Una società accusata di deforestazione in Camerun ha beneficiato di ingenti sussidi pubblici

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Una società accusata di deforestazione in Camerun ha beneficiato di ingenti sussidi pubblici

Edoardo Anziano

Il 16 gennaio 2023, il giornalista camerunense Martinez Zogo annuncia in diretta radiofonica di avere un intero dossier che proverebbe la corruzione del magnate delle televisioni Jean-Pierre Amougou Belinga. Entra nei dettagli, denunciando un flusso di denaro dalle casse dello Stato alle tasche di Belinga per oltre 70 milioni di euro negli ultimi dieci anni. «Ho le prove!», grida in trasmissione. «Le ho già inviate al presidente!». Zogo era noto per essere un fedele sostenitore dell’attuale presidente della Repubblica del Camerun, l’autocrate Paul Biya, che riteneva al di sopra degli scandali per corruzione da lui denunciati. 

Il 17 gennaio Zogo scompare. Cinque giorni dopo, il suo corpo, gravemente mutilato e con segni di tortura, viene ritrovato sul ciglio di una strada di un sobborgo di Yaoundé, capitale del Camerun.

Paul Biya, oggi novantenne, governa il paese da più di quarant’anni. Nonostante l’età, l’autocrate mantiene uno stretto controllo su ogni aspetto della vita pubblica. Il presidente non ha manifestato alcuna volontà di lasciare la presidenza nel 2025, quando scadrà il suo mandato e avrà 92 anni, ma la lotta per il post-Biya è già iniziata. Dietro la facciata del potere accentrato, si agitano infatti diverse fazioni politiche, in competizione per la successione. Uno dei possibili candidati è proprio Amougou Belinga: proprietario del canale Vision TV e del giornale l’Anecdote, è un uomo noto tanto per le sue potenti conoscenze politiche, quanto per le sue ambizioni di diventare il prossimo presidente dello stato dell’Africa centrale.

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L'inchiesta in breve
  • Camerun, 16 gennaio 2023. Il giornalista Martinez Zogo annuncia in diretta radiofonica di avere un intero dossier che proverebbe la corruzione del magnate delle televisioni Jean-Pierre Amougou Belinga: un flusso di denaro dalle casse dello Stato alle tasche di Belinga per oltre 70 milioni di euro.
  • Il giorno dopo Zogo scompare. Il suo corpo, mutilato e torturato, viene ritrovato sul ciglio di una strada di un sobborgo della capitale Yaoundé. La polizia non ci mette molto ad arrestare il mandante: è il tycoon Belinga, oggetto delle accuse del giornalista. 
  • Un’inchiesta sul campo ha scoperto che la storia dei pagamenti milionari al magnate era, seppur vera, una macchina del fango, orchestrata contro Belinga dai suoi avversari politici, per toglierlo di mezzo dalla corsa per la presidenza della Repubblica camerunense.   
  • La morte di Zogo ha portato però alla luce altro: un enorme flusso di soldi pubblici a favore di certe élites in Camerun. I beneficiari – che non hanno a che fare con l’omicidio del reporter – non sono solo camerunensi, ma anche nigeriani, ivoriani, statunitensi, francesi e italiani. 
  • I reporter hanno ottenuto un elenco che include ben 67 transazioni sospette provenienti dalle casse pubbliche, in corso di verifica da parte delle autorità. L’elenco copre un periodo che va dal 2017 al 2021, per un totale di oltre 600 milioni di euro.
  • Il maggior beneficiario sulla lista è un italiano, Eugenio Matarazzi, direttore generale dell’azienda di legnami Société Industrielle de Mbang (Sim). L’azienda avrebbe ricevuto oltre 250 milioni di euro per «lavorazione legname». L’azienda ha smentito di aver mai ricevuto alcun pagamento.
  • Da almeno un decennio, lo stato camerunense sembra supportare la Sim in vari modi, in particolare attraverso la concessione di licenze per lo sfruttamento di foreste pubbliche a prezzi vantaggiosi. Nonostante le ventennali accuse di deforestazione, mosse all’azienda da osservatori indipendenti e comunità locali

Quando la polizia, dopo pochi giorni di indagine, annuncia l’arresto del mandante dell’omicidio Zogo, in manette finisce proprio il tycoon Belinga. Persino il capo degli esecutori materiali, arrestato, accusa l’imprenditore di essere la mente dietro l’assassinio. 

Un’inchiesta sul campo – coordinata dal magazine ZAM e dal Network of African Investigative Reporters and Editors (NAIRE) con la collaborazione di altri partner internazionali, tra cui IrpiMedia per l’Italia – ha scoperto che la storia dei pagamenti milionari al tycoon era però una trappola. Una macchina del fango, seppur vera, orchestrata contro Belinga, per toglierlo di mezzo dalla corsa per la presidenza. Di questa lotta di potere interna alle fazioni politiche del paese centrafricano, il giornalista Martinez Zogo è stato – insieme – strumento e vittima.

La morte di Zogo ha portato però alla luce altro. Ha consentito infatti di far emergere un enorme flusso di soldi pubblici a favore di certe élites in Camerun, che non si limita a faccendieri e imprenditori camerunensi. I beneficiari sono infatti nigeriani, ivoriani, ma anche statunitensi, francesi e italiani. 

Un Arizona project per Martinez Zogo

Quando, il 12 aprile 2023, un team di membri Naire – David Dembele dal Mali, Selay Kouassi dalla Costa d’Avorio e Bram Posthumus, olandese che vive ad Abidjan – atterra a Yaoundé, in Camerun, l’obiettivo è quello di condurre un Arizona project. Qual è stata la storia che ha ucciso Martinez Zogo? È stata la sua denuncia della corruzione di Amougou Belinga? O c’è qualcos’altro che l’omicidio del giornalista ha messo a tacere?

Il modello dell’Arizona Project risale al 1976, quando il reporter del The Arizona Republic Don Bolles viene fatto saltare in aria da sei candelotti di tritolo piazzati sotto il sedile del guidatore della sua Nissan Datsun 710. In risposta all’omicidio, la Investigative Editors and Reporters Association mette insieme un team di 30 giornalisti che arriva a Phoenix per portare a termine il lavoro di Bolles, ucciso per le sue storie sulle frodi di terreni e la mafia italo-americana in Arizona. Si tratta del primo progetto di giornalismo d’inchiesta collaborativo su larga scala.

Un dossier confezionato ad arte

Con un mandante accusato dagli stessi esecutori e un movente così apparentemente chiaro, l’omicidio di Martinez Zogo, rispetto ad altri casi di giornalisti assassinati, sembra essere piuttosto lineare. Ai giornalisti che per questa inchiesta si sono recati in Camerun agli inizi di aprile 2023, tuttavia, viene raccontata una storia diversa da quella ricostruita dalla polizia. I colleghi di NAIRE sono arrivati alla conclusione che Amougou Belinga sia stato incastrato da alcune fazioni dell’élite politica, che volevano eliminarlo dalla corsa alla successione presidenziale. Martinez Zogo, infatti, aveva ricevuto un corposo dossier sul magnate, visionato dai reporter per questa inchiesta: oltre 130 pagine, con fotocopie di transazioni bancarie, elenchi di transazioni dal bilancio statale alle società di Belinga, istruzioni di pagamento firmate da alti funzionari pubblici. Tutte prove che Belinga era stato lautamente remunerato, almeno a partire dal 2013, con sovvenzioni statali.

La copertina del “dossier Belinga” in possesso del giornalista Martinez Zogo. 

A prescindere dai secondi fini con cui possa essere stato diffuso, il dossier è autentico. I giornalisti hanno scoperto che gran parte del “dossier Belinga” proviene dal Probmis, il sistema informativo del Ministero delle Finanze del Camerun. Si tratta chiaramente di un leak, una fuga di informazioni, proveniente da qualcuno con accesso ai sistemi informatici governativi. 

La pista più accreditata è che sia stato fatto filtrare per colpire Belinga. L’imprenditore, infatti, «stava diventando troppo grande per i suoi stivali», spiega un giornalista camerunense, la cui identità deve rimanere anonima per garantirne la sicurezza. «Questo non andava bene all’élite che circonda il Presidente […]. Si sentivano minacciati da quest’uomo». 

«Queste informazioni erano già diffuse in tutto il Camerun», spiega un altro reporter. «Molti di noi ne erano a conoscenza». E, tuttavia, molti avevano lasciato perdere i documenti su Belinga. Non perché fossero contraffatti, ma perché – anche senza tutte le transazioni in dettaglio – la vicenda era già nota. Già un anno prima che il dossier iniziasse a circolare, Belinga era sotto inchiesta da parte delle autorità fiscali, per un importo persino superiore a quello scoperto da Zogo nel dossier. 

Quando i giornalisti di NAIRE chiedono al collega, che si occupa di inchieste sulla corruzione, quale sia il motivo della reticenza che aleggia intorno al tema, questi risponde: «Dovremmo guardare agli altri», dice, «quelli di cui nessuno parla».

Pagamenti sospetti

Indagando sul dossier, i reporter sul campo sono infatti entrati in contatto con fonti molto vicine all’agenzia delle imposte del Camerun, la cui attendibilità è stata verificata da altre personalità indipendenti. Tramite queste fonti hanno ottenuto un altro documento, che include ben 67 pagamenti sospetti, in corso di verifica da parte delle autorità. L’elenco, su cui è apposto il timbro della Direzione Generale delle Imposte, copre un periodo che va dal 2017 al 2021. La cifra totale dei pagamenti ammonta a oltre 600 milioni di euro. Questi pagamenti e i loro beneficiari non hanno alcuna connessione con l’omicidio di Zogo.

Il ritrovamento di questo secondo documento, però, complica ulteriormente il quadro della situazione. Se infatti il primo leak sembrava guidato dal desiderio di colpire una specifica fazione “scomoda”, il secondo mostra che molti altri soggetti avrebbero beneficiato, in maniera simile a Belinga, di pagamenti da parte dello Stato. La lista rivela cioè l’esistenza di un’altra indagine, o almeno di un tentativo di indagine, che starebbe provando a fare chiarezza sui rapporti fra Stato ed élites camerunensi.

Al momento i documenti non indicano nessuna accusa o reato specifico, e una verifica fiscale potrebbe ancora dimostrare giustificazioni perfettamente legittime per ciascun emolumento sulla lista. Eppure, quello che desta preoccupazione è il tentativo, da parte di alcuni pezzi dello Stato, di bloccare sul nascere qualsiasi indagine.

Il Camerun è un Paese dell’Africa centrale che nel 2021 aveva un PIL di 45 miliardi di dollari. Dei suoi 27 milioni di abitanti, il 55% vive in povertà e il 38% in grave povertà. Nel 2021 ha ricevuto un totale di 651 milioni di dollari in aiuti internazionali. Ovvero, quasi lo stesso importo – segnalato come sospetto dalle autorità fiscali – uscito dalle casse dello Stato fra il 2017 e il 2021 a beneficio di élites locali e straniere.

Ad accompagnare la lista infatti c’è una lettera di Mopa Modeste Fatoing, all’epoca a capo della Direzione generale delle imposte camerunense. L’ufficio di Fatoing è stato incaricato di indagare il caso dall’agenzia anticorruzione statale ANIF (Agence Nationale d’investigation Financière), con il sospetto che le 67 transazioni potessero nascondere possibili frodi e riciclaggio. 

Il tono della lettera, indirizzato al responsabile della divisione investigazioni, è chiaro: «vi avevo già incaricato di dare un seguito [all’elenco, ndr]», aveva scritto Fatoing. «Fino ad oggi, queste istruzioni non sono state seguite». Da allora infatti le autorità fiscali non hanno più avuto notizie dell’elenco dei 67 soggetti. 

L’uccisione di Zogo sembra aver ulteriormente ridotto le possibilità di un’investigazione sulle transazioni. Appena quattro giorni dopo il ritrovamento del corpo del giornalista, il direttore generale Fatoing è stato rimosso dal presidente Biya e assegnato a un ufficio del Fondo Monetario Internazionale a Washington, abbastanza lontano da non poter “far danni”. Contattato da ZAM, il Direttorato Generale delle Imposte non ha risposto in merito allo stato di avanzamento degli accertamenti. 

La lettera di Mopa Modeste Fatoing, ex direttore generale dell’autorità fiscale camerunense, che accompagna la lista delle 67 transazioni sospette

Oltre ai sospetti dell’agenzia anticorruzione e dell’ufficio delle imposte, a rendere la lista meritevole di ulteriori indagini ci sono diversi elementi inusuali: la maggior parte dei pagamenti è a favore di aziende private, per servizi poco chiari. In 29 delle 67 transazioni non c’è l’indicazione della causale, mentre per altre sette non è indicato neppure l’importo. I pagamenti vanno ad alberghi, money transfer, aziende minerarie e di trasporto, strutture turistiche e società di consulenza finanziaria.

Ci sono aziende basate in Nigeria e Togo, alcune in Francia e negli Stati Uniti. In un caso compare il nome di milionario, Baba Danpoulo, considerato uno dei dieci uomini più ricchi d’Africa e amico personale del presidente Paul Biya. 

Il maggior beneficiario sulla lista è però un italiano, Eugenio Matarazzi, direttore generale dell’azienda di legnami Société Industrielle de Mbang (SIM). L’azienda, che ha sede a Yaoundé, avrebbe ricevuto, in un’unica transazione, oltre 250 milioni di euro per «lavorazione legname». Secondo la lista, lo stesso Matarazzi avrebbe ricevuto personalmente più di 175 mila euro, con la causale «dipendente Société Industrielle de Mbang». 

Né Matarazzi né la Sim sono in alcun modo legati alla vicenda di Martinez Zogo e, lo ribadiamo, al momento neppure le transazioni puntano ad alcun reato preciso. Eppure la Société Industrielle de Mbang è da 20 anni al centro di diverse controversie tanto in Camerun che a livello internazionale: accuse di deforestazione, taglio illegale di legname e violazione delle leggi forestali, che però non sembrano aver mai portato a indagini approfondite da parte delle autorità locali.

Domande senza risposta

Due indagini, una della polizia e una della gendarmeria, sembrano non lasciare dubbi: Amougou Belinga è il mandante dell’omicidio di Zogo. Una confessione del tenente colonnello della polizia accusato di aver guidato il gruppo di assassini, Justin Danwe, lo nomina direttamente, così come le dichiarazioni degli altri esecutori materiali. Ci sono anche registrazioni di telefonate tra Danwe e Belinga e rapporti secondo cui Belinga avrebbe pagato sia Danwe che gli assassini. «È un delinquente. Potrebbe aver dato in escandescenze. E sa come convincere alcuni settori dei servizi segreti e della polizia ad eseguire i suoi ordini, con spacconate e ricatti e facendo leva su amici potenti», dice un giornalista che ha indagato a lungo sull’uomo d’affari.

Quello che rimane inspiegato, tuttavia, è il periodo di cinque giorni tra il rapimento e il ritrovamento del corpo di Zogo. Per quanto tempo Martinez è rimasto in vita dopo il rapimento? Cosa è successo esattamente? Domande che non sembrano interessare gli investigatori. «Alla luce del crescente volume di prove [contro il presunto mandante, ndr], una ricostruzione dell’omicidio – prevista nei giorni scorsi – non sembra più essere una priorità per gli inquirenti», ha scritto Reporters Sans Frontiere, citando una fonte della polizia.

Le accuse di deforestazione

Fondata nel 1995, la Société Industrielle de Mbang è una delle maggiori aziende di legname in Camerun, con oltre un migliaio di dipendenti. Nel 2014, l’allora ambasciatrice italiana in Camerun Samuela Isopi aveva visitato la sede della Sim, accompagnata da Matarazzi, e aveva dichiarato che «la società rappresenta un modello di cooperazione basato sulla duplice valorizzazione, delle materie prime locali e delle capacità umani del Camerun». L’anno successivo l’ambasciatrice Isopi aveva invitato Matarazzi e altri imprenditori italiani in Camerun a una cena per illustrare i successi economici dell’Italia in Camerun

Dopo un decennio la situazione sembra essere cambiata. Nel 2022 il tentativo di raccogliere l’equivalente di un milione e mezzo di euro fra gli azionisti, per varare un aumento di capitale, secondo i media locali è fallito. L’azienda smentisce a IrpiMedia che si sia trattato di un fallimento, spiegando che si sarebbe trattato semplicemente di un cambio di strategia. 

Fonti locali autorevoli, sentite in Camerun, sostengono però che ci siano i problemi finanziari della Sim dietro i 250 milioni di euro di sussidi pubblici. Infatti, hanno spiegato le fonti, le sovvenzioni sarebbero state garantite dopo che la Sim avrebbe minacciato di dichiarare bancarotta, licenziando centinaia di dipendenti, a meno che lo stato non fosse intervenuto. L’azienda non ha risposto alla domanda di IrpiMedia su questo punto.

Tuttavia, almeno da dieci anni, lo stato camerunense sembra supportare la Société Industrielle de Mbang in vari modi. Nel 2013, Matarazzi e l’allora Ministro delle Foreste firmano una «convenzione provvisoria di gestione, della durata di 3 anni». Alla Sim è garantita una concessione di foresta pubblica di quasi 70 mila ettari nel dipartimento di Haut-Nyong, nell’est del paese. Sulla base dell’accordo – eccetto una tassa sul taglio e l’export, stabilita anno per anno dalla legge finanziaria – la Sim paga un affitto pari a 4.100 franchi all’anno per ciascun ettaro. Sono poco più di sei euro per ogni 10.000 chilometri quadrati di foresta. All’articolo 10 le parti concordano che «il Ministro delle Foreste si riserva il diritto di annullare il presente accordo prima della scadenza in caso di irregolarità debitamente rilevate da una commissione di esperti tecnici nominata a tal fine»

L’azienda spiega a IrpiMedia che quella concessione temporanea sarebbe stata trasformata in una “permanente”, della durata di 30 anni, a seguito dell’approvazione di un piano di gestione. Tale piano però risulta approvato solo nel 2020, mentre non è chiaro a che titolo la foresta sia stata sfruttata fra il 2016 e il 2020.

La concessione, alla fine, è stata comunque garantita, ma solo quest’anno. Questo nonostante le accuse di taglio illegale che, in altre aree del paese, avevano ripetutamente e da tempo investito la Société Industrielle de Mbang. 

Fra il 2003 e il 2004, osservatori indipendenti della ONG Global Witness autorizzati dal Ministero delle Foreste avevano trovato irregolarità in foreste dove la Sim lavorava in subappalto per conto di un’altra società. In un caso, questa società «attraverso la sua subappaltatrice Sim» era stata «trovata colpevole di estrazione di legname oltre i limiti [consentiti, ndr], [..], di mancata marcatura dei ceppi e degli alberi e di abbandono del legname prodotto». In un altro caso, Global Witness aveva raccomandato alle autorità di emettere una «dichiarazione ufficiale di infrazione nei confronti della società […] e della sua subappaltatrice Sim»

L’anno successivo, Greenpeace aveva pubblicato un briefing, esprimendo preoccupazioni per la distruzione della foresta pluviale camerunense. Secondo le accuse dell’associazione ambientalista, «la Société Industrielle de Mbang (Sim), azienda camerunense del legname, è coinvolta nel disboscamento illegale su larga scala in Camerun, sia direttamente che indirettamente. Questa società ha una storia di attività di disboscamento illegale e negli ultimi dodici mesi ha effettuato disboscamenti illegali al di fuori dei confini del suo permesso di taglio». Allo stesso tempo, attivisti di Greenpeace in Italia avevano iniziato a protestare contro l’importazione nel nostro paese di quello che accusavano essere legname illegale commerciato dalla Sim. L’Italia è, da almeno un ventennio, uno dei maggiori importatori di legname camerunense al mondo

Diversi media locali hanno ribadito nel tempo le presunte violazioni da parte della Sim delle leggi sul taglio del legname mosse dalle organizzazioni non governative. «La Sim […], nella regione di Mbam-et-Kim, detiene un monopolio virtuale sulle operazioni di disboscamento, conquistato grazie al sostegno attivo di un’élite locale molto influente», ha dichiarato a Cameroun24 un alto funzionario del Ministero delle Foreste. ​​«Si tratta di un’accusa pretestuosa che rasenta la diffamazione», ha ribattuto l’azienda contattata da IrpiMedia, aggiungendo che «la Sim è infatti un’azienda socialmente responsabile che opera nella massima trasparenza, nel rispetto di leggi e regolamenti».

Secondo le ricerche dell’Association des journalistes africains pour l’environnement, nel 2015, altri funzionari hanno definito le attività della Sim come «saccheggio illegale delle foreste». Anche le comunità locali hanno espresso le loro preoccupazioni, criticando la mancanza di compensazioni per i progetti di taglio dell’azienda. Una missione di osservazione indipendente condotta dall’ONG OIE Cameroun nel 2019 ha individuato un disboscamento non autorizzato nelle foreste pubbliche vicino ai villaggi di Kong e Mbasongo. Gli osservatori hanno concluso che «la Société Industrielle de Mbang (Sim) sarebbe responsabile dell’attività in corso nell’area», nonostante non abbia alcuna autorizzazione per operare nella zona.

Rispetto alle accuse mosse, la Sim ha dichiarato a IrpiMedia che: «È vero che gli ispettori hanno talvolta riscontrato infrazioni che, anche se di lieve entità, hanno portato a risarcimenti sotto forma di multe». In risposta a un’ulteriore richiesta di commento, l’azienda si è detta vittima di «campagne diffamatorie» comparse sulla stampa locale.

La fine dell’impero

Considerando le accuse che per quasi vent’anni si sono susseguite sulla gestione forestale della Sim, sarebbe fondamentale capire a quale titolo sarebbero stati erogati oltre 250 milioni di contributi pubblici, a cui si sommerebbe un emolumento personale al direttore della Sim Eugenio Matarazzi. Contattata via mail, l’azienda ha parzialmente risposto ad alcune delle domande di IrpiMedia, smentendo di aver mai ricevuto denaro pubblico. «Noi, Sim, non vendiamo nulla allo Stato del Camerun e non abbiamo mai richiesto né ricevuto alcuna sovvenzione dallo Stato. A titolo personale, il signor Eugenio Matarazzi non ha mai richiesto né ricevuto denaro dallo Stato camerunese». La Sim dichiara di essere creditrice nei confronti dell’amministrazione pubblica rispetto all’imposta sul valore aggiunto, per cui dice di aver ricevuto, fra 2020 e 2021, un rimborso di oltre 6.5 miliardi di franchi. Tuttavia, questo rappresenta solo una frazione dei 167 miliardi di franchi che, secondo la lista di transazioni in possesso di IrpiMedia, la Sim avrebbe ricevuto con causale «lavorazione legname». Secondo l’azienda, le autorità fiscali hanno compiuto una revisione dei conti della Sim dal 2017 al 2020, non riscontrando alcun illecito. 

Nel clima politico da “fine dell’impero” del quarantennale regime del presidente Paul Biya, le indagini sembrano però essere già state insabbiate. Nel silenzio caduto sui 67 beneficiari dell’equivalente di oltre mezzo miliardo di euro in sussidi statali, sono in pochi a parlare apertamente. 

Ai giornalisti recatisi sul campo per indagare sulla morte di Martinez Zogo, solo la leader dell’opposizione Kah Walla ha parlato on the record, dal suo ufficio di Douala. Nonostante sia stata arrestata già un paio di volte, dice: «Si può pensare che il regime di Biya sia pronto a crollare, ma dietro c’è tutta una sofisticata ingegneria politica. È una dittatura scientifica», afferma. «E quindi, quando è così, tutti hanno paura, perché nessuno conosce i limiti da non superare».

Walla è convinta che nell’omicidio del giornalista radiofonico, «uno dei clan al potere ha usato Martinez Zogo contro un altro, e voleva usare [il suo omicidio, ndr] per distruggere un’altra fazione. Questo è ciò che ha portato a tutti gli arresti a cui abbiamo assistito, arresti di alte personalità all’interno dei circoli del potere».

La conseguenza di tutto ciò, conclude la leader dell’opposizione, è che «tutto si è fermato all’improvviso. Come se ci fosse stato una sorta di accordo tra i rami in guerra; come se ci fosse stata una riunione notturna durante la quale avessero deciso di mettere la palla a terra. Come se si fossero detti: “Se cado io, cadete anche voi”. E all’improvviso, durante la notte, non ci sono stati più arresti». Pochi giorni dopo l’omicidio di Zogo, anche il direttore generale delle imposte, che aveva sollecitato a investigare sulle 67 transazioni sospette, è stato trasferito ad altro incarico. E della lista, così come dei suoi beneficiari, non si è più saputo niente.

CREDITI

Autori

Edoardo Anziano

Editing

Giulio Rubino

In partnership con

ZAM
The Guardian
The Continent
Premium Times Nigeria
ICIR Nigeria
Diario Rombe
DeCive
Platform for Investigative Journalism Malawi
Makanday Zambia
GIJN Africa
New Crusading Guide
NRC
Africa Uncensored

Foto di copertina

Sindiso Nyoni, 2023

Egitto, la svolta green è una farsa

#GreenWashing

Egitto, la svolta green è una farsa

Matteo Garavoglia

Sharm El-Sheikh è la capitale delle contraddizioni egiziane. Ha ospitato la Cop27, la conferenza mondiale per il clima, uno dei più attesi eventi mondiali per dare risposta all’emergenza ambientale. Il governo egiziano, per l’occasione, ha sfoggiato investimenti in energie rinnovabili e ha fornito a Sharm El-Sheikh una nuova flotta di veicoli non inquinanti. Un’operazione di facciata: il governo del presidente Abdel Fattah al-Sisi ha bisogno di fare cassa e la via più facile è ancora quella dell’esportazione delle fonti fossili, di cui l’Europa ha sempre più fame. Sharm El-Sheikh, dal canto suo, è un continuo cantiere di nuovi resort.

Il turismo di massa, sul quale la classe dirigente egiziana punta forte, in nome di guadagni a breve termine sta mettendo sempre più a repentaglio due dei motivi principali del suo stesso successo: la barriera corallina e il suo patrimonio archeologico. Benvenuti in Egitto, al crepuscolo del 2022.

I silenzi dopo la Cop27

La ventisettesima Conferenza delle parti, meglio conosciuta con la sigla Cop27, avrebbe dovuto porre l’attenzione sui problemi climatici della sfera Sud del mondo e ottenere un significativo cambio di rotta rispetto all’odierna situazione ambientale. Per un meccanismo di alternanza tra i continenti, questa edizione avrebbe dovuto essere in Africa e l’Egitto è stato l’unico Paese a presentarsi. Si è tenuta dal 6 al 20 novembre e ha portato circa 40 mila visitatori al Centro congressi internazionale di Sharm El-Sheikh realizzato dall’italiana Tonino Lamborghini.

Gli interventi sulla rete stradale realizzati nei mesi precedenti la Cop27 non hanno riguardato solo nuove viabilità: decine di chilometri di strade esistenti sono state allargate. Nell’immagine una superstrada a quattro corsie aumentata a dodici.

I risultati ottenuti dalla conferenza sono stati piuttosto modesti, secondo diversi commentatori. Non per le stesse Nazioni Unite, che considerano «una svolta» l’inserimento nel documento conclusivo del meccanismo risarcitorio definito loss and damage, «perdite e danni». Il sistema riconosce il diritto a una compensazione per i Paesi in via di sviluppo maggiormente interessati dai cambiamenti climatici, provocati finora dai Paesi più sviluppati.

Nessun passo avanti invece sul phase out, la fase di uscita dall’uso del carbone e altri elementi inquinanti, un argomento di dibattito da decenni. La Cop nasce infatti a seguito dei cosiddetti Accordi di Rio de Janeiro del 1992 per ridurre le emissioni di gas serra. La cancellazione del carbone e dei combustibili fossili sarebbe quindi fondamentale in vista di quest’obiettivo, reso tuttavia complicato dall’opposizione dei Paesi che ne fanno più uso come Cina o India.

La Cop è il principale strumento per prendere decisioni in merito a quanto stabilito dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (UNFCCC), carta del 1994 che perimetra le azioni per contrastare i cambiamenti climatici. Le “parti” che dialogano durante la conferenza sono i Paesi più e meno ricchi, le organizzazioni sovranazionali come le Nazioni Unite o l’Unione europea e osservatori accreditati provenienti anche dalla società civile. I tavoli di discussione sono su due livelli: uno mondiale, dal quale emergono gli accordi internazionali e l’altro più regionale, nel quale il Paese ospitante ha maggiore voce in capitolo. Questo secondo tavolo è sempre stato il principale interesse per l’Egitto.

Mano a mano che si avvicinava il giorno di chiusura della conferenza, però, tra gli analisti presenti in Egitto una voce si è fatta sempre più insistente: «La presidenza non sta lavorando bene. Non comunica con le parti, le bozze vengono trasmesse in ritardo e in generale c’è un silenzio mai visto prima».

La Sharm El-Sheik di Hosni Mubarak

È alla fine degli anni Novanta che Sharm El-Sheikh è stata ribattezzata «la città del presidente». Il riferimento era a Hosni Mubarak, l’ex militare che ha guidato il Paese per 30 anni, fino alla deposizione nel 2011. Mubarak ha messo le basi per lo sviluppo del turismo di massa e ha scelto la regione del Sinai come luogo per una serie di importanti incontri internazionali. Con gli anni Duemila, però, per il Sinai sono arrivati nuovi problemi che hanno interrotto il processo di trasformazione: a partire dal 2004, il Sud della regione è stato coinvolto in diversi attacchi terroristici; dal 2008, tutto l’Egitto ha dovuto affrontare una pesante recessione; nel 2011, appunto, la Primavera araba ha portato la Rivoluzione a Il Cairo. Per diversi anni l’area è stata instabile, come dimostra l’attacco dell’Isis a un volo di linea che trasportava 224 passeggeri russi nell’ottobre 2015.

Gli accordi fossili dell’Egitto

Quello di cui si è taciuto durante la Cop sono le concessioni per lo sfruttamento dei giacimenti di gas e combustibili fossili dalle quali l’Egitto continua a incassare. Solo la società di oil&gas italiana Eni ne ha 13, compresa Shourouk, un’area di 3.745 chilometri quadrati nel Mediterraneo. Al suo interno si trova Zohr, il più ricco giacimento di gas (riserva stimata: 30 milioni di miliardi di metri cubi) scoperto nel bacino mediterrano. «Questo successo esplorativo offrirà un contributo fondamentale nel soddisfare la domanda egiziana di gas naturale per decenni – commentava nel 2015 l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi -. Questa scoperta storica sarà in grado di trasformare lo scenario energetico di un intero Paese, che ci accoglie da oltre 60 anni».

Secondo l’ultimo rapporto dell’associazione ReCommon, Zohr vale il 30% della produzione totale della società italiana, il 60% di quella egiziana. Una situazione che garantisce ingenti introiti a entrambi le parti e che dal 2016 ha portato Eni a investire 11,6 miliardi di euro in Egitto. All’apertura della Conferenza dell’energia egiziana, a ottobre 2022, il presidente al-Sisi ha dichiarato che senza la ridefinizione dei confini marittimi grazie ai quali Zohr è una risorsa nazionale, l’Egitto sarebbe finito al buio a causa delle scarsità di risorse per produrre energia elettrica, riportano i giornali egiziani. Eppure Il Cairo preferisce sacrificare il fabbisogno interno pur di garantire l’export, in particolare in Europa. Il deficit viene colmato dall’utilizzo di mazut, una miscela di idrocarburi che contiene tossine come solfuri e metalli pesanti e ha un forte impatto sull’ambiente.

Secondo i dati dell’Agenzia egiziana di regolamentazione per l’elettricità e la protezione dei consumatori, a ottobre 2022 la percentuale di mazut impiegato nelle centrali elettriche era del 30%, nel 2021 era poco meno del 4%.

«A maggio scorso l’Egitto ha pubblicato la sua strategia per ridurre le emissioni di carbone entro il 2030. I più ottimisti affermano di voler portare le rinnovabili entro quell’anno al 42%. È impossibile, al momento non valgono più del 10% su scala nazionale», spiega a IrpiMedia Mariam Attalla, ricercatrice all’Istituto di studi politici di Parigi (Sciences Po). «L’Egitto vuole presentarsi come un hub dell’energia, da una parte continua a firmare accordi sul gas, dall’altra promuove l’utilizzo di energie rinnovabili – commenta Giulia Giordano del think tank Ecco – una tendenza che si è aggravata con la crisi energetica in corso ma che esiste già dal 2018, quando il giacimento Zohr gestito da Eni è entrato completamente in funzione».

L’aeroporto internazionale di Sharm El-Sheikh è il secondo scalo egiziano per dimensioni e numero di passeggeri. Alla Cop27 hanno partecipato circa 40.000 persone, la quasi totalità delle quali è arrivata via aerea.

Eppure nei giorni della Cop27 i diplomatici egiziani si sono dati da fare per stringere nuovi accordi “puliti” con l’Europa. Durante il suo discorso alla conferenza, il presidente al-Sisi ha dichiarato che «i Paesi in via di sviluppo, incluso l’Egitto, stanno facendo passi da gigante» nello sviluppo dell’idrogeno verde, riferendosi a un accordo fresco di firma stretto da Il Cairo con il governo norvegese per costruire un mega impianto all’idrogeno sul Mar Rosso. Sempre durante la Cop27, l’Egitto ha siglato un memorandum of understanding con la Commissione europea per cooperare su produzione, consumo e vendita di idrogeno, riportano i media egiziani.

«Era da tempo che aspettavo questo momento. Dobbiamo decarbonizzare rapidamente le nostre società e le nostre economie. Ma non vogliamo farlo con la deindustrializzazione», è stata la reazione del vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans.

Un altro accordo, il più importante, lo ha annunciato lo stesso presidente degli Stati Uniti Joe Biden alla conferenza: 500 milioni di dollari da parte di Stati Uniti, Unione europea e Germania per facilitare il processo di decarbonizzazione dell’Egitto. Un pacchetto che «consentirà di distribuire 10 gigawatt di energia rinnovabile entro il 2030 riducendo le emissioni in Egitto e nel settore energetico del 10%».

I progetti rinnovabili egiziani, sostiene la ricercatrice di SciencesPo Attalla, non stanno procedendo secondo i piani del governo, anche se le promesse di produzione di energia verde sono un traino importante per gli investimenti esteri, soprattutto quelli dell’Unione europea: «L’idrogeno non è una priorità per l’Egitto: che sia verde o blu costa troppo e il Paese non può permettersi questo tipo di investimenti», conclude.

Idrogeno verde e idrogeno blu

I due “colori” dell’idrogeno indicano due tipologie di prodotti molto diversi. L’idrogeno verde è prodotto con un processo di elettrolisi  dell’acqua, molto costoso ma completamente privo di emissioni climalteranti. Quello blu, invece, produce molta anidride carbonica, che andrebbe a sua volta catturata.

Per approfondire, consigliamo la lettura di La partita dell’idrogeno, le lobby in campo per orientare il Green Deal.

In giugno, Israele, Unione europea ed Egitto hanno siglato un altro memorandum sul gas in cui le tre parti «si impegneranno a lavorare collettivamente per consentire una fornitura stabile di gas naturale all’Ue che sia coerente con gli obiettivi di decarbonizzazione a lungo termine e si basi sul principio dei prezzi orientati al mercato». In cambio, la presidente della Commissione europea ha garantito un aiuto da 100 milioni di euro per rispondere alla carenza di grano a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina, fornitrice di circa l’80% del grano consumato in Egitto.

Una colata di asfalto: il primo effetto visibile della Cop27 è stato il potenziamento della rete stradale già esistente creando chilometri di nuove strade come quelle realizzate nei pressi del centro congressi in cui si è tenuta la conferenza sul clima.

Cemento su Sharm, la barriera corallina è sempre più in pericolo

Per accogliere i visitatori della Cop27, Sharm El-Sheikh si è trasformata: ha implementato un sistema di bus elettrici gratuiti, un sistema di illuminazione in gran parte alimentato da energie rinnovabili e un sistema di riuso delle fonti idriche. Investimenti notevoli per una regione che storicamente soffre di scarsità d’acqua.

Le buone notizie, però, finiscono qui. Se c’è un lascito della Cop27 nella città egiziana, sarà certamente l’asfalto utilizzato per rifare le strade limitrofe ai luoghi della Conferenza – oltre al Centro congressi Lamborghini, anche due strutture temporanee. In alcuni casi sono state anche allargate da quattro a dodici corsie, lasciando più di un dubbio sul loro reale funzionamento futuro in un’area che storicamente non ha mai sofferto problemi di traffico urbano. L’altro aspetto da tenere in considerazione è che queste arterie stradali sono già state oggetto di rifacimento nel 2018. La colata di asfalto nel 2022 è stata gettata solo in vista della Cop27.

Poi ci sono le fonti di inquinamento storiche: Sharm El-Sheikh è il secondo scalo aeroportuale egiziano. Il turismo di massa, fondamentale fonte di reddito, garantisce all’erario egiziano 6,5 miliardi di euro all’anno. I visitatori però sono da tempo troppi: il solo parco naturale di Ras Muhamad – l’estrema punta meridionale della penisola del Sinai, dove si trova Sharm – negli anni pre Covid-19 accoglieva circa 200 mila persone all’anno al netto di una soglia raccomandata di circa 7-15 mila.

La collaborazione con PlaceMarks

PlaceMarks è un progetto giornalistico che elabora e analizza immagini satellitari allo scopo di evidenziare i cambiamenti ambientali, sociali e territoriali.

I lavori a Sharm El-Sheikh sembrano non finire mai. La costante costruzione di nuovi resort di lusso per accogliere nuovi turisti ha completamente trasformato le coste, arrivando a impedire ai locali l’accesso libero alle spiagge. Le immagini satellitari mostrano decine di cantieri aperti per nuovi alberghi che risalgono al periodo precedente la pandemia di Covid-19.

Per quanto manchino studi quantitativi sul tema, il ricercatore del Tokyo Institute of Technology Ahmed Eladawy sottolinea in un’intervista a IrpiMedia che l’impatto del turismo di massa sugli oltre 1.500 chilometri di barriera corallina del Mar Rosso minaccia di far perdere allo Stato entrate per 5,3 miliardi di euro all’anno entro il 2100.

Nuove urbanizzazioni e viabilità realizzate negli ultimi mesi. Anche in questo caso appare evidente la sproporzione fra la densità di edifici e le sezioni delle strade: nastri d’asfalto a 8 corsie che corrono tra la sabbia.
Il bollino di sostenibilità

Nel 2017 l’Egitto ha redatto il suo primo NDC, sigla inglese che identifica il piano nazionale che i Paesi che partecipano alle Cop sul clima si possono impegnare a perseguire per contenere le proprie fonti inquinanti, con obiettivi a medio e lungo termine (2030 e 2050). L’Egitto ha firmato la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, la carta che dà accesso ai tavoli negoziali della Cop, nel 1994 ed è stato uno dei primi Paesi a chiedere il rispetto del principio di rispondere a questi effetti a seconda del grado di responsabilità delle emissioni.

Già nel 2017 il turismo occupava un posto di primo piano per la possibile transizione energetica: «Il settore deve sforzarsi a utilizzare strutture a basse emissioni di carbone e rendere più ecologici gli hotel e i resort, principalmente attraverso l’uso di energie rinnovabili».

L’associazione degli alberghi egizianI (Eha) per dimostrare il proprio impegno per il clima ha così istituito una certificazione valida due anni attraverso cui i proprietari di hotel possono attestare «la loro conformità alle pratiche ecologiche come il risparmio energetico, la conservazione dell’acqua e la formazione del personale», scrive il sito di informazione egiziano Mada Masr, reso visibile durante la Cop27 dopo cinque anni di oscuramento. La certificazione, molto sponsorizzata dalle autorità pubbliche, costa tra i 200 e i duemila euro e a Sharm El-Sheikh è stata ottenuta da 120 alberghi sui 160 e 60 centri di immersione, scrive il sito.

Archeologia a rischio: il monastero di Santa Caterina

«Il monastero ortodosso di Santa Caterina sorge ai piedi del Monte Horeb dove, secondo l’Antico Testamento, Mosè ricevette le Tavole della Legge. L’intera area è sacra per il Cristianesimo, l’Islam e il Giudaismo». Lo scrive l’Unesco sulla pagina del proprio sito. Dal 2002, il Monastero di Santa Caterina è patrimonio dell’umanità. Vent’anni dopo quel riconoscimento, il presidente al-Sisi ha presentato il Great Transfiguration Project, un piano governativo per trasformare l’area, che si trova a 200 chilometri da Sharm El-Sheikh, in un polo turistico con hotel, campi da golf e mercatini per vendere prodotti tipici del Sinai ed erbe medicinali.

«Il progetto è finanziato dalla Autorità per le nuove comunità urbane sulla base delle direttive del presidente Abdel Fattah al-Sisi per sviluppare l’area di Santa Caterina che gode di un alto valore storico e spirituale», furono le parole del ministro dell’edilizia Assem al-Gazzar al momento del lancio del progetto.

Molte aree costiere della zona di Sharm sono occupate da cantieri di nuovi resort. In diversi casi le costruzioni risalgono al periodo precedente la pandemia di Covid-19 e i lavori sembrano tuttora sospesi.

I tempi e i costi di realizzazione, però, non sono stati ancora stimati. L’ultimo aggiornamento risale a gennaio 2022, quando al-Sisi si è fatto immortalare mentre osserva un plastico dell’area di Santa Caterina in una riunione con funzionari e progettisti. In quell’occasione i giornali egiziani hanno riportato un costo previsto, per la prima fase di costruzione, di circa 255 milioni di dollari.

Qualcuno sta cercando già ora di misurare l’impatto del Great Transfiguration Project sulla popolazione locale e sull’ambiente. «I lavori sono iniziati a fine 2021. Anche se non ci sono stime, grazie a fonti sul campo si può dire che siamo al 70% dei lavori terminati», afferma Mohannad Sabry, giornalista investigativo che abita nella regione. Sottolinea quanto il progetto si trovi «in un ambiente molto fragile», «un’area archeologica protetta» dove le leggi egiziane limitano in teoria la possibilità di costruire. «Questo progetto – afferma – viola diverse leggi, si tratta di mera speculazione. Saranno versati migliaia di metri cubi di cemento in un’area a rischio come il santuario di Santa Caterina», conclude.

IrpiMedia ha ottenuto una copia del piano di sviluppo del governo, risalente al marzo 2021 e promosso dal ministero dell’Edilizia, che mostra l’impatto della costruzione di un nuovo ecolodge, ovvero una struttura ricettiva a impatto ambientale minimo. A vedere i progetti, di minimo non ha nulla: si parla di una fascia di cemento armato con 216 stanze su 16.950 metri quadrati e ancora un hotel sviluppato su 20.855 metri quadrati, il rinnovamento del centro turistico locale per un totale di 5.876 metri quadrati, la costruzione di nuove abitazioni stimate a 700 unità e 440 chalet, 450 ville, 4 hotel e 490 chalet di benessere. Il tutto a scalare una montagna e a riempire una valle dove prima sorgeva natura incontaminata.

Con una superficie di oltre 115.000 metri quadrati, la laguna artificiale del resort City stars oggi in costruzione sarà la più grande del mondo. Per riempirla occorreranno almeno 150 milioni di litri di acqua dolce.

Questo è l’impatto a livello di numeri su una città che a oggi conta novemila persone ma che presto potrebbe portare migliaia di lavoratori da diverse zone dell’Egitto, i quali probabilmente confluiranno dalla nuova autostrada che collegherà Santa Caterina ad al-Tur, nel golfo di Suez. Settanta chilometri lungo la valle di Hebran che secondo gli esperti, vista la natura orografica del Sinai meridionale, potrebbero aumentare i rischi di inondazioni nell’area.

«La popolazione locale sta già cominciando a pagare il prezzo, è la prima che paga – prosegue il giornalista Sabry – ci sono case che sono state demolite, anche il cimitero locale e le autorità non hanno avvisato nessuno».

Quando si parla di popolazione, in questa zona bisogna fare riferimento alle tribù o confederazioni beduine che da secoli vivono nel Sinai del sud. A Santa Caterina c’è il gruppo dei Jebeliya, letteralmente “il popolo della montagna”, che da sempre ha vissuto di coltivazioni, piccoli allevamenti e ai margini della società egiziana, storicamente inospitale nei confronti delle persone di origine beduina, che con il nuovo sviluppo immobiliare rischia di essere esclusa dai suoi territori, come già accaduto a Sharm El-Sheikh.

Le immagini del cantiere del nuovo progetto turistico nei pressi del Monastero di Santa Caterina, con due gradi di zoom.

«Pensare di costruire un progetto di questo tipo non ha logica – aggiunge Sabry -. Santa Caterina richiama un turismo legato alla religione e al culto di luoghi sacri, è molto diverso rispetto a luoghi come Sharm El-Sheikh. Il secondo problema è che in Egitto c’è ancora un problema di sicurezza legato agli attentati del 2011 e non ci sono più i numeri di una volta. Il terzo è che la popolazione locale non riceverà benefici da queste opere perché di fatto è già stata spostata con la forza. Se si vuole chiamare con il suo nome, qui si vuole proporre una Las Vegas, è un progetto megalomane».

Nei Vangeli di Marco, Luca e Matteo, si narra che Gesù, per mostrarsi ad alcuni discepoli, «trasfigurò»: cambiò cioè aspetto, mostrandosi più bello e vestito di abiti candidi. Anche Santa Caterina sembra destinata a trasfigurare: da sacro a profano. O a qualcosa di peggio.

CREDITI

Autori

Matteo Garavoglia

Analisi satellitare

Federico Monica

In partnership con

Editing

Cecilia Anesi
Lorenzo Bagnoli

Map data

Google/Maxar

Foto di copertina

Uno scorcio della costa egiziana. Forme curve e sinuose, grandi edifici in linea o piccole costruzioni isolate: sono le geometrie caotiche disegnate dai resort, pensati e progettati come mondi a sé stanti, senza alcuna relazione col contesto circostante
(Placemarks)

Una chimera chiamata metano sintetico 

#GreenWashing

Una chimera chiamata metano sintetico 

Raffaele Angius
Piero Loi

Combustibili sintetici o «elettrico»? È la domanda che agita i comparti economici tradizionalmente legati ai fossili come l’automotive e l’oil & gas, di cui fanno parte anche i distributori del gas, oggi intenzionati a trasformarsi in produttori di idrogeno e metano sintetico. Un cambio di prospettiva che crea un’inedita alleanza nel nome dei “gas rinnovabili”. Da una parte Stellantis critica la messa al bando dei veicoli a combustione interna proposta dalla Commissione europea nell’ambito del Green Deal. Dall’altra il primo operatore italiano della distribuzione del gas, Italgas, chiede all’Europa attraverso la lobby GD4S – Gas Distributors for Sustainability – di riconoscere i carburanti sintetici come strumento nella lotta al cambiamento climatico.

L’obiettivo comune è contrastare la politica delle “emissioni zero” per le autovetture e i piccoli veicoli commerciali. Ridurre del 100% la CO2 entro il 2040 – come proposto durante l’ultima Conferenza delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici (Cop26), comporterebbe, infatti, l’uscita di scena dei motori alimentati a benzina, diesel e metano a favore dell’elettrico. Ecco perché solo Volvo, Ford, GM, Mercedes-Benz, la cinese BYD e Jaguar Land Rover misero nero su bianco il loro impegno verso l’elettrico, sottoscrivendo l’accordo proposto a Glasgow. Il grosso del comparto automobilistico – che conta Stellantis, Bmw, Renault, Hyundai, Toyota e il gruppo Volkswagen – chiede di considerare tutte le tecnologie di decarbonizzazione disponibili al momento. E, in particolare, i combustibili sintetici. Per queste case automobilistiche, passare direttamente all’elettrico creerebbe problemi economici e sociali.

Ecco perché nell’ultimo periodo si è sentito tanto parlare di metano sintetico. Ma di cosa si tratta ed è davvero a portata di mano? La sua produzione era prevista nell’impianto “Power to gas” (dall’energia elettrica al gas, ndr) che Italgas realizzerà a Sestu, Area metropolitana di Cagliari. Ma oggi risulta congelata. «Vedremo in un secondo momento», spiega l’azienda a IrpiMedia. Sulla carta, per produrlo basterebbe far reagire idrogeno e carbonio. Ma nella pratica gli esperti sottolineano limiti tecnici ed economici difficilmente superabili.

I carburanti sintetici, idrocarburi fatti in laboratorio, di cui il metano rappresenta il più semplice da ottenere, sono l’ultima frontiera a cui guardano l’automotive e l’oil & gas per rimanere a galla mentre il resto del mondo chiede una stretta definitiva sulle emissioni climalteranti. Ma non sono gli unici interessati. Anche l’industria punta sulla produzione del metano sintetico, in modo particolare quella del cemento.

Il glossario

Gas rinnovabili: si tratta di gas combustibili non fossili che, per la legislazione europea ancora in corso di definizione, vengono considerati strumento efficace del processo di decarbonizzazione richiesto dalle nuove politiche contro i cambiamenti climatici. La definizione è basata o sul basso livello di emissioni prodotte, o sul processo di produzione.

e-fuel / Carburanti sintetici: sono idrocarburi non fossili prodotti “in laboratorio” tramite processi di sintesi. Di base tutti gli idrocarburi sono molecole a base di carbonio e idrogeno, e possono quindi essere prodotti da una miscela di questi elementi.

Metano sintetico: è il più semplice dei carburanti sintetici. La formula del metano (CH4) è composta da un atomo di carbonio e quattro di idrogeno. Sembrerebbe il primo carburante sintetico che sarà prodotto su scala industriale

Idrogeno verde: idrogeno ottenuto tramite elettrolisi dell’acqua, alimentata esclusivamente da elettricità ottenuta da fonti rinnovabili al 100%, come eolico o solare.

Idrogeno blu: idrogeno prodotto dalla scomposizione di gas fossile, un processo inverso a quello dei carburanti di sintesi. La sua produzione (da gas fossile) separa idrogeno e carbonio. Per essere considerato “blu” (e quindi “a basse emissioni”) deve essere prodotto assieme a un processo di cattura del carbonio affinchè non sia rilasciato nell’atmosfera. Tale tecnologia al momento non sembra aver raggiunto livelli efficaci.

Blending: “miscelazione”, nel contesto di questo articolo fa riferimento all’intenzione dei distributori del gas di mischiare assieme idrogeno e metano nella rete di distribuzione già esistente.

Questi combustibili rispondono, almeno in teoria, a tutte le richieste degli ambientalisti: si parte dall’idrogeno “verde” (prodotto per elettrolisi dell’acqua usando energia elettrica da eolico o solare), lo si mischia con la CO2 (sulla cui provenienza i progetti sono molto vaghi) ed ecco un carburante tradizionale utilizzabile dai normali motori a combustione. Peccato che, secondo uno studio pubblicato dal think tank tedesco Agora Verkehrswende che si impegna a studiare strategie di decarbonizzazione, l’efficienza finale di un carburante sintetico, al netto di sprechi e perdite lungo la catena, sia appena del 13%, contro il 69% delle batterie.

Anche la stessa Italgas ha dovuto cedere di fronte a questi limiti e, a Sestu, resta confermata solo la produzione di idrogeno, che avrà due utilizzi. Uno, tra i primi in assoluto in Italia, è il rifornimento di mezzi del trasporto pubblico. L’altro, invece, è l’immissione dell’idrogeno nella rete cittadina del gas, insieme al metano fossile. In percentuali così basse però da risultare irrisorie. Quanto basta, tuttavia, ai distributori per rivendicare la centralità delle reti del gas nell’assetto energetico di domani. Insomma, il greenwashing è servito.

Il miraggio della riduzione delle emissioni entro il 2030

In Europa la bussola contro il riscaldamento globale si chiama Fit for 55. Si tratta del decalogo di norme cui l’Unione europea affiderà l’obiettivo di ridurre del 55% – rispetto al 1990 – le emissioni di gas serra entro il 2030.

L’ultima proposta della Commissione europea risale allo scorso dicembre. Riguarda la decarbonizzazione del mercato del gas e contiene buone notizie per tutti i sostenitori dei gas rinnovabili: idrogeno, biometano e metano sintetico vanno bene, e possono anche usufruire di agevolazioni fiscali nei punti di immissione. A patto che la quota totale di gas serra emessi venga ridotta del 70%. A conti fatti, una vittoria per le case automobilistiche che si oppongono alla proposta della Commissione europea di mandare in soffitta il motore a combustione entro il 2035, chiedendo nel frattempo un “periodo di transizione” in cui l’elettrico venga affiancato dai carburanti sintetici.

Ma è anche la vittoria di GD4S (presieduta fino a gennaio da Paolo Gallo, amministratore delegato di Italgas) che ha chiesto e ottenuto che il conteggio delle emissioni dei cosiddetti “gas rinnovabili” sia riferito al loro ciclo di vita. In pratica, non contano le emissioni generate al tubo di scappamento (il modo più efficace di contenere l’inquinamento), ma quanti gas serra vengono riciclati. Poco importa, dunque, che la combustione del metano sintetico e del biometano (i gas rinnovabili) abbia lo stesso impatto del gas fossile.

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Una riduzione delle emissioni del 70% non è uno scherzo. Per raggiungerla, i produttori di metano sintetico devono utilizzare CO2 da riciclo, catturata, cioè, da sorgenti emissive (un processo industriale, ad esempio). In questo modo, la combustione rilascerebbe solo l’anidride carbonica utilizzata per produzione del metano. Un ciclo neutrale, almeno in teoria, al netto delle perdite lungo il processo.

Ma la cattura della CO2 è lo scoglio su cui il progetto di Italgas si è infranto: la tecnologia necessaria è troppo sperimentale e costosa. Ma andiamo con ordine.

A fine 2020 la società torinese si rivolge al CRS4, il centro di ricerca della Regione Autonoma della Sardegna per studiare la fattibilità dell’impianto di Sestu. Un accordo che ha portato Gallo ad annunciare «la possibilità di produrre gas rinnovabili come idrogeno e metano sintetico».

Oggi, invece, è chiaro che «il metano sintetico non si farà, perché sarebbe necessario avere il sistema di cattura della CO2», spiega il ricercatore Alberto Varone, referente del CRS4 per il progetto Italgas, che aggiunge: «La società ci ha chiesto supporto solo sull’idrogeno, sono stato io a dire che il secondo step è il metano sintetico». Ma l’accordo tra Italgas e il CRS4, non risulta rinnovato. In ogni caso, Italgas deve averlo preso in parola, visto che per mesi ha continuato a presentare il combustibile sintetico come un vero e proprio prodotto di punta del Power to gas.

Al netto del battage, Italgas pensa al metano sintetico già dal 2019, come mostra la Dichiarazione finanziaria non consolidata di quell’anno. Ma in terra sarda ha scoperto che catturare la CO2 non è facile. E che deve essere il più possibile pura, visto che i catalizzatori sono macchine delicate. Un requisito che non è sempre possibile soddisfare.

La CO2 può essere ottenuta dal biogas, che di anidride carbonica è ricco, nell’aggiornamento al biometano. «Ma al momento è più facile a dirsi che a farsi», commenta il ricercatore. Oppure grazie alle celle combustibili a ossidi solidi, dove il metano viene scisso in idrogeno e CO2. Ma, spiega Varone, «si tratta di una tecnologia molto cara». Ancora più futuribili sono le opzioni che prevedono il sequestro della CO2 dai fumi delle centrali termoelettriche: stando a quanto apprende IrpiMedia, un decennio di esperimenti non ha prodotto risultati apprezzabili e l’idea è rimasta confinata all’attività di laboratorio.

In questo caso, inoltre, sorgerebbe un problema di scala: per tramutare in metano sintetico la grande quantità di CO2 sequestrata sarebbe necessaria una quota di idrogeno ancora più elevata. Infatti, per fare una molecola di CH4 (metano) ne servono 4 di idrogeno e appena una di CO2. E produrre l’idrogeno costa. Specie in tempi di caro-energia. D’altra parte, l’impianto di Sestu non si limiterà a utilizzare l’energia generata dal parco fotovoltaico associato, ma attingerà anche dalla rete (lasciando così a eventuali problemi di certificazione la possibilità di dire che il prodotto ottenuto sia davvero green).

Ciò che emerge, dunque, è un quadro non confortante per il metano di sintesi, combustibile promesso di un nuovo corso a emissioni ridotte. «Al momento, non esistono impianti che chiudano il ciclo (dall’idrogeno al metano sintetico, passando per la CO2, ndr)», continua Varone. Insomma, i combustibili sintetici – intesi come gas rinnovabili, per tornare al pacchetto Fit for 55 – non sono una soluzione efficace e a breve termine, che è quanto servirebbe nella fase di transizione energetica ed esattamente il punto principale della “promozione” delle lobby di gas e auto.

La transizione impossibile

A questa deludente constatazione è arrivata, ultima in ordine di tempo, anche la Germania. Al fianco dei produttori di automobili, il governo tedesco ha tirato a lungo la fune in favore dei carburanti sintetici: la speranza era quella di ridurre le emissioni delle macchine già in circolazione. Ma lo scorso 14 gennaio anche il ministro dei Trasporti, Volker Wissing, ha dichiarato: «Per il prossimo futuro non avremo abbastanza carburante sintetico per alimentare le autovetture con motore a combustione interna attualmente immatricolate» e ancora: «Dobbiamo utilizzare i diversi vettori energetici dove sono più efficienti», ha affermato: «Nel caso dei veicoli personali, questo è il motore elettrico». Posizione parzialmente rivista, come affermato dallo stesso ministro, alla luce del conflitto tra Russia e Ucraina, che obbligherà i Paesi europei a ricalibrare le proprie strategie in ambito energetico.

Chi, da sempre, definisce strategici i combustibili sintetici è l’associazione europea delle industrie automobilistiche (ACEA) di cui fanno parte Stellantis, Volkswagen, Renault e BMW, tra le altre. Anche perché – viene sostenuto – non ci sono ancora abbastanza stazioni di ricarica per le auto elettriche.

Anche Carlo Tavares, Ceo di Stellantis (il gruppo che raccoglie marchi come Fiat, Jeep, Maserati, Alfa Romeo e Lancia), non ha perso occasione, negli ultimi anni, per ribadire che la scelta dell’elettrico è un’imposizione dei governi e che una transizione graduale sarebbe stata preferibile. Nonostante tutto, le case automobilistiche si stanno preparando a diversi scenari. Emblematico è proprio il caso di Stellantis – il cui piano industriale sarà pubblicato a marzo – che ha adottato l’idrogeno per alcuni veicoli commerciali e spinto sull’ibrido (motore a combustione e motore elettrico) su diversi modelli.

Blending a tutto gas

Congelato il metano sintetico, a Sestu rimane invece in piedi il blending, l’iniezione, cioè, di miscelare idrogeno-gas naturale nelle reti cittadine del gas. Di questa possibilità si parla da quando SNAM, nel 2019, inserì a Contursi Terme, in provincia di Salerno, una percentuale pari al 10% in volume di idrogeno nella propria rete di trasmissione. Nel caso di Sestu, almeno all’inizio, la percentuale si attesterebbe tra il 2 e il 3%, per poi crescere nel tempo, riferisce Italgas a IrpiMedia.

Il blending consiste nel miscelare idrogeno e gas naturale nelle reti cittadine.

A Sestu la percentuale di idrogeno si attesta tra il 2 e il 3%.

La parola su cui concentrarsi è “volume”: in termini strettamente energetici, infatti, la quota dell’idrogeno presente in miscela è di gran lunga inferiore al 10%. E la ragione è presto detta: l’idrogeno è un gas meno denso rispetto al metano, perché presenta un peso molecolare inferiore. Pertanto, a parità di volume, l’idrogeno eroga meno energia. Il risultato è che la quota di energia rappresentata dall’idrogeno è pari a uno “zero virgola”, insomma, si continua ad andare a gas.

Con l’idrogeno non si scherza. Ad esempio, può alterare le prestazioni dell’acciaio, causando danni ai metanodotti, ma spesso l’ultimo miglio del trasporto verso le abitazioni avviene attraverso tubi di polietilene, come a Sestu. Ciò rende il blending ancora più sperimentale, per così dire.

Chi si è preoccupato di valutare gli effetti del trasporto di quantità crescenti di idrogeno in questi tubi è il distributore del gas britannico SNG. Anche Italgas sostiene che il polietilene sia un materiale affidabile. Ma il punto è un altro: bisogna stare attenti anche agli effetti che l’idrogeno può avere sulle utenze domestiche. In quote maggiori del 5 o del 10% in volume potrebbe compromettere le apparecchiature domestiche (caldaie e fornelli). L’idrogeno ha infatti una temperatura di fiamma più elevata. Ecco perché nell’ambito del progetto della SNG i 300 utenti che partecipano alla sperimentazione verranno dotati di apparecchiature hydrogen ready.

I problemi non finiscono qui: sul blending, infatti, non esiste ancora una normativa di riferimento. Certo, attorno alla questione c’è fermento: lo scorso 15 dicembre la Commissione europea ha mostrato la sua politica sul blending, proponendo di fissare al 5% in volume la percentuale di idrogeno miscelabile nelle pipeline, si legge nelle due proposte (di direttiva e di regolamento) che compongono il pacchetto Fit for 55 sulla decarbonizzazione delle reti del gas.

A livello italiano, invece, per agevolare il blending nell’immediato si pensa alla modifica del decreto del Ministero dello sviluppo economico che regola l’immissione del gas in rete. Ma si attendono ancora gli enti certificatori, in modo particolare l’UNI (e a livello europeo il CEN), ancora al lavoro sulle norme tecniche. Del blending si sta occupando anche l’Autorità di regolazione per l’energia, che di recente ha chiesto al ministero della Transizione ecologica di fissare ‪le percentuali di idrogeno iniettabili.

Stoccaggio in rete e lobbying a Bruxelles

Ma nulla frena le società distributrici, che chiedono la possibilità  di immettere quantitativi crescenti di idrogeno in rete. Ancora prima di produrlo. E c’è una ragione: il blending è l’espediente utilizzato per stoccare l’idrogeno e sostenere l’importanza strategica delle reti di distribuzione. Utilizzare bombole o depositi ad alta pressione (fino a 700 bar), infatti, si rivela estremamente sconveniente, ci rivela una fonte. E aggiunge: «Serve troppa energia, e la sostenibilità economica dell’impianto è al limite». La conferma dello stoccaggio praticato in rete arriva anche dall’attività di lobbying condotta da GD4S. L’ultima sortita in ordine di tempo è quella del 13 ottobre 2021, quando Gallo incontra la commissaria per l’energia Kadri Simson.

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Sul tavolo c’è un documento il cui titolo è un manifesto programmatico: Reti del gas, la chiave che abilita la decarbonizzazione. Nel Libro Bianco si chiede la possibilità di immettere volumi crescenti di gas rinnovabile attraverso una revisione delle regole in materia di iniezione, compresa la socializzazione dei costi di connessione nelle tariffe di rete sul mix dei gas. Insomma, per produrre il metano sintetico servono agevolazioni.

Il ritorno del metano sintetico

Sebbene il vento non sia ancora quello giusto non si può dire che Italgas abbia desistito dall’ipotesi di produrre metano sintetico. Il 18 gennaio l’azienda ha reso nota la stipula di un accordo con Buzzi Unicem, gruppo cementiero internazionale «per studiare la conversione dell’energia elettrica da fonti rinnovabili in gas sintetico che verrà utilizzato per alimentare le caldaie e i forni delle nostre fabbriche», ha spiegato a IrpiMedia Luigi Buzzi, direttore tecnico della società: «La prima fase riguarda l’elettrolisi dell’acqua per generare idrogeno da sottoporre a un processo di metanazione, reso possibile dalla CO2 catturata durante la produzione del cemento». In breve, si tratta di realizzare il ciclo completo del Power to gas – quello che non è stato possibile fare a Sestu – a partire dalla CO2 prodotta da impianti già esistenti.

I cementifici di fatto possiedono il sacro graal del metano sintetico: un’anidride carbonica pura, necessaria per la produzione dei carburanti artificiali. Il sequestro viene sperimentato nell’ambito del progetto Clean Clinker, attivato con i fondi del programma europeo Horizon 2020 e «attualmente in fase di test su scala pilota nel nostro cementificio di Vernasca (PC)», aggiunge Buzzi: «Tra qualche mese avremo importanti riscontri sulla fattibilità industriale di una simile soluzione».

Un progetto che rianima l’iniziativa sul carburante sintetico, ma portandolo lontano da Sestu. Perché il problema principale è quello del trasporto: gli impianti devono essere prossimi al luogo in cui si cattura la CO2. L’idea, in definitiva, è quella di trasformare la CO2 da problema a risorsa, ma lungo questa strada si corre il rischio di trasformare il gas e la CO2 in merci di alto valore, di cui si incentiva dunque la produzione.

Riceviamo da Italgas, pubblichiamo e rispondiamo

Gentile direttore,

spiace constatare come l’articolo pubblicato sul sito web https://irpimedia.irpi.eu/ datato 2 marzo 2022, dal titolo “Una chimera chiamata metano sintetico”, tenda a sminuire l’importanza strategica del progetto Italgas per la produzione di idrogeno verde riducendolo, agli occhi del lettore, a un esperimento che avrebbe come vero, ma illusorio, obiettivo quello di arrivare a produrre metano sintetico nel tentativo di promuovere la sostenibilità dei motori termici e contrastare in tal modo la diffusione delle motorizzazioni elettriche.

Il progetto in sintesi. A Sestu, in provincia di Cagliari, Italgas e altri soggetti di primaria importanza nel campo dell’energia e della ricerca scientifica stanno lavorando alla realizzazione di un’importante iniziativa, unica nell’UE, che ha come obiettivo primario la produzione di idrogeno da fonte rinnovabile e tra gli obiettivi incrementali la successiva realizzazione di una sezione di metanazione per trasformare parte dell’idrogeno prodotto in metano sintetico, utilizzando a tale scopo l’anidride carbonica prodotta da altri processi, e quindi sottraendola al prevedibile destino di essere immessa in atmosfera. 

Non è fantascienza e non è difficile scorgere i molteplici vantaggi di questo progetto, sia dal punto di vista dell’opportunità di accedere a una nuova fonte di energia – allo stesso tempo anche vettore – distribuibile a mezzo rete, utilizzandolo per l’industria locale che potrebbe vantare produzioni green al 100, sia anche nei trasporti urbani, una delle principali cause dell’inquinamento atmosferico dei nostri centri abitati.

E non è per caso che il ministero dello Sviluppo Economico, nell’ambito delle iniziative di politica industriale promosse dall’Italia in raccordo con gli altri Stati Membri della UE e la Commissione Europea, ha ammesso il progetto Italgas nella short list IPCEI (Important Projects of Common European Interest) sul tema idrogeno.

Tuttavia, il vostro Raffaele Angius, autore dell’articolo in questione, non vi scorge questo ma solo un’azione di greenwashing in cui, per usare le sue parole, «le lobby del gas e dell’auto dichiarano che non siamo “pronti” a passare all’elettrico, ma che servono “carburanti di transizione”. Italgas li studia e tali prodotti appaiono ancora meno pronti dell’elettrico stesso».

Eppure ci siamo premuniti di fornire al vostro redattore ogni elemento utile per la comprensione del progetto. Un peccato se poi ne è derivata una rappresentazione alquanto strabica.

 In base alla previsioni attuali, il progetto vedrà la luce nel corso del 2023 e sarà nostra cura invitare lei e Raffaele Angius a visitare l’impianto nella speranza di fugare, questa volta, tutti i possibili dubbi.

La nostra replica

Prendiamo atto delle doglianze di Italgas che, tuttavia, non mette in dubbio il contenuto dell’inchiesta pubblicata da IrpiMedia.

Scopo dell’articolo, ci occorre ancora precisare, è di accertare se i carburanti sintetici siano una via realizzabile nell’immediata e urgente necessità di far fronte a una crisi climatica che pone in serio pericolo la nostra civiltà. Nella lettera di Italgas non ravvisiamo smentita di quanto riportato.

Ad ogni buon conto, IrpiMedia ha offerto per due volte a Italgas l’opportunità di replicare nel merito e, in seguito a questa lettera, gli autori si sono ulteriormente offerti di intervistare un responsabile del progetto, così da dare all’azienda l’occasione di entrare nel merito del medesimo. Italgas ha per ora negato l’intervista, rimandando ogni contatto alla chiusura del progetto, appunto nel 2023. Gli autori hanno preso nota e segnato la data in agenda.

La redazione di IrpiMedia

Riceviamo da CRS4, pubblichiamo e rispondiamo

In seguito alla pubblicazione dell’articolo, l’ufficio stampa del CRS4 ha contattato gli autori per richiedere cancellazione o modifica dei commenti di Alberto Varone, referente del CRS4 nell’ambito della partnership sull’impianto “Power to gas” che Italgas intende realizzare a Sestu (Area metropolitana di Cagliari).

Nel dettaglio, il CRS4 contesta il commento riportato da IrpiMedia nel quale Varone afferma che «il metano sintetico non si farà», specificando che lo stesso «non ha mai fatto questa affermazione in modo assoluto» e che «ha detto che la produzione di metano sintetico non è prevista nella prima fase del progetto di Sestu» precisando che il metano sintetico si farà in una seconda fase.

In secondo luogo, il CRS4 sostiene che Varone non ha mai detto che è stato lui ad aver proposto il secondo step del metano sintetico, proprio perché la produzione di metano sintetico è uno step previsto nella seconda fase del progetto. Secondo il CRS4 lo scienziato «è stato coinvolto in qualità di esperto successivamente alle decisioni relative al progetto e nulla ha mai proposto alla società». «Questo incipit “sono stato io a dire che” è da eliminare», scrivono.

Una terza contestazione riguarda il virgolettato, da noi riportato, nel quale Varone afferma che «Al momento, non esistono impianti che chiudano il ciclo». Il CRS4 precisa che esistono «numerosi progetti pilota».

La quarta e ultima questione sollevata dal CRS4 riguarda il commento «Ma al momento è più facile a dirsi che a farsi». Secondo il CRS4, il ricercatore si è espresso in questi termini in relazione al processo di metanazione nel suo complesso, mentre l’inserimento nel testo del virgolettato non rispetterebbe questo collegamento concettuale. «Pertanto questo virgolettato va eliminato», scrivono dall’ufficio stampa.

La nostra replica

Preso atto delle richieste mosse dal CRS4 per conto di Alberto Varone, precisiamo a nostra volta che siamo in condizione di dimostrare come tutto ciò che è riportato in virgolettato nell’articolo corrisponde a quanto effettivamente riferito a IrpiMedia dall’esperto. Scopo dell’inchiesta è stato di accertare che non sussistono i presupposti per impiegare i carburanti sintetici nell’immediatezza di una transizione energetica sempre più urgente e tanto emerge dalle vicende dell’impianto in oggetto, per il quale l’esperto dà conferma di fatti appresi da IrpiMedia nello svolgimento del proprio lavoro e mai smentiti dalla stessa Italgas, che pure è stata contattata prima della pubblicazione.

La redazione di IrpiMedia

CREDITI

Autori

Raffaele Angius
Piero Loi

Hanno collaborato

Francesca Cicculli
Carlotta Indiano

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

Il compromesso politico sulla tassonomia europea

10 Gennaio 2022 | di Francesca Cicculli, Carlotta Indiano

«La Commissione ritiene che il gas naturale e il nucleare abbiano un ruolo come mezzi per facilitare la transizione verso un futuro prevalentemente basato sulle energie rinnovabili». Con queste parole, il 1 gennaio 2021, la Commissione europea ha annunciato di voler includere le attività energetiche basate su gas e nucleare nella tassonomia, la lista delle attività ritenute sostenibili. «È una legge di trasparenza», spiega a IrpiMedia Henry Eviston di WWF International, «che chiede alle aziende e ai fondi di investimento di chiarire, sulla base dei criteri scelti, in che percentuale le loro attività o i loro prodotti finanziari sono sostenibili». La lista verde che la Commissione sta adottando dovrebbe infatti orientare efficacemente gli investimenti, pubblici e privati, verso attività che aiutino l’Europa a raggiungere gli obiettivi climatici che si è prefissata per il 2050.

Il 18 giugno 2020 è stato pubblicato il regolamento sulla tassonomia che incaricava la Commissione di stabilire l’elenco effettivo delle attività sostenibili dal punto di vista ambientale, definendo poi i criteri tecnici di selezione attraverso altri documenti successivi: gli atti delegati. Il primo atto delegato, pubblicato il 21 aprile 2021, ha stabilito un limite alle emissioni di CO2 per le attività energetiche pari a 100g CO2e/kWh, ma ha messo in standby le attività basate su gas e nucleare, che ora sembrano essere state incluse nella bozza di secondo atto delegato, trasmessa il 31 dicembre 2021 alla Piattaforma per la finanza sostenibile, il gruppo di tecnici consultati dalla Commissione per stilare la tassonomia.

La tassonomia della scienza

Il lavoro di classificazione delle attività verdi per l’Europa è iniziato grazie a un Technical Group of Expert (TEG) selezionato dalla Commissione europea e incaricato di compilare il primo atto delegato della tassonomia, un testo di oltre 600 pagine in cui erano descritte in dettaglio le soglie tecniche di ciascuna delle attività considerate, dall’agricoltura, ai trasporti, alle costruzioni. A settembre 2020, il lavoro del TEG è terminato e al suo posto è stata creata la Piattaforma per la finanza sostenibile composta da 67 membri scelti per competenze su temi ambientali, di finanza sostenibile o diritti umani e sociali.

La Piattaforma ha scritto una seconda bozza di Atti delegati, sottoposta a consultazione pubblica a dicembre 2020, che gli Stati dell’Europa dell’Est avevano criticato perché negava al gas naturale lo status di combustibile di transizione. Questi hanno poi ottenuto il rinvio dell’approvazione del secondo atto delegato a fine 2021.

Entro il 12 gennaio, la Piattaforma dovrà dare il proprio parere sulla bozza. Successivamente, questa passerà al Parlamento e al Consiglio europeo, che avranno quattro mesi per esaminare il documento e, qualora lo ritengano necessario, per opporvisi. In linea con il regolamento sulla tassonomia, entrambe le istituzioni possono richiedere ulteriori due mesi di tempo per l’esame.

«La scelta di inserire gas e nucleare nella tassonomia verde dell’Ue non ha nulla di scientifico, si tratta di una scelta politica. Stiamo ultimando un ricorso alla Corte di Giustizia», twitta Europa Verde, in linea con le opposizioni che anche associazioni e esperti stanno avanzando sul tema. «La Commissione dirà che i criteri sono stati messi al vaglio degli esperti. Non è credibile questa cosa», dichiara Henry Eviston, che come parte della Piattaforma per la Finanza Sostenibile, contesta il processo di stesura del secondo atto delegato della tassonomia, ritenuto frutto di un compromesso politico e non di una valutazione scientifica.

Come si è arrivati alla tassonomia

Come si è arrivati a considerare sostenibili il gas e il nucleare

La Commissione europea ha detto di aver incluso gas e nucleare tra le attività sostenibili dopo aver ascoltato pareri scientifici e tenuto conto degli attuali progressi tecnologici. L’articolo 19 del testo sulla tassonomia specifica infatti che i criteri tecnici stabiliti dagli atti delegati devono essere basati su prove scientifiche conclusive. Pare invece che il processo di stesura del secondo atto delegato abbia avuto come protagonisti solo la Commissione e i governi degli Stati Membri.

«Per il primo atto sulle rinnovabili e la transizione di settori meno controversi ci sono state tre consultazioni pubbliche. La Commissione ha preso i criteri proposti dalla Piattaforma dei tecnici e su questi ha scritto l’atto delegato. Per gas e nucleare zero consultazioni», specifica Henry Eviston. L’attivista ha confermato a IrpiMedia che la Francia, ossessionata dall’industria nucleare, ha spinto per un accordo con i Paesi dell’Est, la cui economia è ancora totalmente basata sul gas. «Io cedo sul gas, voi mi date il nucleare», ha proposto a Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Grecia, Cipro e Malta, che sono sempre gli ultimi della classe quando si tratta di fare un accordo per il clima.

L’accordo politico spiegherebbe come mai gas e nucleare ora siano considerati “green” nonostante il parere contrario di tecnici ed esperti. Tra i tanti, c’è il parere dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, un’organizzazione intergovernativa, che in un report del 18 maggio 2021 nega la necessità di utilizzare ancora petrolio e gas naturale per la transizione energetica, sostenendo che «nessun nuovo giacimento di petrolio e di gas naturale è necessario nel nostro percorso».

Ma secondo il Financial Times, in possesso della bozza del secondo atto delegato della tassonomia europea, la Commissione sarebbe orientata a considerare sostenibile l’energia nucleare purché i Paesi che ospitano le centrali siano in grado di smaltire in piena sicurezza i rifiuti tossici e non causare «nessun danno significativo» all’ambiente. Le nuove centrali nucleari potrebbero essere considerate “verdi” fino al 2045. Per il gas invece sarebbe stato imposto il limite dei 270 grammi di CO2 emessi per kilowatt.

«I numeri però parlano chiaro: o la smettiamo adesso con il gas oppure l’accordo di Parigi non lo raggiungiamo più», contesta Henry Eviston. Per il nucleare, invece, i problemi sono diversi: «Una centrale nucleare produce 30 tonnellate di scorie radioattive all’anno e in Europa non abbiamo le strutture pronte per accoglierle», continua Eviston. Inoltre le centrali nucleari presentano problemi di sicurezza: nella stessa Francia, EDF, l’azienda produttrice e distributrice di energia, ha chiuso in via precauzionale i due reattori della centrale nucleare di Chooz, nelle Ardenne, per verificare eventuali guasti al suo circuito di raffreddamento di emergenza. In Germania, hanno chiuso le centrali di Brokdorf (Schleswig-Holstein), Grohnde (Bassa Sassonia) e Gundremmingen (Baviera). In funzione da 36 anni la centrale di Grondhe produceva quasi 410 miliardi di kilowatt/ora, più di qualsiasi altra al mondo.

La centrale nucleare di Chooz (Francia) sulla riva del fiume Meuse nel dipartimento delle Ardenne – Foto: Smith Collection/Getty

Secondo l’attivista del WWF, se ci fossero state le consultazioni pubbliche, le associazioni e i cittadini europei si sarebbero opposti al gas e all’energia nucleare.

Non solo Francia: chi sono le lobby del gas e del nucleare

Parallelamente agli accordi tra Stati membri c’è stata un’intensa attività di lobbying da parte delle aziende del settore fossile, che hanno cercato di far passare il gas e il nucleare come fonti di transizione. Questi gruppi di interesse sono ben installati all’interno delle istituzioni europee e rischiano di essere estremamente pericolosi per il clima.

Un rapporto di Influenced Map di dicembre 2020, ha identificato 318 aziende e associazioni di settore che, dall’inizio del 2019, si sono impegnate in attività di lobbying sulla tassonomia. In particolare dall’approvazione del regolamento della tassonomia, i rappresentanti del settore energetico hanno presentato 413 risposte di consultazione alla Commissione e al TEG. Si sono incontrati 52 volte con la Commissione e 31 volte con singoli deputati. Il 19 ottobre 2020, 57 leader del settore del gas hanno inviato una lettera alla Commissione Ue e al Consiglio europeo, nonché ai rappresentanti permanenti degli Stati membri dell’Unione, chiedendo un approccio più indulgente al gas nei prossimi atti delegati sulla tassonomia.

Il report di Influenced Map si concentra su quattro settori – bioenergia, agricoltura, energia idroelettrica e gas – per i quali sono state trovate significative divergenze tra le raccomandazioni del gruppo di esperti e le bozze di atti delegati della Commissione, segno che la loro attività di lobbying è riuscita a indebolire i criteri fissati dalla tassonomia.

Tra le lobby più insistenti risaltano i nomi di: Copa Cogeca, per l’agroalimentare; la PGE, società energetica pubblica polacca; l’International Association of Oil & Gas Producers (IOGP) ed Eurogas, di cui fanno parte le italiane Eni, Anigas ed Edison.

Oltre ad annacquare i criteri della tassonomia, l’attività di lobbying delle aziende ha spinto per mantenere definizioni di sostenibilità ambientale basate su normative già esistenti e meno restrittive. Nella nota pubblicata dalla Commissione il 1 gennaio 2022 risuonano le richieste dell’IOGP di aprile 2020: «Il gas naturale dovrebbe essere riconosciuto per il ruolo abilitante e di transizione che può svolgere al fianco delle rinnovabili nella transizione energetica».

Perché gas e nucleare non dovrebbero entrare nella tassonomia.

La tassonomia è una delle componenti centrali del piano d’azione dell’Ue sulla finanza sostenibile: si prevede che i criteri stabiliti influiranno sugli investimenti privati ​​e sui prestiti, oltre a guidare potenzialmente il bilancio dell’Unione europea e i fondi per la ripresa. La tassonomia europea dovrebbe inoltre soppiantare le altre “liste verdi” esistenti, stilate da enti finanziari privati. Se la Commissione includesse le attività basate su gas e nucleare, il documento perderebbe il suo valore di standard comune e sarebbe equiparabile a tutte le altre, non basate su criteri scientifici. La stessa Banca europea per gli investimenti, un anno fa, dichiarava concluso il tempo per i finanziamenti al gas.

Henry Eviston ci ha confermato che gli investitori consultati da WWF International hanno espresso il disinteresse verso una tassonomia che include anche gas e nucleare. «La proposta della Commissione non solo non è allineata con la scienza, ma creerebbe una spaccatura nel mercato tra chi vuole continuare a fare greenwashing e chi, prendendo sul serio gli obiettivi climatici europei, non si affiderebbe ai criteri della tassonomia», sostiene l’attivista.

Dei criteri trasparenti come quelli della lista verde europea aiuterebbero anche gli investitori meno esperti a valutare se le attività di un’azienda sono davvero sostenibili. Per esempio Shell nei suoi financial statements dice di avere un piano di transizione e di star riducendo le proprie emissioni. Un investitore inesperto, che non guarda al dettaglio delle operazioni di Shell o non ha le capacità tecniche per analizzarle, ha bisogno di uno strumento facile da usare per capire se la tale azienda rispetta davvero i target climatici. La tassonomia è importante perché chiede a un’azienda di specificare in termini numerici, semplici e comprensibili a tutti, quanto le loro attività siano sostenibili. Se Shell dichiara che le sue attività sono solo al 3% in linea con la tassonomia, anche all’investitore meno esperto è chiaro che quella non è un’azienda attenta al clima come dice di essere.

Adesso la tassonomia passerà nelle mani del Parlamento e del Consiglio europeo, qualora anche questi si esprimessero a favore di gas e nucleare, sarebbe un fallimento per una buona parte del Green Deal europeo.

Foto: L’olandese Frans Timmermans, commissario europeo per il clima nonché vice presidente della Commissione europea, durante una conferenza stampa a Bruxelles nel settembre 2020 – Foto: Thierry Monasse/Getty
Infografiche: Lorenzo Bodrero
Editing: Giulio Rubino

Portafogli sostenibili: gli investimenti “puliti” tra petrolio, miniere, tabacco e gioco d’azzardo

#GreenWashing

Portafogli sostenibili: gli investimenti “puliti” tra petrolio, miniere, tabacco e gioco d’azzardo
Matteo Civillini

Votare per un futuro migliore con il portafoglio. O meglio, con i propri risparmi. É questa la promessa della finanza sostenibile, un settore che sta attraversando un boom senza precedenti. Cresce a dismisura la domanda di prodotti “etici” da parte di investitori sempre più consapevoli della necessità di traghettare masse di denaro verso l’economia verde. Aumenta, di pari passo, l’offerta delle società finanziarie che, sia per reale volontà che per paura di rimanere indietro, sfornano senza sosta prodotti sui quali imprimono il bollino della sostenibilità.

A mettere i primi paletti a un’industria che rischia altrimenti di diventare il Far West ci sta provando l’Unione europea. A marzo è entrato in vigore il regolamento sull’informativa di sostenibilità dei servizi finanziari (SFDR), la pietra miliare di un piano d’azione più ampio che ha lo scopo di riorientare i capitali verso investimenti sostenibili. Il primo passo si muove verso una maggiore trasparenza con l’obbligo per gli operatori finanziari di dichiarare il proprio approccio nell’integrazione dei rischi. Il rischio, infatti, è che, a volte, sotto l’involucro scintillante della sostenibilità si nascondano anche investimenti molto meno “puliti” di quanto i risparmiatori credano.

IrpiMedia ha analizzato alcuni fondi sostenibili delle due principali società di gestione del risparmio in Italia, Intesa Sanpaolo e Generali, trovando tra i titoli in portafoglio anche aziende petrolifere, società di estrazione mineraria, produttori di tabacco e operatori del gioco d’azzardo.

Il boom degli investimenti ESG

ESG: tre lettere sulla bocca degli operatori finanziari di tutto il mondo. L’acronimo sta per Environment, Social e Governance, e racchiude i criteri che misurano l’impatto ambientale (E), il rispetto dei diritti sociali (S) e i principi di buona gestione (G) di un’azienda. Ovvero, i tre fattori diventati centrali nella valutazione della sostenibilità di un investimento.

Il termine ESG è stato coniato nel 2006 con la stesura dei Principi per l’Investimento Responsabile. Promossa dalle Nazioni unite, l’iniziativa ha visto la nascita di una rete di operatori finanziari che si sono impegnati volontariamente – senza un obbligo formale – a integrare criteri di sostenibilità nei processi decisionali nella gestione del risparmio. L’obiettivo era quello di stimolare un cambio di paradigma: non più concentrarsi esclusivamente sui puri rendimenti finanziari da realizzare oggi, ma spostare l’attenzione anche su investimenti responsabili a lungo termine, portando benefici all’ambiente e alla società nel suo complesso. Con l’assunto di fondo che le imprese abbiano un maggior potenziale futuro se creano valore per tutti, dai propri dipendenti all’ambiente che le circonda.

Niente di estremamente nuovo, visto che movimenti a favore degli investimenti socialmente responsabili esistono già dagli anni ‘70 negli Stati Uniti, e dagli anni ‘90 in Italia. Tuttavia, grazie a cambiamenti culturali e spinte normative, quella che prima era una nicchia dimenticata in un angolo oggi è al centro della scena mainstream, come dice a IrpiMedia Francesco Bicciato, Segretario Generale del Forum Finanza Sostenibile.

«La sensibilità generale su questi temi è cresciuta», spiega Bicciato. «Vent’anni fa la situazione era molto diversa: c’era pochissimo interesse per il tema della finanza sostenibile. Poi, a partire dalla COP21 di Parigi (del 2015, ndr), lo sviluppo è stato esponenziale in termini di masse amministrate secondo criteri ESG».

«Da parte delle società – prosegue Bicciato -, c’è un reale interesse nel crescere su questo versante per un semplice motivo: conviene economicamente. Tenere in considerazione gli aspetti ambientali e sociali fa aumentare i rendimenti e mitiga i rischi dell’investimento. Al contempo, negli ultimi anni – conclude – è aumentata la propensione del risparmiatore verso prodotti sostenibili, come indicano diverse ricerche».

I dati di Assogestioni (l’associazione italiana dei gestori del risparmio) fotografano questa rivoluzione: se nel 2017 le masse gestite in fondi aperti “sostenibili e responsabili” ammontavano a circa 8,5 miliardi di euro, alla fine del 2020 la cifra è schizzata a quasi 81 miliardi di euro.

Investimenti sostenibili?

Il Patrimonio promosso in fondi “sostenibili” da parte delle società e la Raccolta netta incassata dai fondi, per trimestre

Un trend, quello italiano, che ricalca fedelmente gli andamenti dei mercati europei, dove il patrimonio totale investito in strategie sostenibili ha superato quota 1,3 mila miliardi di euro alla fine del primo trimestre di quest’anno. Secondo Morningstar, società di analisi di dati finanziari, nello stesso periodo il 51% dei risparmi investiti in fondi comuni d’investimento e ETF (exchange-traded funds) è approdato in prodotti marchiati ESG.

Secondo Francesco Bicciato, sebbene questa evoluzione sia ovviamente positiva, la crescita del settore porta con sé anche una serie di controindicazioni, rappresentate innanzitutto dal rischio di greenwashing e socialwashing.

Cosa si intende con greenwashing e socialwashing?

Greenwashing e socialwashing sono strategie di marketing perseguite da aziende che presentano le proprie attività come sostenibili da un punto di vista ambientale o sociale, occultando tuttavia i loro reali aspetti negativi.

Un pericolo aggravato dal fatto che il cambiamento epocale della finanza sostenibile si sia compiuto finora all’interno di un quadro confuso e poco trasparente. L’ostacolo più evidente è l’assenza di un linguaggio comune che permetta di identificare un investimento sostenibile nel modo più oggettivo possibile. Un problema che ha permesso agli operatori finanziari di offrire prodotti definiti ESG con criteri più o meno arbitrari.

Un primo tentativo di porre rimedio è stato fatto dal mercato stesso. In parallelo allo sviluppo della finanza ESG è esploso il numero di società di rating che forniscono indicatori delle performance ambientali, sociali e di governance di aziende e prodotti finanziari. Rimane comunque il problema di trovare una sintesi tra una selva di parametri definiti da soggetti privati.

A portare chiarezza nel settore, provando a riempire il vuoto normativo, ci sta ora provando l’Unione europea. Questo lavoro complesso ha mosso i primi passi nel marzo 2018, quando la Commissione ha pubblicato un piano d’azione per la finanza sostenibile con l’obiettivo di riorientare i capitali verso investimenti più sostenibili. Tra le misure promesse ci sono proprio la creazione di un linguaggio comune (tassonomia, in gergo) che metta tutti d’accordo sul significato di “sostenibile” e l’imposizione di obblighi di trasparenza stringenti nei confronti di società di gestione risparmio e investitori istituzionali.

La tassonomia in discussione alla Commissione europea sta però attraversando un difficile processo di approvazione, contrastato da diverse lobby che la vogliono sostanzialmente più “inclusiva” verso tipi di investimenti tutt’altro che verdi. Anche i Green Bond emessi dalla European Investment Bank ne sarebbero influenzati, tanto che questi, fino ad oggi allineati alle più stringenti valutazione del comitato tecnico che ha stilato la prima versione della tassonomia, potrebbero in futuro ritrovarsi a dover aderire a uno standard più lasco, specialmente se le lobby dei carburanti fossili avranno successo a Bruxelles.

Il primo passo concreto di questa riforma monstre è stato mosso nel marzo di quest’anno con l’entrata in vigore del regolamento Ue sull’informativa di sostenibilità dei servizi finanziari (nota con l’acronimo SFDR). La normativa obbliga i partecipanti ai mercati finanziari a comunicare in modo trasparente le politiche intraprese per integrare i rischi di sostenibilità nei propri processi decisionali di investimento. In aggiunta, i gestori che non propongono investimenti sostenibili sono ora costretti a motivare esplicitamente questa scelta.

La nuova classificazione dei fondi di investimento

Il regolamento ha aperto la strada a una nuova classificazione dei fondi in base al livello di integrazione dei criteri di sostenibilità nella strategia di investimento.

I fondi “articolo 6” sono quelli che non applicano alcun tipo di criterio di sostenibilità ai cui gestori viene ora chiesto di motivare questa scelta.

I prodotti “articolo 8” (cosiddetto green light) sono quelli più numerosi sulla base di una definizione ampia: rientrano in questa categoria tutti i fondi che promuovono, tra le altre caratteristiche, quelle ambientali o sociali, o una combinazione delle due.

I fondi “articolo 9”, infine, dovrebbero garantire standard di sostenibilità piu’ elevati: questi prodotti, infatti, pongono l’investimento sostenibile come obiettivo specifico. In questa categoria rientrano, per esempio, i fondi di impact investing che mirano a risultati sociali e ambientali, oltre che a quelli strettamente finanziari

La riclassificazione dei fondi sostenibili secondo criteri omogenei ha però avuto anche un effetto collaterale. Le prime analisi rivelano, infatti, che il numero di prodotti che ora vengono considerati “sostenibili’ sarebbe aumentato esponenzialmente. Secondo stime di Morningstar, i fondi aperti e gli Exchange Traded Funds (ETF) classificati sotto gli articoli 8 e 9 della SFDR rappresentano quasi un quarto del mercato totale. Per Hortense Bioy, analista di Morningstar, il numero di prodotti sostenibili è maggiore di quanto ci si fosse potuto aspettare. «Si potrebbe pensare che l’autorità di controllo abbia dato agli asset manager la possibilità di vendere i propri prodotti come “verdi” sebbene abbiano bassi livelli di integrazione dei criteri ESG». Tradotto: gli investimenti finirebbero in prodotti “verdi” che tanto verdi non sono.

Lo stesso andamento si può osservare in Italia. Analizzando i dati di Assogestione, infatti, salta all’occhio l’incremento innaturale del numero dei prodotti ESG. A dicembre 2020 i fondi aperti definiti “sostenibili e responsabili” promossi dalla Sgr italiane erano 516. Tre mesi più tardi – in seguito all’entrata in vigore del regolamento europeo – ben 1.205 fondi sono stati classificati sotto gli articoli 8 e 9.

Come investono i fondi ESG italiani

Di fronte a un’offerta così vasta viene da domandarsi quanto siano veramente sostenibili i fondi delle principali società di gestione di risparmio italiane. Le strategie adottate per integrare i rischi ESG variano non solo da un operatore finanziario all’altro, ma anche in base ai diversi tipi di prodotto offerti dalla singola Sgr.

Si passa dall’esclusione a priori di alcune industrie – come tabacco, gioco d’azzardo o carboni fossili – alla scelta dei titoli in cui investire secondo un approccio best-in-class, ovvero valutando il profilo di sostenibilità di un’azienda rispetto al settore di riferimento.

Tipicamente, le Sgr dicono inoltre di voler adottare un azionariato attivo, ovvero tenere in portafoglio anche titoli potenzialmente rischiosi sotto il profilo ESG per guidare dall’interno il cambiamento delle aziende.

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Per farci un’idea abbiamo analizzato l’offerta dei principali operatori del mercato, che tra loro hanno tra le mani poco meno della metà del patrimonio promosso in fondi aperti: Intesa Sanpaolo e Generali.

Con una quota di mercato del 21,7% a fine giugno, Intesa Sanpaolo guida la classifica delle Sgr in Italia. A investire i soldi dei risparmiatori sono gli asset manager del gruppo, tra cui Eurizon la fa da padrone. Eurizon dice di essere particolarmente sensibile a un approccio sostenibile, ritenendo l’integrazione dei fattori ESG come «un elemento di rilievo per realizzare performance sostenibili nel tempo».

All’interno dell’informativa sulla sostenibilità dei fondi in gestione, Eurizon illustra le metodologie utilizzate per valutare le caratteristiche ambientali e sociali degli investimenti. Quella delineata è una strategia duplice: da una parte, restrizione degli investimenti in aziende “problematiche”; dall’altra, la discriminazione positiva a favore di società con performance elevate nei tre settori ESG.

Petrolio, minerali, e gioco d’azzardo nei fondi sostenibili di Intesa Sanpaolo

Tra le diverse centinaia di prodotti offerti da Eurizon se ne trovano alcuni pubblicizzati esplicitamente come ESG, in particolare Equity Europe ESG e Equity USA ESG. Si tratta di due fondi aperti lussemburghesi “ex. art.8” , ovvero che permettono di investire «solo in azioni di società che soddisfano standard ambientali, sociali e di governance minimi, senza esclusioni di settore».

Da un’analisi della composizione dei fondi si possono verificare i titoli in portafoglio.

A fine marzo 2021 (data dell’ultimo aggiornamento disponibile), il fondo europeo comprendeva investimenti significativi in giganti del settore petrolifero come Total, BP e Royal Dutch Shell. Le prime due hanno promesso – almeno sulla carta – un ambizioso piano di transizione dalla produzione di greggio alle fonti rinnovabili, investendo in parchi solari ed eolici. Il colosso anglo-olandese, invece, è stato ampiamente criticato per aver delineato obiettivi di sostenibilità più deludenti.

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Scorrendo la lista dei titoli in pancia all’Equity Europe ESG spiccano poi aziende leader del settore minerario come Rio Tinto, Anglo American, BHP.

In Australia, dove gestisce le più grandi miniere di ferro al mondo, l’anno scorso Rio Tinto è finita nell’occhio del ciclone per aver distrutto un sito sacro degli Aborigeni risalente a 46 mila anni fa. Un disastro ambientale e sociale che ha portato anche alle dimissioni dell’amministratore delegato dell’azienda.

Nel fondo ESG di Eurizon compare anche Flutter Entertainment, colosso irlandese del gioco d’azzardo, noto sul mercato attraverso i marchi Paddy Power, Pokerstars e Betfair. Tradizionalmente, i bookmakers fanno parte dei cosiddetti sin stocks – insieme a tabacco, pornografia e armi – per il loro minor valore etico.

Del tutto simile al fondo europeo, ma focalizzato su società quotate negli Stati Uniti, è il prodotto Equity USA ESG. Tra i titoli in portafoglio figurano (al 31 marzo 2021) anche qui giganti petroliferi, come ExxonMobil, Chevron e ConocoPhillips, e leader dell’industria del tabacco come Philip Morris.

Oltre ai prodotti marcati come ESG, Eurizon dispone anche di tre fondi etici che escludono a priori tutte le aziende coinvolte in attività come energia nucleare, armamenti e tabacco.

Generali e il rebranding sostenibile del fondo azionario

Scalzata negli ultimi mesi al vertice della classifica delle Sgr italiane, Generali controlla il 21,2% del mercato. Sebbene le masse gestite in fondi sostenibili siano nettamente inferiori rispetto ai rivali – come Intesa Sanpaolo – anche il gruppo triestino dice di mettere i principi ESG al centro della propria strategia.

Più dettagliatamente, Generali prevede l’utilizzo di un “filtro etico” nei confronti di società coinvolte in violazioni dei diritti umani, società coinvolte in gravi danni ambientali e società implicate in gravi casi di corruzione. Per quanto riguarda i prodotti che promuovono caratteristiche ambientali e sociali, la Sgr applica una strategia di best-in-class, ovvero valuta il profilo di sostenibilità di un’azienda rispetto al settore di riferimento.

Generali dice, inoltre, di esercitare una particolare influenza nelle società in cui investe, attraverso le attività di engagement, al fine di favorire l’adozione al loro interno di condotte responsabili in linea con i criteri ESG.

Tra i numerosissimi fondi aperti offerti da Generali analizziamo il Sustainable World Equity, che investe in azioni di aziende in tutto il mondo, con un occhio di riguardo al mercato americano. Come evidenziato anche da un rapporto della Fondazione Finanza Etica, questo prodotto ha avuto una storia particolare: infatti, lo stesso fondo si chiamava semplicemente Global Equity, prima che un rebranding, effettuato nell’ottobre 2020, lo facesse rinascere in in una nuova veste “sostenibile”.

Alla fine di dicembre 2020 (ultimo aggiornamento disponibile) il prodotto di Generali comprendeva investimenti in azioni di società petrolifere, come ExxonMobil, Chevron e BP, di aziende di estrazione mineraria, come Anglo American e Fortescue Metal, di un produttore di armi (Northrop Grunman). Tra i titoli compare anche TC Energy, società che si occupa della costruzione di oleodotti – tra cui il controverso Keystone XL – per il trasporto di sabbie bituminose.

Generali offre inoltre una serie di prodotti finanziari attraverso la controllata lussemburghese BG Fund Management. Nella lista dei fondi aperti ce ne sono diversi che riportano la dicitura ESG o “sostenibile”.

Tra questi, il pacchetto Lux IM Global ESG che non investe direttamente in titoli, ma in altri fondi aperti gestiti dai principali operatori finanziari globali. A fine giugno 2021, per esempio, l’8% circa del patrimonio era investito in una fondo di JP Morgan dedicato alle azioni in società statunitensi. Tra i titoli presenti in portafoglio figurano anche i soliti leader del settore oil&gas come Chevron, Conoco Phillips, EOG Resources.

Discorso simile per un altro fondo di casa Generali, il Lux IM Sustainable Allocation. Anch’esso reinveste le masse raccolte dai risparmiatori in prodotti gestiti da altri operatori. Le posizioni più consistenti (circa il 15% del totale) sono quelle aperte in due fondi di azioni europee e statunitensi offerti rispettivamente da JP Morgan e UBS. Nel primo compaiono numerose aziende dei settori petrolifero e minerario, come Total, OMV, BP, Lundin Energy, Rio Tinto e BHP. Nel secondo, addirittura, il colosso del greggio ExxonMobil risulta essere il maggiore investimento. Tra i principali titoli in portafoglio ci sono poi Pembina Pipeline e TC Energy, aziende che si occupano dello sviluppo di oleodotti e gasdotti.

Il dibattito sulla maggiore efficacia del disinvestimento o della partecipazione critica in aziende con rischi di sostenibilità elevati è acceso all’interno del mondo della gestione del risparmio. In poche parole, si ottengono i migliori risultati tenendo il proprio posto intorno al tavolo o abbandonando la sala facendo rumore?

C’è chi, per esempio, come il fondo sovrano della Norvegia – il più grande al mondo – ha abbandonato unilateralmente gli investimenti in società che si occupano di esplorazione e produzione petrolifera.

Come molte altre Sgr, Eurizon e Generali dicono di puntare invece su una strategia mista: esclusione a priori di alcune aziende critiche da una parte, azionariato attivo anche in titoli sensibili (come quelli del settore petrolio e gas) dall’altra. La promessa è quella di guidare il cambiamento aziendale dall’interno, spingendo la dirigenza verso politiche più sostenibili dal punto di vista ambientale o sociale. Se ciò non avviene dovrebbe scattare l’uscita dall’investimento.

Per Francesco Bicciato del Forum per la Finanza Sostenibile, in questi casi il confronto costante con le aziende diventa importante: «Permette di accompagnare le attività economiche più critiche dal punto di vista delle emissioni climalteranti in un percorso di giusta transizione allineata ai principi ESG. Se un fondo vuole continuare a finanziare le fonti fossili senza tenere conto di criteri ESG e senza avviare alcuna attività di engagement, è più difficile arrivare alla piena sostenibilità dell’investimento».

CREDITI

Autori

Matteo Civillini

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi