati terminati, presumibilmente per aver abusato dello spyware. Eppure in un’intervista di luglio 2021 l’allora amministratore delegato di Nso, Shalev Hulio, aveva dichiarato che la maggior parte dei 45 clienti dell’azienda proveniva proprio dall’Europa.

Non è chiaro se le vendite di queste tecnologie siano state autorizzate dal governo israeliano, responsabile del monitoraggio di Nso, o se invece la vendita sia partita dagli altri Paesi europei. Nel secondo caso, infatti, non ci sarebbe alcun bisogno di passare attraverso l’approvazione delle autorità governative.

Ad approfittare delle falle nel sistema intra-europeo è anche un’azienda Italiana, Rcs Lab, tra i fornitori storici ufficialmente di sistemi per le intercettazioni, secondo una recente inchiesta di Lighthouse Reports e IrpiMedia anche per la geolocalizzazione da remoto che sfruttano le vulnerabilità della rete telefonica e spyware. 

La Grecia è uno dei mercati dove Rcs Lab si è espansa. Secondo la testata greca Inside Story, la società italiana si sarebbe aggiudicata un appalto del valore di 6,2 milioni di euro che avrebbe dovuto garantire il monitoraggio del traffico voce e dati di 1.100 dispositivi mobili e di 500 linee fisse. Queste specifiche sembrano essere in linea con le descrizioni di Mito, un centro di monitoraggio in grado di mettere insieme e analizzare dati provenienti da fonti diverse, si legge nella brochure del prodotto che Lighthouse Reports ha condiviso con IrpiMedia: registrazioni audio di conversazioni e telefonate, traffico internet, dati dai social network, email, chat, e dati estratti dai dispositivi. Rcs ha precisato via mail che «il sistema “Predator” non è mai stato integrato nella piattaforma Mito, né tantomeno Rcs Lab ha mai avuto esperienze dirette o alcuna conoscenza di tale sistema».

Rcs Lab offre però anche tecnologie per la raccolta diretta dei dati. In un’altra brochure, infatti, l’azienda spiega di avere a sua disposizione sonde per le intercettazioni di traffico telefonico e internet in grado di supportare la sorveglianza di «centinaia di obiettivi simultaneamente». Queste sonde permettono di catturare il classico traffico telefonico oltre al traffico internet. C’è anche la possibilità di raccogliere in maniera massiva i dati di traffico internet e estrarre i metadati per distinguere, ad esempio, tra il traffico generato da applicazioni come WhatsApp, Messenger, Twitter, Skype, o Telegram. 

Rcs non ha fornito risposte o chiarimenti in merito a eventuali legami con l’azienda Krikel e ha sottolineato che le esportazioni dei suoi prodotti «possono avvenire esclusivamente a favore di quei Paesi verso i quali le competenti autorità nazionali forniscono regolare autorizzazione all’esportazione».

Il Ministero degli Esteri italiano ha però dichiarato a IrpiMedia che «l’esportazione di materiali duali intra-UE è libera (a eccezione del settore nucleare), e perciò non è soggetta a licenza da parte della Uama». L’Uama è l’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento che si occupa del controllo dei beni a duplice uso. La mancanza di trasparenza nelle vendite all’interno dell’Unione europea non è un caso isolato: la carenza di informazioni si riscontra anche sul numero complessivo di autorizzazioni concesse per l’export e sui Paesi di destinazione. Una richiesta di accesso civico generalizzato inviata da IrpiMedia è stata respinta perché un vecchio decreto esclude dall’accesso agli atti l’attività svolta dalla divisione Uama. Il diniego viene ribadito anche nella risposta alla richiesta di riesame presentata da IrpiMedia: non solo i motivi legati alla «sicurezza, alla difesa nazionale, all’esercizio della sovranità nazionale ed alla continuità e alla correttezza delle relazioni internazionali» ne impediscono la diffusione, ma anche perché, secondo il ministero, il nuovo regolamento europeo approvato a settembre 2021 sull’export delle tecnologie a duplice uso sottrarrebbe la sfera di autonomia degli Stati membri in materia a favore dell’Unione europea: il ministero invia i propri dati statistici alla Commissione che li elabora in un report annuale.

Sempre secondo il ministero, la stessa competenza comunitaria sarebbe provata dal fatto che l’Uama non presenta una relazione pubblica al Parlamento italiano, come invece accade per i materiali d’armamento classici. I beni dual-use, come quindi le tecnologie per la sorveglianza, sono considerati ben più riservati di un jet militare. Inoltre, si legge nelle conclusioni della risposta del ministero, che l’esistenza di un report prodotto dalla Commissione europea deve essere considerata sufficiente e scongiurare ogni ipotesi di “buchi neri” della trasparenza in questo settore.

La trasparenza mancata nel nuovo regolamento sull’export

A settembre 2022 la Commissione europea ha presentato un report al Parlamento comunitario riassumendo le attività svolte per quanto riguardo l’attuazione dei controlli sulle esportazioni dell’Ue per i prodotti a duplice uso nel 2021, inclusi alcuni dati aggregati sulle licenze concesse nel 2020.

Con l’aggiornamento al regolamento europeo che disciplina l’esportazione di tali prodotti, entrato in vigore a settembre 2021, l’Ue ha cercato di correre ai ripari introducendo maggiori obblighi sulla trasparenza dei singoli Stati membri per quanto riguarda le licenze di export concesse. Inoltre sono state incluse categorie più ampie come ad esempio le tecnologie per la cyber-sorveglianza e tecnologie biometriche.

Il nuovo regolamento ha introdotto anche un gruppo di coordinamento (Ducg) presieduto da un rappresentante della Commissione e uno per ogni Stato membro con lo scopo di monitorare l’applicazione delle regole per gli export. Il Ducg, si legge nel report di settembre, ha raccolto informazioni dagli Stati europei sulle tecnologie di cyber-sorveglianza esportate nel 2020. I dati mostrano un drastico calo delle licenze di autorizzazione: si passa dalle quasi 200 concesse nel 2017 fino alle 39 del 2020. Sempre nel 2020, si legge nel report, 32 autorizzazioni sono state rifiutate. I dati, purtroppo, sono aggregati e non sono divisi per ciascun Paese europeo, inoltre mancano all’appello anche informazioni sui Paesi di destinazione.

Licenze concesse

Il numero di licenze sulle tecnologie di cyber sorveglianza concesse in Europa dal 2014 al 2020

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I dati riguardano tre categorie di tecnologie specifiche: sistemi per le intercettazioni di telecomunicazioni, sistemi per il monitoraggio della rete internet e sistemi di spionaggio digitale (i cosiddetti spyware). I primi sono sempre in testa nelle esportazioni e sono anche quelli più comuni: si tratta dei classici sistemi per le intercettazioni telefoniche comunemente impiegati dalle forze dell’ordine nei nostri Paesi.

Malgrado i dati siano aggregati, un dettaglio interessante emerge da un altro grafico: considerato il valore economico dei beni esportati per ogni categoria, le tecnologie che rientrano nella categoria telecomunicazioni e sicurezza dell’informazione – in cui rientrano sia dispositivi elettronici usabili in guerra sia sistemi per le intercettazioni e per il monitoraggio dei dispositivi – sono al primo posto, seguite dalla categoria che riguarda i materiali e gli equipaggiamenti nucleari.

Il valore delle licenze

La percentuale del valore delle licenze per ciascuna categoria di beni a duplice uso nel 2020. Le tecnologie di cyber sorveglianza sono al primo posto

Se la trasparenza del ministero degli Esteri è pari a zero, il governo italiano ha però offerto in passato alcuni spiragli sul mercato estero delle proprie aziende di sorveglianza. Claudio Guarnieri, esperto di sicurezza informatica a capo del Security lab di Amnesty International, ha mostrato durante la sua audizione alla Commissione Pega i risultati di una richiesta Foia inviata nel 2019. Il ministero dello Sviluppo Economico, all’epoca incaricato di rilasciare le autorizzazioni dell’export, ha fornito i dati statistici per gli anni 2017 e 2018. In quei due anni, sono state concesse undici autorizzazioni per sistemi o software usati per facilitare o controllare l’intrusione con gli spyware; 21 autorizzazioni per il monitoraggio della rete internet e tre autorizzazioni per sistemi di intercettazione o interferenza della rete mobile.

Confrontando questi dati con quelli raccolti nel report della Commissione europea si nota subito il ruolo giocato dall’Italia in quegli anni: circa il 38% delle autorizzazioni per software di intrusione è stata concessa ad aziende italiane ma la percentuale sale fino al 75% per quelle relative al monitoraggio della rete internet.

In nessun caso viene fornita alcuna informazione relativamente a quali siano i Paesi acquirenti. Il nuovo regolamento sull’export prevede che questi dati debbano essere forniti dagli Stati membri e inclusi nel report finale ma nel regolamento europeo c’è una clausola per cui i Paesi potrebbero decidere di non fornire queste informazioni nel caso in cui si applichino «obblighi in materia di protezione delle informazioni personali, di informazioni commercialmente sensibili o di difesa protetta, di politica estera o di sicurezza nazionale». Il buco nero che, secondo il ministero degli Esteri italiano non dovrebbe essere presente, rischia invece di essere già scritto nel regolamento.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Riccardo Coluccini

Editing

Raffaele Angius

In partnership con

Privacy International

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Foto di copertina

Metaworks/Getty

La crisi della pesca nel Mediterraneo diviso

La crisi della pesca nel Mediterraneo diviso

Davide Mancini
Sara Manisera
Stavros Malichudis

Alle tre del mattino di una giornata di fine luglio, il mercato ittico di Palermo è in pieno fermento. Il vociare di chi compra e di chi vende arriva fino al varco principale. Fuori dall’edificio comunale, nello spiazzo antistante, i camioncini frigo iniziano a incolonnarsi e ammucchiarsi in maniera disordinata. Si scarica e carica da una cella frigorifera all’altra. Rigattieri, commercianti, pescatori, ristoratori si posizionano all’interno del mercato, pronti a ad acquistare il pescato.

Il pesce esposto proviene soprattutto dal Canale di Sicilia ma anche da altri Paesi come Grecia, Tunisia, Spagna e Marocco. Sui bancali colmi di ghiaccio e nelle cassette di polistirolo ci sono pesci spada, calamari, vongole, merluzzi, gamberetti rosa e rossi, orate e spigole. Si notano anche alcuni esemplari di pesce illegale, come la “neonata”, anche chiamata “bianchetto” (novellame di pesce azzurro in età giovanile, in particolare sardine e acciughe, la cui vendita è vietata dal Regolamento dell’Unione Europea 1967/2006). Si osservano anche decine di cassette di legno piene di giovani triglie, troppo piccole per essere vendute legalmente, e polpi privi di alcuna certificazione di tracciabilità.

Da dove arriva il pesce che consumiamo

La maggior parte di questo pesce è consumato in Sicilia, destinato alla ristorazione o alla vendita al dettaglio; il restante è spedito nei mercati di Milano, snodo principale per la distribuzione nel nord Italia. Secondo le stime dell’Eufoma e delle fonti nazionali del 2020, l’Italia è il sesto Paese dell’Unione europea per consumo di pesce, con circa 31 Kg all’anno pro capite. In Italia la spesa annuale pro capite per il pesce è di 207 euro, e tra le specie più consumate in Italia ci sono acciughe, vongole, orate, spigole e naselli.

Come lo consumiamo

In Italia il consumo è in gran parte orientato al pesce fresco, che rappresenta la maggior parte del totale, mentre il consumo di congelato si aggira attorno al 20%, il conservato 22% e affumicato 9%. La maggior parte del pescato consumato in Italia, tuttavia, è importato dall’estero e per tre quarti è venduto attraverso la Grande distribuzione organizzata. Le importazioni di pesce in Italia nel 2021 arrivano principalmente da Danimarca, Paesi Bassi, Francia, Spagna e Grecia, Paese che in particolar modo ci rifornisce di orate e spigole. Pesce a basso costo che proviene principalmente dagli allevamenti intensivi di acquacoltura.

Nonostante vi sia un’alta domanda di pesce da parte dei consumatori, la flotta di pescherecci italiani vive una crisi senza precedenti. Negli ultimi mesi, anche a causa dell’aumento del prezzo del gasolio, numerosi sono stati gli scioperi organizzati da parte di diverse marinerie in tutta Italia. Per capire quali siano le storture lungo la filiera del pesce e i problemi cronici che stanno affossando un settore fondamentale dal punto di vista sociale ed economico, bisogna, tuttavia, capire cosa accade nei mercati e nei luoghi dove avviene la commercializzazione e lo scambio del pesce.

Uno scorcio del mercato ittico di Palermo
Foto: Davide Mancini
Uno scorcio del mercato ittico di Palermo - Foto: Davide Mancini
Uno scorcio del mercato ittico di Palermo – Foto: Davide Mancini

Il potere dei commercianti

Innanzitutto, i prezzi alla vendita, per i pescatori, sono bassissimi. Se in alcuni mercati ittici come Fiumicino o Rimini, il prezzo del pescato viene deciso da un’asta, nei mercati siciliani di Palermo e Santa Flavia (Porticello), quasi tutto è deciso dai commercianti, prima ancora che il pesce arrivi in porto. È il commerciante che detta e stabilisce il prezzo, poiché è l’unico che ne può assicurare la distribuzione sul mercato, i pescatori, pertanto, lavorano in una condizione di subalternità. La dinamica è ben evidente nel mercato ittico di Santa Flavia-Porticello, uno dei più importanti della Sicilia, situato nella zona di Bagheria, storico mandamento di cosa nostra della provincia di Palermo.

Bagheria e la mafia siciliana

La zona di Bagheria fa storicamente parte di uno dei sette mandamenti della provincia palermitana insieme a Misilmeri, Corleone, Trabia, Belmonte Mezzagno, Partinico, San Giuseppe Jato e San Mauro Castelverde. Bagheria è sempre stato un contesto ad alta densità mafiosa. Negli anni Novanta, la maggior parte degli omicidi mafiosi si registrava nel triangolo della morte che aveva per vertici i paesi di Bagheria, Altavilla Milicia e Casteldaccia. Nel 1989, nel pieno centro di Bagheria, fu ucciso l’anziano capomafia Antonino Mineo, un omicidio nell’ambito della guerra di mafia che vedeva i corleonesi di Toto Riina mietere vittime tra la fazione dei palermitani rappresentata, tra gli altri, da Gaetano Badalamenti, Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo. Dopo l’ascesa dei corleonesi ai vertici dell’organizzazione di Cosa nostra, le campagne attorno a Bagheria diventano il rifugio di Bernardo Provenzano.

E sempre da questa zona, nello specifico dalla cittadina di Santa Flavia (Porticello), arriva il pescatore Cosimo D’Amato, che avrebbe aiutato i boss di Brancaccio a reperire l’esplosivo, da alcune bombe della seconda guerra mondiale rimaste in fondo al mare, usato sia per la strage di Capaci sia per quelle di Roma e Firenze. Dal 2007, è il boss di Bagheria, Pino Scaduto ad assumere il compito di organizzare la nuova cupola e “mediare” tra le diverse fazioni presenti nei mandamenti della provincia di Palermo. Secondo alcuni collaboratori di giustizia come il cassiere della cosca mafiosa di Bagheria Sergio Rosario Flamia, il reggente locale tesseva rapporti economici con Matteo Messina Denaro. In questi anni, numerose indagini hanno, inoltre, fatto emergere il controllo dei clan, attraverso metodi estorsivi, sulle attività economiche, in primis la commercializzazione del pesce e dell’intera filiera; dalle forniture all’ingrosso ai trasporti, fino alla vendita al dettaglio nei mercati storici di Palermo, Milano, Roma e nella Grande Distribuzione Organizzata.

Come afferma il sesto rapporto Agromafia di Eurispes, i poteri criminali si annidano nel percorso che frutta e verdura, carne e pesce, devono compiere per raggiungere le tavole degli italiani e degli europei, passando per alcuni grandi mercati di scambio fino alla grande distribuzione, distruggendo la concorrenza, il libero mercato legale e soffocando l’imprenditoria onesta.

Nel 2022, nell’ambito di un’altra inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, Giuseppe Guttaduro, ex primario dell’ospedale Civico di Palermo, esponente di spicco di cosa nostra e fratello di Filippo Guttaduro, cognato del latitante Matteo Messina Denaro viene arrestato insieme al figlio Mario Carlo, mentre ritorna dal Marocco dove gestisce un’azienda di lavorazione del pesce. Per gli inquirenti padre e figlio apparterrebbero alla famiglia di cosa nostra di Palermo-Roccella del mandamento di Brancaccio-Ciaculli e avrebbero interessi nel mandamento mafioso di Villabate- Bagheria.

Alle due del mattino, i primi pescherecci rientrano dal mare, pronti a scaricare con tutta fretta il pescato che arriverà in poco meno di due ore nei mercati ittici di Palermo o Catania. Sulla banchina del porto di Porticello, ad attendere, controllare e dettare i tempi di scarico ci sono i commercianti di riferimento dei pescatori. Uno di questi inveisce contro i marinai e ordina di caricare in tutta fretta le alici fresche appena pescate. Vengono caricate su tre camion frigo, pronte a partire verso Catania, dove il prezzo di vendita è più alto. Il commerciante paga al pescatore 9 euro a cassetta (circa 8 Kg l’una) e le rivende a 30 euro.

Non c’è un’asta del pesce, tutto dipende dall’offerta sul mercato, spiega il capitano di una lampara che pesca alici da tre generazioni e che preferisce rimanere anonimo per paura di ritorsioni. Mentre ci accompagna con la sua auto nel cuore di Porticello, è lui che ci racconta come funziona il mercato: «Adesso il prezzo è bassissimo. Ci sono commercianti che ti dicono di non uscire neanche a pescare perché c’è troppo pesce da smaltire nelle celle frigo. Il mio commerciante non vende solo alici. Compra pesce spada, orate, spigole. Lo acquista da me o da altri ed è lui che detta il prezzo. Non puoi lavorare in proprio. Quindici anni fa, provai a vendere il mio pesce direttamente ai mercati di Catania. Poco dopo qualcuno mi incendiò la barca, e capii che non si poteva fare». Anche un altro pescatore, Carlo Giarratano, proprietario dell’Accursio Giarratano, un peschereccio di Sciacca che fa pesca a sciabole, conferma lo stesso atteggiamento da parte dei commercianti: «Ci dicono di fermarci ad agosto perché hanno le celle piene e non riescono a vendere. Loro, però, continuano ad importare pesce dall’estero e ad abbassare i prezzi».

Uno scorcio del mercato ittico di Palermo
Foto: Davide Mancini
Uno scorcio del mercato ittico di Palermo - Foto: Davide Mancini
Uno scorcio del mercato ittico di Palermo – Foto: Davide Mancini

Secondo Daniela Mainenti, professoressa di diritto processuale penale comparato dei Paesi Euro-Med presso l’università internazionale UniNettuno Roma ed esperta di normative sulla pesca, «il commerciante, ovvero l’intermediario tra il pescatore e la Grande distribuzione organizzata, è colui che ha il vero potere e che vessa il pescatore. Spesso – sottolinea la docente – i commercianti sono legati a organizzazioni criminali di stampo mafioso. Di conseguenza, i pescatori sono intimoriti e non hanno molta scelta. Sono obbligati a vendere il pescato alle loro condizioni. Inoltre, questi commercianti sono coloro che creano problemi nel mercato, spingendo verso la sovrapproduzione, perché importano dall’estero, anche attraverso società miste e quindi abbassano i prezzi».

Le imprese italiane installate in Tunisia, attraverso società miste dove il capitale è 51% tunisino e 49% italiano, con partecipazione italiana o a capitale esclusivamente italiano sono circa 800. L’Italia è il secondo partner commerciale della Tunisia e da sempre il Paese ha presentato caratteristiche ideali per gli investitori italiani, grazie alla vicinanza geografica e alle normative locali per favorire gli investimenti e ai prezzi alla produzione molto vantaggiosi.

L’acquacoltura in Grecia: l’impatto dei pesci a “basso costo”

Al mercato di Porticello e di Palermo, decine di cassette di polistirolo piene di orate e spigole tutte uguali e della stessa dimensione, sono impilate una sopra l’altra. Sull’etichetta si legge «prodotto allevato in Grecia». Le aziende di allevamento sono la Corfù Sea Farm, la Skaloma s.a e la Oro.Gel. Il prezzo di questi esemplari allevati in Grecia oscilla tra i 5 e i 7 euro al Kg mentre quelli allevati in Italia varia tra gli 11 e i 15 euro.

Le regioni dell’Etolia-Acarnania e delle isole Ionie sono diventate tra i principali centri dell’industria ittica in Europa. Dalla fine degli anni ‘80, la produzione di orate e spigole in Grecia è in continua progressione: nel 2020 la produzione di orate e spigole è stata di 117.000 tonnellate (65 mila tonnellate di orate, 52mila di spigole), nel 2021 le vendite di pesce d’acquacoltura sono arrivate a 131.250 tonnellate, per un valore di 636 milioni di euro, secondo i dati dell’Hellenic Aquaculture Producers Organization (HAPO). Le orate e le spigole hanno rappresentato il 96% delle vendite. L’80% delle esportazioni è stato distribuito nei Paesi dell’Ue e nei Paesi terzi. Italia, Spagna e Francia sono i principali mercati di destinazione delle esportazioni, con il 58% della produzione greca.

Allevamenti di acquacoltura a poca distanza dalla costa nel comune di Xiromero (Grecia)

Foto: Stavros Malichudis
Allevamenti di acquacoltura a poca distanza dalla costanel comune di Xiromero (Grecia) - Foto: Stavros Malichudis
Allevamenti di acquacoltura a poca distanza dalla costa nel comune di Xiromero (Grecia) – Foto: Stavros Malichudis

Questo boom, anche grazie a fondi pubblici nazionali e comunitari, ha permesso la nascita di circa 300 imprese greche e ha determinato un forte abbattimento dei prezzi, soprattutto grazie ad allevamenti intensivi che risparmiano sul benessere degli animali e sulla tutela dell’ambiente.

Sebbene gli allevatori insistano sul fatto che l’impatto sia minimo, gli scienziati greci affermano che l’inquinamento prodotto dagli allevamenti intensivi sta uccidendo ecosistemi marini cruciali. A differenza dell’Italia, dove gli allevamenti sono consentiti solo al largo, a diverse miglia dalla costa, i serbatoi installati in Grecia sono spesso vicini alla linea di costa, e sono destinati a crescere ancora. Secondo una proposta di legge infatti, l’area marina costiera riservata agli allevamenti in Etolia-Acarnania passerà da 54 ettari a quasi 2.500.

I risultati preliminari di uno studio dell’Archipelagos Institute for the Protection of Sea, commissionato dal comune di Xiromero, che sarà principalmente interessato dall’eventuale allargamento dell’area degli allevamenti, hanno rilevato che il continuo funzionamento degli allevamenti ittici nelle baie chiuse e nelle acque poco profonde, che in alcuni casi dura da oltre tre decenni in violazione della legislazione che impone agli allevamenti di spostarsi ogni dieci anni, ha fatto sì che l’area circostante sia ora un paesaggio morto.

I residenti locali, tra cui pescatori, professionisti, lavoratori degli allevamenti ittici e il sindaco del comune, Giannis Triantafyllakis, confermano a IrpiMedia che nel corso degli anni hanno potuto vedere chiaramente la differenza nelle acque della loro regione, da cristalline e trasparenti a marroni e piene di alghe, come una melma.

«Hanno trasformato il paradiso in un inferno», ha detto Nikos Kallinikos, 72 anni. Pescatore dall’età di 12 anni, Kallinikos racconta dei decenni passati in cui riusciva a catturare grandi quantità di pesce di ogni tipo; ora la maggior parte delle specie è scomparsa, dice. Dei 10.220 abitanti del comune (censimento 2022) circa 300 sono impiegate oggi negli allevamenti ittici.

Uno dei lavoratori, che ha parlato in condizione di anonimato, ha raccontato di come si usi una grande quantità di antibiotici, nonché di formalina potenzialmente cancerogena, e per questo lui stesso non mangia pesci di allevamento.

«Inoltre, noi qui siamo abituati al pesce libero. Come potremmo mangiare pesce d’allevamento? Le differenze si notano facilmente, sia nel sapore che nell’aspetto», ha detto.

Diversi studi nel corso degli anni hanno attestato l’impatto degli allevamenti ittici sugli ecosistemi circostanti, in primo luogo a causa dello sversamento di materia organica nell’acqua, ovvero mangimi non consumati e rifiuti animali. Uno studio del 2011 si concentra proprio sulle spigole e le orate allevate in Grecia e stima che per ogni 100 tonnellate di pesce prodotto, vengono riversate in mare 9 tonnellate di nitrati.

L’acquacoltura rappresenta oggi il 46% della produzione globale di pesce, il 52% del quale è destinato per consumo umano (il restante in olii e mangimi). Questo anche grazie all’appoggio della FAO che considera l’acquacoltura uno dei settori chiave per garantire un accesso sostenibile all’alimentazione a livello globale, ed è quindi ampiamente supportato dalla strategia pluriennale dell’organo delle Nazioni unite, come dichiarato dal Direttore generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, Qu Dongyu.

Il consumo di pesce rimane in costante aumento, la FAO stima che da qui al 2030 la domanda di prodotti ittici aumenterà di almeno 40 milioni di tonnellate ogni anno a livello mondiale. Sarà quindi impossibile soddisfare la richiesta basandosi solo sul pesce di cattura, si prevede così che nel prossimo decennio l’acquacoltura arriverà a coprire il 60% della produzione.

Se è vero che l’acquacoltura risponde a una domanda sempre maggiore di pesce da parte dei consumatori, è anche vero che negli ultimi decenni ha causato una progressiva omologazione dei consumi, a discapito di una diversità alimentare. Solo poche specie (come orate, branzini e salmoni) entrano nella dieta quotidiana, e in maggiore quantità, ma con profondi dubbi sulla sostenibilità, la qualità e l’impatto ambientale che queste produzioni implicano.

Un peschereccio rientra nel Porto di Santa Flavia, vicino a Bagheria, a sud di Palermo
Foto: Davide Mancini
Un peschereccio rientra nel Porto di Santa Flavia, vicino a Bagheria, a sud di Palermo - Foto: Davide Mancini
Un peschereccio rientra nel Porto di Santa Flavia, vicino a Bagheria, a sud di Palermo – Foto: Davide Mancini

La concorrenza con l’altra sponda del Mediterraneo: il gambero rosso conteso

Ma la cattura, per adesso, resta ancora centrale, specialmente per le specie di maggior valore. Se c’è un prodotto che oggi, più di tutti, è al centro di una contesa commerciale, è senza dubbio il gambero rosso, il nuovo “oro rosso” del Mediterraneo. La sua storia è legata a doppio filo con quella di Mazara del Vallo, cittadina in provincia di Trapani con la più importante marineria d’Italia e la seconda in Europa. Per i mazaresi la pesca è sempre stata parte della cultura e dell’economia locale fin dai tempi antichi.

Dopo anni di pesca di sussistenza, a partire dagli anni ’60, la marineria di Mazara e i suoi pescherecci iniziano così a solcare il mar Mediterraneo fino ad arrivare nelle acque internazionali davanti alle coste della Tunisia, Libia, Grecia e Turchia, per praticare la pesca d’altura. La pesca del gambero rosso si sviluppa verso gli anni ‘90 con la scoperta di alcuni areali da parte dei pescatori mazaresi che portano avanti la pesca di profondità con reti a strascico in fondali sabbiosi da 200 fino a 1.000 metri.

Con le tecniche di surgelazione a bordo e l’innovazione da parte di alcuni imprenditori, il gambero rosso diventa così un piatto prestigioso e inizia ad essere commercializzato in tutto il mondo, nell’alta ristorazione di Tokyo, Dubai, Parigi e Singapore.

Benché oggi il gambero rosso con la pezzatura più grande oscilli tra i 50 e i 70 euro al Kg, i pescherecci di Mazara in mare sono sempre di meno. Per lungo tempo il Canale di Sicilia è stato appannaggio semi-esclusivo della flotta italiana, in particolare di quella di Mazara del Vallo. I mazaresi si ritengono infatti i primi ad avere scoperto questa varietà prelibata di gambero, e per decenni hanno goduto delle conoscenze e del vantaggio tecnologico per la pesca a strascico di profondità nelle acque internazionali tra l’Italia e il Nord Africa.

Negli anni ‘90 erano più di mille le imbarcazioni dedite alla pesca del gambero. Oggi ne rimangono circa ottanta. La causa risiede in una serie di fattori strutturali verificatisi negli ultimi vent’anni anni in Sicilia e nel resto d’Italia: i finanziamenti dell’Unione europea per demolire le imbarcazioni, il caro carburante, l’assenza di un ricambio generazionale, le normative sulla pesca imposte dall’Ue e la concorrenza con il nord Africa, nello specifico con i pescherecci tunisini ed egiziani, che vendono lo stesso prodotto pescato dai mazaresi ma a costi inferiori e senza l’obbligo di applicare le regole comunitarie.

A partire dagli anni 2000, infatti, l’Unione europea ha messo in campo politiche volte a limitare lo sforzo di pesca delle sue flotte e ridurre lo sfruttamento degli ecosistemi marini, attraverso il potenziamento della pesca artigianale. Tra queste politiche rientrano le compensazioni ai pescatori per l’arresto temporaneo o per la demolizione delle navi. In tutta Italia, tra il 2010 e il 2018, il numero delle imbarcazioni da pesca è passato da 17.367 a 12.310; oggi circa il 70% della flotta italiana è composta da piccoli pescherecci, inferiori ai 12 metri.

Secondo Santino Adamo, presidente dell’associazione Federpesca Mazara del Vallo, le demolizioni della flotta italiana hanno avuto un effetto boomerang: «Mentre noi demolivamo, in Tunisia sono stati dati incentivi agli armatori per costruire nuove imbarcazioni, quindi se da una parte la flotta italiana è stata distrutta, dall’altra parte non è stato ridotto lo sforzo di pesca, anzi, è aumentato da parte di tunisini ed egiziani. E molti italiani si sono spostati in Tunisia».

La Tunisia oggi ha una delle flotte più grandi del Mediterraneo e pesca le stesse specie della flotta italiana, come il merluzzo, il gambero rosa o il gambero rosso.

Vendita di gamberi rossi e gamberi rosa al mercato notturno di Porticello

Foto: Davide Mancini

Vendita di gamberi rossi e gamberi rosa al mercato notturno di Porticello - Foto: Davide Mancini
Vendita di gamberi rossi e gamberi rosa al mercato notturno di Porticello – Foto: Davide Mancini
Al tempo stesso, Il mercato di vendita di riferimento rimane perlopiù quello europeo. Per i commercianti conviene, dunque, importare da tunisini ed egiziani. «I commercianti mischiano il pesce italiano e tunisino. Comprano un cartone di gambero rosso in Italia a 800 euro, un altro a 300 euro dalla Tunisia e poi lo mischiano. Sono i nostri commercianti che si stanno arricchendo. Bisognerebbe fare più controlli a terra per verificare cosa si importa» , spiega sempre Santino Adamo.

Oltre alle demolizioni, si sono poi aggiunte numerose regolamentazioni dell’Unione europea per proteggere gli stock ittici come l’obbligo del fermo biologico, di sistemi satellitari a bordo, come il Vessel Monitoring Systems (VMS, anche detto blue box), e l’utilizzo di reti a maglie larghe.

Tutti i pescatori e armatori intervistati in questa inchiesta hanno sostenuto che le regolamentazioni dell’Unione europea, purché necessarie, non hanno preso in considerazione le caratteristiche della pesca mediterranea, e che la grandezza delle maglie delle reti sono tarate per taglie di pesce atlantico, quindi creando svantaggio per la pesca mediterranea dove le taglie dei pesci sono naturalmente più piccole, come nel caso delle acciughe.

«Questo non è corretto, e si basa su convinzioni sbagliate. La regolamentazione 1697/2006 è la prova che regole specifiche sono state sviluppate per il Mediterraneo», risponde Nicolas Fournier, della ong Oceana, con sede a Bruxelles. «Gli standard di pesca e la grandezza delle reti per pesci e crostacei sono diversi per Atlantico e Mediterraneo, e in tutti i casi, le maglie per la pesca nel Mediterraneo sono più strette». L’organizzazione Oceana si batte da anni per una riduzione dello sforzo di pesca nel Mediterraneo, ed è anche grazie alla loro pressione politica che si sono create delle zone in cui è vietata la pesca a strascico, due delle quali proprio nel Canale di Sicilia. «L’esistenza di un approccio “top-down” da parte dei decisori politici di Bruxelles è un’accusa comune che arriva dall’industria ittica quando si parla di scarsità di stock nel mare. Mentre in realtà l’approccio della Politica comune per la pesca del 2013 coinvolse sia le autorità locali che i vari stakeholder», aggiunge Vanya Vulperhorst di Oceana.

Che abbiano ragione o meno a Bruxelles poco importa però, la volontà di sfuggire ai regolamenti ha forte presa sui pescatori europei, tanto che negli ultimi anni si è assistito a un trasferimento delle attività di pesca da Paesi come la Grecia e l’Italia a paesi non-Ue del Mediterraneo, che si concentrano sulle stesse risorse ittiche e che rischiano di non diminuire la pressione sugli ecosistemi e il danno ambientale che l’Ue cerca di contenere.

Pescherecci ormeggiati al porto di Mazara del Vallo
Foto: Davide Mancini
Pescherecci ormeggiati al porto di Mazara del Vallo - Foto: Davide Mancini
Pescherecci ormeggiati al porto di Mazara del Vallo – Foto: Davide Mancini

Lo raccontano diversi armatori, pescatori ed esperti intervistati tra cui il capitano Mimmo Asaro, 62 anni, e una storia fatta di sequestri e arresti in Libia e Tunisia negli anni ‘90. «Molti mazaresi si sono trasferiti in Tunisia e in Libia creando società miste. Solo che in Libia non hanno il numero Cee. Non potrebbero esportare, quindi cosa fanno? Fanno trasbordo a mare aperto su una barca mazarese ma questo è considerato contrabbando».
Il trasbordo da un’imbarcazione all’altra è a tutti gli effetti contrabbando. I controlli non sono facili da applicare soprattutto perché l’obbligo di avere un sistema di tracciamento VMS a bordo vale per le imbarcazioni dell’Unione europea, ma non per quelle nordafricane. Per questo ci sono forti sospetti che pescherecci tunisini o libici, in alcuni casi di società basate in Tunisia o Libia ma con partecipazione italiana, peschino dove gli italiani non possono arrivare e poi trasferiscano il pesce su pescherecci italiani.

In teoria enti in grado di regolamentare la pesca in tutto il Mediterraneo esistono. Sia Italia che Tunisia e Egitto fanno infatti parte della Commissione generale per la pesca nel Mediterraneo (GFCM), l’organo delle Nazioni unite che si occupa della gestione degli stock ittici. «È cruciale che ci sia trasparenza, che si sappia chi sta pescando cosa. Tutti i Paesi membri del GFCM sono tenuti a dichiarare la lista delle imbarcazioni autorizzate a un certo tipo di pesca in linea con gli accordi fatti. Questo è particolarmente importante per Italia e Tunisia che hanno le flotte per pesca a strascico di gambero più grandi del Mediterraneo. Ne l’Italia ne la Tunisia hanno ancora aggiornato tale lista, la cui scadenza era giugno 2022», dichiara Oceana.

Anche i pescatori egiziani hanno aumentato la loro flotta e si sono dedicati alla pesca del gambero rosso. Nel 2021, la flotta egiziana ha registrato 900 tonnellate di gambero rosso catturato, ma ufficialmente solo nove pescherecci sono registrati nel Paese nordafricano. «Le stime, in realtà, ci dicono che sono più di 150 le imbarcazioni che fanno pesca a strascico del gambero rosso nel Mediterraneo, ben oltre quindi il numero ufficiale», spiega Fabio Fiorentino, biologo del CNR di Mazara del Vallo, il quale chiarisce che «in questo momento, il gambero rosso è sovrapescato e la sua biomassa è in decrescita. Tuttavia non ci sono problemi di estinzione ma problemi di gestione della risorsa. Oggi sono a rischio di estinzione i pescatori italiani. La pesca e le risorse comuni devono essere condivise da tutti con regole condivise, altrimenti salta il sistema», conclude.

Poiché nel Mediterraneo orientale, gli stock di gambero rosso non sono stati ancora sfruttati come nella parte centrale e occidentale, e gli areali più importanti sono quelli di fronte alla Libia, i pescatori mazaresi si contendono i fondali delle acque internazionali con egiziani, tunisini, libici e turchi, tanto da arrivare a momenti di forte tensione internazionale in questi anni. Basti pensare al sequestro degli equipaggi dei pescherecci, Antartide e Medinea di Mazara del Vallo nel 2020 a largo di Bengasi oppure all’assalto con sassate da parte di pescatori turchi del peschereccio mazarese di Michele Giacalone (foto della nave ormeggiata a Mazara). Barche italiane che si spingono sempre di più al largo per pescare il pregiato gambero rosso.

Il Mammellone e le zone esclusive in Libia
Il Mammellone è una zona di mare a sud di Lampedusa e a est delle coste della Tunisia e delle Isole Kerkennah, ed istituita bilateralmente nel 1979, da Tunisia e Italia come area protetta di pesca. Secondo il Decreto Ministeriale del 25 settembre 1979, il Mammellone è considerata una porzione di alto mare che è «tradizionalmente riconosciuta come zona di ripopolamento e in cui è vietata la pesca ai cittadini italiani e alle navi battenti bandiera italiana» al fine di assicurare la tutela delle risorse biologiche. La Tunisia considera ancora oggi il Mammellone come propria zona riservata di pesca, ed è particolarmente ricca di gamberi rossi. Nel corso degli anni molti pescherecci mazaresi sono stati fermati e sequestrati dalle autorità tunisine per essere entrati in questa zona di mare, a volte per il solo attraversamento dell’area protetta. Questo ha creato diverse tensioni diplomatiche tra Italia e Tunisia nel corso degli anni.

Una situazione simile si è create in Libia da quando, nel 2005, il governo ha istituito una Zona di protezione della pesca (ZPP, oggi ZEE) fino a 72 miglia dalla costa, 62 miglia oltre le sue acque territoriali, ed ha chiuso il Golfo di Sirte ad ogni attività di pesca straniera. Questa posizione è contestata dall’Ue e dagli Stati Uniti, mentre l’Italia non ha mosso proteste ufficiali, nonostante i vari arresti e sequestri operati dalle autorità libiche nei confronti di pescatori italiani (spesso mazaresi) avvenuti in quest’area di mare contesa.

Uno scorcio del porto di Sciacca
Foto: Davide Mancini
Uno scorcio del porto di Sciacca - Foto: Davide Mancini
Uno scorcio del porto di Sciacca – Foto: Davide Mancini

Con il prezzo del gasolio cresciuto vertiginosamente, i pescatori siciliani affrontano un ennesimo ostacolo che li ha portati ad organizzare manifestazioni nei mesi scorsi. A Sciacca gli striscioni sventolano sul porto dove i pescherecci sono fermi. «Il prezzo del carburante è il costo principale per un peschereccio. Qui siamo arrivati fino a 1,20 euro al litro, mentre in Tunisia lo pagano 0,30 – 0,40 Euro al litro, senza contare il costo della manodopera, che è molto inferiore al nostro», dice Carlo Giarratano, proprietario del peschereccio più grande del porto di Sciacca. Giarratano era stato al centro dell’attenzione mediatica per avere salvato la vita a cinquanta migranti nel canale di Sicilia nel 2018, ai tempi dei porti chiusi voluti da Matteo Salvini, allora ministro dell’Interno. Oggi Giarratano non è più convinto di continuare a fare il pescatore, e ha invece aperto da poco con la moglie un piccolo albergo che si affaccia sul porto di Sciacca, dove è ormeggiata la sua nave. «Con la pesca non vedo più una prospettiva di futuro», conclude Giarratano.

Anche Tommaso Maccadino della Uila Pesca di Mazara del Vallo conferma che i pescatori sono la parte più fragile oggi e che le regole Ue hanno ridotto lo sforzo di pesca solo da una parte del Mediterraneo. La soluzione per lui è ripensare a una gestione comune del Mediterraneo. «L’abbattimento dei pescherecci e le norme dell’Unione europea per proteggere gli stock ittici avevano l’obiettivo di ridurre lo sforzo di pesca. Ma quando fai un fermo biologico, non ha senso se lo esercita solo la marina di Mazara del Vallo. Dovrebbero fermarsi tutti: tunisini, italiani, spagnoli ed egiziani. Il tema vero è che il Mediterraneo è di tutti. Questa è la sfida».

CREDITI

Autori

Davide Mancini
Sara Manisera
Stavros Malichudis

In partnership con

Editing

Giulio Rubino

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Foto di copertina

Un peschereccio a Lampara rientra nel porto di Santa Flavia, vicino a Bagheria
(Davide Mancini)

Con il sostegno di

Free Press Unlimited

Migranti in Grecia: geopolitica, violenze e fake news

17 Aprile 2020 | di Lorenzo Bodrero, Matteo Civillini

A fine febbraio, quando Recep Tayyip Erdoğan ha rimosso il divieto di attraversamento del confine con la Grecia, si è aggiunto un nuovo drammatico capitolo alla crisi dei migranti al confine con la Turchia. Decine di migliaia di rifugiati hanno raggiunto i check point disseminati lungo gran parte della frontiera nella speranza di entrare in Europa. Gli scontri con le polizie di entrambi i Paesi hanno causato decine di feriti e almeno due morti.

A lungo il leader turco aveva minacciato una mossa simile, diventata realtà dopo l’uccisione di 33 soldati turchi durante un attacco aereo a Idlib, in Siria.

Secondo il ministro della difesa turco, come riportato dal giornale Daily Sabah, quasi 150 mila migranti sarebbero riusciti ad attraversare il confine. Alla pressione esercitata dai rifugiati, si aggiungono ulteriori preoccupazioni dal lato greco: Ekathimerini, il più importante quotidiano di Atene, cita «autorità greche» secondo le quali la Turchia avrebbe un piano per «spingere i migranti affetti da Covid-19 ad attraversare il confine».

Tutti i limiti dell’accordo Ue-Turchia

La crisi e gli scontri in corso sul confine tra Grecia e Turchia altro non sono che la pietra tombale sul già fragile e costoso tentativo, da parte dell’Unione europea, di “gestire” il flusso migratorio che dalla Siria porta in Europa.

Memore della crisi migratoria del 2015, l’anno successivo la Ue chiuse un accordo da tre miliardi di euro alla Turchia (poi diventati sei) per «dissuadere i migranti dal percorrere rotte irregolari».

L’accordo prevedeva, tra le altre cose, che i migranti già in Europa fossero distribuiti tra gli Stati membri e che per ogni rifugiato accolto nell’Unione un migrante economico facesse ritorno in Turchia. I Paesi maggiormente ostili alle politiche di accoglienza e redistribuzione in Europa , come Ungheria e Polonia, si sfilarono dall’accordo mentre la maggior parte dei rimanenti fece di tutto pur di accoglierne il meno possibile. Una percentuale irrisoria di migranti fece rientro in Turchia, mentre le partenze verso la Grecia si facevano sempre più numerose.

Quel trattato si dimostrò fragile fin da principio.

Ai limiti tecnici dell’accordo, la cui esecuzione si basa sulla volontà di Erdoğan di rispettarlo, si aggiungono quelli politici. Da allora, infatti, la Turchia si trova nel mazzo una carta da giocarsi nel momento più opportuno. Aprire il confine con la Grecia a 3,6 milioni di rifugiati (stime delle Nazioni Unite) significa tenere sotto scacco la Ue. Dal 2016 a oggi si sono moltiplicati i campi profughi e i campi di detenzione per migranti sulle isole greche orientali di Lesvos, Chios e Samos, dove si stima oltre 40 mila migranti vivano in precarie condizioni igieniche e sanitarie.

Una partita su più fronti

La decisione da parte di Erdoğan di aprire i confini con l’Europa arriva da lontano. Ciò a cui il sultano tiene maggiormente è l’esito positivo del conflitto in Siria, così da alimentare il suo progetto di “Grande Turchia” di ottomana memoria.

La partita si gioca nella parte nord-occidentale a maggioranza curda del Paese guidato da Bashar al-Assad, in quella zona-cuscinetto di cui la città di Idlib è il fulcro. È da qui che proviene la stragrande maggioranza dei rifugiati che oggi affollano il confine con la Grecia, spinti all’esodo dalle bombe turche e siriane.

Al tavolo siede anche Vladimir Putin, storico alleato del leader siriano. È lui ad aver concesso ad Ankara il territorio intorno a Idlib, in segno dei buoni ma altalenanti rapporti con Erdoğan.

Le tensioni tra i due sono però più aspre in Libia dove la Turchia sostiene il Governo di Accordo Nazionale di Fayez al-Sarraj, impegnato contro l’avanzata del generale Khalifa Haftar, sostenuto invece dalla Russia. In cambio del suo appoggio militare alla Libia, il sultano ha ottenuto un accordo per l’esplorazione congiunta Turchia-Libia delle acque intorno a Cipro che da un lato gli consente un ampio controllo dei flussi commerciali ma, dall’altro, aumenta le tensioni con la Grecia – storica rivale – e quindi con la Ue.

«Tutti questi fronti aperti nello stesso momento mettono la Turchia in una posizione di isolamento, dalla quale cerca di uscire solo rilanciando la posta in gioco», scrive Il Fatto Quotidiano.

Il copione turco coinvolge prima la Nato, poi l’Unione Europea. Qualora non venisse concesso il supporto contro la Siria, Ankara ha minacciato l’Alleanza atlantica, di cui fa parte, di far saltare l’accordo di difesa per Polonia e Paesi baltici contro la Russia.

Infine, incassato anche il «no» europeo al sostegno nella guerra contro il regime di Assad, e all’indomani dell’uccisione di 33 soldati turchi durante un raid aereo a Idlib, Erdogan ha calato l’asso e dichiarato aperto il confine con l’Europa.

Tensioni al confine, morti e falsa propaganda

Del trasporto di decine di migliaia di persone dai campi profughi dell’entroterra turco verso la Grecia se ne fanno carico direttamente le autorità turche. Le stesse che, prima di riempire pullman offerti gratuitamente, alimentavano false speranze nei confronti dei migranti, affermando che il passaggio verso l’Europa fosse finalmente libero. Tutt’altro.

La Grecia ha infatti blindato i propri confini il 28 febbraio, il giorno dopo il “via libera” di Erdoğan. Esercito e forze speciali elleniche dispiegate lungo il confine hanno bloccato migliaia di migranti utilizzando lacrimogeni e armi caricate a salve. Secondo Amnesty International sarebbero almeno due le vittime tra i rifugiati durante gli scontri della prima settimana di marzo avvenuti lungo il fiume Evros.

Intanto, la propaganda di destra ha colto l’occasione per alimentare politiche anti-immigrazione. Il trucco è semplice: sfruttare il malcontento verso i migranti e gli scontri per diffondere falsa informazione.

Ne è un esempio un tweet lanciato dalla nota troll americana Amy Wek.

Utilizzando le immagini registrate durante gli scontri avvenuti presso la città di Pazarkule, sponda turca, tra polizia e migranti dove una bambina è sospesa dai genitori sopra del fumo, afferma che i rifugiati non sono altro che «soldati invasori» e che fanno piangere i bambini deliberatamente e in favore di telecamera, così da accaparrarsi le simpatie dei cittadini europei per entrare in Europa.

Un tweet che è stato visualizzato più di 750 mila volte e che è stato poi rilanciato da diversi partiti europei e siti web di destra.

Una ricerca di Borders Newsroom, un’iniziativa di Lighthouse Reports, e della piattaforma Pointer e condotta con la tecnica di reverse engineering, dimostra però la natura propagandistica del tweet (il video è disponibile con sottotitoli in italiano, nda).

L’analisi mostra infatti che i migranti immortalati nel video sono stati bersaglio di gas lacrimogeni sia da parte della polizia greca sia di quella turca e che la bambina viene sì deliberatamente esposta al fumo di brace rovente ma come un modo per attenuare gli effetti dei lacrimogeni.

La “tolleranza zero” dell’Europa

Con l’arrivo in Europa, soprattutto in Germania, di circa un milione di rifugiati nel 2015 a seguito della guerra in Siria, l’Unione europea ha visto un radicale cambio di direzione prendere forma al suo interno sul tema accoglienza.

Dall’accordo del 2016 alle politiche della “tolleranza zero” in Paesi come Ungheria e Polonia, passando per il blocco dei porti nel Mediterraneo e l’ostilità verso le navi delle Ong, fino al blocco dei confini messo in atto dalla Grecia.

È un ribaltamento senza precedenti della storia politica del Vecchio continente in materia di migranti, legittimato, infine, dalle parole di Ursula Van Der Leyen: «Grazie alla Grecia per essere il nostro scudo», ha detto la presidente della Commissione europea lo scorso 4 marzo in visita alla città di Kastanies, sulla frontiera di terra greco-turca. Aggiungendo: «Chi cerca di mettere alla prova l’unità dell’Europa resterà deluso. Manterremo la linea e la nostra unità prevarrà».

Il piano annunciato dalla Van Der Leyen prevede il dispiegamento di 100 guardie di frontiera da affiancare a quelle greche, l’invio di 700 milioni di euro per aiuti umanitari e l’arrivo di navi, aerei ed elicotteri da utilizzare via acqua e via terra.

Il nuovo corso europeo è al centro delle critiche di molte organizzazioni umanitarie. Amnesty International ha definito «inumani» i provvedimenti della Grecia, non da ultimo quello di sospendere le richieste di asilo a partire dal 1 marzo. Secondo Emergency «è ora che l’Europa cambi rotta: o mette il rispetto dei diritti umani come base irrinunciabile del suo agire o sarà definitivamente morta. Non ci sono più scorciatoie possibili».

Foto: un momento degli scontri tra migranti e polizia greca presso Pazarkule, città di frontiera con la Turchia – deepspace/Shutterstock

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