Quel che sarà dell’agricoltura italiana

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Quel che sarà dell’agricoltura italiana

Paolo Riva

Per l’agricoltura europea, quello appena cominciato sarà un anno importante. Il 2023 segna l’avvio della nuova Politica agricola comune (Pac), che è la voce più importante del bilancio Ue nonché un sostegno fondamentale per gli agricoltori in tante parti del continente. L’Italia non fa eccezione, ma arriva a questo appuntamento affaticata. Per l’agricoltura italiana l’anno che si è appena concluso è stato difficile, per tante ragioni. E per questo, merita di essere rivissuto, a partire dall’estate 2022, che rischia di essere ricordata come una delle più aride degli ultimi cinquecento anni.

«Non cresce», dice Nicholas Fusar Poli accarezzando una piantina di erba medica che si alza appena una ventina di centimetri dal terreno secco. È la seconda metà di luglio e questo giovane agricoltore mostra i danni che la mancanza d’acqua ha causato alla sua azienda di Arluno, a ovest di Milano.

L’esperienza di Fusar Poli, che viene da una famiglia giunta alla quarta generazione di contadini, è esemplare delle difficoltà che stanno vivendo molti agricoltori italiani, stretti tra la crisi climatica, l’aumento dei prezzi e le ricadute della guerra in Ucraina.

Nicholas Fusar Poli, agricoltore e allevatore e titolare dell’azienda Le Robinie, in uno dei canali irrigui in secca tra i suoi campi coltivati a mais- Foto: Luca Quagliato

«Abbiamo 91 ettari di terreno e 110 mucche da latte – spiega Fusar Poli, che ha 24 anni e ha fatto l’istituto agrario -. Avevo piantato più erba medica per comprare meno mangimi proteici, ma poi c’è stata la siccità: la medica non è cresciuta e il mais sarà molto meno del solito», dice tra lo sconsolato e l’arrabbiato. Come capita spesso in Pianura padana, anche nell’azienda di Fusar Poli, gli animali vengono nutriti da quel che viene coltivato, soprattutto mais ma anche orzo, sorgo ed erba medica. Se il raccolto va male, le mucche devono comunque essere nutrite e il necessario va acquistato. Quest’anno, a prezzi particolarmente cari.

«Il mercato agricolo sale e scende, è così. I prezzi erano già cresciuti prima [del conflitto], ma con la guerra in Ucraina sono saliti, saliti, saliti…», dice l’agricoltore.

La dipendenza italiana

Nel 2022, in tutto il mondo, i prezzi sul mercato dei beni alimentari hanno raggiunto livelli record. «L’aumento ha caratterizzato soprattutto i beni di cui Russia ed Ucraina sono principali esportatori e si è aggiunto all’aumento dei prezzi trainato dalla crescita post pandemica della domanda di beni rispetto ad una produzione che è cresciuta più lentamente», ha scritto il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria – Crea in un rapporto dell’ottobre 2022.

Il fenomeno, spinto anche dalla speculazione di banche e fondi, ha toccato il nostro Paese soprattutto in alcuni settori. «La crisi internazionale – prosegue il Crea – ha posto maggiore attenzione sulla dipendenza dell’Italia dall’estero per alcune produzioni, importanti per la nostra industria agroalimentare, tra cui i cereali, gli oli vegetali e i mangimi per la zootecnia».

Lo scorso anno, stando alle elaborazioni di Coldiretti su dati Istat, l’Italia aveva importato dall’Ucraina il 15% del mais destinato all’alimentazione degli animali, per un totale di 785 milioni di chili. Una quota che, dopo lo scoppio del conflitto, è stata sostituita in larga parte da quella proveniente da altri Paesi come il Brasile o gli Usa. Questi ultimi, scrive l’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare – Ismea, «non figurano tra i nostri principali fornitori ma nel semestre in esame hanno aumentato le spedizioni con tassi di crescita di tre cifre sia in valore che in volume per raggiungere nei primi sei mesi del 2022 circa 24 milioni di euro per 70 mila tonnellate».

Nutrire gli animali, quindi, è diventato più costoso. Ma non si è trattato dell’unico rincaro che gli agricoltori come Fusar Poli hanno dovuto affrontare.

«La pianta di erba medica solitamente in questa fase della maturazione arriva all’altezza di 40/50 cm», dichiara Fusar Poli mentre maneggia alcune piante che non hanno raggiunto la maturazione per via della siccità. A causa della mancata maturazione della pianta, gli allevatori sono costretti all’acquisto di mangimi dall’esterno – Foto: Luca Quagliato
Un ramo terziario del canale Villoresi durante una secca programmata. La distribuzione delle acque irrigue avviene attraverso una regimentazione per la quale gli agricoltori pagano una quota a un consorzio di gestione che si occupa di garantire la manutenzione dei canali e un afflusso di acqua sufficiente alla maturazione delle colture. Durante il 2022, annata di siccità grave, il consorzio ha dovuto modificare la regimentazione delle acque dilatando i tempi tra un’irrigazione e l’altra – Foto: Luca Quagliato

A marzo, poco dopo l’invasione russa dell’Ucraina, sempre il Crea aveva stimato che, a fronte della situazione internazionale, le aziende italiane avrebbero potuto «subire incrementi dei costi correnti di oltre 15.700 euro» all’anno. A settembre ha rivisto i numeri, praticamente raddoppiandoli e spiegando come tra i settori più colpiti c’è la produzione di latte.

«L’impatto medio aziendale nazionale stimato è di 29.060 euro, mentre sugli allevamenti da latte sale addirittura a 90.129 euro. Tali aumenti sono legati all’eccezionale rincaro (a livello medio aziendale) delle spese per l’energia elettrica (+35.000 euro), per l’acquisto di mangimi (+34.000 euro) e dei carburanti (+6.000 euro)», dettaglia il report.

Lo scorso ottobre Coldiretti ha confermato, segnalando aumenti dei costi che vanno dal +170% dei concimi al +129% per il gasolio fino al +300% delle bollette per pompare l’acqua per l’irrigazione dei campi. E, la scorsa estate, i raccolti hanno avuto bisogno di molta acqua.

Aziende agricole a rischio

L’estate del 2022 verrà ricordata in tutta Europa per la mancanza d’acqua. La siccità, soprattutto nel nord dell’Italia, si è sommata agli altri problemi che l’agricoltura stava già affrontando e ha inciso negativamente sulla resa di diverse colture.

Nel caso del grano duro, per esempio, a fine luglio Isema stimava che la produzione italiana 2022 «potrebbe essere inferiore di circa il 16% rispetto all’anno precedente, prevalentemente a causa del deficit idrico registrato durante la fase post semina e delle elevate temperature degli ultimi mesi». Il calo riguarda molte regioni, pur con intensità diverse, e anche altri paesi Ue come la Francia.

Per quanto riguarda il mais, il quadro è ancora più fosco. Cesare Soldi, imprenditore agricolo in provincia di Cremona, membro di Confagricoltura e presidente dell’Associazione maiscoltori italiani – Ami, prova a fare i conti. «Quest’anno, come associazione, stimiamo un calo del 35% della produzione di mais rispetto al 2021», dice. Si tratta di una media nazionale che nasconde una forte eterogeneità, ma il dato è comunque forte. «Da una parte – riprende Soldi -, c’è la siccità e, dall’altra, ci sono la situazione incerta pre Covid e la guerra che hanno portato all’aumento dei costi. È un mix esplosivo che ci porta, per l’ennesima volta negli ultimi anni, a produrre sotto costo».

In pratica, nonostante i prezzi elevati dei generi alimentari, i produttori di mais ricevono per il loro prodotto meno di quanto spendono per coltivarlo. È una situazione insostenibile che ha ragioni specifiche legate al tipo di coltura, ma che quest’anno rischia di riguardare anche le aziende di altri settori.

Nello stesso studio in cui il Crea stimava l’aumento dei costi per le imprese agricole, l’istituto concludeva che «l’attuale crisi internazionale congiunturale può determinare in un’azienda agricola su dieci l’incapacità di far fronte alle spese dirette necessarie a realizzare un processo produttivo» e che «il 30% delle aziende su base nazionale» potrebbe «avere reddito netto negativo». Prima dell’attuale crisi, i due dati erano rispettivamente l’1% e il 7%.

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«Il conflitto avrà conseguenze sulla gestione economica e finanziaria delle aziende agricole. Le imprese a bassa capitalizzazione rischiano di uscire dal mercato. Potrebbe esserci una riorganizzazione in termini di efficienza, con impatti sociali non da poco», sostiene Alessandra Pesce, direttrice del Centro politiche e bioeconomia del Crea. In pratica, secondo la ricercatrice, gli agricoltori senza sufficienti risorse economiche potrebbero non farcela ad affrontare un periodo così impegnativo. Le loro aziende agricole potrebbero essere acquisite da altre oppure fallire.

Per Pesce, l’impatto maggiore è sui «costi di gestione e approvvigionamento di materie prime energetiche, di fertilizzanti e di mangimi». Fusar Poli, per esempio, dato che l’erba medica non è cresciuta a sufficienza per la siccità, ha dovuto comprare più mangimi proteici, i cui prezzi nel frattempo erano fortemente aumentati. Lo ha fatto rivolgendosi a Cargill, uno dei principali attori mondiali del settore. «Vorrei essere sempre meno dipendente da queste aziende, ma quest’anno non è stato possibile», dice.

Lo stesso accade in provincia di Cremona, poco lontano dal Po e dalle sue acque che, a luglio, erano estremamente basse per la mancanza di piogge.

Stefania Soldi osserva la grande mietitrebbia che passa sul campo di mais appartenente alla sua azienda zootecnica. «Cerchiamo di essere autonomi, ma con questo clima mai visto prima abbiamo dovuto comprare una parte dei mangimi», spiega. E anche in questo caso, i prezzi sono saliti. La crescita era già iniziata prima del conflitto e ha accelerato dopo l’invasione russa dell’Ucraina, anche a causa della speculazione finanziaria. Come a Fusar Poli, anche a Soldi, per acquistare il mais da destinare alle sue mucche, è capitato di rivolgersi a Cargill, che ha un impianto proprio poco lontano dalla sua azienda, nel comune di Sospiro in provincia di Cremona.

Il ruolo dei grandi player

L’Italia è uno dei settanta Paesi in cui Cargill opera, per un totale di 155 mila dipendenti e un fatturato che, nel 2020, ha superato i 134 miliardi di dollari. L’azienda, che non è quotata in borsa, è un trader di materie prime agricole e quindi è coinvolta in tutte le fasi della produzione e del commercio di questi prodotti: dall’origine alla lavorazione, dalla commercializzazione agli strumenti finanziari, dalla gestione del rischio alla distribuzione. Secondo un recente rapporto dell’ong Etc Group, che da decenni si occupa di sistemi alimentari, Cargill è il leader di questo settore, seguita dalla cinese Cofco, dalle statunitensi Archer-Daniels-Midland (ADM) e Bunge (rispettivamente terza e quinta per fatturato) e da Wilmar, con sede a Singapore.

Uno stabilimento della multinazionale dei mangimi Cargill a Sospiro, provincia di Cremona – Foto: Luca Quagliato
Trebbiatura di un campo coltivato a Mais destinato all’alimentazione animale a Pieve d’Olmi, provincia di Cremona – Foto: Luca Quagliato

Aziende come Cargill o Cofco rappresentano molto chiaramente il processo di consolidamento dell’industria agroalimentare mondiale in corso, attraverso fusioni e acquisizioni sia orizzontali sia verticali. Questo, scrive sempre Etc in un altro rapporto, rafforza «il modello alimentare e agricolo industriale, esacerbando le sue ricadute sociali e», «aggravando gli squilibri di potere esistenti» e rendendo «gli agricoltori sempre più dipendenti da una manciata di fornitori e acquirenti». La pubblicazione era del 2017 ma, cinque anni dopo, il fondatore di Etc Pat Mooney, conferma che la situazione non è cambiata. Anzi.

«Il livello di concentrazione è ulteriormente aumentato e il sistema industriale sta mostrando enormi problemi nelle catene di approvigionamento che non dipendono solo dalla situazione in Ucraina e che erano già stati riscontrati durante la pandemia», spiega Mooney.

Negli ultimi mesi, Cargill ha registrato un aumento del 23% dei ricavi, raggiungendo la cifra record di 165 miliardi di dollari (140 miliardi di sterline) per l’anno conclusosi il 31 maggio 2022; ADM ha realizzato i profitti più alti della sua storia nel secondo trimestre di quest’anno mentre le vendite di Bunge sono aumentate del 17% su base annua nel secondo trimestre, anche se i profitti sono stati influenzati da oneri precedentemente sostenuti.

Se da un lato un aumento dei ricavi è logico all’aumentare dei prezzi, dall’altro, secondo diverse organizzazioni non governative, questi colossi stanno approfittando della situazione e avrebbero potuto fare di più per evitare la crisi attuale.

Quel che è certo è che gli agricoltori come Fusar Poli si ritrovano inseriti in un sistema agroalimentare industriale che non li favorisce, esposti alle ripercussioni internazionali in materia di prezzi e schiacciati dagli effetti della crisi climatica, che in estati come quella appena trascorsa si è manifestata con particolare forza. «Devi continuamente adattarti. Sei sul filo del rasoio, non puoi sbagliare», dice Fusar Poli.

Più o meno consapevolmente, però, a stringere la morsa nella quale si ritrovano sono anche gli stessi agricoltori. Soprattutto quelli che producono cereali per la zootecnia. Come ha spiegato l’associazione Terra!, in Italia il 58% dei terreni sui quali si semina (i seminativi) è destinato ad alimentare animali, non persone. Nel caso specifico del mais, l’82 per cento del prodotto disponibile è destinato all’uso zootecnico.

Il punto è che gli allevamenti producono una grande quantità di emissioni di gas serra, che contribuiscono a peggiorare la crisi climatica. Nel 2020, il settore agricolo ha generato il 9% di tutte le emissioni italiane mentre, secondo l’ong Iatp, le prime venti aziende europee di carne e latticini producono l’equivalente di oltre la metà delle emissioni di Regno Unito, Francia e Italia. Anche per questo, la nuova Politica agricola comune Ue, in vigore dall’inizio del 2023, ha tra i suoi obiettivi quello di rendere il settore primario europeo più sostenibile dal punto di vista ambientale.

L’alba di una nuova PAC

Il primo gennaio 2023, dopo una serie di rinvii causati dalla pandemia, è iniziata la nuova programmazione della la Politica agricola comune dell’Unione europea (Pac), che proseguirà fino al 2027. Tra le principali novità di questa ultima versione della Pac, che è già stata oggetto di altre riforme in passato, vi sono maggiore attenzione all’ambiente e più autonomia per gli Stati.

Il primo aspetto si concretizza negli ecoschemi, che sono sostegni economici garantiti alle aziende agricole che hanno usato determinate pratiche ecosostenibili. Il secondo aspetto, invece, lo si ritrova nei Piani strategici nazionali, che i Paesi membri concordano con la Commissione Ue per spendere i fondi Pac nel modo per loro più adatto. Quello dell’Italia è stato approvato ad inizio dicembre.

«La Commissione europea ha approvato il Piano strategico italiano per la Pac, con circa 37 miliardi per i prossimi cinque anni a sostegno della competitività e della sostenibilità del settore produttivo agricolo e agroalimentare. È un’ottima notizia, per un provvedimento molto atteso da tutto il comparto», ha commentato il ministro dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, Francesco Lollobrigida.

Il piano, in realtà, è opera di Stefano Patuanelli, ministro con il precedente governo. La caduta dell’esecutivo Draghi e le conseguenti elezioni hanno ritardato l’approvazione del documento, creando diversi problemi agli agricoltori. I fondi Pac, infatti, sono vitali per i bilanci di molte aziende agricole e capire come vengono assegnati può orientare le loro scelte in termini di colture o pratiche da seguire.

«Fino ad oggi, i pagamenti diretti della Pac hanno garantito a chi produce mais 360 euro all’ettaro, che danno la possibilità di essere in attivo», spiega Cesare Soldi di Ami. In pratica, a suo parere, produrre mais in Italia senza i soldi Ue non è economicamente sostenibile.

Con la nuova Pac, però, il quadro è destinato a cambiare. Il Piano strategico nazionale è stato sostanzialmente ben accolto dalle organizzazioni degli agricoltori. Il presidente di Coldiretti Ettore Prandini, pur affermando che «non è certo la riforma agricola dei sogni per gli agricoltori», lo ha definito «un compromesso utile a tenere insieme la sostenibilità economica, ambientale e sociale delle nostre aziende agricole».

Il giudizio, però, varia molto da settore a settore. E quello di Soldi non è così positivo.

«I seminativi come mais, frumento tenero e orzo, risultano penalizzati [dal Piano strategico nazionale]», dice. I sostegni a questo tipo di colture sono stati modulati in modo diverso rispetto alla Pac precedente e sono complessivamente diminuiti. Il mais passa da 360 euro all’ettaro a circa 230, compreso il pagamento dell’ecoschema 4. Anche Giuseppe Romano, agronomo e presidente dell’Associazione italiana agricoltura biologica – Aiab, riconosce che «in tutta la Pac, i seminativi escono affaticati».

In primo piano, un campo coltivato a grano e sorgo, sullo sfondo un campo coltivato a mais. Il sorgo è un cereale con un’alta resistenza a condizioni di siccità: «Quando il sorgo è troppo bello non è un buon segno», dichiara Nicholas Fusar Poli, agricoltore e allevatore dell’azienda Le Robinie di cui è titolare – Foto: Luca Quagliato
Lo stoccaggio di trinciato di mais destinato all'alimentazione bovina. Il trinciato è prodotto dalla raccolta meccanizzata della pianta di mais nel suo intero e stoccato per garantire l'alimentazione dei bovini durante la stagione tra un raccolto e l'altro - Foto: Luca Quagliato
Lo stoccaggio di trinciato di mais destinato all’alimentazione bovina. Il trinciato è prodotto dalla raccolta meccanizzata della pianta di mais nel suo intero e stoccato per garantire l’alimentazione dei bovini durante la stagione tra un raccolto e l’altro – Foto: Luca Quagliato

É l’unico punto su cui Soldi e Romano concordano. Per il resto, per il presidente di Aiab, «la Pac ha risposto fin troppo alle richieste nate dopo l’invasione dell’Ucraina».

L’agronomo si riferisce alla condizionalità rafforzata, il cui avvio è stato rimandato al 2024 per le conseguenze del conflitto scatenato dalla Russia. Il meccanismo incrementa le pratiche ambientali che gli agricoltori devono eseguire per ricevere i pagamenti di base, tra cui le rotazioni delle colture.

Secondo Romano, si tratta «di pratiche agroecologiche positive che andrebbero fatte a prescindere dalla Pac». Per Soldi, invece, sono una difficoltà ulteriore, che renderà ancora meno sostenibile la coltivazione del mais. «Vengono meno le aziende, diminuiscono le superfici di mais coltivate e aumentano le importazioni», dice, spiegando quel che è successo negli ultimi anni in Italia e, a suo parere, potrebbe succedere anche in futuro. Qualche segnale positivo, però, potrebbe arrivare dai mercati.

«Mai visto nulla del genere»

A novembre, Ismea ha annunciato che i prezzi di cereali, frutta, semi oleosi e vino hanno registrato un calo nel terzo trimestre 2022 rispetto al trimestre precedente e che, per la prima volta da inizio 2022, si è registrato «un calo congiunturale dei prezzi degli energetici (-4,6% rispetto al secondo trimestre)».

Segnali positivi, ma di portata limitata. Il calo ha riguardato solo i prezzi di un numero limitato di prodotti, mentre quelli di altri hanno continuato a salire. «L’aumento dei prezzi, tuttavia, non compensa completamente i maggiori costi dei produttori e l’Ismea prevede una lieve diminuzione su base congiunturale del valore aggiunto agricolo, così come indicano le stime preliminari Istat sul Pil del terzo trimestre», ha aggiunto l’istituto.

Le difficoltà per gli agricoltori, quindi, non sembrano destinate a ridursi. Anche a causa della crisi ambientale. «Il cambiamento climatico non è mai stato un problema così forte – ragiona Fusar Poli -. Magari pioveva meno, ma pioveva. Quest’anno, invece… Anche mio padre e mia nonna non hanno mai visto qualcosa del genere. Ogni tanto ci penso e mi chiedo se sono sicuro di andare avanti con questa roba qua che non sai come va a finire». L’impatto della crisi climatica sembra destinato ad aumentare, d’ora in avanti. Nessuno può ancora prevedere le conseguenze che avrà sul mestiere dell’agricoltore.

CREDITI

Autori

Paolo Riva

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

Bovini che si alimentano all’interno di una delle stalle dell’azienda Le Robinie
(Luca Quagliato)

Con il sostegno di

Mordashov, Timchenko, Deripaska: le società in Italia di tre oligarchi sotto sanzione

#RussianAssetTracker

Mordashov, Timchenko, Deripaska: le società in Italia di tre oligarchi sotto sanzione

Lorenzo Bodrero

Èpartito da un’anonima bottega di un fabbro in provincia di Brescia; è passato al controllo del secondo più importante stabilimento siderurgico d’Italia e infine ha ceduto quest’ultimo a uno dei più influenti oligarchi russi. Sono tre frammenti della vita di Luigi Lucchini, personaggio di primo piano dell’industria pesante italiana morto nel 2013 all’età di 94 anni. Classe 1919, figlio di un artigiano del ferro e di una conduttrice di osteria, Lucchini trasforma la bottega del padre in una piccola azienda grazie ai tondini per il cemento armato, componente essenziale su cui fondare il boom economico italiano. Da lì la crescita è esponenziale: accelera negli anni Settanta investendo nell’acciaio, guida Confindustria tra il 1984 e il 1988, e raggiunge l’apice negli anni Novanta con l’acquisto dello stabilimento siderurgico di Piombino (oggi secondo solo a quello dell’Ilva di Taranto).

Comincia proprio in quegli anni, invece, la parabola crescente di Alexey Mordashov, classe 1965, oggi il più facoltoso tra gli oligarchi russi nonché – secondo una nostra ricerca – quello con il maggior numero di partecipazioni societarie in Italia.

Come per l’ex presidente di Confindustria, anche Mordashov è di umili origini. I genitori lavoravano entrambi nell’acciaieria di Čerepovec, cittadina posizionata a metà strada tra Mosca e San Pietroburgo (allora Leningrado) che fu scelta da Stalin negli anni Cinquanta quale sede della seconda più grande acciaieria dell’Unione Sovietica. In quello stabilimento, Mordashov ci entrerà nel 1988 con una laurea in ingegneria economica. Nel 1992 fu promosso direttore finanziario e un anno più tardi Boris Yeltsin decise la trasformazione dell’acciaieria in una società per azioni, battezzandola con il nome che porta ancora oggi: Severstal. «Nessuno, a quel tempo, sapeva che cosa fossero le azioni in Russia. Alla fine divenni proprietario dell’82% della compagnia», spiegò sommariamente il facoltoso imprenditore in un’intervista al Times.

Mordashov, le partecipazioni in Italia del re dell’acciaio

La vertiginosa crescita negli ultimi vent’anni del suo principale azionista e presidente è andata di pari passo con quella di Severstal, oggi il gruppo siderurgico più importante della Russia con interessi anche nel settore minerario. Annovera stabilimenti in Ucraina, Kazakistan, Francia, Italia e in diversi Paesi africani.

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L’inchiesta in breve
  • Alexey Mordashov è uno dei principali imprenditori siderurgici del mondo. È finito sotto sanzioni per i suoi legami con il Cremlino. In Italia possiede quote di diverse società, la più importante delle quali è la Lucchini Spa.
  • Gennady Timchenko è proprietario di parte del pacchetto azionario della Manucor Spa, nel milanese. È tra i principali alleati di Putin ed è stato già costretto a rivedere la sua partecipazione in alcune importanti società russe.
  • Oleg Deripaska è cresciuto nel settore dell’alluminio insieme a Roman Abramovich, di cui per anni è stato socio. In Italia controlla quote della Strabag Spa, parte di un gruppo austriaco che dall’inizio della guerra ha espresso la sua massima condanna per l’invasione russa.
  • Olga Rozhkova è stata per un anno la moglie di Igor Sechin, il numero uno del colosso petrolifero Rosneft. In Italia è socia al 50% di una start-up per bici e moto elettriche insieme al suo attuale compagno.
  • Marina Chernova è la moglie di Roman Babayan, una delle voci della propaganda di Mosca, messo sotto sanzione in febbraio dall’Unione europea. Possiede quasi la metà delle quote di un ristorante di Pavia.

A differenza del passato, le attuali sanzioni a personaggi con importanti partecipazioni in imprese europee potrebbe provocare stravolgimenti nelle strutture societarie di aziende italiane e non solo.

Nell’ambito del filone d’inchiesta #RussianAssetTracker, IrpiMedia ha potuto appurare che sono almeno 19 le aziende in Italia riconducibili ad Alexey Mordashov, distribuite in dieci province italiane. La più proficua è quella di Livorno, dove hanno appunto sede la Lucchini Spa e lo stabilimento siderurgico di Piombino. L’acquisizione, nota da anni agli organi di stampa, è avvenuta nel 2005 con la cessione del 70% della storica azienda italiana, mentre cinque anni più tardi il gruppo russo ha acquisito un ulteriore 20%.

La Lucchini è controllata da due società cipriote, una delle quali conduce a una finanziaria delle Isole Vergini; l’altra invece porta a una delle principali società controllate direttamente da Mordashov, la Severstal, colosso della siderurgia mondiale.

A causa delle sanzioni a cui è sottoposto l’oligarca, una divisione di Citibank di New York «ha rifiutato di effettuare un pagamento a Severstal per 12,6 milioni di dollari su eurobond per 800 milioni di dollari con scadenza nel 2024», riporta il sito economico russo RBC il 23 marzo. In sostanza l’azienda non ha potuto pagare i suoi obbligazionisti. A ulteriore conferma dello sbandamento dell’azienda, Severstal scrive sul suo canale Telegram l’11 aprile che «la Società ha deciso temporaneamente di non pubblicare i risultati finanziari del primo trimestre 2022 perché una parte importante dei propri azionisti non è in grado di prendere delle decisioni in merito agli investimenti e la diffusione di queste informazioni potrebbe mettere dei portatori di interesse in condizioni di vantaggio rispetto ad altri».

Alexey Mordashov, amministratore delegato di Severstal, raggiunge la sede del Comune di Piombino per discutere con le istituzioni locali e nazionali del futuro della Lucchini Spa il 5 agosto 2010 - Foto: Laura Lezza/Getty

Alexey Mordashov, amministratore delegato di Severstal, raggiunge la sede del Comune di Piombino per discutere con le istituzioni locali e nazionali del futuro della Lucchini Spa il 5 agosto 2010 – Foto: Laura Lezza/Getty

Per i loro dividendi gli azionisti dovranno attendere l’esito della prossima assemblea generale del 20 maggio 2022. Il 2 marzo l’agenzia di stampa russa Interfax ha citato un comunicato stampa di Severstal in cui si legge: «Abbiamo interrotto le consegne all’Ue in relazione alle sanzioni imposte al nostro azionista (principale, cioè Mordashov, ndr). Stiamo reindirizzando i flussi di merci verso mercati mondiali alternativi».

L’amore degli oligarchi per l’Italia

Le sanzioni economiche verso la Russia e verso gli oligarchi sono al centro del dibattito dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina. Il loro scopo è indebolire l’economia russa e indurre Vladimir Putin a porre fine al conflitto. IrpiMedia si è già occupata della reale efficacia di queste sanzioni e l’effetto delle sanzioni sulle economie più esposte alla Russia sono ancora difficili da valutare.

Secondo IrpiMedia, sono almeno cinque gli individui di nazionalità russa al momento sotto sanzioni da Unione europea e Stati Uniti che detengono quote azionarie rilevanti (superiori al 5%) in società italiane. Oltre ad Alexey Mordashov – che in Italia ha già subito il congelamento del suo yacht da 65 milioni di euro nel porto di Imperia e una villa da 105 milioni in Costa Smeralda – nella lista figurano altri due oligarchi molto noti – Gennady Timchenko e Oleg Deripaska – e le coniugi, attuali o passate, di altri due uomini dell’entourage di Putin.

Gli oligarchi, e le loro coniugi, nelle società italiane

Considerato uno dei più stretti confidenti del presidente russo, Gennady Timchenko, prima delle ultime sanzioni, controllava – scrive Bloomberg – un patrimonio superiore ai 10 miliardi di dollari. A lui è riconducibile la Manucor, operante nel settore degli imballaggi nel milanese, con stabilimenti anche a Sessa Aurunca, in Campania.

L’azienda è il frutto di una lunga tradizione famigliare, quasi dinastica. Nacque nel 1935 dall’idea di Dardanio Manuli, siciliano trapiantato a Milano dove fondò una piccola impresa per la produzione di nastro isolante per uso elettrico. Quarant’anni più tardi l’azienda aveva conquistato un posto tra i leader europei nella produzione di plastica e materiali industriali, con 1.500 dipendenti e stabilimenti in Spagna, Grecia e sud Italia, fino a quando il controllo è passato in mano ai tre figli Manuli che diversificarono le attività cedendo quelle meno profittevoli e perseguendo un’ulteriore spinta verso l’estero.

Nel 2019 l’azienda ha annunciato una joint venture con una società russa che ha acquisito la metà delle azioni della Manucor Spa, lasciando ai Manuli una quota di minoranza. Oggi la facoltosa famiglia dirige le proprie attività tramite la AM Holding con investimenti nei settori immobiliare, industriale, editoriale e dell’asset management. Il 50% della Manucor Spa è quindi in mano alla Biaxplen, azienda russa nonché consociata della Sibur (colosso del settore petrolchimico) riconducibile a Gennady Timchenko tramite la partecipazione in un’altra società.

Gennady Timchenko (dx) insieme a Alexey Mordashov (sx) durante una conferenza stampa a Sochi il 18 aprile 2018 - Foto: Sasha Mordovets/Getty

Gennady Timchenko (dx) insieme a Alexey Mordashov (sx) durante una conferenza stampa a Sochi il 18 aprile 2018 – Foto: Sasha Mordovets/Getty

Il 22 marzo la Strabag Ag, società di costruzioni austriaca, ha dichiarato di voler interrompere i rapporti con uno dei suoi azionisti, l’oligarca sotto sanzione Oleg Deripaska. Per anni molto vicino a Roman Abramovich, Deripaska è partito dall’alluminio della Siberia per diventare uno degli industriali più importanti del mondo. Strabag già a inizio marzo aveva affrontato il tema della guerra e della presenza di Deripaska tra gli azionisti in un comunicato stampa: «STRABAG – si legge – condanna fermamente questa aggressione militare da parte della Russia sull’Ucraina e aiuterà tutte le iniziative volte al sostegno della popolazione in Ucraina e al ripristino della pace nella regione». Rispetto all’ingombrante azionista russo, Strabag specifica che «secondo il diritto societario austriaco, il consiglio di amministrazione gestisce la società in modo indipendente, vale a dire senza istruzioni da parte del consiglio di sorveglianza e degli azionisti della società». Tra le società del gruppo Strabag, c’è anche una Spa in Italia, con sede a Bolzano, nata nel 2011 a seguito dell’acquisizione di una società di costruzioni di Bologna pochi anni prima.

Una società è invece riconducibile a Roman Babayan, conduttore di due programmi televisivi in Russia, caporedattore di una radio locale a Mosca e membro del consiglio comunale della capitale. L’Unione europea ha incluso Babayan lo scorso 28 febbraio nella lista degli individui sanzionati perché ritenuto cruciale nella diffusione della propaganda russa anti-ucraina: si «è reso responsabile di attività che minano e mettono a repentaglio l’integrità, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina», si legge nel documento. La moglie, Marina Chernova, controlla il 48% del capitale di un’azienda di ristorazione in provincia di Pavia.

Olga Rozhkova nel 2011 ha cambiato il suo cognome in Sechina, come scoperto dal giornale russo Novaya Gazeta. Per un anno, infatti, è stata moglie di Igor Sechin, il presidente di Rosneft, il colosso petrolifero russo. Il giornalista di I-Stories Roman Anin rischia il carcere in Russia per aver scritto di uno yacht a cui Sechin aveva dato il nome della sua allora moglie, St. Princess Olga. Rozkhova dal 2020 è socia al 50% di una start-up che sviluppa bici e moto elettriche a Roma insieme all’attuale fidanzato, il pilota professionista Francesco “Frankie” Provenzano. Dalla visura italiana si legge che ha frequentato l’Accademia diplomatica del Ministero degli Affari esteri della Russia e si è laureata all’Accademia russa del commercio internazionale, università che dipende dal Ministero dello Sviluppo economico russo. È stata anche dipendente di Gazprombank, la banca di Gazprom, l’altra società energetica di Stato.

Il ventre molle dell’Europa

L’Italia non è certo l’unico Paese in Europa che registra una penetrazione russa nel proprio tessuto imprenditoriale. Quanto, quindi, dell’economia europea è esposta verso società e investitori russi? La domanda è alla base di un primo studio del centro di ricerca Transcrime e del suo spin off Crime & Tech pubblicato nell’ambito di TOM (The Ownership Monitor), un osservatorio che analizza le strutture proprietarie delle imprese. IrpiMedia collabora con Transcrime allo sviluppo di Datacros, un sistema che esamina strutture societarie complesse e ne identifica potenziali fattori di rischio.

Nel report di TOM pubblicato da Transcrime in merito alla penetrazione dell’imprenditoria russa nel tessuto economico europeo risultano almeno 44.000 persone con passaporto russo in qualità di titolari effettivi di società registrate nell’Unione europea, nel Regno Unito e in Svizzera. Il numero più alto si registra in Repubblica Ceca (quasi un terzo), seguita da Regno Unito, Lettonia, Germania e Bulgaria. Quanto ai settori di investimento, piace particolarmente il mattone: a livello europeo, infatti, il settore immobiliare è quello che registra il maggior numero di partecipazioni russe (quasi il 15% di tutte le imprese europee a partecipazione russa), seguito dal commercio all’ingrosso/dettaglio e dalle attività di holding finanziarie.

In Italia i titolari effettivi russi sono almeno 2.025 distribuiti in 1.300 aziende. La maggiore concentrazione è nella provincia di Milano, seguita da quelle di Roma, Brescia, Firenze e Rimini. Nel complesso, Transcrime stima che il valore contabile di queste società nel nostro Paese ammonti a circa 2,5 miliardi di dollari.

Titolari effettivi russi

Il numero di persone di nazionalità russa in qualità di titolari effettivi di società registrate in Europa, nel Regno Unito e in Svizzera

Gli investimenti russi nemmeno dopo l’annessione della Crimea nel 2014 sono stati un grosso problema per le economie europee. Le sanzioni di oggi, invece, potrebbero provocare delle conseguenze maggiori anche sul piano delle composizioni societarie in Europa.

Delle 31.000 società controllate da persone russe e attive in Europa, il report di TOM ne individua 1.402 (il 4,5%) riconducibili a individui sotto sanzione da parte di Stati Uniti, Ue e Regno Unito al momento dell’uscita del rapporto, a fine marzo. La stragrande maggioranza è quindi partecipata o controllata da persone di nazionalità russa che non sono stati sanzionati da Unione europea e Stati Uniti.

Strutture societarie complesse

La ricerca di Transcrime mostra però «un numero di anomalie ben più alto» nelle aziende sotto il controllo degli oligarchi rispetto alle altre. La loro struttura societaria, ad esempio, è molto più intricata. Significa che il controllo di una società si avvale di una catena di partecipazioni articolata, costituita in media da sei aziende, contro una media europea di 0,5.

Italia e Russia: da decenni di stretti rapporti alle sanzioni di oggi

Sanzioni economiche, congelamento dei beni, limitazioni a import ed export. La “guerra economica” contro la Russia può sembrare dovuta in queste settimane di conflitto russo-ucraino ma bisogna ricordare che fino al 2014 – soltanto otto anni fa – la situazione era ben diversa. Dal Dopoguerra a oggi, infatti, la Russia e buona parte dei Paesi europei hanno beneficiato reciprocamente l’una degli altri. L’Italia, in particolare, condivideva con la Russia una marcata “simpatia ideologica” grazie al consenso che il Partito comunista italiano, tra i più solidi nel Vecchio continente, raccoglieva nel nostro Paese.

Questa convergenza si rifletteva anche e soprattutto sul piano economico. Due simboli dell’industria italiana quali Fiat e Eni furono tra i primi a investire nell’Unione Sovietica, e con il crollo del Muro di Berlino il commercio e la politica estera italiana verso la Russia si sono ulteriormente intensificati. È impossibile elencare qui tutti i più importanti partner commerciali che in Russia hanno fatto fortuna ma basti ricordare, oltre alle già citate Fiat ed Eni, anche Enel e Pirelli (di quest’ultima, la Rosneft – colosso russo del petrolio – divenne maggiore azionista nel 2014 e il suo amministratore delegato Igor Sechin – oggi sotto sanzione – divenne membro del consiglio di amministrazione).

Due dati certificano il crescente rapporto economico tra i due Paesi: dal 2005 al 2013, le esportazioni verso la Russia sono passate da 6 a 11 miliardi di euro; gli investimenti diretti stranieri (FDI), invece, da 1,7 a 11 miliardi di euro tra il 2007 e il 2016. Insomma, il Paese guidato da Vladimir Putin è cruciale per le sorti economiche dell’Italia la quale – secondo i dati del Ministero degli esteri di gennaio 2022 – è il secondo partner russo più importante in Europa (dietro alla Germania) e il quarto nel mondo.

Un altro settore strategico per i due Paesi – oltre all’oil&gas e a quello industriale – è l’industria bancaria: nel 2019, l’esposizione finanziaria verso la Russia degli istituti di credito italiani era la seconda più grande al mondo (dietro alla Svizzera), pari a quasi 23 miliardi di euro. Unicredit, il gruppo bancario più importante d’Italia, è la prima banca straniera in Russia per volume di attività. E ancora: i rapporti tra Intesa Sanpaolo, il secondo gruppo bancario in Italia, e la Russia risalgono ai tempi dell’Unione Sovietica dove l’allora Banca Commerciale Italiana aveva investito pesantemente tra gli anni Sessanta e Settanta.

Di come economia e politica corrano spesso su strade parallele lo dimostra una dichiarazione del presidente del Cda di Banca Intesa all’indomani delle sanzioni italiane per l’invasione della Crimea: «Sono illegali – diceva Antonio Fallico nel 2017 – e sono state imposte per ragioni ideologiche». Simili prese di posizione hanno coinvolto politici e partiti italiani di primo piano: l’ex primo ministro Silvio Berlusconi è stato per anni legato a Vladimir Putin da una profonda amicizia; Matteo Salvini e la Lega hanno stretto nel 2017 un patto con il partito di Putin Russia Unita che secondo Report è ancora in vigore e hanno costruito sinergie ideologiche tra l’estremismo cattolico e la chiesa ortodossa; il Movimento 5 Stelle, da partner di governo della Lega, aveva nel suo programma del 2018 l’abolizione delle sanzioni alla Russia.

Insomma, l’Italia è da decenni terreno fertile non solo per gli investimenti ma anche per l’agenda politica di Mosca. Si spiega, in parte, così la faticosa inversione di rotta da parte dell’Italia che ha portato il nostro Paese ad allinearsi alla volontà dell’Unione europea e a perseguire economicamente la Russia per l’aggressione all’Ucraina, non senza polemiche interne.

Ripercorrendo i collegamenti azionari di queste società è inoltre emerso come in quelle 1.402 società sono presenti 207 trust e fiduciarie in qualità di intermediari, un numero 15 volte superiore alla media europea. Tipicamente, trust e fiduciarie sono utilizzate per mascherare l’identità del reale titolare effettivo così da mettere al riparo chi realmente le detiene da eventuali sanzioni.

Una tale opacità aziendale rende meno efficaci le recenti sanzioni emesse contro gli oligarchi russi. È il caso, per esempio, del mega-yacht di Alisher Usmanov, tra i più influenti e ricchi oligarchi vicini a Putin: ormeggiato nel porto di Amburgo (Germania), la lussuosa imbarcazione di quasi 200 metri di lunghezza e del valore stimato in 200 milioni di dollari, è registrato alle Isole Cayman e di proprietà della Klaret Continental Leasing Limited, una società di base a Malta. Collegare la proprietà dello yacht direttamente al magnate russo, scrive Forbes, è stato finora impossibile e le autorità tedesche non hanno potuto fare altro che “congelare” l’imbarcazione (renderla, cioè, inutilizzabile), ben altra cosa rispetto al sequestro.

Le società degli oligarchi

Il numero di società in Europa, Regno Unito e Svizzera in cui persone di nazionalità russa sotto sanzione risultano titolari effettivi

Analizzando le strutture societarie di milioni di aziende in Europa, i ricercatori di Transcrime sono riusciti a individuare 33 oligarchi sotto sanzioni aventi quote aziendali (dichiarate) in società registrate nella Ue, nel Regno Unito e in Svizzera. Il valore totale sfiora i 440 miliardi di dollari, cifra che considera il valore globale delle aziende e non solo le quote azionarie in mano agli oligarchi. Tra i Paesi europei, il record appartiene alla Germania dove sono registrate 362 società riconducibili a oligarchi sanzionati, seguita da Austria (181) e Regno Unito (153).

I risultati della ricerca «sono certamente una sottostima – precisano i ricercatori – di quanto, rispetto al volume reale, è difficile dirlo». Le difficoltà da aggirare, infatti, non sono di poco conto. In primo luogo, è verosimile credere che molti russi controllino società europee attraverso l’utilizzo di prestanome, oppure utilizzando la cittadinanza di un Paese Ue ottenuta attraverso i programmi cosiddetti “golden passport” e “golden visa”, eludendo quindi la voce “cittadinanza russa” nella raccolta dei dati. Inoltre, il controllo su una società può essere anche indiretto, ovvero esercitato tramite una persona terza o una holding registrata all’estero.

Il Paese più utilizzato in questo senso è Cipro dove risiede il 17% dell’azionariato russo in Europa, con un valore contabile stimato in 106,5 miliardi di dollari. L’isola del Mediterraneo si conferma dunque quale porto di transito privilegiato per gli investimenti in Europa in arrivo dalla Russia.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bodrero

Ha collaborato

Lorenzo Bagnoli

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Editing

Lorenzo Bagnoli

Foto di copertina

Gennady Timchenko (dx) insieme a Alexey Mordashov (sx) durante una conferenza stampa a Sochi il 18 aprile 2018
(Sasha Mordovets/Getty)

Il boom dei visti d’oro italiani

13 Maggio 2021 | di Matteo Civillini

Èboom di richieste per il visto d’oro italiano, il lasciapassare che permette ai paperoni del mondo di stabilire la residenza nella Penisola in cambio di lauti investimenti. I dati ottenuti da IrpiMedia mostrano come dall’inizio del 2021 le candidature per l’”Investor Visa” abbiano già raggiunto lo stesso numero registrato nei primi due anni e mezzo di vita del programma. Un incremento di interesse vertiginoso, diretta conseguenza della radicale trasformazione del visto promossa dal governo Conte II. A far gola agli investitori sono stati il dimezzamento delle somme necessarie per investimenti in società di capitali e, soprattutto, l’abolizione dell’obbligo di permanenza fisica in Italia. Una modifica, quest’ultima, che a detta degli esperti ha tramutato l’Investor Visa italiano in un vero e proprio visto d’oro, cosiddetti “golden visa”.

«Quello della libertà di spostarsi tra diversi Paesi è un aspetto fondamentale per i cosiddetti high net worth individuals (cioè persone che dispongono di alti redditi, ndr)», spiegava già lo scorso gennaio a IrpiMedia l’avvocato Marco Bersani, a capo di uno studio specializzato in diritto di immigrazione per investitori esteri. «Questa novità – prosegue Bersani – ha reso l’Investor Visa molto competitivo rispetto agli altri Paesi europei».

Oggi i numeri lo confermano: dalla nascita del programma (gennaio 2018) a metà aprile 2021 le domande pervenute al Ministero dello Sviluppo Economico – il dicastero di competenza – sono state 40. Più della metà (23) sono arrivate in seguito alle modifiche apportate dal governo Conte II durante la pandemia per rendere il visto più appetibile. Il 75% delle candidature su cui si è già espresso il Comitato interministeriale ha portato al rilascio del nulla osta con cui, entro sei mesi, l’investitore può richiedere il visto d’ingresso in Italia. Otto domande erano ancora in corso di valutazione al momento dell’invio dei dati da parte del Mise a IrpiMedia.

Come è cambiato il golden visa italiano

Creato dal governo Renzi con la legge di bilancio 2017, l’Investor Visa prevedeva nella sua forma originale la scelta tra quattro tipologie di investimento: due milioni di euro in titoli di Stato, un milione di euro in azioni in società di capitali, 500mila in quote di startup innovative o un milione di euro in donazioni filantropiche.

Dopo lo scarso successo iniziale, il governo ha approfittato della crisi economica legata all’emergenza Covid-19 per trasformare il programma. La prima novità, introdotta nel luglio 2020 con il Decreto Rilancio, è stato il dimezzamento delle somme necessarie per gli investimenti in società di capitali e startup (500mila e 250mila euro rispettivamente). La seconda modifica, invece, è stata apportata a settembre nel Dl Semplificazioni e riguarda l’abolizione dell’obbligo di permanenza fisica in Italia per tutta la durata del visto.

L’investimento in SpA si conferma l’opzione preferita di chi ottiene il pass privilegiato per la residenza in Italia. Quindici domande andate a buon fine riportano l’indicazione del versamento di almeno 500mila euro in società di capitali. I beneficiari dei restanti visti hanno invece barrato le caselle dell’ investimento in startup (4 casi) o dell’acquisto di titoli di Stato (4 casi). Nessuno ha optato per le donazioni filantropiche.

Eni e Unicredit tra i beneficiari degli investimenti

Da quando è partito il nuovo corso del “golden visa” italiano sono però solo due le aziende che hanno effettivamente beneficiato degli investimenti. Si tratta di Eni e Unicredit, due colossi strategici nello scacchiere dell’industria italiana. Entrambe hanno incassato dagli investitori almeno mezzo milione di euro dando così il via libera al rilascio dei visti. Come avevamo già scritto nella precedente inchiesta, le altre due aziende beneficiarie del programma prima del giugno 2020 sono state Prysmian, leader mondiale nell’industria dei cavi per la trasmissione di energia, e l’azienda alimentare Valsoia.

Il faro del Copasir sugli investimenti stranieri in asset strategici

Sull’acquisizione da parte di investitori stranieri di quote rilevanti di asset strategici nazionali ha puntato i fari anche il Copasir, l’organismo di vigilanza del Parlamento sui servizi segreti. In particolare, in una relazione del novembre scorso il Comitato ha analizzato i possibili rischi derivanti dal crescente ingresso di capitali esteri nell’azionariato di “campioni nazionali” del settore finanziario come Unicredit e Generali.

«Le influenze e gli interessi che grandi imprese ed altri soggetti possono proiettare sulle dinamiche economico-finanziarie interne rappresentano un fattore potenzialmente rischioso – scriveva il Copasir – non solo in relazione a ricadute sul versante sociale, industriale e occupazionale, ma anche con possibili minacce agli interessi nazionali».

Il Comitato evidenziava come il passaggio del controllo di istituti di credito in mani straniere potrebbe comportare uno scollamento con il territorio italiano, con un più difficile accesso al credito per le piccole e medie imprese e un reimpiego delle risorse raccolte in Italia fuori dai confini nazionali.

Nello specifico il Copasir aveva acceso i riflettori su Unicredit definendo «preoccupanti» le voci dei mesi precedenti circa la possibile fusione con l’istituto tedesco Commerzbank o le banche francesi Crédit Agricole e Societé Générale. Operazioni successivamente accantonate con il riassetto del management di Unicredit e il passaggio di consegne tra l’ex Ad francese Jean Pierre Mustier e il nuovo numero uno Andrea Orcel.

I nomi delle altre società indicate dagli investitori nella loro candidature non sono stati resi noti, perché, ad oggi, il versamento dell’ammontare non è ancora avvenuto. L’obbligo di perfezionare l’investimento promesso nella domanda scatta, infatti, solo al termine dell’iter burocratico. Fino a sei mesi possono passare tra il rilascio del nulla osta da parte del Mise e la formale richiesta del visto da parte dell’investitore. Dopo l’ingresso in Italia il detentore del “golden visa” ha a disposizione altri tre mesi per inviare la documentazione comprovante l’investimento. Un arco temporale lungo che, complici anche le restrizioni dettate dalla pandemia, ha portato pochi beneficiari del programma a completare il proprio investimento.

Tra i nulla osta concessi da giugno 2020 a oggi, in soli due casi i detentori hanno perfezionamento l’investimento (in Eni e Unicredit, appunto). Un ulteriore versamento sarebbe stato effettuato, ma è ancora in corso di valutazione da parte del Ministero. Due beneficiari hanno fatto trascorrere i sei mesi di validità del documento senza richiedere il visto e, quindi, investire la cifra promessa. Negli altri casi i possessori del nulla osta sono ancora dentro i tempi tecnici per completare la procedura, sebbene ad oggi non l’abbiano fatto.

Dal punto di vista geografico, la Russia guida la classifica delle nazioni di provenienza dei richiedenti con nove candidature. A seguire troviamo Stati Uniti (con sei) e Canada (con cinque) – quasi tutte pervenute nell’ultimo anno – davanti a Cina, Siria e Israele. I dati forniti dal Ministero non permettono di identificare da quale Paesi provengono gli investitori che hanno effettivamente ottenuto il visto.

La rapida impennata di richiedenti del visto italiano per investitori potrebbe portare un ulteriore attenzione sui rischi che da sempre accompagnano questi programmi. A livello mondiale, infatti, i golden visa godono di una reputazione sempre peggiore. Sia per la creazione di corsie preferenziali, dove pagando ci si può assicurare un bene – come residenza o cittadinanza – precluso ai più, sia per l’infiltrazione di investitori pregiudicati nelle liste di chi fa domanda di visto allo scopo di ricostruirsi un’identità. A finire nel mirino sono stati innanzitutto i “passaporti d’oro” di Malta e Cipro che, a differenza di sistemi come quello italiano, concedono una cittadinanza a tutti gli effetti in cambio di investimenti. Nell’ottobre 2020 l’Unione Europea ha aperto una procedura d’infrazione nei confronti dei programmi dei due Paesi del Mediterraneo in quanto avrebbero concesso passaporti «in assenza di un vero legame» dei beneficiari con il Paese stesso. Il mese successivo, Cipro ha chiuso il programma mentre Malta promette di andare avanti senza cambiare una virgola.

Infografiche: Lorenzo Bodrero | Foto: Daniel Sharp/Unsplash | Editing: Luca Rinaldi

Arresti eccellenti e aziende fantasma: il traffico di rifiuti tra Italia e Tunisia

Arresti eccellenti e aziende fantasma: il traffico di rifiuti tra Italia e Tunisia

IrpiMedia
Inkyfada

Duecentoottantadue container di balle di rifiuti italiani arrivati a Sousse, città a 170 km a sud-est da Tunisi, sono al centro di uno scandalo politico in Tunisia. Dall’altro lato del Mediterraneo, la vicenda ha portato prima alle dimissioni e poi all’arresto dell’ex ministro dell’ambiente, Mustapha Laroui, il 21 dicembre 2020. Appena due mesi prima, il 2 novembre, il governo tunisino annunciava l’apertura di un’inchiesta giudiziaria per traffico di rifiuti, ancora in corso.

Sulla lista degli indagati non appare solo il nome dell’ex ministro dell’ambiente, ma anche quello del suo capo di gabinetto, dei direttori dell’Agenzia nazionale per la gestione dei rifiuti (ANGED) e di quella per la Protezione dell’ambiente (ANPI). Oltre a tre funzionari della dogana, il responsabile di un laboratorio di analisi e un impiegato delle poste, risulta essere indagato anche Beya Ben Abdelbaki, console tunisino a Napoli. Per il giudice di Sousse incaricato del dossier, Tarek Saied, sono tutti accusati di aver favorito l’arrivo di 7.900 tonnellate di rifiuti non riciclabili sul suolo tunisino.

I 282 container, partiti dal porto di Salerno tra il 22 maggio e il 20 luglio 2020, contengono tonnellate di rifiuti classificati come 191212, un codice che per il catalogo europeo corrisponde alla dicitura «rifiuti (compresi materiali misti) prodotti dal trattamento meccanico dei rifiuti urbani». Per la ditta che li ha prodotti, la Sviluppo Risorse Ambientali di Polla, piccolo comune di 5mila abitanti in provincia di Salerno, si tratta di rifiuti derivati dalla lavorazione industriale dell’immondizia differenziata. Sono stati inviati in Tunisia, sostiene l’azienda, per un secondo trattamento di valorizzazione in nome della «maggior economicità del processo di recupero rispetto al paese d’origine», si legge sulle carte che accompagnano le spedizioni, ottenute da IrpiMedia.

Per il rappresentante del Ministero dell’Ambiente tunisino Abderrazak Marzouki, invece, nei depositi non arriva materiale riciclabile ma solo «scarti di rifiuti urbani e misti, impossibili da valorizzare» e quindi destinati allo smaltimento in discarica o all’incenerimento, come spiega lui stesso sulla base delle analisi condotte dal tribunale di Sousse in un’email inviata il 15 dicembre 2020 alla Regione Campania e a Sergio Cristofanelli, funzionario del Ministero dell’Ambiente italiano.

Secondo il regolamento europeo sui rifiuti 1013 e la convenzione di Basilea che regola i movimenti transfrontalieri tra un Paese Ue e un Paese extra Ue, l’Italia può esportare rifiuti di questo tipo solo se effettivamente destinati al riciclo. Spetterebbe proprio ai due rappresentanti della Convenzione di Basilea – i cosiddetti focal points italiano e tunisino, dipendenti dai rispettivi ministeri dell’Ambiente – autorizzare o rifiutare la spedizione. Invece la procedura non viene rispettata: i container lasciano il porto di Salerno con il beneplacito della Regione Campania, ma senza l’accordo delle autorità competenti, cioè i rappresentanti della Convenzione di Basilea. A consentire la spedizione è un funzionario dell’Agenzia nazionale per la gestione dei rifiuti (ANGED) della regione di Sousse, oggi in manette. Ad attenderli, c’è una società fantasma che dichiara di esportare plastica e che tra luglio e settembre, prima che l’affare diventi pubblico, ha già ricevuto un totale di 230 mila euro dall’azienda campana Sviluppo Risorse Ambientali.

Secondo il regolamento europeo sui rifiuti 1013 e la convenzione di Basilea che regola i movimenti transfrontalieri tra Paesi UE ed extra Ue, l’Italia può esportare rifiuti di questo tipo solo se effettivamente destinati al riciclo

Insieme ai colleghi tunisini di Inkyfada, IrpiMedia ha indagato su chi sono i protagonisti di quella che in Tunisia è già diventata l’inchiesta giudiziaria più delicata del 2021.

A ricevere i rifiuti, un’azienda fantasma che non può riciclarli

A firmare il contratto con la Sviluppo Risorse Ambientali il 30 settembre 2019 è la ditta tunisina Soreplast, di proprietà di Mohamed Moncef Noureddine, da più di dieci anni nel campo dei rifiuti. Dieci giorni prima del mandato d’arresto inviato dal procuratore di Sousse, il proprietario fugge in Germania.

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La famiglia Noureddine, connessa agli ambienti della dittatura di Ben Ali e tutt’ora vicina al mondo politico, è molto influente nella regione di Sousse. La ditta di Moncef Noureddine viene fondata nel 2009 ma multata dalla dogana nel 2012 per aver falsificato dei documenti sulle quantità delle merci che trattava. Da quel momento, smette ufficialmente di lavorare e non dichiara più nulla al fisco, anche se un ex collega di Mohamed Moncef Noureddine sa che «ogni tanto ottiene qualche commissione in nero sul mercato locale». Ufficialmente Soreplast torna attiva a novembre 2019, due mesi dopo la firma del contratto con la Sviluppo Risorse Ambientali. È allora che il proprietario tenta di mettersi in regola e dichiara al fisco le entrate dell’anno precedente: 1 milione e 300 mila dollari, riporta un documento bancario visionato da IrpiMedia.

Il contratto con Soreplast – firmato durante la prima visita in Tunisia di Alfonso Palmieri, proprietario della Sviluppo Risorse Ambientali ai locali della ditta, come conferma ad IrpiMedia la stessa SRA durante una conferenza stampa a Polla – prevede un tetto massimo di 120 mila tonnellate di rifiuti da esportare a sud del Mediterraneo, divisi in tranches minori. Le tonnellate autorizzate dalla Regione Campania con due decreti dirigenziali – uno del 14 aprile, l’altro dell’8 luglio – sono 12 mila in totale, di cui 7.900 sono arrivate in Tunisia prima che le spedizioni venissero bloccate. Le balle di rifiuti misti sono state trasportate via mare da Salerno a Sousse in 282 containers, di cui solo 70 sono stati trasportati presso i locali di Soreplast. I restanti 212 sono ancora bloccati al porto, sotto sequestro: ogni giorno di sosta dei container costa 26 mila euro alla regione Campania.

Ad attraversare il Mediterraneo con i carichi di rifiuti sono due navi della compagnia turca Arkas, prima la Martine A e poi la Mehmet Kahveci. Tra le condizioni del contratto, si legge nel documento ottenuto da IrpiMedia, i rifiuti fuoriusciti dalla Sviluppo Risorse Ambientali di Polla dovranno essere riselezionati e, per la parte non recuperabile, smaltiti a carico dell’impianto. Il prezzo è 52 euro per ciascuna tonnellata fatta arrivare al porto di destinazione, a cui vanno sommati 85 euro per il trattamento di riciclo: «Un prezzo più che conveniente», conferma un tecnico dei rifiuti incontrato da IrpiMedia in Tunisia.

Dallo statuto societario risulta che al momento della firma del contratto la Soreplast sia una società uninominale che si occupa di «riciclaggio e recupero dei rifiuti post-industriali, plastica e materiali vari». Secondo la ditta italiana, i rifiuti inviati in Tunisia, una volta recuperati, avrebbero dovuto essere trasformati in tubicini di plastica per poi essere riesportati, non è specificato verso dove. Soreplast, infatti, risulta essere una società «totalmente esportatrice»: almeno il 50% di quello che produce deve essere inviato all’estero e non può entrare sul mercato locale.

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Il proprietario di Soreplast, in un documento inviato alla ditta italiana e ottenuto tramite accesso agli atti alla Regione Campania, dichiara di aver già valorizzato le prime 1.900 tonnellate di rifiuti esportate con la prima spedizione del 26 maggio 2020. Di queste, 1840 tonnellate sarebbero state recuperate, ma dei tubicini di plastica ottenuti dal “processo di valorizzazione” non c’è traccia. L’azienda tunisina, infatti, non possiede i macchinari necessari per trattare migliaia di tonnellate di rifiuti misti, come invece dichiara. A confermarlo è il rappresentante della Convenzione di Basilea in Tunisia, Abderrazak Marzouki, in una mail confidenziale inviata al Ministero dell’Ambiente italiano il 23 novembre 2020: «La società non dispone dei mezzi materiali e umani né della tecnologia necessaria per riselezionare i rifiuti importati da Sviluppo Risorse Ambientali», afferma Marzouki. Lo sostiene anche il rapporto della commissione d’inchiesta del parlamento tunisino istituita ad hoc per il caso dei rifiuti italiani: «Soreplast non è in grado di procedere al riciclo dei rifiuti arrivati in Tunisia, il che fa sorgere dubbi rispetto alla veridicità delle operazioni di recupero che l’azienda intende realizzare».

L’entrata (sx) del deposito a Moureddine dove è stato scaricato (dx) il contenuto di 69 containers – Foto: IrpiMedia/Inkyfada

I container scaricati in mezzo al nulla: che fine hanno fatto i rifiuti?

A Soreplast non mancano solo i macchinari necessari alla valorizzazione, ma anche lo spazio dove depositare i rifiuti. La sede dell’azienda nella zona industriale di Sousse è composta da un ufficio e un piccolo magazzino dove è stato depositato il contenuto di un solo container. I restanti 69 sono stati scaricati in un secondo deposito affittato da Soreplast a 15 chilometri da Sousse, a Moureddine. In questo villaggio di 5mila abitanti in piena campagna, accanto al capannone contenente i rifiuti si trova un edificio in costruzione, senza tetto né finestre, con mattoni e sabbia ancora impilati di fronte ad una lamiera che funge da porta. Una targa indica: «Soreplast, azienda sotto controllo doganale». Nel villaggio agricolo tutti sono a conoscenza del caso: «Abbiamo visto arrivare i container», racconta una donna mentre sorveglia un gruppo di pecore al pascolo proprio di fronte al deposito. Un passante punta il dito contro la targa Soreplast: «Quest’edificio è stato costruito sei mesi fa in tutta fretta, prima non c’era».

Secondo Alfonso Palmieri della Sviluppo Risorse Ambientali, quando si reca in Tunisia «c’era un capannone grigio e rosso, come si vede nelle foto delle emittenti tunisine, con macchine installate, nastri di selezione, pressa compattatrice e un guardiano».

Moncef Mohamed Noureddine affitta anche un secondo deposito nella località di Sidi El Hani (30 km da Sousse), un villaggio da meno di tremila abitanti in un mucchio di case sparse intorno alla strada che da Sousse porta a Kairouan, importante città dell’entroterra tunisino. Rimasto inutilizzato, nel capannone di Sidi El Hani Soreplast avrebbe dovuto scaricare il contenuto dei 212 container bloccati al porto. Entrambi i depositi sono situati accanto a due centri di raccolta dei rifiuti gestiti dall’Agenzia nazionale per la gestione dei rifiuti (ANGED), l’ente ministeriale che in Tunisia tratta i rifiuti. Quello di Moureddine dista solo dieci minuti di auto dalla discarica statale del governatorato di Sousse, dove vengono interrati i rifiuti urbani provenienti da tutta la regione.

Secondo la testimonianza di un attivista per i diritti ambientali attivo nella regione, che preferisce rimanere anonimo per paura di ritorsioni, non è un caso: «Mohamed Moncef Noureddine intendeva trasportare i rifiuti arrivati dall’Italia direttamente in discarica, senza procedere ad alcuna operazione di riciclo», racconta l’attivista.

A marzo 2020 Soreplast ha effettivamente firmato un accordo per avere accesso alla discarica di Sousse dove, secondo il decreto dirigenziale della Regione Campania, avrebbe dovuto smaltire la parte non riciclabile dei rifiuti in arrivo da Polla. Secondo i documenti visualizzati da IrpiMedia sull’effettivo smaltimento dei primi 70 container, almeno 129 tonnellate di scarti provenienti dal deposito di Moureddine sarebbero già finite nella discarica poco lontana, ma non appaiono sul registro dell’ente che la gestisce, l’ANGED. Il sindaco di Moureddine, contattato da IrpiMedia, nega qualsiasi coinvolgimento e afferma di non avere idea di che fine abbiano fatto.

La discarica regionale di Sousse per i rifiuti urbani di Ouled Laya, a dieci minuti di auto da Moureddine – Foto: IrpiMedia/Inkyfada

Si sospetta quindi che siano stati inviati in Tunisia rifiuti non riciclabili per essere direttamente interrati in discarica, senza procedere alle operazioni di riciclo che ne giustificano l’esportazione, violando le norme europee sul movimento transfrontaliero di rifiuti, la Convenzione di Basilea e quella di Bamako (un trattato firmato dai Paesi africani che impedisce l’arrivo sul continente di rifiuti che non siano smaltiti in maniera ecologica).

Soreplast, che si occupa di polimeri, cioè plastica, non è in grado di riciclare i rifiuti con codice 191212 ricevuti da Sviluppo Risorse Ambientali. Per poter ricevere i rifiuti campani, l’azienda tunisina dichiara il falso in dogana, presentando una richiesta di autorizzazione allo sbarco con un codice diverso da quello presente sulle carte che accompagnano i container. Soreplast prova così a far passare i rifiuti di tipo 19, misti, come pura plastica, si legge nel documento doganale. La ditta tunisina deposita anche delle analisi a sostegno della sua dichiarazione, ma il direttore del laboratorio in questione si trova oggi in detenzione, sospettato di averne falsificato i risultati. A fine settembre 2020, l’azienda fa un ultimo tentativo: cambia il proprio oggetto sociale e su carta diventa una «ditta per il riciclo e la valorizzazione dei rifiuti urbani». Troppo tardi.

Cosa sono i rifiuti non pericolosi classificati con codice CER 191212 e Y46?

Il primo, 191212, indica la composizione del rifiuto secondo il Codice Europeo del Rifiuto (CER). Corrisponde alla dicitura: «Rifiuti (compresi materiali misti) prodotti dal trattamento meccanico dei rifiuti urbani». L’Italia produce circa 30 milioni di tonnellate di rifiuti urbani l’anno e dovrebbe riciclarne almeno il 65%, obiettivo che però non riesce a raggiungere. Come ci impone la legislazione europea, l’indifferenziata va infatti selezionata una o più volte per separare la frazione riciclabile dallo scarto finale, che andrà poi smaltito in discarica o incenerito. Ma questo ha un costo e in Italia mancano gli impianti necessari.

«Una piattaforma raccoglie l’indifferenziata e seleziona la parte pregiata, che sarà consegnata ad un consorzio nazionale, mentre la parte residuale, il cosiddetto scarto, viene bollato con il codice 19 – spiega Claudia Silvestrini, direttrice del consorzio Polieco -. Il rifiuto 19 può essere inviato ad un’altra piattaforma che lo riseleziona oppure viene spedito in altri Paesi, dove poi bisogna vedere se l’impianto finale esiste ed è in condizione di riceverlo». Dalla Campania proviene il 95% dei 191212 esportati da tutta Italia, che a loro volta rappresentano il 17% del totale dei rifiuti mandati all’estero. A riceverli sono principalmente Spagna, Portogallo, Danimarca ed Est Europa.

Il codice Y46 invece fa riferimento alla classificazione stabilita dalla Convenzione di Basilea sui movimenti transfrontalieri e corrisponde alla dicitura di “rifiuti urbani”. L’Y46 implica un potenziale rischio di pericolosità. «I rifiuti così contraddistinti richiedono quindi un controllo speciale», spiega Silvestrini, ed è per questo che insieme ai documenti di spedizione parte un certificato di analisi rilasciato da un laboratorio napoletano che ne attesta la non pericolosità. Il codice Y46 è quello più prossimo al CER 191212.

Per Claudia Salvestrini, direttrice del Consorzio Polieco (Consorzio per il riciclaggio dei rifiuti di beni a base di polietilene, ndr), «il fatto che un materiale prevalga non rende i rifiuti riciclabili: posso avere un carico di sola plastica di cui solo il 2% è riciclabile». Secondo l’esperta, le foto del contenuto dei container non lasciano dubbi: «Si tratta chiaramente di rifiuti mescolati di provenienza urbana». Per Salvestrini, il codice CER 191212 non aiuta a definire chiaramente il contenuto dei container ma, al contrario, rappresenta una sorta di «insalata russa dei rifiuti», perché la sua definizione apre a tante modalità di conferimento e ingloba sia un rifiuto urbano ancora riciclabile, sia lo scarto finale da mandare in discarica o da incenerire, il cosiddetto «ultimo nastro». «L’azienda di Polla potrebbe aver mescolato insieme allo scarto dei rifiuti urbani anche rifiuti di altra provenienza, ammassati vecchi tipo ecoballe o rifiuti di altre piattaforme che hanno preso fuoco, per poi inviare tutto in Tunisia», spiega ancora Salvestrini.

La procedura: chi autorizza la spedizione verso la Tunisia?

Ma allora, perché la regione Campania autorizza questa spedizione transfrontaliera? Al di là della composizione non chiara dei rifiuti esportati, è la stessa procedura che sembrerebbe esser stata raggirata. Antonio Barretta, dirigente per la Regione Campania della Direzione Generale per il Ciclo integrato delle Acque e dei Rifiuti e responsabile del procedimento, non si rivolge infatti al rappresentante italiano della convenzione di Basilea sui movimenti transfrontalieri di rifiuti, ma al Consolato tunisino di Napoli.

Il 16 marzo, Barretta scrive una mail al consolato per verificare che l’autorità tunisina a cui rivolgersi per ottenere le autorizzazioni necessarie all’export sia effettivamente l’Agenzia Nazionale per la Gestione dei Rifiuti (ANGED), come indicato dall’azienda campana. Spetterebbe in realtà al rappresentante della convenzione di Basilea presso il ministero dell’Ambiente, ma il consolato tunisino conferma che l’autorità competente è l’Agenzia Nazionale per la Gestione dei Rifiuti nella figura di Makram Baghdadi, un semplice assistente dell’amministrazione di Sousse.

Secondo il rapporto della commissione parlamentare d’inchiesta, già a fine febbraio, prima dell’ok da parte della regione Campania, Makram Baghdadi ha firmato tutte le autorizzazioni necessarie alla Soreplast per importare rifiuti. Per questo oggi è indagato.

Chi è Sviluppo Risorse Ambientali

La Sviluppo Risorse Ambientali srl è un’azienda di selezione, recupero, valorizzazione, trasformazione e smaltimento di rifiuti con sede a Polla, in provincia di Salerno, a ridosso del parco del Cilento e Vallo Di Diano. Sul sito dell’azienda si legge che la ditta «non è una semplice azienda operante nel campo del trattamento dei rifiuti ma è parte integrante dei grandi sistemi di recupero e riciclo». Si occupa della raccolta differenziata di diciotto Comuni nel parco del Cilento. L’amministratore unico della società è Antonio Cancro ma la società è controllata dal gruppo Palmieri nella persona di Alfonso Palmieri che possiede il 90% delle quote societarie, oltre ad essere anche amministratore della Kyklos Ambiente srl, un’altra azienda di recupero e riciclaggio di rifiuti solidi. Il restante 10% è di Federico Palmieri.

Chi è Alfonso Palmieri? E qual è la storia della Sviluppo Risorse Ambientali? L’azienda nasce nel 2008 dalla cessione di un ramo della Fond.Eco srl alla Sviluppo Risorse Ambientali, azienda dove ci sono stati diversi roghi, l’ultimo lo scorso agosto. Le aziende Fond.Eco, Sviluppo Risorse Ambientali e la ditta Palmeco srl con sede a Battipaglia sono tutte indirettamente riconducibili a Tommaso Palmieri, padre di Alfonso.

La FondEco e la Sra, e con loro Tommaso ed Alfonso Palmieri, circa cinque anni fa sono finite al centro di una inchiesta giudiziaria condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Salerno. Per i magistrati, Tommaso Palmieri era a capo di un’organizzazione che riciclava ingombranti provenienti anche dalla vicina Basilicata. Per la Dda furono commesse irregolarità nello smaltimento dei rifiuti. In alcuni casi la raccolta era avvenuta senza le prescritte autorizzazioni. Stando a quanto sostenuto dall’accusa, in un sito di Polla deputato a ricevere e smistare il risultato della differenziata, arrivavano anche rifiuti “sporchi”, con varie tipologie mischiate tra loro.

Al termine dell’inchiesta sono stati emessi 41 avvisi di garanzia nei confronti anche di alcuni collaboratori dell’azienda ed amministratori comunali. Il processo di primo grado dinanzi ai giudici della seconda sezione penale di Salerno è iniziato alla fine del 2016 e per alcuni reati già si profila la prescrizione. Al processo per associazione per delinquere e smaltimento illegale di rifiuti sono stati indagati tra gli altri Tommaso e Alfonso Palmieri, Antonio Cancro, amministratore unico della Sviluppo Risorse Ambientali e Luigi Cardiello, detto «Re Mida» che, dagli anni ‘90, è stato indagato da diverse Procure per smaltimento illecito dei rifiuti.

Una volta ottenuta la conferma del consolato, in Italia la procedura avanza spedita.

Il 30 marzo, in piena pandemia, lo stesso dirigente regionale scrive al Ministero dell’Ambiente italiano chiedendo se ci sono particolari restrizioni al trasferimento dei rifiuti dall’Italia alla Tunisia, ma non ottiene risposta. Passano quindici giorni e il 14 aprile 2020, un decreto della giunta regionale autorizza l’azienda campana al trasporto verso Sousse delle prime 230 spedizioni per 6mila tonnellate di rifiuti. Ne seguirà un secondo, l’8 luglio, per le restanti 6 mila tonnellate delle 12 mila previste. Lo stesso giorno, dall’altra parte del Mediterraneo, nell’ufficio della direzione della dogana si tiene una riunione che riunisce diciassette dirigenti e funzionari tra l’ANGED, il Ministero dell’Industria e la dogana. Due settimane prima, il capo settore della dogana di Moureddine si è reso conto che il contenuto dei container non corrisponde a ciò che dichiara Soreplast, e lo segnala ai suoi superiori. Durante la riunione dell’8 luglio, per la prima volta viene menzionato il rischio di traffico illecito. I container vengono così bloccati al porto. 

Il caso scoppierà solo a novembre, quando il canale tunisino El-Hiwar Ettounisi trasmette un servizio sull’arrivo dei rifiuti italiani. Prima di allora, il ministero dell’Ambiente tunisino non interviene né sollecita i rappresentanti della Convenzione di Basilea, l’autorità di riferimento. I 212 container mai scaricati restano fermi al porto e la regione Campania richiama più volte Sviluppo Risorse Ambientali, chiedendo di sbloccare la situazione. «La ditta Soreplast ha assicurato che la prossima settimana provvederà alle operazioni di ritiro e lavorazione dei rifiuti. A tal proposito, un nostro amministratore unico ha delegato un dipendente perché si rechi a Sousse per assistere alle operazioni di riciclo», risponde l’azienda di Polla alla Regione in una mail. Ma i rifiuti rimangono lì.

«C’è un inizio di contaminazione dei rifiuti liquidi, di percolato e delle emissioni gassose che costituiscono un rischio per la salute pubblica e per l’ambiente», scrive invece Abderrazak Marzouki, vicedirettore del dipartimento prevenzione dei rischi del Ministero dell’Ambiente tunisino al funzionario del Ministro dell’Ambiente italiano Sergio Cristofanelli in uno scambio di mail confidenziali.

Passano diverse settimane e le autorità italiane non rispondono, poi il 27 novembre qualcosa si sblocca e iniziano a collaborare. Con la mediazione delle autorità della convenzione di Basilea – a cui si sarebbe dovuto far riferimento fin dal principio – le discussioni avanzano sul piano della diplomazia: il dossier è oggi nelle mani dei rispettivi ministri degli Esteri.

Nel frattempo, su richiesta della Tunisia, la Regione Campania ha chiesto a Sviluppo Risorse Ambientali di riprendersi i rifiuti. Attraverso il suo avvocato, l’azienda italiana ha però fatto sapere che non ha alcuna intenzione di farlo a meno che sia completamente risarcita o dallo Stato tunisino o da quello italiano. Il 2 febbraio, però, il Tar ha ritenuto inammissibile il ricorso presentato da Sviluppo Risorse Ambientali.

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Visti d’oro in Italia: il lasciapassare per i “paperoni” del mondo

#GoldenVisa

Visti d’oro in Italia: il lasciapassare per i “paperoni” del mondo

Lorenzo Bagnoli
Matteo Civillini

La storia dei visti per investitori in Italia è cominciata con Matteo Renzi e si è evoluta con Giuseppe Conte. I due protagonisti dell’attuale crisi di governo sono accomunati dalla stessa sete di fondi esteri da far atterrare in Italia. Con Matteo Renzi come primo ministro, l’Italia ha introdotto per la prima volta il concetto di “Investor visa”, un tappeto rosso per l’ingresso nel Paese in cambio di lauti investimenti. Si tratta della formula più light dei cosiddetti “passaporti d’oro” perché concede un visto di durata biennale, mentre i programmi di altre nazioni garantiscono cittadinanze a tutti gli effetti. Il senso però è lo stesso: dare la possibilità ai super ricchi di fissare la propria residenza in Italia pur senza avere legami che vanno al di là dei denari investiti. Il visto per un imprenditore non-comunitario ha molte attrattive, tra cui la possibilità di circolare nell’Eurozona senza limitazioni.

Con lo scoppiare dell’emergenza Covid, il governo italiano guidato da Giuseppe Conte ha introdotto un rafforzamento di questo programma in nome del rilancio del made in Italy, visti i risultati finora fallimentari in termini di numeri di domande d’ingresso. Sono gli esperti del settore a dire che ora l’Italia ha un suo golden visa vero e proprio. Con tutti i problemi che questo sistema si trascina, tanto è vero che in Europa inizia ad avere una lunga storia di controversie. In passato, i programmi di golden visa sono stati criticati dall’Unione europea, sia per la tipologia di bene ceduto – la residenza o la cittadinanza- sia per l’infiltrazione di investitori pregiudicati nelle liste di chi fa domanda di visto allo scopo di ricostruirsi un’identità.

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A questo poi si aggiunge un tema tutto italiano: la giustizia fiscale. Nel 2020, l’Agenzia delle entrate ha calcolato in 90 miliardi di euro il buco all’erario prodotto dall’evasione e, al contempo, la tassazione è sempre considerata troppo pesante, da imprenditori e dipendenti. Chi porta la propria residenza fiscale all’estero viaggia in un sistema parallelo, fuori dalla logica delle aliquote progressive. Lo sconto fiscale per i neo residenti è comune anche ad altri programmi europei, ma la durata – 15 anni – è una prerogativa italiana. La logica è chiara: meglio meno soldi subito, che zero soldi in futuro. Tuttavia l’interrogativo su quanto questa soluzione sia equa, soprattutto nel lungo periodo, rimane.

Il mantra del rilancio dell’Italia

A leggere le presentazioni del programma, la motivazione che ha spinto verso i golden visa è il rilancio del “made in Italy”, uno dei mantra che si ripetono ciclicamente, soprattutto in tempi di crisi economiche. Le infrastrutture per rendere l’Italia più attrattiva sono diventate più solide a partire dal varo dello Sblocca Italia, promosso sempre dal governo Renzi nel 2014. Il decreto ha introdotto il Comitato Attrazione Investimenti Esteri (Caie), un organismo interministeriale che ha lo scopo di proporre normative che favoriscano gli investimenti esteri; fare da osservatorio sulle politiche in atto e di raccordare le istituzioni che lo compongono (il ministero dello Sviluppo Economico, il ministero degli Esteri, Ministero delle Finanze, Ministero della Pubblica amministrazione e Conferenza Stato-Regioni) con gli uffici esteri dell’Agenzia per la promozione e l’internazionalizzazione dell imprese (Ice).

È una sorta di ufficio pubbliche relazioni che rappresenta l’Italia e le sue imprese nel grande libero mercato tra nazioni. La competizione è su due piani: quello delle aziende italiane nei Paesi esteri (per conquistarsi appalti, commesse e clienti, favorendo l’export) e quello tra nazioni, in cui il marchio Italia compete con quello degli altri Paesi. Tutto l’apparato di marketing si basa da un lato su luoghi comuni più o meno veri e più o meno instillati ormai nell’immaginario comune collegato all’Italia (mare, sole, città d’arte, buon cibo, gente simpatica – elementi di questo genere), dall’altro si gioca quanto l’Italia offre in termini di vantaggi (fiscali e non solo) a un investitore straniero.

L’investor visa dopo la pandemia

Introdotto con la legge di bilancio 2017, l'”Investor visa” italiano nella sua declinazione originale prevedeva che i richiedenti potessero scegliere tra quattro diversi investimenti: due milioni di euro in titoli di Stato, un milione di euro in azioni in società di capitali, 500mila in quote di startup innovative o un milione di euro in donazioni filantropiche, categoria quest’ultima che rappresenta una particolarità del sistema italiano, finalizzata a recuperare nuovi mecenati della cultura. Risultati per quest’ultima strada, al momento zero, alla faccia della cultura prodotto d’eccellenza del made in Italy. Oltre all’erogazione di denaro, come per tutti i possessori del permesso di soggiorno, agli investitori veniva chiesta la sottoscrizione dell’accordo di integrazione e l’obbligo della continuità di soggiorno sul territorio italiano.

Poi c’è stato il ribaltone. Durante la pandemia, il governo ha inserito una serie di modifiche chiave che hanno trasformato il primo timido tentativo di visto per investitori in un golden visa competitivo con quanti ne esistono in Europa. Il primo cambiamento è arrivato con il Decreto Rilancio, il primo provvedimento dell’esecutivo pensato per rispondere alla crisi economica innescata dalla pandemia da Covid-19. Le categorie d’investimento attraverso cui ottenere il visto sono rimaste le stesse, ma le somme necessarie per gli investimenti in società di capitali e startup sono state dimezzate (500mila e 250mila euro rispettivamente). Dopo cinque anni, stante la normativa attuale, il titolare di “Investor visa” può richiedere il «permesso di soggiorno permanente», che in pratica dà accesso agli stessi diritti, ma senza scadenza.

Originariamente, i richiedenti potevano scegliere tra quattro tipi di investimenti: due milioni di euro in titoli di Stato, un milione di euro in azioni in società di capitali, 500mila in quote di startup innovative o un milione di euro in donazioni filantropiche

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La seconda novità, ancor più decisiva, è stata apportata a settembre nel Dl Semplificazioni e riguarda l’abolizione dell’obbligo di permanenza fisica in Italia per tutta la durata del visto. «Quello della libertà di spostarsi tra diversi Paesi è un aspetto fondamentale per i cosiddetti high net worth individuals (cioè persone che dispongono di alti redditi, ndr)», spiega l’avvocato Marco Bersani, a capo di uno studio specializzato in diritto di immigrazione per investitori esteri. «Questa novità – prosegue Bersani – ha reso l’Investor Visa molto competitivo rispetto agli altri Paesi europei e questo ha scaturito un grande interesse nel programma italiano». Il punto di forza, evidenzia il Ministero dello Sviluppo Economico, sarebbe la sua rapidità: al richiedente, infatti, viene garantita la comunicazione dell’esito della sua candidatura entro 30 giorni dall’invio.

«Prima del Covid – aggiunge l’avvocato Bersani – avevamo trattato 3-4 domande, numeri irrisori. Nessuno conosceva questo programma». La svolta c’è stata con le modifiche dei Dl Rilancio e Semplificazioni: «Nell’ultimo anno abbiamo ricevuto una quarantina di richieste di interessamento per questo visto. Probabilmente nel 2021 le domande saranno ancora superiori perché vedo che, a differenza del passato, ora l’Investor Visa è molto pubblicizzato all’estero e – conclude Bersani – viene considerato un programma competitivo».

L’iter di approvazione

L’iter prevede la valutazione della domanda da parte di un comitato che comprende rappresentanti dei ministeri dello Sviluppo Economico, dell’Interno, degli Esteri, della Guardia di finanza e dell’Agenzia delle entrate. A loro spetta il compito di verificare la documentazione presentata dai candidati. Tra questa una dichiarazione che la somma da investire sia di provenienza lecita e un certificato di insussistenza di condanne penali definitive, oltre che, ovviamente, al prospetto dall’investimento proposto.

Se non ci sono obiezioni, il comitato concede il nulla osta all’emissione di un visto per investitori, che il richiedente può utilizzare entro sei mesi dal rilascio. Una volta ottenuto, il visto (della durata di due anni), al beneficiario non resta che fare ingresso in Italia e presentare domanda per il permesso di soggiorno.

I dati sul golden visa made in Italy

I dati che IrpiMedia ha ottenuto dal Ministero dello Sviluppo Economico coprono la prima fase temporale del golden visa all’italiana. Raccontano, in effetti, di un mezzo fallimento: dall’inizio del 2018 a metà giugno 2020 sono arrivate soltanto 17 candidature, di cui dieci hanno portato al rilascio del visto e una ancora in valutazione al momento della nostra richiesta. In cima alla lista delle nazioni di provenienza dei richiedenti troviamo Russia e Siria – con quattro a testa – seguite da Cina, Israele (con due) e Brasile, Canada, Corea del Sud, Emirati Arabi e Turchia (una).

Una geografia che, a detta degli operatori del settore, sarebbe parzialmente mutata negli ultimi mesi. Al fianco di un rafforzato interesse da parte di investitori asiatici e russi, si sono infatti trovati di fronte a un boom di richieste dagli Stati Uniti. «Soprattutto prima delle elezioni presidenziali, con il rischio percepito di instabilità politica – racconta l’avvocato Marco Bersani – siamo stati avvicinati da numerosi americani alla ricerca di una via d’uscita che hanno individuato anche nell’Investor Visa italiano».

Tra le opzioni di investimento disponibili, l’acquisto di quote di società di capitali e, in minor misura la startup innovativa (qui il registro imprese “speciale”), fa maggiormente gola ai richiedenti del golden visa. Le aziende di questo genere usufruiscono già di Smart&Start Italia, un sistema di incentivi che prevede agevolazioni, accesso al credito e un fondo per le imprese che nascono a Sud. A gestire il meccanismo è InvItalia, l’Agenzia nazionale per lo sviluppo che dipende dal Ministero delle Finanze di cui è amministratore delegato l’ubiquo Domenico Arcuri. È infatti lo stesso Commissario straordinario nominato dal governo «per l’attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica Covid-19».

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Luca Rinaldi

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