Iraq senz’acqua: il costo del petrolio che arriva fino in Italia

Iraq senz’acqua: il costo del petrolio che arriva fino in Italia

Sara Manisera
Daniela Sala

Basra, Iraq. Quando nel 1990 Saddam Hussein prosciugò gran parte delle paludi mesopotamiche per punire i ribelli nascosti tra i canneti che si opponevano al suo regime, Mahdi Mutir prese i suoi pochi averi, le reti e la piccola barca e fuggì verso le paludi di Hammar, a nord est di Basra, dove pensava di poter continuare a vivere grazie alla pesca. Le paludi di Hammar sono un grande complesso di zone umide nel sud-est dell’Iraq e fanno parte delle paludi mesopotamiche, originate dal sistema fluviale del Tigri ed Eufrate.

Questi antichi fiumi nascono dalle sorgenti innevate dei monti del Tauro nella Turchia sud orientale, attraversano valli e gole verso gli altipiani della Siria e dell’Iraq settentrionale e poi scendono paralleli verso la pianura alluvionale dell’Iraq centrale. Come le arterie dell’apparato circolatorio, i fiumi, raggiunti da altri affluenti, scivolano verso sud e si uniscono ad Al-Qurnah per formare il maestoso Shatt al-Arab, un fiume che viaggia per duecento chilometri prima di sfociare nel Golfo Persico.

Per millenni, la vita degli abitanti delle paludi è stata strettamente legata al Tigri, all’Eufrate e alle zone umide che stagionalmente venivano sommerse dalle inondazioni dei fiumi. Grazie all’acqua e ai canali, si trasportavano merci, si navigava da una regione all’altra, si coltivava e si viveva di pesca, in un rapporto simbiotico con l’ambiente circostante. Così ha vissuto anche Mutir.

Ogni giorno, alle due di pomeriggio, usciva da casa per andare a gettare le reti con la tradizionale mashuf, una canoa in legno, lunga e stretta, utilizzata come mezzo di trasporto principale dai pescatori di questa zona per navigare canali e paludi. Aspettava il calare del sole e il giorno seguente, alle prime luci dell’alba, le andava a raccogliere. Dei pesci catturati riusciva a guadagnare circa 17.000 dinari al giorno, circa tre euro, una cifra esigua ma sufficiente per mantenere la sua famiglia.

Per Mahdi Mutir (57) e sua moglie Intisar era la pesca la principale fonte di introiti per mantenere i loro cinque figli ma l’anno scorso i canali si sono completamente prosciugati a causa, sostengono entrambi, della stazione d’acqua che alimenta il giacimento di Eni. Oggi Mutir si sostiene lavorando saltuariamente nel settore delle costruzioni oppure come operaio per le compagnie petrolifere – Foto: Daniela Sala
Eni, attraverso il contrattista locale Iraq General Company for Execution of Irrigation Projects (IGC) ha cominciato a costruire un impianto per il trattamento dell’acqua nel 2020 a poche centinaia di metri dal villaggio dove vivono Mahdi Mutir e la sua famiglia a nord di Basra. Da allora, secondo gli abitanti locali, le paludi locali e i canali si sono completamente prosciugati. Sullo sfondo è visibile il giacimento di Zubair – Foto: Daniela Sala

Dall’inizio del 2022, per Mutir e gli abitanti della zona tutto è cambiato. La sua barca è ferma lungo un rivolo d’acqua circondato da una spianata di fanghiglia. È un pomeriggio di fine gennaio quando lo incontriamo. Le piogge stagionali avrebbero dovuto riempire i canali e le paludi ma qui non ci sono né acqua, né pesci. «Compagnia italiana. Compagnia italiana», ripete agitato, mentre indica la direzione dell’impianto, a pochi chilometri di distanza. «Eni ci ha portato via l’acqua».

Mutir è un uomo semplice, lo sguardo mite e un sorriso accogliente. Accetta di accompagnarci nel luogo che chiama “l’impianto”. Dopo aver attraversato un check-point, la struttura in costruzione, circondata da mura di cemento armato e torrette di controllo su tutto il perimetro, appare alla vista. All’ingresso sventola una bandiera gialla sbrindellata con il cane a sei zampe, simbolo della compagnia energetica italiana Eni. Di fronte, lungo l’argine di un canale è stata costruita una diga per dirottare l’acqua in un bacino di raccolta di recente costruzione. E sarebbe proprio la diga a impedire l’allagamento delle paludi circostanti. «Prima che costruissero questa diga, avevamo l’acqua», spiega Mutir, «per adesso non sono ancora operativi, ma useranno l’acqua per estrarre petrolio».

La diga e l’impianto in costruzione visitati da IrpiMedia fanno parte di un progetto che Eni sta realizzando attraverso il contrattista locale Iraq General Company for Execution of Irrigation Projects (IGC). Si tratta di un impianto destinato alla fornitura di acqua necessaria all’estrazione di petrolio nel giacimento di Zubair. Il giacimento è uno dei più grandi in Iraq ed è sfruttato dalla multinazionale italiana Eni dal 2010 con un “contratto di servizio tecnico”. Il contratto prevede lo sviluppo del giacimento, con un target di produzione di 700.000 barili di petrolio al giorno.

I maggiori produttori di petrolio

I cinque maggiori produttori di petrolio dal 1980 a oggi, per milioni di barili al giorno

L’Iraq è il secondo produttore dell’Opec, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio e detiene la quinta più grande riserva di greggio comprovata al mondo con circa 145 miliardi di barili. Dall’inizio della guerra in Ucraina e il conseguente aumento di prezzi di gas e petrolio, l’Iraq ha aumentato il valore delle esportazioni di petrolio del 9%, ottenendo entrate per 115,5 miliardi di dollari nel 2022. Al tempo stesso, l’Iraq è considerato dalle Nazioni Unite il quinto Paese al mondo più vulnerabile alla crisi climatica e idrica.

L’aumento delle temperature, le piogge sempre più irregolari, la costruzione di dighe a monte in Turchia e in Iran e metodi di irrigazione obsoleti hanno causato nell’ultimo decennio una drastica riduzione nella portata dei fiumi Tigri ed Eufrate. Ma la situazione già grave per il concorso di diverse cause è resa critica dall’industria del petrolio. Per estrarre il greggio, infatti, le compagnie che operano in Iraq utilizzano la tecnica dell’iniezione d’acqua. In media, per ogni barile di petrolio estratto servono da un barile e mezzo fino a tre barili d’acqua.

L’estrazione di petrolio mediante l’iniezione di acqua è una tecnica standard, in uso dagli anni ‘50. C’è spesso già acqua nei pozzi mista al petrolio, e in parte si usa proprio quest’acqua, che viene normalmente estratta dal giacimento insieme al petrolio. Ma non basta, occorre aggiungerne da altre fonti, da bacini, falde o dal mare. L’Arabia Saudita, ad esempio, ha costruito un impianto di desalinizzazione già alla fine degli anni ‘70 e utilizza l’acqua del golfo Persico per rifornire i pozzi.

In Iraq non è così: in mancanza di investimenti e infrastrutture, l’acqua si prende dai fiumi, sottraendola ad altri usi. I giacimenti intorno a Basra, dove si estraggono due terzi del petrolio iracheno, consumano ogni giorno una quantità di acqua pari al 25% di tutta l’acqua utilizzata nel governatorato di Basra.

Alle richieste di chiarimento da parte di IrpiMedia, Eni fa sapere che «non c’è nessun utilizzo di acqua dolce», e che in generale «Eni Iraq ha sviluppato un Piano di Gestione delle Risorse Idriche (Water Management Plan) che fornisce l’indirizzo per minimizzare l’uso della risorsa idrica, in particolare di acqua dolce, secondo i drivers dell’efficienza operativa e del riutilizzo».

L’impianto di Al Khora, la cui costruzione terminerà nel 2025, spiega sempre Eni a IrpiMedia, «preleverà l’acqua dal canale Main Outfall Drain (MOD). L’MOD è un canale che raccoglie l’acqua salmastra e contaminata risultante dal drenaggio delle acque di irrigazione, che dopo alcuni chilometri sfocia nel Golfo Persico ad ovest dello Shatt el Arab».

Attualmente in ogni caso, un terzo dell’acqua utilizzata per le iniezioni a Zubair (pari a circa 156.000 barili al giorno) «è fornita dal consorzio ROO attraverso un canale di raccolta acque superficiali salmastre denominato Qarmat Ali».

Il confronto tra le due immagini satellitari nei pressi dell’impianto di Al-Khora mostra il prosciugamento delle paludi tra il gennaio 2020 e il gennaio 2022, per effetto della costruzione di un impianto di raccolta dell’acqua (visibile in alto a sinistra nell’immagine del 2022)

Come Zubair, la maggior parte dei giacimenti del Sud dell’Iraq, infatti, si rifornisce di acqua proprio grazie all’impianto di Qarmat Ali, pochi chilometri a sud di Al Khora. Costruito negli anni ‘70, è attualmente gestito dal Rumaila Operating Organization (ROO), un consorzio di cui la multinazionale britannica British Petroleum possiede il 47,7% delle azioni. L’acqua, prelevata da un canale collegato al fiume omonimo, viene prima trattata e poi, attraverso un sistema di tubature in superficie, distribuita ai vari giacimenti del sud, tra cui Rumaila e Zubair dove operano BP e Eni. A IrpiMedia, l’accesso all’impianto di Qarmat Ali è stato negato.

Secondo Eni, né l’acqua prelevata da Qarmat Ali, né «l’acqua salmastra e contaminata, prelevata dal canale del MOD» hanno «un impatto su riduzioni dei volumi di acqua potenzialmente utilizzabile per altri scopi». Se è vero che l’acqua dei fiumi e dei canali, utilizzata dalle compagnie petrolifere, è di scarsa qualità a causa della concentrazione di sale e di altri inquinanti, non è vero però che non sia utilizzata per altri scopi. Se depurata quest’acqua può essere utilizzata dai cittadini per uso domestico.

Come verificato da IrpiMedia, infatti, poco più a valle dell’impianto di Al Khora e di quello di Qarmat Ali, i canali da cui le compagnie si riforniscono di acqua confluiscono in un impianto pubblico di depurazione, conosciuto come R0 (R Zero). Il 35% dell’acqua usata nelle case di Basra viene proprio da qui. Inoltre l’acqua, pur salmastra, consentiva la navigazione e la pesca in quello che restava del delicato ecosistema delle paludi dove vive Mutir.

Il giacimento di Zubair (lavoro, diritti?)

Per Mutir, privato dell’acqua e dell’unica fonte di reddito, il giacimento di Zubair è un vicino ingombrante a tutti gli effetti: nelle giornate di cielo sereno, i pozzi e i loro pennacchi di fumo sono ben visibili dalla casa di Mutir e puntellano tutto l’orizzonte. In auto ci vuole più di mezz’ora per avvicinarsi ai pozzi. L’area prende la forma di un’immensa distesa fatta di terreni brulli, zone densamente abitate, discariche e parcheggi per gli autotrasportatori di petrolio.

Nouri Sadeq Hasan Salman (33), qui insieme a sua madre e suo nipote, si deve sottoporre a dialisi giornaliera in attesa di un trapianto di rene, dopo essere stato diagnosticato con una malattia renale parenchimale cronica. Ha lavorato per tre anni nel giacimento di Zubair per conto di una società in subappalto – Foto: Daniela Sala
Vestiti stesi ad asciugare su un camion per il trasporto di prodotti petroliferi. I camionisti sono pagati l’equivalente in dinari di 13 euro per ogni tonnellata di prodotto trasportata, laddove un camion può trasportare fino a 30 tonnellate – Foto: Daniela Sala

Il giacimento di Zubair vero e proprio è interamente militarizzato, controllato in tutti gli ingressi da posti di blocco, telecamere e filo spinato. Nell’area a ridosso del giacimento, vivono circa due milioni di persone. La promessa di sviluppo, che il petrolio avrebbe dovuto portare, non è stata mantenuta. Gran parte delle famiglie non hanno accesso all’energia elettrica, le strade sono malconce. Rifiuti, plastica e macerie sono una costante. I terreni agricoli, un tempo coltivati a pomodori, prodotto tipico di Zubair, sono oggi abbandonati, inquinati dalle fuoriuscite di petrolio.

L'Iraq e le multinazionali del petrolio

L’esplorazione petrolifera in Iraq è iniziata nei primi decenni del Novecento. Oggi, a più di un secolo di distanza, il petrolio costituisce più del 90% delle entrate dello Stato iracheno. Con l’ascesa di Saddam Hussein al potere e la nazionalizzazione dell’industria petrolifera nel 1972 le cose cambiano drasticamente. Al di là dello slogan baathista «Il petrolio arabo agli arabi», non furono però certo le comunità locali a beneficiare dei proventi legati al petrolio.

Inoltre, a causa delle sanzioni internazionali, i giacimenti iracheni erano ampiamente sottoutilizzati. Mancavano le tecnologie e gli investimenti e a poco o nulla valsero i tentativi di Saddam Hussein negli anni ‘90 di stringere accordi con le compagnie cinesi e russe. L’invasione a guida statunitense del 2003, seguita dalla caduta di Saddam Hussein, apre definitivamente la strada all’ingresso nel Paese delle multinazionali del petrolio.

Oggi nel sud dell’Iraq ci sono tra le altre l’italiana Eni a Zubair, British Petroleum (BP) a Rumaila, la statunitense ExxonMobil a West Qurna, e Lukoil a West Qurna 2, China National Offshore Oil Corporation (CNOOC) a Maysan, ma anche i coreani di Kogas e la Egyptian General Petroleum Corporation.

Il quadro legislativo è complesso e confuso, e fa ancora riferimento a leggi precedenti al 2003. Di fatto però queste compagnie operano principalmente attraverso una serie di contratti di licenza, in partnership con la Basra Oil Company, la compagnia statale. Le compagnie straniere hanno diritto ad una percentuale di guadagno per ogni barile di petrolio estratto.

Per quanto riguarda gli obblighi di protezione ambientale, esiste una prescrizione generica nell’articolo 33 e 114 della Costituzione irachena introdotta nel 2005, secondo i quali «lo Stato è responsabile della protezione, conservazione dell’ambiente e della sua diversità biologica» e «dovrà formulare politiche ambientali, in collaborazione con i governi regionali, per garantire la protezione dell’ambiente dall’inquinamento e preservarne la qualità».

A Shaibah, un quartiere periferico nel nord della città di Zubair, stretto tra il giacimento e una raffineria, l’aria è pungente e maleodorante. L’unico centro pubblico di salute della zona, un edificio fatiscente, privo di sufficiente personale sanitario e medicinali, è dotato di un impianto di monitoraggio dell’aria non funzionante.

Nouri Sadeq Hassan Salman, 33 anni, vive subito dietro l’angolo. Salman ha lavorato nei pozzi di Zubair fino al 2014, quando si è ammalato di un’insufficienza renale cronica. Oggi è in attesa di trapianto.

«Ho lavorato dal 2011 al 2014 all’interno del giacimento. Ho lasciato il lavoro nel 2014 perché mi sono ammalato. I dottori mi hanno detto che la malattia è causata dall’inquinamento dell’aria e dalle condizioni del luogo dove ho lavorato e dove vivo. Nell’impianto c’era fumo ovunque, venivo pagato alla giornata, senza contratto e guadagnavo nove dollari al giorno. Quando i medici mi hanno detto la probabile causa della malattia, mi sono arrabbiato, come potrei non esserlo? Ho dato la colpa a me stesso per aver accettato quel lavoro. Ma la verità è che qui non c’è nessun’altra possibilità».

Anche suo fratello maggiore e due cugini lavorano negli stessi pozzi. Salman non riceve nessun supporto economico, pensione o assicurazione.

Il gas flaring (vedi box) creato dai pozzi di petrolio vicino a Basra è una costante nelle operazioni di estrazione del petrolio. Le torce bruciano gas giorno e notte, tutti i giorni, a poche centinaia di metri dalle case. Secondo la Banca mondiale, il gas flaring produce effetti particolarmente dannosi per l’ambiente – Foto: Daniela Sala
Un gruppo di pescatori raccoglie le reti da pesca vicino alla città di Basra. Pescano ogni giorno, vendendo un chilo di pesce per l’equivalente in dinari di tre euro. Lamentano una forte diminuzione del pesce nelle acque del fiume Shatt al-Arab a causa dell’aumento della salinità dell’acqua e dell’inquinamento – Foto: Daniela Sala

Come Salman, la stragrande maggioranza degli operai lavora attraverso i subappalti, sollevando di fatto le multinazionali del petrolio dagli obblighi diretti in materia di retribuzione e di sicurezza sul lavoro.

Le compagnie straniere, infatti, che hanno il compito di sviluppare il giacimento e assicurare la produzione, possono subappaltare, in accordo con la compagnia di Stato, la Basra Oil Company, varie parti del processo produttivo ad altre compagnie locali o straniere.

Solo una minoranza dei lavoratori del giacimento ha un contratto diretto con le compagnie internazionali. Si tratta quasi esclusivamente di ingegneri o quadri, in gran parte non iracheni. In teoria, l’80% dei posti di lavoro dovrebbe essere riservato alla manodopera locale ma, come due impiegati di Eni a Zubair e altre fonti vicine a BOC e al sindacato hanno confermato a IrpiMedia, questo obbligo non è mai rispettato.

Gas flaring in Iraq: le luci evidenziate nel video sono fiamme di metano nel sud dell’Iraq, a pochi chilometri dalla città di Basra, le quali liberano nell’aria sostanze altamente inquinanti come anidride carbonica, biossido di azoto e anidride solforosa. Nel 2018, il volume di gas bruciati all’interno del perimetro verde ha superato quello bruciato da Arabia Saudita, Cina, India e Canada insieme

Cos’è il gas flaring

Di notte, i dintorni di Basra sono illuminati da una fila di torce, visibili dal satellite, più luminose della città stessa. È il cosiddetto “gas flaring”. Insieme al petrolio dai pozzi fuoriesce anche una certa quantità di gas, presente in natura nei giacimenti. In Iraq, le compagnie, che non hanno investito nel recupero di questo gas che potrebbe essere immagazzinato e usato per produrre energia, lo bruciano, liberando in atmosfera enormi quantitativi non solo di anidride carbonica, ma anche di altre sostanze fortemente inquinanti e dannose per la salute pubblica, come il biossido di azoto (NO2) e l’anidride solforosa (SO2).

Nel 2009 Shell ha stimato che, se questo gas fosse utilizzato, anziché bruciato, coprirebbe il 70% del fabbisogno energetico di tutto il Paese. Nel 2018, in un raggio di 70 chilometri intorno a Basra, è stato bruciato più gas che in tutta l’India, la Cina, il Canada e l’Arabia Saudita messe insieme. Negli anni successivi, fino al 2022, il trend si è mantenuto invariato.

In teoria, la legge irachena proibisce il gas flaring entro 10 km dalle abitazioni, ma in numerose zone visitate da IrpiMedia, le torce bruciano gas a poche centinaia di metri dalle abitazioni.

Da anni le multinazionali del petrolio, come Eni e BP, promettono di ridurre il flaring a livello globale, ma in realtà si sottraggono alle proprie responsabilità. Come documentato in una recente inchiesta di Greenpeace, British Petroleum, nel suo report annuale sulle emissioni, non conteggia il gas bruciato nel giacimento di Rumaila, dichiarando di non essere la società che lo opera direttamente. Se Rumaila fosse incluso nel report, le emissioni dichiarate da BP sarebbero addirittura il doppio.

Anche a Zubair, secondo i dati della Banca Mondiale, il flaring è estremamente elevato: nel 2021 sono stati bruciati ben 2,5 miliardi di metri cubi di gas. Eni però, che dichiara un flaring a livello mondiale pari a 1,2 miliardi di metri cubi, nel suo report annuale non conteggia le emissioni generate dal giacimento iracheno.

In risposta alle richieste di chiarimenti da parte di IrpiMedia, Eni fa sapere di «operare nell’ambito di un contratto di servizio tecnico siglato con la Basra Oil Company, BOC, nel 2010 (…). Eni pertanto non controlla le decisioni strategiche sull’asset, inclusi i progetti per ridurre il flaring». E per questo motivo Eni non sarebbe tenuta a conteggiare le emissioni di gas flaring prodotte a Zubair: tutte le responsabilità, afferma la compagnia, ricadono su BOC, compreso il conteggio delle emissioni.

In ogni caso, i dettagli sulle responsabilità, ambientali e non solo, sono contenuti all’interno dei contratti di licenza, siglati tra le compagnie straniere e il ministero del Petrolio, che restano segreti. Tutto quello che riguarda le compagnie passa attraverso il potente Ministero, al punto che il dipartimento per l’Ambiente, che in teoria ha il compito di sorvegliare sul loro operato, spesso può fare ben poco: «Il Governo e il ministero del Petrolio dovrebbero obbligare queste compagnie a rispettare la legge», spiega a IrpiMedia Walid Hamid, direttore del Dipartimento dell’Ambiente nel Sud dell’Iraq. «Perché in altri Paesi del Golfo non bruciano il gas e non sversano il petrolio e qui invece sì? Per risparmiare. Non vogliono spendere, non vogliono investire: per loro è più comodo inquinare, a spese della popolazione».

Il giacimento di Zubair e le aree urbane limitrofe, dove vivono Mutir, Salman e migliaia di famiglie irachene, sono state la porta d’ingresso in Iraq dei marines statunitensi e dei soldati inglesi nel 2003. Qui si sono combattute feroci e violente battaglie che, oltre ai corpi e alla distruzione, hanno lasciato mine, uranio impoverito ma soprattutto un’eredità permanente: la presenza delle compagnie del petrolio straniere. È ciò che pensa Abdilkarim Omran, presidente della Federazione Generale dei sindacati dei lavoratori in Iraq (GFWUI).

«Noi riteniamo che queste compagnie abbiano ottenuto contratti e licenze grazie alla partecipazione dei loro Paesi d’origine alla guerra contro l’Iraq. Innanzitutto perché i contratti, compreso quello di Eni per il giacimento di Zubair, fatti durante le “ondate di licenze” non sono stati sottoposti all’approvazione da parte del parlamento. Queste compagnie lavorano contro gli interessi dell’Iraq. Ogni anno ci promettono che metteranno fine al gas flaring invece continuano ad inquinare l’aria, acqua e terreni. A pagarne le conseguenze sono i cittadini. L’incidenza dei tumori è elevata. Ci sono numerosi casi di malformazioni alla nascita e bambini nati morti».

Un lavoratore si sottopone a un test della capacità polmonare presso il Centro nazionale per la salute e l’impiego, a Basra. Il fisiatra Saadi Haidi sostiene che coloro che lavorano nelle raffinerie presentano spesso problemi respiratori. Nel 2022 il Centro ha visitato 18.077 pazienti, ma i dati raccolti sono riservati – Foto: Daniela Sala
Abdelkazim Taher Al Aissawi (66) osserva le lastre del carcinoma metastatico ad un linfonodo cervicale che gli è stato diagnosticato nel 2019. Il medico che lo ha in cura gli ha consigliato di accettare la malattia come conseguenza inevitabile dell’aver servito come soldato durante la Guerra del Golfo e per la vicinanza della sua abitazione ai giacimenti petroliferi – Foto: Daniela Sala

L’impatto sulla salute: i malati

Se è vero che i dati e le ricerche sulla relazione tra aggressioni all’ambiente, inquinamento e salute pubblica sono sempre più incontrovertibili, è altrettanto vero che per dimostrarli servono studi epidemiologici. In Iraq non sono mai stati fatti studi sulla relazione tra inquinamento ambientale causato dalle multinazionali del petrolio e la salute dei cittadini iracheni. Di sicuro, l’intenzione politica è quella di non sollevare il problema.

Secondo il ministero della Salute, il numero ufficiale di nuovi casi di cancro a Basra è di circa 2000 all’anno. Ma un documento trapelato dallo stesso Ministero e visionato da IrpiMedia riporta un numero di almeno 8000 nuovi casi all’anno.

«Raccogliamo diversi dati sulle malattie professionali a carico dei lavoratori dell’industria del petrolio e del gas, ma sono dati confidenziali. Le informazioni che raccogliamo devono essere inviate direttamente al Ministero e alle compagnie petrolifere. Sappiamo che c’è un aumento di tumori ma non abbiamo alcun potere sulle compagnie. Questo spetta al ministero della Salute», spiega Mai Taha Radi, direttrice del Centro nazionale per la salute e la sicurezza sul lavoro, responsabile dei controlli all’interno delle compagnie e delle visite mediche ai lavoratori.

Chi si ammala di cancro nel sud dell’Iraq, un’area dove abitano circa sette milioni di persone, non ha molta scelta. A fornire la chemioterapia sono due ospedali pubblici, uno pediatrico e uno per gli adulti. Al momento in cui scriviamo, l’accesso a questi ospedali risulta sospeso per tutti i giornalisti stranieri. Nonostante la mancata autorizzazione da parte del ministero della Salute, IrpiMedia è riuscita ad accedere e visitare il reparto oncologico dell’Ospedale pediatrico di Basra.

L’ospedale è stato costruito per volere di Laura Bush, moglie dell’ex presidente statunitense George W. Bush, in seguito all’invasione del 2003. All’ingresso sono esposti, ben visibili, due cartelli. Su entrambi ci sono i loghi di due compagnie petrolifere: l’italiana Eni, e la coreana Knoc, finanziatrici di un nuovo reparto di oncologia pediatrica, nell’ambito della cosiddetta responsabilità sociale d’impresa. Trenta posti in più in un ospedale che oggi ne ha quarantacinque.

La sottile linea tra progetti per lo sviluppo locale e greenwashing

Da contratto, le compagnie straniere sono tenute a reinvestire una parte degli utili in progetti di utilità sociale e per lo “sviluppo locale”, progetti identificati e gestiti tramite il Governatorato. Eni di questi progetti fa una grande pubblicità: a Zubair, a poche centinaia di metri dall’ingresso del giacimento, in un quartiere in cui mancano le strade asfaltate e l’acqua potabile, sta costruendo una scuola.

Nel 2022 ha poi annunciato con grande clamore un progetto, in partnership con l’Unione europea e Unicef, in cui annuncia la costruzione di una serie di infrastrutture per la fornitura di acqua potabile ad oltre 850 mila persone. Uno dei progetti supportati da Eni, insieme ad altre compagnie, consiste nella ristrutturazione di un impianto di depurazione dell’acqua sullo Shatt Al Arab. Una volta completato fornirà 19.200 metri cubi di acqua al giorno alla città – per un confronto, a Zubair ogni giorno vengono iniettati nei pozzi poco meno di 25.000 metri cubi di acqua al giorno, prelevata da Qarmat Ali.

Dal 2018 al 2022 Eni – fa sapere l’azienda a IrpiMedia – ha investito «più di 60 milioni in molteplici progetti sociali a sostegno dei settori della sanità, dell’acqua e dell’istruzione e per rafforzare il sistema infrastrutturale».

Nel frattempo, però, con il perdurare della guerra in Ucraina e l’embargo ai combustibili russi si prevede un costante aumento delle esportazioni dall’Iraq. E le maggiori compagnie del fossile hanno già registrato profitti record: Eni ha annunciato un utile operativo di gruppo nell’esercizio 2022 di 20,4 miliardi di euro, più del doppio rispetto al 2021. Lo stesso per BP, con 28 miliardi di euro nel 2022.

Alle prime ore del mattino, il reparto è ancora sonnecchiante. I letti sono tutti occupati da pazienti che arrivano da altre città più distanti come Nassiriya, Amarah, e dalla vicina Zubair. Le madri e le nonne che accompagnano i bambini ammalati dormono per terra su giacigli arrangiati. Le infermiere del reparto raccontano che in questo ospedale mancano farmaci per la chemioterapia, così come attrezzature e personale per effettuare il trapianto di midollo. Oltre ai pazienti intervistati all’interno dell’ospedale, IrpiMedia ha incontrato decine di persone ammalate o che hanno perso un famigliare nell’area intorno a Zubair.

Tra queste c’è Falah Hassan Sajed, figlio di Hassan Sajed, morto di cancro al fegato nel luglio 2022. «L’inquinamento ha ucciso mio padre. Mia moglie ha l’asma, i miei otto figli crescono in questo ambiente inquinato. Noi non riusciamo nemmeno ad ottenere un lavoro nei giacimenti senza una raccomandazione e non abbiamo neanche il petrolio per accendere la stufa. Come possiamo pensare di combattere queste compagnie?», domanda rassegnato.

Il fiume Shatt al Arab nasce dalla convergenza dei fiumi Tigri ed Eufrate. È tra i fiumi più importanti in Iraq e rappresenta la fonte d’acqua principale per la regione di Basra. Le acque del fiume hanno anche un uso alimentare e nel 2018 almeno 118.000 persone sono state ospedalizzate a causa di sintomi correlati alla cattiva qualità dell’acqua – Foto: Daniela Sala
Bambini giocano a calcio nella periferia di Zubair, un’area completamente circondata di giacimenti petroliferi dove i pozzi – sullo sfondo – bruciano gas costantemente – Foto: Daniela Sala

Eppure c’è una nuova generazione di giovani iracheni che sta portando avanti numerose campagne e mobilitazioni per proteggere l’aria e l’acqua in Iraq, anche a costo di perdere la vita o di essere fatto sparire.

Ahmed (il nome è di fantasia), 32 anni, è uno di loro. Dopo le massicce proteste del 2018 a Basra a causa della crisi idrica e dell’assenza di servizi di base per la popolazione, decide di impegnarsi in prima persona, denunciando i presunti crimini delle compagnie petrolifere. Ha già ricevuto una minaccia di morte per aver aiutato alcuni giornalisti a documentare l’inquinamento ma dice, «lo faccio per mio figlio e la futura generazione». Ahmed fa parte di Humat Dijlah, un’associazione ambientalista impegnata nella difesa dei fiumi Tigri ed Eufrate e delle paludi mesopotamiche. In questi ultimi anni, numerosi ambientalisti iracheni sono sono stati minacciati, uccisi, rapiti o costretti alla fuga all’estero. L’ultimo è stato Jassim Al Asadi, volto noto dell’organizzazione Nature Iraq, rapito il 1 febbraio 2023 e liberato dopo due settimane.

Intanto, nonostante i rischi e le minacce, è proprio la generazione di Ahmed, nata o cresciuta a cavallo dell’invasione statunitense del 2003, che prova a ripartire e ha deciso di farlo proprio dall’acqua. È un venerdì mattina, giorno festivo in Iraq. Di fronte allo Shatt al-Arab, dove Tigri ed Eufrate si uniscono, un gruppo di ambientalisti parla con i passanti dell’inquinamento e dei problemi legati alla mancanza di risorse idriche. I fiumi e i canali di quella che un tempo era soprannominata “la Venezia del Medio oriente” sono fogne a cielo aperto, colme di rifiuti e usate per scarichi domestici e industriali. Se un tempo i loro nonni e genitori, nonostante i conflitti e la dittatura di Saddam, potevano vivere grazie al fiume, pescare e berne l’acqua, oggi questa generazione, cresciuta in un Paese ricco di petrolio e a reddito, sulla carta, medio-alto, non ha più accesso all’acqua pulita e potabile. «Qui in questa terra è nata la civiltà e qui, se continuiamo a stare in silenzio e a non fare niente, ne vedremo la fine», dice Ahmed.

CREDITI

Autori

Sara Manisera
Daniela Sala

Ha collaborato

Essam al-Sudani

Editing

Giulio Rubino

Infografiche & Mappe

Lorenzo Bodrero

Analisi satellitare

Ollie Ballinger

Foto di copertina

Daniela Sala

Con il sostegno di