Portafogli sostenibili: gli investimenti “puliti” tra petrolio, miniere, tabacco e gioco d’azzardo

#GreenWashing

Portafogli sostenibili: gli investimenti “puliti” tra petrolio, miniere, tabacco e gioco d’azzardo
Matteo Civillini

Votare per un futuro migliore con il portafoglio. O meglio, con i propri risparmi. É questa la promessa della finanza sostenibile, un settore che sta attraversando un boom senza precedenti. Cresce a dismisura la domanda di prodotti “etici” da parte di investitori sempre più consapevoli della necessità di traghettare masse di denaro verso l’economia verde. Aumenta, di pari passo, l’offerta delle società finanziarie che, sia per reale volontà che per paura di rimanere indietro, sfornano senza sosta prodotti sui quali imprimono il bollino della sostenibilità.

A mettere i primi paletti a un’industria che rischia altrimenti di diventare il Far West ci sta provando l’Unione europea. A marzo è entrato in vigore il regolamento sull’informativa di sostenibilità dei servizi finanziari (SFDR), la pietra miliare di un piano d’azione più ampio che ha lo scopo di riorientare i capitali verso investimenti sostenibili. Il primo passo si muove verso una maggiore trasparenza con l’obbligo per gli operatori finanziari di dichiarare il proprio approccio nell’integrazione dei rischi. Il rischio, infatti, è che, a volte, sotto l’involucro scintillante della sostenibilità si nascondano anche investimenti molto meno “puliti” di quanto i risparmiatori credano.

IrpiMedia ha analizzato alcuni fondi sostenibili delle due principali società di gestione del risparmio in Italia, Intesa Sanpaolo e Generali, trovando tra i titoli in portafoglio anche aziende petrolifere, società di estrazione mineraria, produttori di tabacco e operatori del gioco d’azzardo.

Il boom degli investimenti ESG

ESG: tre lettere sulla bocca degli operatori finanziari di tutto il mondo. L’acronimo sta per Environment, Social e Governance, e racchiude i criteri che misurano l’impatto ambientale (E), il rispetto dei diritti sociali (S) e i principi di buona gestione (G) di un’azienda. Ovvero, i tre fattori diventati centrali nella valutazione della sostenibilità di un investimento.

Il termine ESG è stato coniato nel 2006 con la stesura dei Principi per l’Investimento Responsabile. Promossa dalle Nazioni unite, l’iniziativa ha visto la nascita di una rete di operatori finanziari che si sono impegnati volontariamente – senza un obbligo formale – a integrare criteri di sostenibilità nei processi decisionali nella gestione del risparmio. L’obiettivo era quello di stimolare un cambio di paradigma: non più concentrarsi esclusivamente sui puri rendimenti finanziari da realizzare oggi, ma spostare l’attenzione anche su investimenti responsabili a lungo termine, portando benefici all’ambiente e alla società nel suo complesso. Con l’assunto di fondo che le imprese abbiano un maggior potenziale futuro se creano valore per tutti, dai propri dipendenti all’ambiente che le circonda.

Niente di estremamente nuovo, visto che movimenti a favore degli investimenti socialmente responsabili esistono già dagli anni ‘70 negli Stati Uniti, e dagli anni ‘90 in Italia. Tuttavia, grazie a cambiamenti culturali e spinte normative, quella che prima era una nicchia dimenticata in un angolo oggi è al centro della scena mainstream, come dice a IrpiMedia Francesco Bicciato, Segretario Generale del Forum Finanza Sostenibile.

«La sensibilità generale su questi temi è cresciuta», spiega Bicciato. «Vent’anni fa la situazione era molto diversa: c’era pochissimo interesse per il tema della finanza sostenibile. Poi, a partire dalla COP21 di Parigi (del 2015, ndr), lo sviluppo è stato esponenziale in termini di masse amministrate secondo criteri ESG».

«Da parte delle società – prosegue Bicciato -, c’è un reale interesse nel crescere su questo versante per un semplice motivo: conviene economicamente. Tenere in considerazione gli aspetti ambientali e sociali fa aumentare i rendimenti e mitiga i rischi dell’investimento. Al contempo, negli ultimi anni – conclude – è aumentata la propensione del risparmiatore verso prodotti sostenibili, come indicano diverse ricerche».

I dati di Assogestioni (l’associazione italiana dei gestori del risparmio) fotografano questa rivoluzione: se nel 2017 le masse gestite in fondi aperti “sostenibili e responsabili” ammontavano a circa 8,5 miliardi di euro, alla fine del 2020 la cifra è schizzata a quasi 81 miliardi di euro.

Investimenti sostenibili?

Il Patrimonio promosso in fondi “sostenibili” da parte delle società e la Raccolta netta incassata dai fondi, per trimestre

Un trend, quello italiano, che ricalca fedelmente gli andamenti dei mercati europei, dove il patrimonio totale investito in strategie sostenibili ha superato quota 1,3 mila miliardi di euro alla fine del primo trimestre di quest’anno. Secondo Morningstar, società di analisi di dati finanziari, nello stesso periodo il 51% dei risparmi investiti in fondi comuni d’investimento e ETF (exchange-traded funds) è approdato in prodotti marchiati ESG.

Secondo Francesco Bicciato, sebbene questa evoluzione sia ovviamente positiva, la crescita del settore porta con sé anche una serie di controindicazioni, rappresentate innanzitutto dal rischio di greenwashing e socialwashing.

Cosa si intende con greenwashing e socialwashing?

Greenwashing e socialwashing sono strategie di marketing perseguite da aziende che presentano le proprie attività come sostenibili da un punto di vista ambientale o sociale, occultando tuttavia i loro reali aspetti negativi.

Un pericolo aggravato dal fatto che il cambiamento epocale della finanza sostenibile si sia compiuto finora all’interno di un quadro confuso e poco trasparente. L’ostacolo più evidente è l’assenza di un linguaggio comune che permetta di identificare un investimento sostenibile nel modo più oggettivo possibile. Un problema che ha permesso agli operatori finanziari di offrire prodotti definiti ESG con criteri più o meno arbitrari.

Un primo tentativo di porre rimedio è stato fatto dal mercato stesso. In parallelo allo sviluppo della finanza ESG è esploso il numero di società di rating che forniscono indicatori delle performance ambientali, sociali e di governance di aziende e prodotti finanziari. Rimane comunque il problema di trovare una sintesi tra una selva di parametri definiti da soggetti privati.

A portare chiarezza nel settore, provando a riempire il vuoto normativo, ci sta ora provando l’Unione europea. Questo lavoro complesso ha mosso i primi passi nel marzo 2018, quando la Commissione ha pubblicato un piano d’azione per la finanza sostenibile con l’obiettivo di riorientare i capitali verso investimenti più sostenibili. Tra le misure promesse ci sono proprio la creazione di un linguaggio comune (tassonomia, in gergo) che metta tutti d’accordo sul significato di “sostenibile” e l’imposizione di obblighi di trasparenza stringenti nei confronti di società di gestione risparmio e investitori istituzionali.

La tassonomia in discussione alla Commissione europea sta però attraversando un difficile processo di approvazione, contrastato da diverse lobby che la vogliono sostanzialmente più “inclusiva” verso tipi di investimenti tutt’altro che verdi. Anche i Green Bond emessi dalla European Investment Bank ne sarebbero influenzati, tanto che questi, fino ad oggi allineati alle più stringenti valutazione del comitato tecnico che ha stilato la prima versione della tassonomia, potrebbero in futuro ritrovarsi a dover aderire a uno standard più lasco, specialmente se le lobby dei carburanti fossili avranno successo a Bruxelles.

Il primo passo concreto di questa riforma monstre è stato mosso nel marzo di quest’anno con l’entrata in vigore del regolamento Ue sull’informativa di sostenibilità dei servizi finanziari (nota con l’acronimo SFDR). La normativa obbliga i partecipanti ai mercati finanziari a comunicare in modo trasparente le politiche intraprese per integrare i rischi di sostenibilità nei propri processi decisionali di investimento. In aggiunta, i gestori che non propongono investimenti sostenibili sono ora costretti a motivare esplicitamente questa scelta.

La nuova classificazione dei fondi di investimento

Il regolamento ha aperto la strada a una nuova classificazione dei fondi in base al livello di integrazione dei criteri di sostenibilità nella strategia di investimento.

I fondi “articolo 6” sono quelli che non applicano alcun tipo di criterio di sostenibilità ai cui gestori viene ora chiesto di motivare questa scelta.

I prodotti “articolo 8” (cosiddetto green light) sono quelli più numerosi sulla base di una definizione ampia: rientrano in questa categoria tutti i fondi che promuovono, tra le altre caratteristiche, quelle ambientali o sociali, o una combinazione delle due.

I fondi “articolo 9”, infine, dovrebbero garantire standard di sostenibilità piu’ elevati: questi prodotti, infatti, pongono l’investimento sostenibile come obiettivo specifico. In questa categoria rientrano, per esempio, i fondi di impact investing che mirano a risultati sociali e ambientali, oltre che a quelli strettamente finanziari

La riclassificazione dei fondi sostenibili secondo criteri omogenei ha però avuto anche un effetto collaterale. Le prime analisi rivelano, infatti, che il numero di prodotti che ora vengono considerati “sostenibili’ sarebbe aumentato esponenzialmente. Secondo stime di Morningstar, i fondi aperti e gli Exchange Traded Funds (ETF) classificati sotto gli articoli 8 e 9 della SFDR rappresentano quasi un quarto del mercato totale. Per Hortense Bioy, analista di Morningstar, il numero di prodotti sostenibili è maggiore di quanto ci si fosse potuto aspettare. «Si potrebbe pensare che l’autorità di controllo abbia dato agli asset manager la possibilità di vendere i propri prodotti come “verdi” sebbene abbiano bassi livelli di integrazione dei criteri ESG». Tradotto: gli investimenti finirebbero in prodotti “verdi” che tanto verdi non sono.

Lo stesso andamento si può osservare in Italia. Analizzando i dati di Assogestione, infatti, salta all’occhio l’incremento innaturale del numero dei prodotti ESG. A dicembre 2020 i fondi aperti definiti “sostenibili e responsabili” promossi dalla Sgr italiane erano 516. Tre mesi più tardi – in seguito all’entrata in vigore del regolamento europeo – ben 1.205 fondi sono stati classificati sotto gli articoli 8 e 9.

Come investono i fondi ESG italiani

Di fronte a un’offerta così vasta viene da domandarsi quanto siano veramente sostenibili i fondi delle principali società di gestione di risparmio italiane. Le strategie adottate per integrare i rischi ESG variano non solo da un operatore finanziario all’altro, ma anche in base ai diversi tipi di prodotto offerti dalla singola Sgr.

Si passa dall’esclusione a priori di alcune industrie – come tabacco, gioco d’azzardo o carboni fossili – alla scelta dei titoli in cui investire secondo un approccio best-in-class, ovvero valutando il profilo di sostenibilità di un’azienda rispetto al settore di riferimento.

Tipicamente, le Sgr dicono inoltre di voler adottare un azionariato attivo, ovvero tenere in portafoglio anche titoli potenzialmente rischiosi sotto il profilo ESG per guidare dall’interno il cambiamento delle aziende.

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Per farci un’idea abbiamo analizzato l’offerta dei principali operatori del mercato, che tra loro hanno tra le mani poco meno della metà del patrimonio promosso in fondi aperti: Intesa Sanpaolo e Generali.

Con una quota di mercato del 21,7% a fine giugno, Intesa Sanpaolo guida la classifica delle Sgr in Italia. A investire i soldi dei risparmiatori sono gli asset manager del gruppo, tra cui Eurizon la fa da padrone. Eurizon dice di essere particolarmente sensibile a un approccio sostenibile, ritenendo l’integrazione dei fattori ESG come «un elemento di rilievo per realizzare performance sostenibili nel tempo».

All’interno dell’informativa sulla sostenibilità dei fondi in gestione, Eurizon illustra le metodologie utilizzate per valutare le caratteristiche ambientali e sociali degli investimenti. Quella delineata è una strategia duplice: da una parte, restrizione degli investimenti in aziende “problematiche”; dall’altra, la discriminazione positiva a favore di società con performance elevate nei tre settori ESG.

Petrolio, minerali, e gioco d’azzardo nei fondi sostenibili di Intesa Sanpaolo

Tra le diverse centinaia di prodotti offerti da Eurizon se ne trovano alcuni pubblicizzati esplicitamente come ESG, in particolare Equity Europe ESG e Equity USA ESG. Si tratta di due fondi aperti lussemburghesi “ex. art.8” , ovvero che permettono di investire «solo in azioni di società che soddisfano standard ambientali, sociali e di governance minimi, senza esclusioni di settore».

Da un’analisi della composizione dei fondi si possono verificare i titoli in portafoglio.

A fine marzo 2021 (data dell’ultimo aggiornamento disponibile), il fondo europeo comprendeva investimenti significativi in giganti del settore petrolifero come Total, BP e Royal Dutch Shell. Le prime due hanno promesso – almeno sulla carta – un ambizioso piano di transizione dalla produzione di greggio alle fonti rinnovabili, investendo in parchi solari ed eolici. Il colosso anglo-olandese, invece, è stato ampiamente criticato per aver delineato obiettivi di sostenibilità più deludenti.

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Scorrendo la lista dei titoli in pancia all’Equity Europe ESG spiccano poi aziende leader del settore minerario come Rio Tinto, Anglo American, BHP.

In Australia, dove gestisce le più grandi miniere di ferro al mondo, l’anno scorso Rio Tinto è finita nell’occhio del ciclone per aver distrutto un sito sacro degli Aborigeni risalente a 46 mila anni fa. Un disastro ambientale e sociale che ha portato anche alle dimissioni dell’amministratore delegato dell’azienda.

Nel fondo ESG di Eurizon compare anche Flutter Entertainment, colosso irlandese del gioco d’azzardo, noto sul mercato attraverso i marchi Paddy Power, Pokerstars e Betfair. Tradizionalmente, i bookmakers fanno parte dei cosiddetti sin stocks – insieme a tabacco, pornografia e armi – per il loro minor valore etico.

Del tutto simile al fondo europeo, ma focalizzato su società quotate negli Stati Uniti, è il prodotto Equity USA ESG. Tra i titoli in portafoglio figurano (al 31 marzo 2021) anche qui giganti petroliferi, come ExxonMobil, Chevron e ConocoPhillips, e leader dell’industria del tabacco come Philip Morris.

Oltre ai prodotti marcati come ESG, Eurizon dispone anche di tre fondi etici che escludono a priori tutte le aziende coinvolte in attività come energia nucleare, armamenti e tabacco.

Generali e il rebranding sostenibile del fondo azionario

Scalzata negli ultimi mesi al vertice della classifica delle Sgr italiane, Generali controlla il 21,2% del mercato. Sebbene le masse gestite in fondi sostenibili siano nettamente inferiori rispetto ai rivali – come Intesa Sanpaolo – anche il gruppo triestino dice di mettere i principi ESG al centro della propria strategia.

Più dettagliatamente, Generali prevede l’utilizzo di un “filtro etico” nei confronti di società coinvolte in violazioni dei diritti umani, società coinvolte in gravi danni ambientali e società implicate in gravi casi di corruzione. Per quanto riguarda i prodotti che promuovono caratteristiche ambientali e sociali, la Sgr applica una strategia di best-in-class, ovvero valuta il profilo di sostenibilità di un’azienda rispetto al settore di riferimento.

Generali dice, inoltre, di esercitare una particolare influenza nelle società in cui investe, attraverso le attività di engagement, al fine di favorire l’adozione al loro interno di condotte responsabili in linea con i criteri ESG.

Tra i numerosissimi fondi aperti offerti da Generali analizziamo il Sustainable World Equity, che investe in azioni di aziende in tutto il mondo, con un occhio di riguardo al mercato americano. Come evidenziato anche da un rapporto della Fondazione Finanza Etica, questo prodotto ha avuto una storia particolare: infatti, lo stesso fondo si chiamava semplicemente Global Equity, prima che un rebranding, effettuato nell’ottobre 2020, lo facesse rinascere in in una nuova veste “sostenibile”.

Alla fine di dicembre 2020 (ultimo aggiornamento disponibile) il prodotto di Generali comprendeva investimenti in azioni di società petrolifere, come ExxonMobil, Chevron e BP, di aziende di estrazione mineraria, come Anglo American e Fortescue Metal, di un produttore di armi (Northrop Grunman). Tra i titoli compare anche TC Energy, società che si occupa della costruzione di oleodotti – tra cui il controverso Keystone XL – per il trasporto di sabbie bituminose.

Generali offre inoltre una serie di prodotti finanziari attraverso la controllata lussemburghese BG Fund Management. Nella lista dei fondi aperti ce ne sono diversi che riportano la dicitura ESG o “sostenibile”.

Tra questi, il pacchetto Lux IM Global ESG che non investe direttamente in titoli, ma in altri fondi aperti gestiti dai principali operatori finanziari globali. A fine giugno 2021, per esempio, l’8% circa del patrimonio era investito in una fondo di JP Morgan dedicato alle azioni in società statunitensi. Tra i titoli presenti in portafoglio figurano anche i soliti leader del settore oil&gas come Chevron, Conoco Phillips, EOG Resources.

Discorso simile per un altro fondo di casa Generali, il Lux IM Sustainable Allocation. Anch’esso reinveste le masse raccolte dai risparmiatori in prodotti gestiti da altri operatori. Le posizioni più consistenti (circa il 15% del totale) sono quelle aperte in due fondi di azioni europee e statunitensi offerti rispettivamente da JP Morgan e UBS. Nel primo compaiono numerose aziende dei settori petrolifero e minerario, come Total, OMV, BP, Lundin Energy, Rio Tinto e BHP. Nel secondo, addirittura, il colosso del greggio ExxonMobil risulta essere il maggiore investimento. Tra i principali titoli in portafoglio ci sono poi Pembina Pipeline e TC Energy, aziende che si occupano dello sviluppo di oleodotti e gasdotti.

Il dibattito sulla maggiore efficacia del disinvestimento o della partecipazione critica in aziende con rischi di sostenibilità elevati è acceso all’interno del mondo della gestione del risparmio. In poche parole, si ottengono i migliori risultati tenendo il proprio posto intorno al tavolo o abbandonando la sala facendo rumore?

C’è chi, per esempio, come il fondo sovrano della Norvegia – il più grande al mondo – ha abbandonato unilateralmente gli investimenti in società che si occupano di esplorazione e produzione petrolifera.

Come molte altre Sgr, Eurizon e Generali dicono di puntare invece su una strategia mista: esclusione a priori di alcune aziende critiche da una parte, azionariato attivo anche in titoli sensibili (come quelli del settore petrolio e gas) dall’altra. La promessa è quella di guidare il cambiamento aziendale dall’interno, spingendo la dirigenza verso politiche più sostenibili dal punto di vista ambientale o sociale. Se ciò non avviene dovrebbe scattare l’uscita dall’investimento.

Per Francesco Bicciato del Forum per la Finanza Sostenibile, in questi casi il confronto costante con le aziende diventa importante: «Permette di accompagnare le attività economiche più critiche dal punto di vista delle emissioni climalteranti in un percorso di giusta transizione allineata ai principi ESG. Se un fondo vuole continuare a finanziare le fonti fossili senza tenere conto di criteri ESG e senza avviare alcuna attività di engagement, è più difficile arrivare alla piena sostenibilità dell’investimento».

CREDITI

Autori

Matteo Civillini

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi