Sotto sfratto: storie dalle periferie di Milano

6 agosto 2021 | di Alice Facchini

«Don’t judge a book if you don’t know the inside story». «Non giudicare un libro se non ne conosci la storia all’interno»: una variante della frase «non giudicare un libro dalla copertina». Su Whatsapp, Sagar si presenta così. Nella foto del contatto, il ragazzo è appoggiato a un muretto e rivolge lo sguardo verso l’orizzonte, sullo sfondo i grandi palazzi della periferia milanese. Sagar (il nome è di fantasia, come quello delle altre persone di cui verrà raccontata la storia) ha 19 anni. È arrivato dal Bangladesh 8 anni fa e oggi e frequenta la scuola professionale di meccatronica. Vive insieme a sua mamma e alle due sorelle nel quartiere Stadera, ma da un anno non riescono a pagare l’affitto e il proprietario ha avviato la procedura di sfratto.

«Tutto è cominciato l’anno scorso: mio padre lavorava come cuoco in un ristorante italiano e a un certo punto si è ammalato – racconta Sagar –. All’inizio non capivamo cosa avesse, poi abbiamo scoperto che era Covid. È morto improvvisamente il 2 aprile. Da quel momento nessuno ci ha aiutato, né il Comune né gli assistenti sociali, che ci dicono che prima ci sono ‘i loro concittadini’. Durante il lockdown non abbiamo neanche ricevuto gli aiuti alimentari: siamo sopravvissuti con la pensione di reversibilità di mio padre, di 172 euro al mese, e grazie ad alcuni amici che ci compravano la spesa. Noi per lo Stato siamo quasi invisibili».

Pagare l’affitto, insomma, era praticamente impossibile. Il trilocale in cui vive Sagar con la sua famiglia, due stanze, un bagno e una cucina senza neanche la cappa in un quartiere periferico a sud di Milano, ha un canone di 750 euro al mese. L’alternativa sarebbero gli alloggi popolari dell’Aler (Azienda Lombarda per l’Edilizia Residenziale): da anni la famiglia presenta la domanda, è in graduatoria, ma ancora non li hanno chiamati. Al momento dello sfratto, quindi, si sono rivolti al sindacato degli inquilini della Cisl, il Sicet, che ha provato a chiedere alla proprietaria di ricontrattare il canone e ha proposto il contributo affitto del Comune di 1.500 euro. Senza il consenso della proprietà gli inquilini non possono ricevere questo sussidio comunale. Ma non c’è stato nulla da fare: la procedura di sfratto è andata avanti. Il Sicet nel 2019 ha denunciato come a Milano ci siano 25 mila famiglie in lista d’attesa per un alloggio popolare.

«Non so cosa fare, mi manca solo un anno per il diploma e vorrei finire gli studi, ma ho bisogno di trovarmi un lavoro subito per portare a casa qualche soldo – dice preoccupato Sagar –. Da quando è morto mio padre, mia madre non è più in grado di lavorare, e gli amici non possono continuare ad aiutarci per sempre: la responsabilità della famiglia è sulle mie spalle. La proprietaria ci chiama tutte le settimane ripetendoci di lasciare casa. Io spero ancora di poter trovare una soluzione: mi piacerebbe rimanere a Milano, che ormai è la mia città, trovare un lavoro e mantenere mia mamma e le mie sorelle».

La legge regionale del 2016

La famiglia di Sagar, come tante altre con procedura di sfratto in esecuzione, ha presentato la domanda di Servizio abitativo transitorio, nuova invenzione della legge regionale 16 del 2016, che ha abolito la più semplice domanda in emergenza. Assegna a famiglie sotto sfratto o con gravi problemi di esclusione sociale alloggi popolari che vengono sottratti alla graduatorie Aler («nella misura massima del 10% delle unità abitative disponibili», recita la legge) e ha fornito un contributo di 900 mila euro per opere edilizie su singole abitazioni.

«Questo sistema non funziona, perché le domande per il Servizio abitativo transitorio vengono valutate in base all’ordine di presentazione, e non in base all’urgenza della richiesta – spiega Mattia Gatti, segretario provinciale del Sicet –. Se una famiglia è sotto sfratto, ma la procedura non è ancora in esecuzione, verrà comunque accontentata prima di una famiglia che magari ha già lo sfratto in esecuzione e che ha fatto la domanda successivamente. Dal 1 luglio il blocco degli sfratti è stato sospeso: in un momento così delicato, sarebbero necessari strumenti concreti per rispondere a questa emergenza. Ad esempio, bisognerebbe che la prefettura sospendesse le procedure di sfratto per le famiglie che sono in fase di valutazione, dando così il tempo al Comune di verificarne l’effettiva situazione sociale. Ma al momento le soluzioni sono poche e inadeguate: il rischio è che molte famiglie finiscano in strada».

L’accesso impossibile al mercato di edilizia residenziale pubblica

Tutto questo avviene perché il libero mercato dell’affitto è sempre più inaccessibile: a Milano il canone medio al metro quadro è il più alto d’Italia. Le persone fanno fatica a trovare una casa a un prezzo affrontabile, ma non avendo alternative sono costrette ad accettare canoni molto alti, che a volte non sono poi in grado di onorare. I costi degli affitti non sono diminuiti neanche con la pandemia, mentre parallelamente la situazione delle famiglie è largamente peggiorata: la forbice tra redditi e canoni si è allargata.

«Le spese per l’alloggio arrivano a coprire una gran parte del guadagno, a volte anche fino al 70% – spiega Mattia Gatti –. E allora basta poco, una diminuzione degli orari di lavoro, la cassa integrazione, o la perdita di un pezzo di lavoro nero, per non farcela più. Quando si tratta di lavoro nero, dal punto di vista formale, non si può neanche dimostrare una caduta di reddito, e dunque non si ha nemmeno accesso agli aiuti».

La gestione delle case popolari di Milano, tra Aler e Metropolitane Milanesi

A Milano il patrimonio di edilizia residenziale pubblica è il più vasto d’Italia. Ci sono circa 58 mila immobili che sono in gestione ad Aler, l’azienda lombarda di edilizia residenziale (controllata da Regione Lombardia), di cui una parte importante sono alloggi sfitti oppure impossibili da riassegnare per mancanza di manutenzione. A queste case si aggiungono circa 28 mila abitazioni che dal 2014 sono in gestione diretta di Metropolitane Milanesi spa, società controllata dal Comune di Milano. L’azienda comunale è diventata ente gestore dal 2014, quando l’allora sindaco Giuliano Pisapia ha deciso di sottrarne una parte dall’amministrazione regionale, per cercare di dare una svolta al cronico problema milanese dell’abitare. I punti più critici sono le riqualificazioni degli appartamenti e le manutenzioni, argomenti sui quali insistono ancora i sindacati inquilini ma che comunque hanno visto un miglioramento negli ultimi anni.

Inoltre Aler intorno al 2010 era finita anche in diverse indagini giudiziarie, la più importante delle quali (del 2012) ha coinvolto l’ex assessore regionale alla casa Domenico Zambetti. Quest’ultimo è stato arrestato con l’accusa di voto di scambio, corruzione e concorso esterno in associazione mafiosa (sentenza passata in giudicato a marzo 2021). Tra i favori che Zambetti aveva promesso in cambio di voto è emersa anche l’assegnazione di un alloggio popolare di Alera all’amante di un affiliato della ‘ndrangheta.

Per quanto riguarda la domanda per la casa popolare, le liste di attesa sono lunghissime, e per le famiglie numerose le disponibilità sono sempre irrisorie: il grosso del patrimonio con metrature più ampie è già stato venduto o è sfitto per mancanza di manutenzione, oppure è in vendita o inserito nei piani di valorizzazione. Accedere alle case Aler è ancora più difficile per i nuclei con Isee inferiore ai 3 mila euro, come quello di Sagar.

«La legge regionale che regola l’assegnazione è assolutamente discriminatoria – afferma Mattia Gatti –. Alle famiglie con Isee inferiore a 3 mila euro è destinato al massimo il 20% degli alloggi disponibili. Questo fa sì che ci siano famiglie che hanno più punti in graduatoria, ma visto che hanno l’Isee sotto i 3 mila euro paradossalmente non ottengono la casa, mentre le famiglie che magari hanno meno punti ma un Isee superiore ricevono l’alloggio prima. L’obiettivo sarebbe quello di differenziare l’utenza, ma così vengono escluse dalle case popolari proprio le famiglie che ne hanno più bisogno».

Anche la Corte Costituzionale, a ottobre 2020, ha ritenuto discriminatorio l’articolo della legge regionale che pretendeva come requisito per gli stranieri la residenza almeno da cinque anni in Italia. «Irragionevolezza» è la parola scelta per definire il criterio con cui si è adottato questo requisito.

Un’altra criticità del sistema è legata alla tenuta sociale dei quartieri dove sono collocati gli alloggi Aler: si tratta di aree spesso periferiche e poco incluse nella vita della città, con situazioni di esclusione e disagio sociale molto forte. Gli edifici stessi spesso sono fatiscenti a causa delle mancate manutenzioni, lamentano i sindacati inquilini, e anche i tanto sbandierati piani di intervento e di riqualificazione spesso si risolvono in una diminuzione del numero di alloggi disponibili.

«A Lorenteggio, ad esempio, stanno abbattendo degli stabili, ma la ricostruzione è ferma – commenta preoccupato Mattia Gatti –. Invece di aumentare, la disponibilità diminuisce. E i finanziamenti maggiori vanno al cosiddetto housing sociale, pensato per una popolazione con una fascia di reddito più alta, che sarebbe comunque solvibile. Gli operatori immobiliari hanno più convenienza a investire in quel campo. Il settore di emergenza, invece, riceve solo risorse residuali: chi ha una situazione molto critica è invitato ad andarsene da Milano e cercare casa altrove. Perché Milano non è una città per chi non può permettersela».

Cronache da Lorenteggio e San Siro

Tra i vari quartieri, Lorenteggio, a sud ovest di Milano, è quello con il più grande parco di case popolari da ristrutturare: costruito negli anni ’50, dal 2015 è oggetto di un grande piano di riqualificazione. Originariamente era previsto l’abbattimento di un solo stabile e la ristrutturazione degli altri, ma nel tempo il numero di edifici da demolire è cresciuto.

«In totale sono già stati abbattuti 489 appartamenti, mentre il numero delle case ricostruite è di 329 – spiega Luca Garibaldo dell’associazione Dynamoscopio, che si occupa di ricerca e progettazione nell’ambito della rigenerazione urbana –. All’appello, quindi, mancano 160 alloggi: abbiamo perso decine di case che potevano venire ristrutturate e subito riassegnate. E poi c’è il mancato uso degli alloggi sfitti, che nella zona sono moltissimi, e che vengono colpevolmente lasciati vuoti».

Diana, italo-eritrea di 35 anni, vive a Lorenteggio da più di dieci anni. Quando non aveva un lavoro permettersi una casa era impossibile nel mercato degli affitti milanese. Oggi è impiegata part-time, ma con uno stipendio di neanche 1.000 euro al mese non riesce a pagarsi un appartamento suo.

«Per la mia casa Aler, un bilocale di 40 metri quadrati, pago 320 euro di affitto più le utenze – racconta –. Le condizioni del quartiere sono pessime, ne ho viste di tutti i colori, sia dal punto di vista della sicurezza, che dei problemi igienico-sanitari: c’è spaccio, immondizia ammassata, topi. Con la pandemia la situazione è peggiorata: sono state tolte anche le portinerie, che erano l’unica forma di controllo, anche se molto blanda. Da quel momento ci sono stati danneggiamenti, e abbiamo iniziato ad avere problemi di abusivi che occupavano gli appartamenti disabitati. Qualche volta hanno provato a sollevare anche le mie veneziane. La cosa incredibile è che negli ultimi anni molti appartamenti sono stati ristrutturati, sono nuovissimi, ma ancora non sono stati riassegnati. E questo incrementa l’abuso di chi cerca di occuparli».

Un paio di anni fa, Diana ha avuto un incidente sul lavoro e così ha chiesto il cambio di alloggio nel nord est della città, per avvicinarsi al suo ufficio.

«Ho fatto domanda e sono entrata in graduatoria – spiega –. Ho aspettato, ma niente. Dopo un anno di attesa, sono stata io a dovermi informare per capire che fine avesse fatto la mia pratica: è venuto fuori che gli appartamenti nella zona dove volevo andare io sono destinati alla promozione e alla valorizzazione per altri scopi, per cui il cambio non poteva avvenire. Non mi potevano chiamare per comunicarmelo? Se fosse per loro, adesso sarei ancora qui ad aspettare».

Anche Younes, marocchino, dal 2013 sta aspettando il cambio alloggio, ma ancora non ha ottenuto risposta. Vive con i suoi figli di 12 e 16 anni in una casa Aler a San Siro, nell’ovest di Milano: tre persone in un bilocale di 20 metri quadrati.

«Mia moglie è morta e la mia nuova compagna non può venire a stare da noi, perché fisicamente non abbiamo spazio – racconta Younes –. Ci basterebbe anche solo una camera in più. E poi l’appartamento è messo male: le pareti sono tutte nere di muffa, e quattro anni fa sono finito in ospedale perché è caduto giù un pezzo di soffitto. Anche la cantina spesso si allaga. Adesso per esempio abbiamo una perdita nel bagno: il tecnico dell’Aler è venuto cinque volte a vedere, ma ancora il problema non è stato risolto».

La città “omogeneizzata”

Younes, Diana, Sagar, sono solo alcuni dei tanti di cui Milano sembra essersi dimenticata. Mentre la fascia più povera della popolazione fatica a trovare propri spazi, infatti, i grandi contractors internazionali come Lendlease, Blackstone e Hines arrivano in città per trasformarne il volto e speculare sul mercato immobiliare. L’esito, secondo alcune voci critiche, è un’omogeneizzazione dello spazio: camminando per piazza Gae Aulenti, a cinque minuti dalla stazione di Porta Garibaldi, si ha l’impressione di trovarsi a Postdamer Platz a Berlino, mentre una torre di Porta Nuova potrebbe tranquillamente far parte dello skyline di Canary Wharf a Londra.

«Vediamo spuntare sempre più luoghi d’incontro in spazi privati, che mischiano funzioni commerciali e funzioni finanziarie/istituzionali – spiega Luca Trada, attivista del laboratorio politico Off Topic, che produce strumenti di analisi dei cambiamenti che stanno investendo Milano –. I prezzi salgono, e la gentrificazione spinge le fasce più fragili della popolazione sempre più in periferia. Milano è fatta sempre più di piazze finte, circondate da palazzoni ultramoderni, dove scompare ogni segno di natura, che non sia una natura artificiale e controllata. Tutto questo è pensato per rispondere ai bisogni non di chi già vive la città, ma di chi la attraversa per turismo e per affari, o di chi deve usarla per i propri investimenti. Non si costruisce per dare una casa a chi non ce l’ha, ma per fare business».

Parallelamente, aggiunge, si sta assistendo a una sostanziale dismissione della città pubblica, con proprietà del demanio che vengono affidate in concessione, o a bando, oppure che vengono vendute.

«Questi spazi sono affidati al privato, con l’idea di “rigenerare la città”, mentre al pubblico restano sempre le briciole: pensiamo alla partita degli scali ferroviari, che determineranno lo sviluppo immobiliare di Milano dei prossimi anni – conclude Luca Trada –. I bisogni reali della città non vengono soddisfatti: bisogno di aria più pulita, di una mobilità più ecologica, di minor consumo di suolo e impermeabilizzazione, di minor densità urbana. Ma ormai il ruolo del pubblico non è più quello di andare a stabilire, con piani di governo del territorio, gli obiettivi futuri: è il privato che decide quali progetti presentare e con quali modalità realizzarli, e infatti gli interventi degli ultimi anni hanno tutti la caratteristica di massimizzare il profitto per lo sviluppatore e attrarre capitale straniero. In tutto questo, il diritto all’abitare sembra dimenticato, se non come briciole che i ricchi fanno cadere dalla mensa ai poveri che stanno sotto».

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