Bandenia, la finta banca per criminali veri

Bandenia, la finta banca per criminali veri

Cecilia Anesi
Edoardo Anziano
Matteo Civillini

Bandenia non è davvero una banca. È un miraggio. E come tutti i miraggi, esiste finché la si guarda da lontano e finchè resta in movimento. Quando ci si avvicina, la si analizza da vicino, svanisce in un gioco di specchi e illusioni. Opera con una finta licenza, non ha correntisti, e non ha nemmeno una vera sede. Bandenia, che si presenta come gruppo bancario internazionale con capitali per decine di miliardi di euro, ha il suo ufficio centrale a Londra. Non è, come ci si aspetterebbe, al centesimo piano di un palazzo di vetro nel distretto finanziario della City, quanto piuttosto in un palazzo storico, stile vittoriano, nel pittoresco quartiere di Covent Garden.

Tra marciapiedi lastricati e vasi di fiori, musicisti di strada e gelaterie artigianali, c’è un tapas bar a Maiden Lane, civico 15. Sopra, al terzo piano, è registrata Bandenia, assieme a un centinaio delle aziende della sua galassia. Sul campanello però c’è solo uno scolorito riferimento ad un’azienda di produzioni teatrali dal buffo nome che ricorda le steppe mongole (yak selvaggio, trad.) e che se ne è andata ad aprile 2021, lasciando il posto – almeno su carta – a Bandenia.

Driiiiiin. «Salve, cercavo l’azienda Bandenia», chiede un giornalista di IrpiMedia.

«Qui non c’è alcuna Bandenia, mai sentita», risponde una voce dopo un lungo minuto d’attesa. «Per quale azienda lavora lei?», incalza il giornalista. Stunf. Citofono chiuso. «Bandenia? Mai sentita», dichiarano i vicini di ufficio.

L'inchiesta in breve
  • Bandenia si presenta come una banca internazionale. In realtà è un miraggio: opera con una finta licenza delle Isole Comore, non ha correntisti, e non ha nemmeno una vera sede.
  • Sulla carta l’istituto, fondato nel 2003 in Spagna, offre servizi finanziari e garantisce credibilità ai propri clienti. Tuttavia, secondo la Procura anticorruzione di Madrid, da Bandenia sono transitati i soldi di condannati per traffico di droga, o per altri reati finanziari, come truffa e riciclaggio di denaro.
  • Dopo le indagini spagnole, il centro delle operazioni finanziarie si sposta a Londra, dove la rete Bandenia tocca mezzo mondo.
  • Attraverso una rete di 450 società di comodo, e grazie alla miopia delle autorità finanziarie, Bandenia è riuscita a sopravvivere alla caduta del suo fondatore, lo spagnolo Josè Artiles Ceballos, condannato in primo grado per riciclaggio di proventi del narcotraffico.
  • Oggi Bandenia prospera, millantando capitalizzazioni astronomiche e promettendo prestiti miliardari. Dietro al suo (apparente) successo ci sono tre manager italiani, che si muovono fra Italia e Regno Unito: Fabio Pastore, Giovanni Modafferi e Massimiliano Arena.

Non resta che cercarla altrove. Ma dove? Giornalisti di IrpiMedia, Occrp, Infolibre, Follow the Money e La Presse l’hanno inseguita in mezzo mondo, scoprendo ciò che le autorità finanziarie di varie giurisdizioni hanno mancato in pieno. Almeno “su carta” Bandenia è una banca, o meglio, un gruppo di aziende che offre vari prodotti e servizi finanziari, dando l’idea di essere una banca internazionale a tutti gli effetti. Gli uffici – ormai vuoti – di Madrid si presentavano in modo decisamente più credibile rispetto all’attuale indirizzo londinese. Palazzo elegante, targa ufficiale, Bandenia poteva sembrare una banca. Ma aveva comunque una peculiarità: entravano e uscivano solo clienti strani, dall’aspetto poco raccomandabile, ricordano i vicini. Non a caso alcuni sono stati condannati per vari reati, che vanno dal traffico di droga al riciclaggio e altri reati fiscali.

Creata nel 2003 nel sud della Spagna, a Dénia, è da qui che prende il nome che si affianca a Ban (come banca).

Il palazzo, a destra, sede della Bandenia in Maiden Lane, nel quartiere di Covent Garden a Londra – Foto: Occrp

Per oltre dieci anni opera liberamente, senza che nessuno la noti. Nel 2017, a seguito di un’indagine della procura spagnola di Madrid che porta all’arresto del direttore spagnolo José Artiles Ceballos, il centro nevralgico delle operazioni si sposta oltremanica, in Inghilterra, e da lì prende il largo per il resto del mondo. Arriva in Italia, Stati Uniti, Emirati Arabi, Iran, Bosnia, Montenegro. Restando in costante movimento con una complessa serie di operazioni finanziarie – che vanno da movimenti di capitale a lettere di credito, da carte prepagate a garanzie bancarie – e diretta da una serie di soggetti anch’essi in costante movimento.

Nessuno sembra davvero il “capo”, e anzi molti dichiarano di non aver saputo che il proprio nome compariva tra i quadri dirigenti di Bandenia fino a quando sono stati contattati dai giornalisti. Molte delle società della rete Bandenia sono costituite e dirette nel tempo da una serie di soggetti – fra cui vari italiani – alcuni dei quali implicati in reati finanziari. Ma chi guida oggi la banca è pulito: tre italiani incensurati.

Operazione credibilità

Una delle attività principali di Bandenia è creare credibilità: per se stessa, e per i clienti che la richiedono. Offre linee di credito e garanzie bancarie per varie operazioni di finanza internazionale: dalla gara per rilevare un’enorme miniera di litio in Canada, a un prestito miliardario allo Stato del Sud Sudan. Lo fa grazie ai numeri che dichiara nei bilanci, 32 miliardi di dollari di capitalizzazione dichiarata, se si sommano i bilanci del “gruppo”.

Bandenia infatti non è una sola azienda, nonostante in questa storia ci focalizziamo su BBP Bandenia Plc. Nel cercare sui registri imprese internazionali, ci siamo trovati di fronte a un vastissimo numero di aziende che sembrano appartenere alla stessa rete informale di Bandenia. In tutto, ne abbiamo contate 450, ma è difficile dire quante di questa facciano effettivamente parte di un gruppo e quante siano solo connesse ad attività collaterali di alcuni dei soggetti coinvolti. I continui cambi di proprietari e di direttori che abbiamo registrato nel corso dell’inchiesta non permettono di dire che le 450 aziende siano tutte “in rete”, molte potrebbero infatti non farne più parte, o non aver mai avuto molto a che fare con le altre.

Nel conteggiarle, sono state prese in considerazione tutte le aziende con la parola “Bandenia” nel proprio nome, tutte le società da esse controllate, e tutte le società che avevano un secondo livello di collegamento, ovvero l’indirizzo di Bandenia e almeno un direttore in comune. Molte di esse sono solo aziende cartolari, con cifre astronomiche dichiarate a bilancio, ma mancano di un profilo pubblico o di un ufficio fisico.

Josè Artiles Ceballos, a lungo a capo di Bandenia, ha dichiarato ai giornalisti che «BBP Bandenia e il suo gruppo non ha spostato il proprio domicilio in nessuno dei Paesi citati» e sostiene che Bandenia sia «una società che operava sui mercati internazionali, disponeva delle licenze finanziarie adeguate ed era soggetta alle normative sul riciclaggio di denaro».

L’esperto inglese di antiriciclaggio Graham Barrow ha spiegato a Occrp che la dichiarazione di un enorme capitale è un modo per «cercare di rappresentare l’azienda come sostanziale», farla cioè apparire più credibile nel momento in cui partecipa ad operazioni finanziarie di vario tipo, favorendo l’accesso al credito.

In realtà, nei pochi casi in cui le autorità hanno provato a contare gli asset tangibili di Bandenia, sono rimasti con un pugno di mosche in mano. Un ex impiegato, che ha parlato sotto condizione di anonimato, ha dichiarato come gli averi di Bandenia fossero artificialmente montati per fare apparire l’azienda ricca su carta.

Uno specchietto per le allodole, o meglio, la costruzione del miraggio. Che va molto oltre la principale azienda, la BBP Bandenia Plc di Londra.

La finta licenza delle isole Comore
Bandenia non ha una licenza per operare. L’unica licenza vera, emessa dalla Dominica, risulta revocata. L’altra licenza, messa in mostra sui siti di Bandenia, sarebbe stata emessa «dall’isola autonoma di Mwali», dell’arcipelago delle Comore. L’isola di Mwali però non ha l’autorità di fornire licenze bancarie. Il compito spetta esclusivamente alla Banca Centrale delle Comore che dichiara che Bandenia «non esiste e non è rappresentata sul territorio delle Comore. È un’entità offshore che opera illecitamente con una licenza fraudolenta».

Artiles Ceballos nega che BBP Bandenia Plc avesse una licenza di Mwali. Sostiene invece che la licenza fosse a disposizione di Bandenia Banca Privada Plc, insistendo sul fatto che fossero entità nettamente separate.

Il turbolento passato spagnolo

Il 6 giugno 2017 la Policía nacional irrompe negli uffici di Bandenia nella capitale spagnola, arrestando José Artiles Ceballos. È un’indagine della Procura anticorruzione di Madrid che arriverà ad accusare formalmente i dirigenti di Bandenia Banca Privada, tra cui Ceballos, di gestire una “banca” per criminali. A quasi sei anni dagli arresti, il processo deve ancora iniziare.

Bandenia era però finita già sotto la lente degli inquirenti spagnoli. Infatti, nel 2014, la polizia aveva arrestato Ana Cameno Antolín, una trafficante di droga che aveva costruito dal niente un mini-impero da narco. All’epoca, le indagini avevano dimostrato come Bandenia Banca Privada fosse stata utilizzata da Cameno Antolín, meglio conosciuta come “la regina della cocaina”, per inviare soldi a Panama e pagare i fornitori colombiani. Aveva trasformato casa propria in un magazzino per la cocaina: è stata condannata in primo grado a 16 anni di carcere a settembre dell’anno scorso. Anche Ceballos è finito coinvolto in questo processo, e ha ricevuto una condanna in primo grado, nel 2022, a quattro anni di carcere per avere favorito il riciclaggio della “regina della cocaina”. Ha fatto appello.

Artiles Ceballos nega fermamente che lui, o Bandenia, abbiano avuto legami con qualsiasi organizzazione criminale, ma dice di non poter commentare ulteriormente a causa dei procedimenti giudiziari ancora in corso. Ceballos sostiene, inoltre, che Ana Cameno Antolin non sia mai stata cliente di Bandenia direttamente.

Un anno dopo l’arresto della narcotrafficante, nel 2015, la polizia tornava negli uffici di Bandenia a Madrid perché la controparte olandese stava indagando su un cittadino spagnolo, Ramon Castan Serres-Sala. Nelle intercettazioni, Serres-Sala parlava di «valigie di soldi» da inviare a Panama e Messico, contanti – tra 257 mila e un milione di euro alla volta – che dovevano essere consegnati a corrieri presso hotel e parcheggi di Amsterdam. La perquisizione a Madrid aveva dimostrato che Serres-Sala aveva tre conti-depositi in Bandenia, in tre differenti valute.

Serres-Sala è stato condannato a quattro anni e mezzo di carcere per riciclaggio, per avere inviato più di 34 milioni di euro in America Latina tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015, una parte dei quali tenuti presso i depositi di Bandenia.

Ma è solo con l’indagine della Procura anticorruzione madrilena contro Bandenia e il conseguente arresto di Artiles Ceballos del 2017, che la rete traballa.

Gli inquirenti inizialmente consideravano Bandenia una «modesta rete spagnola per il riciclaggio di denaro», rendendosi poi conto di essere davanti ad un’operazione di riciclaggio su «scala industriale» presa poi in mano «da degli italiani», ha spiegato, in anonimato, uno degli inquirenti spagnoli a Occrp.

«L’idea che ci siamo fatti è che Artiles Ceballos prendesse ordini da altre persone», ha suggerito l’inquirente. Persone, forse i veri “capi”, mai identificati dalle indagini spagnole, anche a causa della scarsa collaborazione internazionale da parte della controparte inglese.

Il gatto, la volpe: stiamo in società

La principale azienda al centro della rete Bandenia è stata per lungo tempo la BBP Bandenia Plc, un’azienda di diritto inglese fondata nel 2003 a Londra. Aperta inizialmente come European Credit Ltd da un italiano, Giovanni Summo, che quasi subito esce di scena.

Giovanni Summo è una figura misteriosa, che negli anni appone tre firme diverse – per calligrafia e per stile – sui documenti depositati nel registro imprese.

L’ingresso della sede spagnola di Bandenia, ormai chiusa, a Madrid – Foto: infolibre

Per data e luogo di nascita corrisponde al professore e avvocato Giovanni Summo – pugliese di base in Emilia Romagna – il quale però contattato da IrpiMedia dice di non avere mai sentito il nome “Bandenia”, di non avere mai diretto né posseduto aziende in Inghilterra e tanto meno di riconoscere alcuna di quelle firme come la sua. Giovanni Summo era finito indagato nell’operazione anti-ndrangheta in Emilia Romagna del 2015, Aemilia. Accusato di concorso esterno in associazione mafiosa è stato assolto con rito abbreviato nel 2016.

Nel 2006, Summo cede la direzione a Artiles Ceballos e all’italiano Fabio Pastore. Sotto la loro guida, Bandenia diventa una Public Listed Company (Plc), ovvero un’azienda in grado di offrire proprie quote al pubblico. Per questo motivo deve rispettare delle norme più stringenti, tra cui la revisione dei bilanci (requisito non sempre rispettato).

Dall’analisi dei registri imprese, emerge che a dirigere Bandenia oltre ad Artiles Ceballo, siano stati tre italiani, Fabio Pastore appunto, il consulente finanziario Massimiliano Arena e Giovanni Modafferi. Tutti e tre sono residenti in Calabria, secondo la camera di commercio italiana, ma sembrano operare dall’Inghilterra.

Arena – da Londra – ha diretto e dirige una lunga lista di società, inclusa una società di servizi finanziari che si definisce banca, la Wealth Bank, che opera anch’essa – come Bandenia – con una licenza dell’inesistente autorità dell’isola di Mwali. L’azienda inglese che fa capo alla Wealth Bank, la WB Global Services, è stata «avviata per condurre indagini su truffe finanziarie», stando alle dichiarazioni del legale dell’impresa. Nella galassia WB però ci sono una serie di aziende, registrate in varie giurisdizioni, che si occupano di diversi affari, tra cui il banking (tramite il sito Wealth Bank). Mercoledì 5 aprile di quest’anno, Arena è stato accusato dalla Procura di Barcellona Pozzo di Gotto di far parte di una «articolata associazione per delinquere a carattere transnazionale, dedita a reiterate operazioni di abusivismo finanziario», come da accuse ufficiali e come riportato anche dalla stampa locale. I reati scoperti dalla Guardia di finanza sarebbero stati commessi da Arena e altri intermediari finanziari usando una serie di aziende registrate in Gran Bretagna, Repubblica Ceca, Portogallo e Isole Comore. Tra queste, anche la Wealth Bank.

Raggiunto dai giornalisti prima della pubblicazione, Arena ha dichiarato di essere solo un consulente finanziario che apre aziende e le vende chiavi in mano. Arena ha aggiunto che non c’è alcun legame tra Bandenia e Wealth Bank e ha anche dichiarato di essere stato direttore di Bandenia molto tempo fa e per un breve lasso di tempo. Arena è sì stato direttore di BBP Bandenia Plc solo fino al 2019, ma risulta ancora direttore di BBP Bandenia S.r.o registrata in Repubblica Ceca. Oggi, a un giorno dalla pubblicazione, Arena ha riscritto (in inglese) a IrpiMedia dicendo di «non avere mai diretto Bandenia, e nessuna delle mie firme appare nei documenti di quell’azienda, perciò ciò che avete scritto, ovvero che ho diretto Bandenia, è assolutamente falso».

Fabio Pastore, dal canto suo, è un soggetto che si muove sottotraccia. Compare per la prima volta sul registro imprese inglese nel 2004, ma del suo passato – sia esso nel Regno Unito o nella soleggiata Calabria cosentina da dove proviene – si sa poco o niente. Gli inquirenti dell’intelligence finanziaria che monitorano operazioni finanziarie sospette di italiani in Inghilterra ricordano di averlo notato per la prima volta nel 2015, quando di colpo compare in più di 80 aziende.

«Ha iniziato ad aprire o dirigere aziende ai due lati dell’oceano: in Spagna, Malta, Inghilterra ma anche in America Latina. È stato l’aspetto di “business transoceanico” che ha catturato la nostra attenzione, nonostante i flussi di denaro e capitale non passassero dall’Italia», spiega una fonte investigativa.

Dalle verifiche dei giornalisti, emergono tre modeste proprietà immobiliari nel cosentino, ma nulla che faccia pensare ad un ricco uomo d’affari di cui, per altro, resta ignoto l’ufficio. Anche perché Pastore è ufficialmente latitante. Infatti, nel 2019 Pastore e Bandenia finiscono coinvolti in un processo civile nella Carolina del Nord (Stati Uniti): Bandenia vorrebbe quotarsi in borsa grazie all’acquisizione di parte di una grossa azienda americana, e per farlo accetta di coprire un debito che questa azienda aveva pendente. Ma lo fa solo parzialmente. I creditori americani denunciano BBP Bandenia Plc, azienda inglese, per omesso pagamento. La “banca” viene messa in liquidazione ma i direttori non rispondono alle domande dei commissari. Così in Inghilterra si dà mandato di cattura nei confronti di Pastore, l’amministratore delegato di BBP Bandenia Plc.

Il terzo direttore che spicca nella gestione di una serie di aziende della rete Bandenia è il 53enne Giovanni Modafferi di Villa San Giovanni. Mare blu, camicia bianca e occhiale da sole: questo il ritratto su Facebook, dove Modafferi si definisce general manager del Bandenia Financial Group ma pubblicizza un’altra banca del giro sempre registrata al civico 15 di Maiden Lane di Londra. Modafferi offre anche un servizio di carte prepagate e un servizio di affitto imbarcazioni da diporto alle Eolie (con l’azienda inglese Tour Select). Modaffari non ha risposto alle domande inviate via email.

Due dei tre direttori italiani, Modafferi e Pastore, compaiono in almeno 12 società aperte in Florida con nomi che richiamano Bandenia tra il 2020 e il 2021, e ancora attive. Non è chiaro di cosa si occupino queste imprese, ma un consulente finanziario, che dai documenti di queste aziende risulta iscritto sul registro imprese della Florida come contabile delle aziende, ha spiegato a IrpiMedia di conoscere sì Pastore, ma di aver scoperto della sua posizione lavorativa grazie ai giornalisti.

Illustrazione: Occrp

Bandenia la prestanome

Come riesce una finta banca a muovere soldi, sporchi o meno, in giro per il mondo?

Secondo gli investigatori spagnoli, la chiave erano i cosiddetti “conti omnibus” ovvero conti cumulativi con dentro fondi di più soggetti. Infatti, stando all’accusa, Bandenia apriva conti correnti a proprio nome presso rinomati istituti bancari. Come le spagnole CaixaBank e Ibercaja e la filiale della banca olandese ING in Spagna.

In teoria, i soldi accumulati in questi conti sarebbero dovuti appartenere a Bandenia. In realtà, si trattava di soldi raccolti da Bandenia dai propri clienti prima di essere depositati nei conti presso CaixaBank, Ibercaja e ING. In questo modo il nome dei clienti – tra cui numerosi criminali – veniva schermato dal paravento delle aziende della rete Bandenia.

I documenti d’indagine spagnoli spiegano poi il successivo movimento dei soldi. Da quei conti correnti venivano poi spostati tramite bonifici verso banche offshore o altre aziende. Tutte con sede in «località dove la segretezza bancaria e aziendale è abbastanza forte da far perdere la traccia del denaro», scrive il giudice spagnolo.

Alle richieste di Occrp, ING si è rifiutata di commentare su una vicenda giudiziaria ancora in corso. La banca olandese si è però detta «fermamente impegnata nell’assicurare che tutti i necessari protocolli siano seguiti nelle sue operazioni». CaixaBank ha ricordato come l’inchiesta, chiusa di recente, abbia archiviato la posizione dell’istituto di Barcellona. Ibercaja non ha risposto alle domande dei giornalisti.

Giuseppe (nome di fantasia, ndr), ha lavorato come manager Bandenia, ma ha lasciato quasi subito. «È una banca molto pericolosa», spiega. «Bandenia apre conti secretati» per i clienti a proprio nome, in modo che la banca “vera” non conosca i singoli clienti.

Stando all’accusa del tribunale di Madrid, proprio per la sua capacità di far apparire legittimo ciò che è illegale, Bandenia è diventata un’istituzione di riferimento per i criminali. Nel suo riassunto dell’indagine che ha portato all’arresto del vertice di Bandenia, Artiles Ceballos, il giudice spagnolo ha definito il gruppo una rete «perfettamente strutturata per il riciclaggio di denaro su scala industriale».

I criminali, gli evasori, i polli

La struttura di Bandenia analizzata dagli inquirenti spagnoli ricorda quella di una “lavatrice”: i fondi neri entrano in Bandenia, si muovono, e prendono la strada di investimenti legittimi. I magistrati hanno individuato 352 clienti «criminali»: trafficanti di droga, truffatori e criminali finanziari.

Secondo la magistratura spagnola, fra giugno 2012 e febbraio 2015, BBP Bandenia Plc ha spostato, fra varie società e banche, proventi criminali per circa 12 milioni di euro. Allo stesso tempo, nei suoi conti sono stati depositati milioni per conto di clienti in Iran, un Paese sotto sanzioni finanziarie dal 2010.

Ci sono diverse tipologie di cliente tipo. Da una parte chi, come la regina della cocaina, deve riciclare soldi di mafie o narcotraffico. Ci sono gli evasori fiscali, e c’è chi ha bisogno di una linea di credito per un’operazione commerciale (come l’import di dispositivi medici o l’acquisto di una miniera) e sa che con Bandenia la si può ottenere velocemente. E infine ci sono i “polli”: quelli che per qualche ragione, magari pensando di fare un migliore investimento, affidano i propri risparmi a Bandenia.

L’ingresso del palazzo della sede di Bandenia a Maiden Lane, nel quartiere di Covent Garden a Londra – Foto: Occrp

Questi ultimi sono quelli che – dopo avere scoperto di non poter accedere ai propri soldi – hanno denunciato all’autorità di regolamentazione del Regno Unito – la Consob inglese – che ha provato a indagare il gruppo finanziario nel 2019.

«L’Autorità nutre serie preoccupazioni sul fatto che la società (Bandenia, ndr) possa dichiararsi autorizzata come istituzione bancaria senza regolare approvazione, rappresentando così un rischio significativo per i consumatori e l’integrità del sistema finanziario del Regno Unito», conclude nel 2019 la Financial Conduct Authority britannica.

Una problematica riscontrata anche quando un liquidatore ha esaminato BBP Bandenia Plc dopo la denuncia dei creditori americani, la stessa che ha portato alla latitanza di Pastore. Il liquidatore, Andrew McTear, della società di revisione dei conti McTear Williams & Wood, ha spiegato a Occrp di non aver trovato riscontro dei 650 miliardi di euro di guadagni netti citati nei bilanci più recenti di Bandenia.

«Le cifre dichiarate sono straordinariamente alte, e non siamo stati in grado di confermarne alcuna… in alcuni casi sono più alte del Pil di alcuni Paesi!», ha spiegato McTear. «Tutte le strade portano all’amministratore delegato, Pastore», ha detto McTear. «C’è un mandato di arresto, stiamo aspettando che si faccia vivo».

Artiles Ceballos sostiene che Bandenia «era autorizzata a fornire i propri servizi finanziari dalla Financial Conduct Authority». Dice inoltre che BBP Bandenia aveva un codice SWIFT che gli permetteva di operare nel sistema finanziario internazionale. Ceballos rigetta ogni accusa riguardo alla presunta falsificazione di bilanci da parte di Bandenia o altre aziende del gruppo.

Artiles Ceballos ha chiesto una rettifica ulteriore dopo la pubblicazione, chiedendo di specificare che «Bandenia era un business legittimo, mai è stato “una banca per veri criminali”, non ha mai ingannato i propri clienti, non è mai stata una banca falsa, aveva le licenze per operare e le dovute autorizzazioni e le sue operazioni sono state indagate per sette anni dalla giustizia spagnola senza trovare nulla di illecito». Aggiunge che il procedimento pendente è contro di lui, e non Bandenia. In realtà, i pm spagnoli ritengono Bandenia una entità giuridica con responsabilità vicaria.

Come le sviste dei controllori tengono in vita la rete

C’è un elemento senza il quale la mirabolante storia di Bandenia si sarebbe chiusa tempo fa: la miopia dei controllori. Dalle autorità di vigilanza nazionali agli enti che gestiscono l’impalcatura della finanza globale.

Lo snodo cruciale è il Regno Unito. Qui il network di Bandenia ha creato più di 350 aziende – la maggior parte delle quali scatole vuote – e installato il centro delle operazioni dopo che nel 2017 era finita sotto la lente degli investigatori spagnoli.

Sarebbe bastata una semplice ricerca su Google per scoprire del blitz della polizia negli uffici madrileni. Ciononostante, quello stesso anno la Financial Conduct Authority (FCA) – l’ente di vigilanza finanziario britannico – concede a Bandenia una licenza che gli permette di offrire ai consumatori un certo tipo di piccoli prestiti. L’ulteriore paradosso è che la stessa autorità britannica sembra aver ignorato un suo precedente allarme. Infatti, nel 2012 il predecessore della FCA aveva inserito Bandenia in una lista di operatori non autorizzati allo scopo di proteggere gli investitori da potenziali truffe.

Un’analisi dei bilanci fatta dai giornalisti dimostra inoltre come Bandenia abbia pesantemente plagiato i bilanci della multinazionale giapponese Hitachi e della banca inglese Metro Bank Plc.

Ma non finisce qui. Sempre nel 2017 Bandenia riesce a ottenere un codice SWIFT che gli permette di accedere al sistema di comunicazione interbancario. Un tassello preziosissimo per incrementare non solo la mole delle proprie attività ma anche la credibilità nei confronti di potenziali clienti.

Devono passare altri due anni prima che i controllori facciano qualcosa. Dopo aver ricevuto segnalazioni di irregolarità da parte di risparmiatori, nel 2019 la FCA blocca la licenza di Bandenia. L’azienda «può rappresentare un rischio significativo per i consumatori e l’integrità del sistema finanziario del Regno Unito», scrive finalmente l’FCA.

Prestiti cartolari

Oltre alle relazioni con banche legittime per spostare denaro, un’altra operazione messa in piedi da Bandenia è quella che gli atti del tribunale spagnolo chiamano «l’apparente concessione di (falsi) prestiti o garanzie bancarie», per giustificare movimentazione di fondi oltre confine.

Oltre a fornire servizi a clienti singoli, le carte mostrano che Bandenia ha persino offerto una linea di credito da un miliardo di dollari al Sud Sudan. Indipendente solo dal 2011, il Paese rimane uno dei più poveri al mondo. Per indurre i clienti ad accettare tali offerte, Bandenia ha presentato credenziali bancarie contraffatte.

Infine, Bandenia ha fornito anche lettere di credito come garanzia per operazioni commerciali. Un ex cliente di Bandenia ha spiegato a IrpiMedia di essersi rivolto a Bandenia nel periodo della pandemia per ottenere una lettera di credito da tre milioni di euro che garantisse l’importazione di dispositivi anti-covid. L’operazione non è andata a buon fine perché il fornitore aveva rilevato dei problemi con la credibilità di Bandenia.

Giulio, consulente offshore, tra il 2009 e il 2011 è stato direttore o segretario di più di 20 società del network Bandenia, ma in quasi tutti i casi solo per alcuni mesi.

«Ho abbandonato perchè non mi pagavano». Ma di cosa si occupava Bandenia? «Tutte cazzate, fanno bank guarantee ma senza una base, senza avere un capitale versato». Secondo Giulio, dopo l’indagine spagnola Pastore subentra ad Artiles come direttore, di fatto lo spagnolo, al calabrese, Bandenia «gliela affida». «Neanche io capivo cosa facesse questo Artiles. Faceva aumenti di capitale sociale con assegni postdatati a cinque-sei anni anni, con cambiali. Quindi non con soldi veri ma con carta».

Nel 2018, Bandenia ha aperto una filiale a Bari, con tanto di festa di inaugurazione. A rappresentarla, oltre a Pastore (all’epoca non ancora ricercato) e a Modafferi, una coppia di consulenti finanziari che non è stato possibile rintracciare. La filiale non sembra più attiva.

Banca d’Italia, interpellata, ha dichiarato che «gli intermediari indicati non sono autorizzati ad operare in Italia e non lo sono stati neanche in passato». Consob nel 2020 aveva «aperto un’istruttoria su alcune società apparentemente collegate al gruppo Bandenia, rilevando riferimenti in alcuni siti internet che facevano supporre la potenziale offerta, in Italia, di servizi finanziari non autorizzati», e aveva richiesto una correzione ai gestori dei siti. Restano però online i siti della rete Bandenia che, operando a cavallo di varie giurisdizioni e con licenze di inesistenti autorità di arcipelaghi africani, riesce a resistere e continua a operare. Nonostante poi, a voler trovare chi la dirige davvero, si fa fatica come a inseguire farfalle.

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Cecilia Anesi
Edoardo Anziano
Matteo Civillini

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Giulio Rubino

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Quel che sarà dell’agricoltura italiana

#Grainkeepers

Quel che sarà dell’agricoltura italiana

Paolo Riva

Per l’agricoltura europea, quello appena cominciato sarà un anno importante. Il 2023 segna l’avvio della nuova Politica agricola comune (Pac), che è la voce più importante del bilancio Ue nonché un sostegno fondamentale per gli agricoltori in tante parti del continente. L’Italia non fa eccezione, ma arriva a questo appuntamento affaticata. Per l’agricoltura italiana l’anno che si è appena concluso è stato difficile, per tante ragioni. E per questo, merita di essere rivissuto, a partire dall’estate 2022, che rischia di essere ricordata come una delle più aride degli ultimi cinquecento anni.

«Non cresce», dice Nicholas Fusar Poli accarezzando una piantina di erba medica che si alza appena una ventina di centimetri dal terreno secco. È la seconda metà di luglio e questo giovane agricoltore mostra i danni che la mancanza d’acqua ha causato alla sua azienda di Arluno, a ovest di Milano.

L’esperienza di Fusar Poli, che viene da una famiglia giunta alla quarta generazione di contadini, è esemplare delle difficoltà che stanno vivendo molti agricoltori italiani, stretti tra la crisi climatica, l’aumento dei prezzi e le ricadute della guerra in Ucraina.

Nicholas Fusar Poli, agricoltore e allevatore e titolare dell’azienda Le Robinie, in uno dei canali irrigui in secca tra i suoi campi coltivati a mais- Foto: Luca Quagliato

«Abbiamo 91 ettari di terreno e 110 mucche da latte – spiega Fusar Poli, che ha 24 anni e ha fatto l’istituto agrario -. Avevo piantato più erba medica per comprare meno mangimi proteici, ma poi c’è stata la siccità: la medica non è cresciuta e il mais sarà molto meno del solito», dice tra lo sconsolato e l’arrabbiato. Come capita spesso in Pianura padana, anche nell’azienda di Fusar Poli, gli animali vengono nutriti da quel che viene coltivato, soprattutto mais ma anche orzo, sorgo ed erba medica. Se il raccolto va male, le mucche devono comunque essere nutrite e il necessario va acquistato. Quest’anno, a prezzi particolarmente cari.

«Il mercato agricolo sale e scende, è così. I prezzi erano già cresciuti prima [del conflitto], ma con la guerra in Ucraina sono saliti, saliti, saliti…», dice l’agricoltore.

La dipendenza italiana

Nel 2022, in tutto il mondo, i prezzi sul mercato dei beni alimentari hanno raggiunto livelli record. «L’aumento ha caratterizzato soprattutto i beni di cui Russia ed Ucraina sono principali esportatori e si è aggiunto all’aumento dei prezzi trainato dalla crescita post pandemica della domanda di beni rispetto ad una produzione che è cresciuta più lentamente», ha scritto il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria – Crea in un rapporto dell’ottobre 2022.

Il fenomeno, spinto anche dalla speculazione di banche e fondi, ha toccato il nostro Paese soprattutto in alcuni settori. «La crisi internazionale – prosegue il Crea – ha posto maggiore attenzione sulla dipendenza dell’Italia dall’estero per alcune produzioni, importanti per la nostra industria agroalimentare, tra cui i cereali, gli oli vegetali e i mangimi per la zootecnia».

Lo scorso anno, stando alle elaborazioni di Coldiretti su dati Istat, l’Italia aveva importato dall’Ucraina il 15% del mais destinato all’alimentazione degli animali, per un totale di 785 milioni di chili. Una quota che, dopo lo scoppio del conflitto, è stata sostituita in larga parte da quella proveniente da altri Paesi come il Brasile o gli Usa. Questi ultimi, scrive l’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare – Ismea, «non figurano tra i nostri principali fornitori ma nel semestre in esame hanno aumentato le spedizioni con tassi di crescita di tre cifre sia in valore che in volume per raggiungere nei primi sei mesi del 2022 circa 24 milioni di euro per 70 mila tonnellate».

Nutrire gli animali, quindi, è diventato più costoso. Ma non si è trattato dell’unico rincaro che gli agricoltori come Fusar Poli hanno dovuto affrontare.

«La pianta di erba medica solitamente in questa fase della maturazione arriva all’altezza di 40/50 cm», dichiara Fusar Poli mentre maneggia alcune piante che non hanno raggiunto la maturazione per via della siccità. A causa della mancata maturazione della pianta, gli allevatori sono costretti all’acquisto di mangimi dall’esterno – Foto: Luca Quagliato
Un ramo terziario del canale Villoresi durante una secca programmata. La distribuzione delle acque irrigue avviene attraverso una regimentazione per la quale gli agricoltori pagano una quota a un consorzio di gestione che si occupa di garantire la manutenzione dei canali e un afflusso di acqua sufficiente alla maturazione delle colture. Durante il 2022, annata di siccità grave, il consorzio ha dovuto modificare la regimentazione delle acque dilatando i tempi tra un’irrigazione e l’altra – Foto: Luca Quagliato

A marzo, poco dopo l’invasione russa dell’Ucraina, sempre il Crea aveva stimato che, a fronte della situazione internazionale, le aziende italiane avrebbero potuto «subire incrementi dei costi correnti di oltre 15.700 euro» all’anno. A settembre ha rivisto i numeri, praticamente raddoppiandoli e spiegando come tra i settori più colpiti c’è la produzione di latte.

«L’impatto medio aziendale nazionale stimato è di 29.060 euro, mentre sugli allevamenti da latte sale addirittura a 90.129 euro. Tali aumenti sono legati all’eccezionale rincaro (a livello medio aziendale) delle spese per l’energia elettrica (+35.000 euro), per l’acquisto di mangimi (+34.000 euro) e dei carburanti (+6.000 euro)», dettaglia il report.

Lo scorso ottobre Coldiretti ha confermato, segnalando aumenti dei costi che vanno dal +170% dei concimi al +129% per il gasolio fino al +300% delle bollette per pompare l’acqua per l’irrigazione dei campi. E, la scorsa estate, i raccolti hanno avuto bisogno di molta acqua.

Aziende agricole a rischio

L’estate del 2022 verrà ricordata in tutta Europa per la mancanza d’acqua. La siccità, soprattutto nel nord dell’Italia, si è sommata agli altri problemi che l’agricoltura stava già affrontando e ha inciso negativamente sulla resa di diverse colture.

Nel caso del grano duro, per esempio, a fine luglio Isema stimava che la produzione italiana 2022 «potrebbe essere inferiore di circa il 16% rispetto all’anno precedente, prevalentemente a causa del deficit idrico registrato durante la fase post semina e delle elevate temperature degli ultimi mesi». Il calo riguarda molte regioni, pur con intensità diverse, e anche altri paesi Ue come la Francia.

Per quanto riguarda il mais, il quadro è ancora più fosco. Cesare Soldi, imprenditore agricolo in provincia di Cremona, membro di Confagricoltura e presidente dell’Associazione maiscoltori italiani – Ami, prova a fare i conti. «Quest’anno, come associazione, stimiamo un calo del 35% della produzione di mais rispetto al 2021», dice. Si tratta di una media nazionale che nasconde una forte eterogeneità, ma il dato è comunque forte. «Da una parte – riprende Soldi -, c’è la siccità e, dall’altra, ci sono la situazione incerta pre Covid e la guerra che hanno portato all’aumento dei costi. È un mix esplosivo che ci porta, per l’ennesima volta negli ultimi anni, a produrre sotto costo».

In pratica, nonostante i prezzi elevati dei generi alimentari, i produttori di mais ricevono per il loro prodotto meno di quanto spendono per coltivarlo. È una situazione insostenibile che ha ragioni specifiche legate al tipo di coltura, ma che quest’anno rischia di riguardare anche le aziende di altri settori.

Nello stesso studio in cui il Crea stimava l’aumento dei costi per le imprese agricole, l’istituto concludeva che «l’attuale crisi internazionale congiunturale può determinare in un’azienda agricola su dieci l’incapacità di far fronte alle spese dirette necessarie a realizzare un processo produttivo» e che «il 30% delle aziende su base nazionale» potrebbe «avere reddito netto negativo». Prima dell’attuale crisi, i due dati erano rispettivamente l’1% e il 7%.

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«Il conflitto avrà conseguenze sulla gestione economica e finanziaria delle aziende agricole. Le imprese a bassa capitalizzazione rischiano di uscire dal mercato. Potrebbe esserci una riorganizzazione in termini di efficienza, con impatti sociali non da poco», sostiene Alessandra Pesce, direttrice del Centro politiche e bioeconomia del Crea. In pratica, secondo la ricercatrice, gli agricoltori senza sufficienti risorse economiche potrebbero non farcela ad affrontare un periodo così impegnativo. Le loro aziende agricole potrebbero essere acquisite da altre oppure fallire.

Per Pesce, l’impatto maggiore è sui «costi di gestione e approvvigionamento di materie prime energetiche, di fertilizzanti e di mangimi». Fusar Poli, per esempio, dato che l’erba medica non è cresciuta a sufficienza per la siccità, ha dovuto comprare più mangimi proteici, i cui prezzi nel frattempo erano fortemente aumentati. Lo ha fatto rivolgendosi a Cargill, uno dei principali attori mondiali del settore. «Vorrei essere sempre meno dipendente da queste aziende, ma quest’anno non è stato possibile», dice.

Lo stesso accade in provincia di Cremona, poco lontano dal Po e dalle sue acque che, a luglio, erano estremamente basse per la mancanza di piogge.

Stefania Soldi osserva la grande mietitrebbia che passa sul campo di mais appartenente alla sua azienda zootecnica. «Cerchiamo di essere autonomi, ma con questo clima mai visto prima abbiamo dovuto comprare una parte dei mangimi», spiega. E anche in questo caso, i prezzi sono saliti. La crescita era già iniziata prima del conflitto e ha accelerato dopo l’invasione russa dell’Ucraina, anche a causa della speculazione finanziaria. Come a Fusar Poli, anche a Soldi, per acquistare il mais da destinare alle sue mucche, è capitato di rivolgersi a Cargill, che ha un impianto proprio poco lontano dalla sua azienda, nel comune di Sospiro in provincia di Cremona.

Il ruolo dei grandi player

L’Italia è uno dei settanta Paesi in cui Cargill opera, per un totale di 155 mila dipendenti e un fatturato che, nel 2020, ha superato i 134 miliardi di dollari. L’azienda, che non è quotata in borsa, è un trader di materie prime agricole e quindi è coinvolta in tutte le fasi della produzione e del commercio di questi prodotti: dall’origine alla lavorazione, dalla commercializzazione agli strumenti finanziari, dalla gestione del rischio alla distribuzione. Secondo un recente rapporto dell’ong Etc Group, che da decenni si occupa di sistemi alimentari, Cargill è il leader di questo settore, seguita dalla cinese Cofco, dalle statunitensi Archer-Daniels-Midland (ADM) e Bunge (rispettivamente terza e quinta per fatturato) e da Wilmar, con sede a Singapore.

Uno stabilimento della multinazionale dei mangimi Cargill a Sospiro, provincia di Cremona – Foto: Luca Quagliato
Trebbiatura di un campo coltivato a Mais destinato all’alimentazione animale a Pieve d’Olmi, provincia di Cremona – Foto: Luca Quagliato

Aziende come Cargill o Cofco rappresentano molto chiaramente il processo di consolidamento dell’industria agroalimentare mondiale in corso, attraverso fusioni e acquisizioni sia orizzontali sia verticali. Questo, scrive sempre Etc in un altro rapporto, rafforza «il modello alimentare e agricolo industriale, esacerbando le sue ricadute sociali e», «aggravando gli squilibri di potere esistenti» e rendendo «gli agricoltori sempre più dipendenti da una manciata di fornitori e acquirenti». La pubblicazione era del 2017 ma, cinque anni dopo, il fondatore di Etc Pat Mooney, conferma che la situazione non è cambiata. Anzi.

«Il livello di concentrazione è ulteriormente aumentato e il sistema industriale sta mostrando enormi problemi nelle catene di approvigionamento che non dipendono solo dalla situazione in Ucraina e che erano già stati riscontrati durante la pandemia», spiega Mooney.

Negli ultimi mesi, Cargill ha registrato un aumento del 23% dei ricavi, raggiungendo la cifra record di 165 miliardi di dollari (140 miliardi di sterline) per l’anno conclusosi il 31 maggio 2022; ADM ha realizzato i profitti più alti della sua storia nel secondo trimestre di quest’anno mentre le vendite di Bunge sono aumentate del 17% su base annua nel secondo trimestre, anche se i profitti sono stati influenzati da oneri precedentemente sostenuti.

Se da un lato un aumento dei ricavi è logico all’aumentare dei prezzi, dall’altro, secondo diverse organizzazioni non governative, questi colossi stanno approfittando della situazione e avrebbero potuto fare di più per evitare la crisi attuale.

Quel che è certo è che gli agricoltori come Fusar Poli si ritrovano inseriti in un sistema agroalimentare industriale che non li favorisce, esposti alle ripercussioni internazionali in materia di prezzi e schiacciati dagli effetti della crisi climatica, che in estati come quella appena trascorsa si è manifestata con particolare forza. «Devi continuamente adattarti. Sei sul filo del rasoio, non puoi sbagliare», dice Fusar Poli.

Più o meno consapevolmente, però, a stringere la morsa nella quale si ritrovano sono anche gli stessi agricoltori. Soprattutto quelli che producono cereali per la zootecnia. Come ha spiegato l’associazione Terra!, in Italia il 58% dei terreni sui quali si semina (i seminativi) è destinato ad alimentare animali, non persone. Nel caso specifico del mais, l’82 per cento del prodotto disponibile è destinato all’uso zootecnico.

Il punto è che gli allevamenti producono una grande quantità di emissioni di gas serra, che contribuiscono a peggiorare la crisi climatica. Nel 2020, il settore agricolo ha generato il 9% di tutte le emissioni italiane mentre, secondo l’ong Iatp, le prime venti aziende europee di carne e latticini producono l’equivalente di oltre la metà delle emissioni di Regno Unito, Francia e Italia. Anche per questo, la nuova Politica agricola comune Ue, in vigore dall’inizio del 2023, ha tra i suoi obiettivi quello di rendere il settore primario europeo più sostenibile dal punto di vista ambientale.

L’alba di una nuova PAC

Il primo gennaio 2023, dopo una serie di rinvii causati dalla pandemia, è iniziata la nuova programmazione della la Politica agricola comune dell’Unione europea (Pac), che proseguirà fino al 2027. Tra le principali novità di questa ultima versione della Pac, che è già stata oggetto di altre riforme in passato, vi sono maggiore attenzione all’ambiente e più autonomia per gli Stati.

Il primo aspetto si concretizza negli ecoschemi, che sono sostegni economici garantiti alle aziende agricole che hanno usato determinate pratiche ecosostenibili. Il secondo aspetto, invece, lo si ritrova nei Piani strategici nazionali, che i Paesi membri concordano con la Commissione Ue per spendere i fondi Pac nel modo per loro più adatto. Quello dell’Italia è stato approvato ad inizio dicembre.

«La Commissione europea ha approvato il Piano strategico italiano per la Pac, con circa 37 miliardi per i prossimi cinque anni a sostegno della competitività e della sostenibilità del settore produttivo agricolo e agroalimentare. È un’ottima notizia, per un provvedimento molto atteso da tutto il comparto», ha commentato il ministro dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, Francesco Lollobrigida.

Il piano, in realtà, è opera di Stefano Patuanelli, ministro con il precedente governo. La caduta dell’esecutivo Draghi e le conseguenti elezioni hanno ritardato l’approvazione del documento, creando diversi problemi agli agricoltori. I fondi Pac, infatti, sono vitali per i bilanci di molte aziende agricole e capire come vengono assegnati può orientare le loro scelte in termini di colture o pratiche da seguire.

«Fino ad oggi, i pagamenti diretti della Pac hanno garantito a chi produce mais 360 euro all’ettaro, che danno la possibilità di essere in attivo», spiega Cesare Soldi di Ami. In pratica, a suo parere, produrre mais in Italia senza i soldi Ue non è economicamente sostenibile.

Con la nuova Pac, però, il quadro è destinato a cambiare. Il Piano strategico nazionale è stato sostanzialmente ben accolto dalle organizzazioni degli agricoltori. Il presidente di Coldiretti Ettore Prandini, pur affermando che «non è certo la riforma agricola dei sogni per gli agricoltori», lo ha definito «un compromesso utile a tenere insieme la sostenibilità economica, ambientale e sociale delle nostre aziende agricole».

Il giudizio, però, varia molto da settore a settore. E quello di Soldi non è così positivo.

«I seminativi come mais, frumento tenero e orzo, risultano penalizzati [dal Piano strategico nazionale]», dice. I sostegni a questo tipo di colture sono stati modulati in modo diverso rispetto alla Pac precedente e sono complessivamente diminuiti. Il mais passa da 360 euro all’ettaro a circa 230, compreso il pagamento dell’ecoschema 4. Anche Giuseppe Romano, agronomo e presidente dell’Associazione italiana agricoltura biologica – Aiab, riconosce che «in tutta la Pac, i seminativi escono affaticati».

In primo piano, un campo coltivato a grano e sorgo, sullo sfondo un campo coltivato a mais. Il sorgo è un cereale con un’alta resistenza a condizioni di siccità: «Quando il sorgo è troppo bello non è un buon segno», dichiara Nicholas Fusar Poli, agricoltore e allevatore dell’azienda Le Robinie di cui è titolare – Foto: Luca Quagliato
Lo stoccaggio di trinciato di mais destinato all'alimentazione bovina. Il trinciato è prodotto dalla raccolta meccanizzata della pianta di mais nel suo intero e stoccato per garantire l'alimentazione dei bovini durante la stagione tra un raccolto e l'altro - Foto: Luca Quagliato
Lo stoccaggio di trinciato di mais destinato all’alimentazione bovina. Il trinciato è prodotto dalla raccolta meccanizzata della pianta di mais nel suo intero e stoccato per garantire l’alimentazione dei bovini durante la stagione tra un raccolto e l’altro – Foto: Luca Quagliato

É l’unico punto su cui Soldi e Romano concordano. Per il resto, per il presidente di Aiab, «la Pac ha risposto fin troppo alle richieste nate dopo l’invasione dell’Ucraina».

L’agronomo si riferisce alla condizionalità rafforzata, il cui avvio è stato rimandato al 2024 per le conseguenze del conflitto scatenato dalla Russia. Il meccanismo incrementa le pratiche ambientali che gli agricoltori devono eseguire per ricevere i pagamenti di base, tra cui le rotazioni delle colture.

Secondo Romano, si tratta «di pratiche agroecologiche positive che andrebbero fatte a prescindere dalla Pac». Per Soldi, invece, sono una difficoltà ulteriore, che renderà ancora meno sostenibile la coltivazione del mais. «Vengono meno le aziende, diminuiscono le superfici di mais coltivate e aumentano le importazioni», dice, spiegando quel che è successo negli ultimi anni in Italia e, a suo parere, potrebbe succedere anche in futuro. Qualche segnale positivo, però, potrebbe arrivare dai mercati.

«Mai visto nulla del genere»

A novembre, Ismea ha annunciato che i prezzi di cereali, frutta, semi oleosi e vino hanno registrato un calo nel terzo trimestre 2022 rispetto al trimestre precedente e che, per la prima volta da inizio 2022, si è registrato «un calo congiunturale dei prezzi degli energetici (-4,6% rispetto al secondo trimestre)».

Segnali positivi, ma di portata limitata. Il calo ha riguardato solo i prezzi di un numero limitato di prodotti, mentre quelli di altri hanno continuato a salire. «L’aumento dei prezzi, tuttavia, non compensa completamente i maggiori costi dei produttori e l’Ismea prevede una lieve diminuzione su base congiunturale del valore aggiunto agricolo, così come indicano le stime preliminari Istat sul Pil del terzo trimestre», ha aggiunto l’istituto.

Le difficoltà per gli agricoltori, quindi, non sembrano destinate a ridursi. Anche a causa della crisi ambientale. «Il cambiamento climatico non è mai stato un problema così forte – ragiona Fusar Poli -. Magari pioveva meno, ma pioveva. Quest’anno, invece… Anche mio padre e mia nonna non hanno mai visto qualcosa del genere. Ogni tanto ci penso e mi chiedo se sono sicuro di andare avanti con questa roba qua che non sai come va a finire». L’impatto della crisi climatica sembra destinato ad aumentare, d’ora in avanti. Nessuno può ancora prevedere le conseguenze che avrà sul mestiere dell’agricoltore.

CREDITI

Autori

Paolo Riva

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

Bovini che si alimentano all’interno di una delle stalle dell’azienda Le Robinie
(Luca Quagliato)

Con il sostegno di

Mordashov, Timchenko, Deripaska: le società in Italia di tre oligarchi sotto sanzione

#RussianAssetTracker

Mordashov, Timchenko, Deripaska: le società in Italia di tre oligarchi sotto sanzione

Lorenzo Bodrero

Èpartito da un’anonima bottega di un fabbro in provincia di Brescia; è passato al controllo del secondo più importante stabilimento siderurgico d’Italia e infine ha ceduto quest’ultimo a uno dei più influenti oligarchi russi. Sono tre frammenti della vita di Luigi Lucchini, personaggio di primo piano dell’industria pesante italiana morto nel 2013 all’età di 94 anni. Classe 1919, figlio di un artigiano del ferro e di una conduttrice di osteria, Lucchini trasforma la bottega del padre in una piccola azienda grazie ai tondini per il cemento armato, componente essenziale su cui fondare il boom economico italiano. Da lì la crescita è esponenziale: accelera negli anni Settanta investendo nell’acciaio, guida Confindustria tra il 1984 e il 1988, e raggiunge l’apice negli anni Novanta con l’acquisto dello stabilimento siderurgico di Piombino (oggi secondo solo a quello dell’Ilva di Taranto).

Comincia proprio in quegli anni, invece, la parabola crescente di Alexey Mordashov, classe 1965, oggi il più facoltoso tra gli oligarchi russi nonché – secondo una nostra ricerca – quello con il maggior numero di partecipazioni societarie in Italia.

Come per l’ex presidente di Confindustria, anche Mordashov è di umili origini. I genitori lavoravano entrambi nell’acciaieria di Čerepovec, cittadina posizionata a metà strada tra Mosca e San Pietroburgo (allora Leningrado) che fu scelta da Stalin negli anni Cinquanta quale sede della seconda più grande acciaieria dell’Unione Sovietica. In quello stabilimento, Mordashov ci entrerà nel 1988 con una laurea in ingegneria economica. Nel 1992 fu promosso direttore finanziario e un anno più tardi Boris Yeltsin decise la trasformazione dell’acciaieria in una società per azioni, battezzandola con il nome che porta ancora oggi: Severstal. «Nessuno, a quel tempo, sapeva che cosa fossero le azioni in Russia. Alla fine divenni proprietario dell’82% della compagnia», spiegò sommariamente il facoltoso imprenditore in un’intervista al Times.

Mordashov, le partecipazioni in Italia del re dell’acciaio

La vertiginosa crescita negli ultimi vent’anni del suo principale azionista e presidente è andata di pari passo con quella di Severstal, oggi il gruppo siderurgico più importante della Russia con interessi anche nel settore minerario. Annovera stabilimenti in Ucraina, Kazakistan, Francia, Italia e in diversi Paesi africani.

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L’inchiesta in breve
  • Alexey Mordashov è uno dei principali imprenditori siderurgici del mondo. È finito sotto sanzioni per i suoi legami con il Cremlino. In Italia possiede quote di diverse società, la più importante delle quali è la Lucchini Spa.
  • Gennady Timchenko è proprietario di parte del pacchetto azionario della Manucor Spa, nel milanese. È tra i principali alleati di Putin ed è stato già costretto a rivedere la sua partecipazione in alcune importanti società russe.
  • Oleg Deripaska è cresciuto nel settore dell’alluminio insieme a Roman Abramovich, di cui per anni è stato socio. In Italia controlla quote della Strabag Spa, parte di un gruppo austriaco che dall’inizio della guerra ha espresso la sua massima condanna per l’invasione russa.
  • Olga Rozhkova è stata per un anno la moglie di Igor Sechin, il numero uno del colosso petrolifero Rosneft. In Italia è socia al 50% di una start-up per bici e moto elettriche insieme al suo attuale compagno.
  • Marina Chernova è la moglie di Roman Babayan, una delle voci della propaganda di Mosca, messo sotto sanzione in febbraio dall’Unione europea. Possiede quasi la metà delle quote di un ristorante di Pavia.

A differenza del passato, le attuali sanzioni a personaggi con importanti partecipazioni in imprese europee potrebbe provocare stravolgimenti nelle strutture societarie di aziende italiane e non solo.

Nell’ambito del filone d’inchiesta #RussianAssetTracker, IrpiMedia ha potuto appurare che sono almeno 19 le aziende in Italia riconducibili ad Alexey Mordashov, distribuite in dieci province italiane. La più proficua è quella di Livorno, dove hanno appunto sede la Lucchini Spa e lo stabilimento siderurgico di Piombino. L’acquisizione, nota da anni agli organi di stampa, è avvenuta nel 2005 con la cessione del 70% della storica azienda italiana, mentre cinque anni più tardi il gruppo russo ha acquisito un ulteriore 20%.

La Lucchini è controllata da due società cipriote, una delle quali conduce a una finanziaria delle Isole Vergini; l’altra invece porta a una delle principali società controllate direttamente da Mordashov, la Severstal, colosso della siderurgia mondiale.

A causa delle sanzioni a cui è sottoposto l’oligarca, una divisione di Citibank di New York «ha rifiutato di effettuare un pagamento a Severstal per 12,6 milioni di dollari su eurobond per 800 milioni di dollari con scadenza nel 2024», riporta il sito economico russo RBC il 23 marzo. In sostanza l’azienda non ha potuto pagare i suoi obbligazionisti. A ulteriore conferma dello sbandamento dell’azienda, Severstal scrive sul suo canale Telegram l’11 aprile che «la Società ha deciso temporaneamente di non pubblicare i risultati finanziari del primo trimestre 2022 perché una parte importante dei propri azionisti non è in grado di prendere delle decisioni in merito agli investimenti e la diffusione di queste informazioni potrebbe mettere dei portatori di interesse in condizioni di vantaggio rispetto ad altri».

Alexey Mordashov, amministratore delegato di Severstal, raggiunge la sede del Comune di Piombino per discutere con le istituzioni locali e nazionali del futuro della Lucchini Spa il 5 agosto 2010 - Foto: Laura Lezza/Getty

Alexey Mordashov, amministratore delegato di Severstal, raggiunge la sede del Comune di Piombino per discutere con le istituzioni locali e nazionali del futuro della Lucchini Spa il 5 agosto 2010 – Foto: Laura Lezza/Getty

Per i loro dividendi gli azionisti dovranno attendere l’esito della prossima assemblea generale del 20 maggio 2022. Il 2 marzo l’agenzia di stampa russa Interfax ha citato un comunicato stampa di Severstal in cui si legge: «Abbiamo interrotto le consegne all’Ue in relazione alle sanzioni imposte al nostro azionista (principale, cioè Mordashov, ndr). Stiamo reindirizzando i flussi di merci verso mercati mondiali alternativi».

L’amore degli oligarchi per l’Italia

Le sanzioni economiche verso la Russia e verso gli oligarchi sono al centro del dibattito dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina. Il loro scopo è indebolire l’economia russa e indurre Vladimir Putin a porre fine al conflitto. IrpiMedia si è già occupata della reale efficacia di queste sanzioni e l’effetto delle sanzioni sulle economie più esposte alla Russia sono ancora difficili da valutare.

Secondo IrpiMedia, sono almeno cinque gli individui di nazionalità russa al momento sotto sanzioni da Unione europea e Stati Uniti che detengono quote azionarie rilevanti (superiori al 5%) in società italiane. Oltre ad Alexey Mordashov – che in Italia ha già subito il congelamento del suo yacht da 65 milioni di euro nel porto di Imperia e una villa da 105 milioni in Costa Smeralda – nella lista figurano altri due oligarchi molto noti – Gennady Timchenko e Oleg Deripaska – e le coniugi, attuali o passate, di altri due uomini dell’entourage di Putin.

Gli oligarchi, e le loro coniugi, nelle società italiane

Considerato uno dei più stretti confidenti del presidente russo, Gennady Timchenko, prima delle ultime sanzioni, controllava – scrive Bloomberg – un patrimonio superiore ai 10 miliardi di dollari. A lui è riconducibile la Manucor, operante nel settore degli imballaggi nel milanese, con stabilimenti anche a Sessa Aurunca, in Campania.

L’azienda è il frutto di una lunga tradizione famigliare, quasi dinastica. Nacque nel 1935 dall’idea di Dardanio Manuli, siciliano trapiantato a Milano dove fondò una piccola impresa per la produzione di nastro isolante per uso elettrico. Quarant’anni più tardi l’azienda aveva conquistato un posto tra i leader europei nella produzione di plastica e materiali industriali, con 1.500 dipendenti e stabilimenti in Spagna, Grecia e sud Italia, fino a quando il controllo è passato in mano ai tre figli Manuli che diversificarono le attività cedendo quelle meno profittevoli e perseguendo un’ulteriore spinta verso l’estero.

Nel 2019 l’azienda ha annunciato una joint venture con una società russa che ha acquisito la metà delle azioni della Manucor Spa, lasciando ai Manuli una quota di minoranza. Oggi la facoltosa famiglia dirige le proprie attività tramite la AM Holding con investimenti nei settori immobiliare, industriale, editoriale e dell’asset management. Il 50% della Manucor Spa è quindi in mano alla Biaxplen, azienda russa nonché consociata della Sibur (colosso del settore petrolchimico) riconducibile a Gennady Timchenko tramite la partecipazione in un’altra società.

Gennady Timchenko (dx) insieme a Alexey Mordashov (sx) durante una conferenza stampa a Sochi il 18 aprile 2018 - Foto: Sasha Mordovets/Getty

Gennady Timchenko (dx) insieme a Alexey Mordashov (sx) durante una conferenza stampa a Sochi il 18 aprile 2018 – Foto: Sasha Mordovets/Getty

Il 22 marzo la Strabag Ag, società di costruzioni austriaca, ha dichiarato di voler interrompere i rapporti con uno dei suoi azionisti, l’oligarca sotto sanzione Oleg Deripaska. Per anni molto vicino a Roman Abramovich, Deripaska è partito dall’alluminio della Siberia per diventare uno degli industriali più importanti del mondo. Strabag già a inizio marzo aveva affrontato il tema della guerra e della presenza di Deripaska tra gli azionisti in un comunicato stampa: «STRABAG – si legge – condanna fermamente questa aggressione militare da parte della Russia sull’Ucraina e aiuterà tutte le iniziative volte al sostegno della popolazione in Ucraina e al ripristino della pace nella regione». Rispetto all’ingombrante azionista russo, Strabag specifica che «secondo il diritto societario austriaco, il consiglio di amministrazione gestisce la società in modo indipendente, vale a dire senza istruzioni da parte del consiglio di sorveglianza e degli azionisti della società». Tra le società del gruppo Strabag, c’è anche una Spa in Italia, con sede a Bolzano, nata nel 2011 a seguito dell’acquisizione di una società di costruzioni di Bologna pochi anni prima.

Una società è invece riconducibile a Roman Babayan, conduttore di due programmi televisivi in Russia, caporedattore di una radio locale a Mosca e membro del consiglio comunale della capitale. L’Unione europea ha incluso Babayan lo scorso 28 febbraio nella lista degli individui sanzionati perché ritenuto cruciale nella diffusione della propaganda russa anti-ucraina: si «è reso responsabile di attività che minano e mettono a repentaglio l’integrità, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina», si legge nel documento. La moglie, Marina Chernova, controlla il 48% del capitale di un’azienda di ristorazione in provincia di Pavia.

Olga Rozhkova nel 2011 ha cambiato il suo cognome in Sechina, come scoperto dal giornale russo Novaya Gazeta. Per un anno, infatti, è stata moglie di Igor Sechin, il presidente di Rosneft, il colosso petrolifero russo. Il giornalista di I-Stories Roman Anin rischia il carcere in Russia per aver scritto di uno yacht a cui Sechin aveva dato il nome della sua allora moglie, St. Princess Olga. Rozkhova dal 2020 è socia al 50% di una start-up che sviluppa bici e moto elettriche a Roma insieme all’attuale fidanzato, il pilota professionista Francesco “Frankie” Provenzano. Dalla visura italiana si legge che ha frequentato l’Accademia diplomatica del Ministero degli Affari esteri della Russia e si è laureata all’Accademia russa del commercio internazionale, università che dipende dal Ministero dello Sviluppo economico russo. È stata anche dipendente di Gazprombank, la banca di Gazprom, l’altra società energetica di Stato.

Il ventre molle dell’Europa

L’Italia non è certo l’unico Paese in Europa che registra una penetrazione russa nel proprio tessuto imprenditoriale. Quanto, quindi, dell’economia europea è esposta verso società e investitori russi? La domanda è alla base di un primo studio del centro di ricerca Transcrime e del suo spin off Crime & Tech pubblicato nell’ambito di TOM (The Ownership Monitor), un osservatorio che analizza le strutture proprietarie delle imprese. IrpiMedia collabora con Transcrime allo sviluppo di Datacros, un sistema che esamina strutture societarie complesse e ne identifica potenziali fattori di rischio.

Nel report di TOM pubblicato da Transcrime in merito alla penetrazione dell’imprenditoria russa nel tessuto economico europeo risultano almeno 44.000 persone con passaporto russo in qualità di titolari effettivi di società registrate nell’Unione europea, nel Regno Unito e in Svizzera. Il numero più alto si registra in Repubblica Ceca (quasi un terzo), seguita da Regno Unito, Lettonia, Germania e Bulgaria. Quanto ai settori di investimento, piace particolarmente il mattone: a livello europeo, infatti, il settore immobiliare è quello che registra il maggior numero di partecipazioni russe (quasi il 15% di tutte le imprese europee a partecipazione russa), seguito dal commercio all’ingrosso/dettaglio e dalle attività di holding finanziarie.

In Italia i titolari effettivi russi sono almeno 2.025 distribuiti in 1.300 aziende. La maggiore concentrazione è nella provincia di Milano, seguita da quelle di Roma, Brescia, Firenze e Rimini. Nel complesso, Transcrime stima che il valore contabile di queste società nel nostro Paese ammonti a circa 2,5 miliardi di dollari.

Titolari effettivi russi

Il numero di persone di nazionalità russa in qualità di titolari effettivi di società registrate in Europa, nel Regno Unito e in Svizzera

Gli investimenti russi nemmeno dopo l’annessione della Crimea nel 2014 sono stati un grosso problema per le economie europee. Le sanzioni di oggi, invece, potrebbero provocare delle conseguenze maggiori anche sul piano delle composizioni societarie in Europa.

Delle 31.000 società controllate da persone russe e attive in Europa, il report di TOM ne individua 1.402 (il 4,5%) riconducibili a individui sotto sanzione da parte di Stati Uniti, Ue e Regno Unito al momento dell’uscita del rapporto, a fine marzo. La stragrande maggioranza è quindi partecipata o controllata da persone di nazionalità russa che non sono stati sanzionati da Unione europea e Stati Uniti.

Strutture societarie complesse

La ricerca di Transcrime mostra però «un numero di anomalie ben più alto» nelle aziende sotto il controllo degli oligarchi rispetto alle altre. La loro struttura societaria, ad esempio, è molto più intricata. Significa che il controllo di una società si avvale di una catena di partecipazioni articolata, costituita in media da sei aziende, contro una media europea di 0,5.

Italia e Russia: da decenni di stretti rapporti alle sanzioni di oggi

Sanzioni economiche, congelamento dei beni, limitazioni a import ed export. La “guerra economica” contro la Russia può sembrare dovuta in queste settimane di conflitto russo-ucraino ma bisogna ricordare che fino al 2014 – soltanto otto anni fa – la situazione era ben diversa. Dal Dopoguerra a oggi, infatti, la Russia e buona parte dei Paesi europei hanno beneficiato reciprocamente l’una degli altri. L’Italia, in particolare, condivideva con la Russia una marcata “simpatia ideologica” grazie al consenso che il Partito comunista italiano, tra i più solidi nel Vecchio continente, raccoglieva nel nostro Paese.

Questa convergenza si rifletteva anche e soprattutto sul piano economico. Due simboli dell’industria italiana quali Fiat e Eni furono tra i primi a investire nell’Unione Sovietica, e con il crollo del Muro di Berlino il commercio e la politica estera italiana verso la Russia si sono ulteriormente intensificati. È impossibile elencare qui tutti i più importanti partner commerciali che in Russia hanno fatto fortuna ma basti ricordare, oltre alle già citate Fiat ed Eni, anche Enel e Pirelli (di quest’ultima, la Rosneft – colosso russo del petrolio – divenne maggiore azionista nel 2014 e il suo amministratore delegato Igor Sechin – oggi sotto sanzione – divenne membro del consiglio di amministrazione).

Due dati certificano il crescente rapporto economico tra i due Paesi: dal 2005 al 2013, le esportazioni verso la Russia sono passate da 6 a 11 miliardi di euro; gli investimenti diretti stranieri (FDI), invece, da 1,7 a 11 miliardi di euro tra il 2007 e il 2016. Insomma, il Paese guidato da Vladimir Putin è cruciale per le sorti economiche dell’Italia la quale – secondo i dati del Ministero degli esteri di gennaio 2022 – è il secondo partner russo più importante in Europa (dietro alla Germania) e il quarto nel mondo.

Un altro settore strategico per i due Paesi – oltre all’oil&gas e a quello industriale – è l’industria bancaria: nel 2019, l’esposizione finanziaria verso la Russia degli istituti di credito italiani era la seconda più grande al mondo (dietro alla Svizzera), pari a quasi 23 miliardi di euro. Unicredit, il gruppo bancario più importante d’Italia, è la prima banca straniera in Russia per volume di attività. E ancora: i rapporti tra Intesa Sanpaolo, il secondo gruppo bancario in Italia, e la Russia risalgono ai tempi dell’Unione Sovietica dove l’allora Banca Commerciale Italiana aveva investito pesantemente tra gli anni Sessanta e Settanta.

Di come economia e politica corrano spesso su strade parallele lo dimostra una dichiarazione del presidente del Cda di Banca Intesa all’indomani delle sanzioni italiane per l’invasione della Crimea: «Sono illegali – diceva Antonio Fallico nel 2017 – e sono state imposte per ragioni ideologiche». Simili prese di posizione hanno coinvolto politici e partiti italiani di primo piano: l’ex primo ministro Silvio Berlusconi è stato per anni legato a Vladimir Putin da una profonda amicizia; Matteo Salvini e la Lega hanno stretto nel 2017 un patto con il partito di Putin Russia Unita che secondo Report è ancora in vigore e hanno costruito sinergie ideologiche tra l’estremismo cattolico e la chiesa ortodossa; il Movimento 5 Stelle, da partner di governo della Lega, aveva nel suo programma del 2018 l’abolizione delle sanzioni alla Russia.

Insomma, l’Italia è da decenni terreno fertile non solo per gli investimenti ma anche per l’agenda politica di Mosca. Si spiega, in parte, così la faticosa inversione di rotta da parte dell’Italia che ha portato il nostro Paese ad allinearsi alla volontà dell’Unione europea e a perseguire economicamente la Russia per l’aggressione all’Ucraina, non senza polemiche interne.

Ripercorrendo i collegamenti azionari di queste società è inoltre emerso come in quelle 1.402 società sono presenti 207 trust e fiduciarie in qualità di intermediari, un numero 15 volte superiore alla media europea. Tipicamente, trust e fiduciarie sono utilizzate per mascherare l’identità del reale titolare effettivo così da mettere al riparo chi realmente le detiene da eventuali sanzioni.

Una tale opacità aziendale rende meno efficaci le recenti sanzioni emesse contro gli oligarchi russi. È il caso, per esempio, del mega-yacht di Alisher Usmanov, tra i più influenti e ricchi oligarchi vicini a Putin: ormeggiato nel porto di Amburgo (Germania), la lussuosa imbarcazione di quasi 200 metri di lunghezza e del valore stimato in 200 milioni di dollari, è registrato alle Isole Cayman e di proprietà della Klaret Continental Leasing Limited, una società di base a Malta. Collegare la proprietà dello yacht direttamente al magnate russo, scrive Forbes, è stato finora impossibile e le autorità tedesche non hanno potuto fare altro che “congelare” l’imbarcazione (renderla, cioè, inutilizzabile), ben altra cosa rispetto al sequestro.

Le società degli oligarchi

Il numero di società in Europa, Regno Unito e Svizzera in cui persone di nazionalità russa sotto sanzione risultano titolari effettivi

Analizzando le strutture societarie di milioni di aziende in Europa, i ricercatori di Transcrime sono riusciti a individuare 33 oligarchi sotto sanzioni aventi quote aziendali (dichiarate) in società registrate nella Ue, nel Regno Unito e in Svizzera. Il valore totale sfiora i 440 miliardi di dollari, cifra che considera il valore globale delle aziende e non solo le quote azionarie in mano agli oligarchi. Tra i Paesi europei, il record appartiene alla Germania dove sono registrate 362 società riconducibili a oligarchi sanzionati, seguita da Austria (181) e Regno Unito (153).

I risultati della ricerca «sono certamente una sottostima – precisano i ricercatori – di quanto, rispetto al volume reale, è difficile dirlo». Le difficoltà da aggirare, infatti, non sono di poco conto. In primo luogo, è verosimile credere che molti russi controllino società europee attraverso l’utilizzo di prestanome, oppure utilizzando la cittadinanza di un Paese Ue ottenuta attraverso i programmi cosiddetti “golden passport” e “golden visa”, eludendo quindi la voce “cittadinanza russa” nella raccolta dei dati. Inoltre, il controllo su una società può essere anche indiretto, ovvero esercitato tramite una persona terza o una holding registrata all’estero.

Il Paese più utilizzato in questo senso è Cipro dove risiede il 17% dell’azionariato russo in Europa, con un valore contabile stimato in 106,5 miliardi di dollari. L’isola del Mediterraneo si conferma dunque quale porto di transito privilegiato per gli investimenti in Europa in arrivo dalla Russia.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bodrero

Ha collaborato

Lorenzo Bagnoli

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Editing

Lorenzo Bagnoli

Foto di copertina

Gennady Timchenko (dx) insieme a Alexey Mordashov (sx) durante una conferenza stampa a Sochi il 18 aprile 2018
(Sasha Mordovets/Getty)

Il boom dei visti d’oro italiani

13 Maggio 2021 | di Matteo Civillini

Èboom di richieste per il visto d’oro italiano, il lasciapassare che permette ai paperoni del mondo di stabilire la residenza nella Penisola in cambio di lauti investimenti. I dati ottenuti da IrpiMedia mostrano come dall’inizio del 2021 le candidature per l’”Investor Visa” abbiano già raggiunto lo stesso numero registrato nei primi due anni e mezzo di vita del programma. Un incremento di interesse vertiginoso, diretta conseguenza della radicale trasformazione del visto promossa dal governo Conte II. A far gola agli investitori sono stati il dimezzamento delle somme necessarie per investimenti in società di capitali e, soprattutto, l’abolizione dell’obbligo di permanenza fisica in Italia. Una modifica, quest’ultima, che a detta degli esperti ha tramutato l’Investor Visa italiano in un vero e proprio visto d’oro, cosiddetti “golden visa”.

«Quello della libertà di spostarsi tra diversi Paesi è un aspetto fondamentale per i cosiddetti high net worth individuals (cioè persone che dispongono di alti redditi, ndr)», spiegava già lo scorso gennaio a IrpiMedia l’avvocato Marco Bersani, a capo di uno studio specializzato in diritto di immigrazione per investitori esteri. «Questa novità – prosegue Bersani – ha reso l’Investor Visa molto competitivo rispetto agli altri Paesi europei».

Oggi i numeri lo confermano: dalla nascita del programma (gennaio 2018) a metà aprile 2021 le domande pervenute al Ministero dello Sviluppo Economico – il dicastero di competenza – sono state 40. Più della metà (23) sono arrivate in seguito alle modifiche apportate dal governo Conte II durante la pandemia per rendere il visto più appetibile. Il 75% delle candidature su cui si è già espresso il Comitato interministeriale ha portato al rilascio del nulla osta con cui, entro sei mesi, l’investitore può richiedere il visto d’ingresso in Italia. Otto domande erano ancora in corso di valutazione al momento dell’invio dei dati da parte del Mise a IrpiMedia.

Come è cambiato il golden visa italiano

Creato dal governo Renzi con la legge di bilancio 2017, l’Investor Visa prevedeva nella sua forma originale la scelta tra quattro tipologie di investimento: due milioni di euro in titoli di Stato, un milione di euro in azioni in società di capitali, 500mila in quote di startup innovative o un milione di euro in donazioni filantropiche.

Dopo lo scarso successo iniziale, il governo ha approfittato della crisi economica legata all’emergenza Covid-19 per trasformare il programma. La prima novità, introdotta nel luglio 2020 con il Decreto Rilancio, è stato il dimezzamento delle somme necessarie per gli investimenti in società di capitali e startup (500mila e 250mila euro rispettivamente). La seconda modifica, invece, è stata apportata a settembre nel Dl Semplificazioni e riguarda l’abolizione dell’obbligo di permanenza fisica in Italia per tutta la durata del visto.

L’investimento in SpA si conferma l’opzione preferita di chi ottiene il pass privilegiato per la residenza in Italia. Quindici domande andate a buon fine riportano l’indicazione del versamento di almeno 500mila euro in società di capitali. I beneficiari dei restanti visti hanno invece barrato le caselle dell’ investimento in startup (4 casi) o dell’acquisto di titoli di Stato (4 casi). Nessuno ha optato per le donazioni filantropiche.

Eni e Unicredit tra i beneficiari degli investimenti

Da quando è partito il nuovo corso del “golden visa” italiano sono però solo due le aziende che hanno effettivamente beneficiato degli investimenti. Si tratta di Eni e Unicredit, due colossi strategici nello scacchiere dell’industria italiana. Entrambe hanno incassato dagli investitori almeno mezzo milione di euro dando così il via libera al rilascio dei visti. Come avevamo già scritto nella precedente inchiesta, le altre due aziende beneficiarie del programma prima del giugno 2020 sono state Prysmian, leader mondiale nell’industria dei cavi per la trasmissione di energia, e l’azienda alimentare Valsoia.

Il faro del Copasir sugli investimenti stranieri in asset strategici

Sull’acquisizione da parte di investitori stranieri di quote rilevanti di asset strategici nazionali ha puntato i fari anche il Copasir, l’organismo di vigilanza del Parlamento sui servizi segreti. In particolare, in una relazione del novembre scorso il Comitato ha analizzato i possibili rischi derivanti dal crescente ingresso di capitali esteri nell’azionariato di “campioni nazionali” del settore finanziario come Unicredit e Generali.

«Le influenze e gli interessi che grandi imprese ed altri soggetti possono proiettare sulle dinamiche economico-finanziarie interne rappresentano un fattore potenzialmente rischioso – scriveva il Copasir – non solo in relazione a ricadute sul versante sociale, industriale e occupazionale, ma anche con possibili minacce agli interessi nazionali».

Il Comitato evidenziava come il passaggio del controllo di istituti di credito in mani straniere potrebbe comportare uno scollamento con il territorio italiano, con un più difficile accesso al credito per le piccole e medie imprese e un reimpiego delle risorse raccolte in Italia fuori dai confini nazionali.

Nello specifico il Copasir aveva acceso i riflettori su Unicredit definendo «preoccupanti» le voci dei mesi precedenti circa la possibile fusione con l’istituto tedesco Commerzbank o le banche francesi Crédit Agricole e Societé Générale. Operazioni successivamente accantonate con il riassetto del management di Unicredit e il passaggio di consegne tra l’ex Ad francese Jean Pierre Mustier e il nuovo numero uno Andrea Orcel.

I nomi delle altre società indicate dagli investitori nella loro candidature non sono stati resi noti, perché, ad oggi, il versamento dell’ammontare non è ancora avvenuto. L’obbligo di perfezionare l’investimento promesso nella domanda scatta, infatti, solo al termine dell’iter burocratico. Fino a sei mesi possono passare tra il rilascio del nulla osta da parte del Mise e la formale richiesta del visto da parte dell’investitore. Dopo l’ingresso in Italia il detentore del “golden visa” ha a disposizione altri tre mesi per inviare la documentazione comprovante l’investimento. Un arco temporale lungo che, complici anche le restrizioni dettate dalla pandemia, ha portato pochi beneficiari del programma a completare il proprio investimento.

Tra i nulla osta concessi da giugno 2020 a oggi, in soli due casi i detentori hanno perfezionamento l’investimento (in Eni e Unicredit, appunto). Un ulteriore versamento sarebbe stato effettuato, ma è ancora in corso di valutazione da parte del Ministero. Due beneficiari hanno fatto trascorrere i sei mesi di validità del documento senza richiedere il visto e, quindi, investire la cifra promessa. Negli altri casi i possessori del nulla osta sono ancora dentro i tempi tecnici per completare la procedura, sebbene ad oggi non l’abbiano fatto.

Dal punto di vista geografico, la Russia guida la classifica delle nazioni di provenienza dei richiedenti con nove candidature. A seguire troviamo Stati Uniti (con sei) e Canada (con cinque) – quasi tutte pervenute nell’ultimo anno – davanti a Cina, Siria e Israele. I dati forniti dal Ministero non permettono di identificare da quale Paesi provengono gli investitori che hanno effettivamente ottenuto il visto.

La rapida impennata di richiedenti del visto italiano per investitori potrebbe portare un ulteriore attenzione sui rischi che da sempre accompagnano questi programmi. A livello mondiale, infatti, i golden visa godono di una reputazione sempre peggiore. Sia per la creazione di corsie preferenziali, dove pagando ci si può assicurare un bene – come residenza o cittadinanza – precluso ai più, sia per l’infiltrazione di investitori pregiudicati nelle liste di chi fa domanda di visto allo scopo di ricostruirsi un’identità. A finire nel mirino sono stati innanzitutto i “passaporti d’oro” di Malta e Cipro che, a differenza di sistemi come quello italiano, concedono una cittadinanza a tutti gli effetti in cambio di investimenti. Nell’ottobre 2020 l’Unione Europea ha aperto una procedura d’infrazione nei confronti dei programmi dei due Paesi del Mediterraneo in quanto avrebbero concesso passaporti «in assenza di un vero legame» dei beneficiari con il Paese stesso. Il mese successivo, Cipro ha chiuso il programma mentre Malta promette di andare avanti senza cambiare una virgola.

Infografiche: Lorenzo Bodrero | Foto: Daniel Sharp/Unsplash | Editing: Luca Rinaldi

Arresti eccellenti e aziende fantasma: il traffico di rifiuti tra Italia e Tunisia

Arresti eccellenti e aziende fantasma: il traffico di rifiuti tra Italia e Tunisia

IrpiMedia
Inkyfada

Duecentoottantadue container di balle di rifiuti italiani arrivati a Sousse, città a 170 km a sud-est da Tunisi, sono al centro di uno scandalo politico in Tunisia. Dall’altro lato del Mediterraneo, la vicenda ha portato prima alle dimissioni e poi all’arresto dell’ex ministro dell’ambiente, Mustapha Laroui, il 21 dicembre 2020. Appena due mesi prima, il 2 novembre, il governo tunisino annunciava l’apertura di un’inchiesta giudiziaria per traffico di rifiuti, ancora in corso.

Sulla lista degli indagati non appare solo il nome dell’ex ministro dell’ambiente, ma anche quello del suo capo di gabinetto, dei direttori dell’Agenzia nazionale per la gestione dei rifiuti (ANGED) e di quella per la Protezione dell’ambiente (ANPI). Oltre a tre funzionari della dogana, il responsabile di un laboratorio di analisi e un impiegato delle poste, risulta essere indagato anche Beya Ben Abdelbaki, console tunisino a Napoli. Per il giudice di Sousse incaricato del dossier, Tarek Saied, sono tutti accusati di aver favorito l’arrivo di 7.900 tonnellate di rifiuti non riciclabili sul suolo tunisino.

I 282 container, partiti dal porto di Salerno tra il 22 maggio e il 20 luglio 2020, contengono tonnellate di rifiuti classificati come 191212, un codice che per il catalogo europeo corrisponde alla dicitura «rifiuti (compresi materiali misti) prodotti dal trattamento meccanico dei rifiuti urbani». Per la ditta che li ha prodotti, la Sviluppo Risorse Ambientali di Polla, piccolo comune di 5mila abitanti in provincia di Salerno, si tratta di rifiuti derivati dalla lavorazione industriale dell’immondizia differenziata. Sono stati inviati in Tunisia, sostiene l’azienda, per un secondo trattamento di valorizzazione in nome della «maggior economicità del processo di recupero rispetto al paese d’origine», si legge sulle carte che accompagnano le spedizioni, ottenute da IrpiMedia.

Per il rappresentante del Ministero dell’Ambiente tunisino Abderrazak Marzouki, invece, nei depositi non arriva materiale riciclabile ma solo «scarti di rifiuti urbani e misti, impossibili da valorizzare» e quindi destinati allo smaltimento in discarica o all’incenerimento, come spiega lui stesso sulla base delle analisi condotte dal tribunale di Sousse in un’email inviata il 15 dicembre 2020 alla Regione Campania e a Sergio Cristofanelli, funzionario del Ministero dell’Ambiente italiano.

Secondo il regolamento europeo sui rifiuti 1013 e la convenzione di Basilea che regola i movimenti transfrontalieri tra un Paese Ue e un Paese extra Ue, l’Italia può esportare rifiuti di questo tipo solo se effettivamente destinati al riciclo. Spetterebbe proprio ai due rappresentanti della Convenzione di Basilea – i cosiddetti focal points italiano e tunisino, dipendenti dai rispettivi ministeri dell’Ambiente – autorizzare o rifiutare la spedizione. Invece la procedura non viene rispettata: i container lasciano il porto di Salerno con il beneplacito della Regione Campania, ma senza l’accordo delle autorità competenti, cioè i rappresentanti della Convenzione di Basilea. A consentire la spedizione è un funzionario dell’Agenzia nazionale per la gestione dei rifiuti (ANGED) della regione di Sousse, oggi in manette. Ad attenderli, c’è una società fantasma che dichiara di esportare plastica e che tra luglio e settembre, prima che l’affare diventi pubblico, ha già ricevuto un totale di 230 mila euro dall’azienda campana Sviluppo Risorse Ambientali.

Secondo il regolamento europeo sui rifiuti 1013 e la convenzione di Basilea che regola i movimenti transfrontalieri tra Paesi UE ed extra Ue, l’Italia può esportare rifiuti di questo tipo solo se effettivamente destinati al riciclo

Insieme ai colleghi tunisini di Inkyfada, IrpiMedia ha indagato su chi sono i protagonisti di quella che in Tunisia è già diventata l’inchiesta giudiziaria più delicata del 2021.

A ricevere i rifiuti, un’azienda fantasma che non può riciclarli

A firmare il contratto con la Sviluppo Risorse Ambientali il 30 settembre 2019 è la ditta tunisina Soreplast, di proprietà di Mohamed Moncef Noureddine, da più di dieci anni nel campo dei rifiuti. Dieci giorni prima del mandato d’arresto inviato dal procuratore di Sousse, il proprietario fugge in Germania.

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La famiglia Noureddine, connessa agli ambienti della dittatura di Ben Ali e tutt’ora vicina al mondo politico, è molto influente nella regione di Sousse. La ditta di Moncef Noureddine viene fondata nel 2009 ma multata dalla dogana nel 2012 per aver falsificato dei documenti sulle quantità delle merci che trattava. Da quel momento, smette ufficialmente di lavorare e non dichiara più nulla al fisco, anche se un ex collega di Mohamed Moncef Noureddine sa che «ogni tanto ottiene qualche commissione in nero sul mercato locale». Ufficialmente Soreplast torna attiva a novembre 2019, due mesi dopo la firma del contratto con la Sviluppo Risorse Ambientali. È allora che il proprietario tenta di mettersi in regola e dichiara al fisco le entrate dell’anno precedente: 1 milione e 300 mila dollari, riporta un documento bancario visionato da IrpiMedia.

Il contratto con Soreplast – firmato durante la prima visita in Tunisia di Alfonso Palmieri, proprietario della Sviluppo Risorse Ambientali ai locali della ditta, come conferma ad IrpiMedia la stessa SRA durante una conferenza stampa a Polla – prevede un tetto massimo di 120 mila tonnellate di rifiuti da esportare a sud del Mediterraneo, divisi in tranches minori. Le tonnellate autorizzate dalla Regione Campania con due decreti dirigenziali – uno del 14 aprile, l’altro dell’8 luglio – sono 12 mila in totale, di cui 7.900 sono arrivate in Tunisia prima che le spedizioni venissero bloccate. Le balle di rifiuti misti sono state trasportate via mare da Salerno a Sousse in 282 containers, di cui solo 70 sono stati trasportati presso i locali di Soreplast. I restanti 212 sono ancora bloccati al porto, sotto sequestro: ogni giorno di sosta dei container costa 26 mila euro alla regione Campania.

Ad attraversare il Mediterraneo con i carichi di rifiuti sono due navi della compagnia turca Arkas, prima la Martine A e poi la Mehmet Kahveci. Tra le condizioni del contratto, si legge nel documento ottenuto da IrpiMedia, i rifiuti fuoriusciti dalla Sviluppo Risorse Ambientali di Polla dovranno essere riselezionati e, per la parte non recuperabile, smaltiti a carico dell’impianto. Il prezzo è 52 euro per ciascuna tonnellata fatta arrivare al porto di destinazione, a cui vanno sommati 85 euro per il trattamento di riciclo: «Un prezzo più che conveniente», conferma un tecnico dei rifiuti incontrato da IrpiMedia in Tunisia.

Dallo statuto societario risulta che al momento della firma del contratto la Soreplast sia una società uninominale che si occupa di «riciclaggio e recupero dei rifiuti post-industriali, plastica e materiali vari». Secondo la ditta italiana, i rifiuti inviati in Tunisia, una volta recuperati, avrebbero dovuto essere trasformati in tubicini di plastica per poi essere riesportati, non è specificato verso dove. Soreplast, infatti, risulta essere una società «totalmente esportatrice»: almeno il 50% di quello che produce deve essere inviato all’estero e non può entrare sul mercato locale.

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Il proprietario di Soreplast, in un documento inviato alla ditta italiana e ottenuto tramite accesso agli atti alla Regione Campania, dichiara di aver già valorizzato le prime 1.900 tonnellate di rifiuti esportate con la prima spedizione del 26 maggio 2020. Di queste, 1840 tonnellate sarebbero state recuperate, ma dei tubicini di plastica ottenuti dal “processo di valorizzazione” non c’è traccia. L’azienda tunisina, infatti, non possiede i macchinari necessari per trattare migliaia di tonnellate di rifiuti misti, come invece dichiara. A confermarlo è il rappresentante della Convenzione di Basilea in Tunisia, Abderrazak Marzouki, in una mail confidenziale inviata al Ministero dell’Ambiente italiano il 23 novembre 2020: «La società non dispone dei mezzi materiali e umani né della tecnologia necessaria per riselezionare i rifiuti importati da Sviluppo Risorse Ambientali», afferma Marzouki. Lo sostiene anche il rapporto della commissione d’inchiesta del parlamento tunisino istituita ad hoc per il caso dei rifiuti italiani: «Soreplast non è in grado di procedere al riciclo dei rifiuti arrivati in Tunisia, il che fa sorgere dubbi rispetto alla veridicità delle operazioni di recupero che l’azienda intende realizzare».

L’entrata (sx) del deposito a Moureddine dove è stato scaricato (dx) il contenuto di 69 containers – Foto: IrpiMedia/Inkyfada

I container scaricati in mezzo al nulla: che fine hanno fatto i rifiuti?

A Soreplast non mancano solo i macchinari necessari alla valorizzazione, ma anche lo spazio dove depositare i rifiuti. La sede dell’azienda nella zona industriale di Sousse è composta da un ufficio e un piccolo magazzino dove è stato depositato il contenuto di un solo container. I restanti 69 sono stati scaricati in un secondo deposito affittato da Soreplast a 15 chilometri da Sousse, a Moureddine. In questo villaggio di 5mila abitanti in piena campagna, accanto al capannone contenente i rifiuti si trova un edificio in costruzione, senza tetto né finestre, con mattoni e sabbia ancora impilati di fronte ad una lamiera che funge da porta. Una targa indica: «Soreplast, azienda sotto controllo doganale». Nel villaggio agricolo tutti sono a conoscenza del caso: «Abbiamo visto arrivare i container», racconta una donna mentre sorveglia un gruppo di pecore al pascolo proprio di fronte al deposito. Un passante punta il dito contro la targa Soreplast: «Quest’edificio è stato costruito sei mesi fa in tutta fretta, prima non c’era».

Secondo Alfonso Palmieri della Sviluppo Risorse Ambientali, quando si reca in Tunisia «c’era un capannone grigio e rosso, come si vede nelle foto delle emittenti tunisine, con macchine installate, nastri di selezione, pressa compattatrice e un guardiano».

Moncef Mohamed Noureddine affitta anche un secondo deposito nella località di Sidi El Hani (30 km da Sousse), un villaggio da meno di tremila abitanti in un mucchio di case sparse intorno alla strada che da Sousse porta a Kairouan, importante città dell’entroterra tunisino. Rimasto inutilizzato, nel capannone di Sidi El Hani Soreplast avrebbe dovuto scaricare il contenuto dei 212 container bloccati al porto. Entrambi i depositi sono situati accanto a due centri di raccolta dei rifiuti gestiti dall’Agenzia nazionale per la gestione dei rifiuti (ANGED), l’ente ministeriale che in Tunisia tratta i rifiuti. Quello di Moureddine dista solo dieci minuti di auto dalla discarica statale del governatorato di Sousse, dove vengono interrati i rifiuti urbani provenienti da tutta la regione.

Secondo la testimonianza di un attivista per i diritti ambientali attivo nella regione, che preferisce rimanere anonimo per paura di ritorsioni, non è un caso: «Mohamed Moncef Noureddine intendeva trasportare i rifiuti arrivati dall’Italia direttamente in discarica, senza procedere ad alcuna operazione di riciclo», racconta l’attivista.

A marzo 2020 Soreplast ha effettivamente firmato un accordo per avere accesso alla discarica di Sousse dove, secondo il decreto dirigenziale della Regione Campania, avrebbe dovuto smaltire la parte non riciclabile dei rifiuti in arrivo da Polla. Secondo i documenti visualizzati da IrpiMedia sull’effettivo smaltimento dei primi 70 container, almeno 129 tonnellate di scarti provenienti dal deposito di Moureddine sarebbero già finite nella discarica poco lontana, ma non appaiono sul registro dell’ente che la gestisce, l’ANGED. Il sindaco di Moureddine, contattato da IrpiMedia, nega qualsiasi coinvolgimento e afferma di non avere idea di che fine abbiano fatto.

La discarica regionale di Sousse per i rifiuti urbani di Ouled Laya, a dieci minuti di auto da Moureddine – Foto: IrpiMedia/Inkyfada

Si sospetta quindi che siano stati inviati in Tunisia rifiuti non riciclabili per essere direttamente interrati in discarica, senza procedere alle operazioni di riciclo che ne giustificano l’esportazione, violando le norme europee sul movimento transfrontaliero di rifiuti, la Convenzione di Basilea e quella di Bamako (un trattato firmato dai Paesi africani che impedisce l’arrivo sul continente di rifiuti che non siano smaltiti in maniera ecologica).

Soreplast, che si occupa di polimeri, cioè plastica, non è in grado di riciclare i rifiuti con codice 191212 ricevuti da Sviluppo Risorse Ambientali. Per poter ricevere i rifiuti campani, l’azienda tunisina dichiara il falso in dogana, presentando una richiesta di autorizzazione allo sbarco con un codice diverso da quello presente sulle carte che accompagnano i container. Soreplast prova così a far passare i rifiuti di tipo 19, misti, come pura plastica, si legge nel documento doganale. La ditta tunisina deposita anche delle analisi a sostegno della sua dichiarazione, ma il direttore del laboratorio in questione si trova oggi in detenzione, sospettato di averne falsificato i risultati. A fine settembre 2020, l’azienda fa un ultimo tentativo: cambia il proprio oggetto sociale e su carta diventa una «ditta per il riciclo e la valorizzazione dei rifiuti urbani». Troppo tardi.

Cosa sono i rifiuti non pericolosi classificati con codice CER 191212 e Y46?

Il primo, 191212, indica la composizione del rifiuto secondo il Codice Europeo del Rifiuto (CER). Corrisponde alla dicitura: «Rifiuti (compresi materiali misti) prodotti dal trattamento meccanico dei rifiuti urbani». L’Italia produce circa 30 milioni di tonnellate di rifiuti urbani l’anno e dovrebbe riciclarne almeno il 65%, obiettivo che però non riesce a raggiungere. Come ci impone la legislazione europea, l’indifferenziata va infatti selezionata una o più volte per separare la frazione riciclabile dallo scarto finale, che andrà poi smaltito in discarica o incenerito. Ma questo ha un costo e in Italia mancano gli impianti necessari.

«Una piattaforma raccoglie l’indifferenziata e seleziona la parte pregiata, che sarà consegnata ad un consorzio nazionale, mentre la parte residuale, il cosiddetto scarto, viene bollato con il codice 19 – spiega Claudia Silvestrini, direttrice del consorzio Polieco -. Il rifiuto 19 può essere inviato ad un’altra piattaforma che lo riseleziona oppure viene spedito in altri Paesi, dove poi bisogna vedere se l’impianto finale esiste ed è in condizione di riceverlo». Dalla Campania proviene il 95% dei 191212 esportati da tutta Italia, che a loro volta rappresentano il 17% del totale dei rifiuti mandati all’estero. A riceverli sono principalmente Spagna, Portogallo, Danimarca ed Est Europa.

Il codice Y46 invece fa riferimento alla classificazione stabilita dalla Convenzione di Basilea sui movimenti transfrontalieri e corrisponde alla dicitura di “rifiuti urbani”. L’Y46 implica un potenziale rischio di pericolosità. «I rifiuti così contraddistinti richiedono quindi un controllo speciale», spiega Silvestrini, ed è per questo che insieme ai documenti di spedizione parte un certificato di analisi rilasciato da un laboratorio napoletano che ne attesta la non pericolosità. Il codice Y46 è quello più prossimo al CER 191212.

Per Claudia Salvestrini, direttrice del Consorzio Polieco (Consorzio per il riciclaggio dei rifiuti di beni a base di polietilene, ndr), «il fatto che un materiale prevalga non rende i rifiuti riciclabili: posso avere un carico di sola plastica di cui solo il 2% è riciclabile». Secondo l’esperta, le foto del contenuto dei container non lasciano dubbi: «Si tratta chiaramente di rifiuti mescolati di provenienza urbana». Per Salvestrini, il codice CER 191212 non aiuta a definire chiaramente il contenuto dei container ma, al contrario, rappresenta una sorta di «insalata russa dei rifiuti», perché la sua definizione apre a tante modalità di conferimento e ingloba sia un rifiuto urbano ancora riciclabile, sia lo scarto finale da mandare in discarica o da incenerire, il cosiddetto «ultimo nastro». «L’azienda di Polla potrebbe aver mescolato insieme allo scarto dei rifiuti urbani anche rifiuti di altra provenienza, ammassati vecchi tipo ecoballe o rifiuti di altre piattaforme che hanno preso fuoco, per poi inviare tutto in Tunisia», spiega ancora Salvestrini.

La procedura: chi autorizza la spedizione verso la Tunisia?

Ma allora, perché la regione Campania autorizza questa spedizione transfrontaliera? Al di là della composizione non chiara dei rifiuti esportati, è la stessa procedura che sembrerebbe esser stata raggirata. Antonio Barretta, dirigente per la Regione Campania della Direzione Generale per il Ciclo integrato delle Acque e dei Rifiuti e responsabile del procedimento, non si rivolge infatti al rappresentante italiano della convenzione di Basilea sui movimenti transfrontalieri di rifiuti, ma al Consolato tunisino di Napoli.

Il 16 marzo, Barretta scrive una mail al consolato per verificare che l’autorità tunisina a cui rivolgersi per ottenere le autorizzazioni necessarie all’export sia effettivamente l’Agenzia Nazionale per la Gestione dei Rifiuti (ANGED), come indicato dall’azienda campana. Spetterebbe in realtà al rappresentante della convenzione di Basilea presso il ministero dell’Ambiente, ma il consolato tunisino conferma che l’autorità competente è l’Agenzia Nazionale per la Gestione dei Rifiuti nella figura di Makram Baghdadi, un semplice assistente dell’amministrazione di Sousse.

Secondo il rapporto della commissione parlamentare d’inchiesta, già a fine febbraio, prima dell’ok da parte della regione Campania, Makram Baghdadi ha firmato tutte le autorizzazioni necessarie alla Soreplast per importare rifiuti. Per questo oggi è indagato.

Chi è Sviluppo Risorse Ambientali

La Sviluppo Risorse Ambientali srl è un’azienda di selezione, recupero, valorizzazione, trasformazione e smaltimento di rifiuti con sede a Polla, in provincia di Salerno, a ridosso del parco del Cilento e Vallo Di Diano. Sul sito dell’azienda si legge che la ditta «non è una semplice azienda operante nel campo del trattamento dei rifiuti ma è parte integrante dei grandi sistemi di recupero e riciclo». Si occupa della raccolta differenziata di diciotto Comuni nel parco del Cilento. L’amministratore unico della società è Antonio Cancro ma la società è controllata dal gruppo Palmieri nella persona di Alfonso Palmieri che possiede il 90% delle quote societarie, oltre ad essere anche amministratore della Kyklos Ambiente srl, un’altra azienda di recupero e riciclaggio di rifiuti solidi. Il restante 10% è di Federico Palmieri.

Chi è Alfonso Palmieri? E qual è la storia della Sviluppo Risorse Ambientali? L’azienda nasce nel 2008 dalla cessione di un ramo della Fond.Eco srl alla Sviluppo Risorse Ambientali, azienda dove ci sono stati diversi roghi, l’ultimo lo scorso agosto. Le aziende Fond.Eco, Sviluppo Risorse Ambientali e la ditta Palmeco srl con sede a Battipaglia sono tutte indirettamente riconducibili a Tommaso Palmieri, padre di Alfonso.

La FondEco e la Sra, e con loro Tommaso ed Alfonso Palmieri, circa cinque anni fa sono finite al centro di una inchiesta giudiziaria condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Salerno. Per i magistrati, Tommaso Palmieri era a capo di un’organizzazione che riciclava ingombranti provenienti anche dalla vicina Basilicata. Per la Dda furono commesse irregolarità nello smaltimento dei rifiuti. In alcuni casi la raccolta era avvenuta senza le prescritte autorizzazioni. Stando a quanto sostenuto dall’accusa, in un sito di Polla deputato a ricevere e smistare il risultato della differenziata, arrivavano anche rifiuti “sporchi”, con varie tipologie mischiate tra loro.

Al termine dell’inchiesta sono stati emessi 41 avvisi di garanzia nei confronti anche di alcuni collaboratori dell’azienda ed amministratori comunali. Il processo di primo grado dinanzi ai giudici della seconda sezione penale di Salerno è iniziato alla fine del 2016 e per alcuni reati già si profila la prescrizione. Al processo per associazione per delinquere e smaltimento illegale di rifiuti sono stati indagati tra gli altri Tommaso e Alfonso Palmieri, Antonio Cancro, amministratore unico della Sviluppo Risorse Ambientali e Luigi Cardiello, detto «Re Mida» che, dagli anni ‘90, è stato indagato da diverse Procure per smaltimento illecito dei rifiuti.

Una volta ottenuta la conferma del consolato, in Italia la procedura avanza spedita.

Il 30 marzo, in piena pandemia, lo stesso dirigente regionale scrive al Ministero dell’Ambiente italiano chiedendo se ci sono particolari restrizioni al trasferimento dei rifiuti dall’Italia alla Tunisia, ma non ottiene risposta. Passano quindici giorni e il 14 aprile 2020, un decreto della giunta regionale autorizza l’azienda campana al trasporto verso Sousse delle prime 230 spedizioni per 6mila tonnellate di rifiuti. Ne seguirà un secondo, l’8 luglio, per le restanti 6 mila tonnellate delle 12 mila previste. Lo stesso giorno, dall’altra parte del Mediterraneo, nell’ufficio della direzione della dogana si tiene una riunione che riunisce diciassette dirigenti e funzionari tra l’ANGED, il Ministero dell’Industria e la dogana. Due settimane prima, il capo settore della dogana di Moureddine si è reso conto che il contenuto dei container non corrisponde a ciò che dichiara Soreplast, e lo segnala ai suoi superiori. Durante la riunione dell’8 luglio, per la prima volta viene menzionato il rischio di traffico illecito. I container vengono così bloccati al porto. 

Il caso scoppierà solo a novembre, quando il canale tunisino El-Hiwar Ettounisi trasmette un servizio sull’arrivo dei rifiuti italiani. Prima di allora, il ministero dell’Ambiente tunisino non interviene né sollecita i rappresentanti della Convenzione di Basilea, l’autorità di riferimento. I 212 container mai scaricati restano fermi al porto e la regione Campania richiama più volte Sviluppo Risorse Ambientali, chiedendo di sbloccare la situazione. «La ditta Soreplast ha assicurato che la prossima settimana provvederà alle operazioni di ritiro e lavorazione dei rifiuti. A tal proposito, un nostro amministratore unico ha delegato un dipendente perché si rechi a Sousse per assistere alle operazioni di riciclo», risponde l’azienda di Polla alla Regione in una mail. Ma i rifiuti rimangono lì.

«C’è un inizio di contaminazione dei rifiuti liquidi, di percolato e delle emissioni gassose che costituiscono un rischio per la salute pubblica e per l’ambiente», scrive invece Abderrazak Marzouki, vicedirettore del dipartimento prevenzione dei rischi del Ministero dell’Ambiente tunisino al funzionario del Ministro dell’Ambiente italiano Sergio Cristofanelli in uno scambio di mail confidenziali.

Passano diverse settimane e le autorità italiane non rispondono, poi il 27 novembre qualcosa si sblocca e iniziano a collaborare. Con la mediazione delle autorità della convenzione di Basilea – a cui si sarebbe dovuto far riferimento fin dal principio – le discussioni avanzano sul piano della diplomazia: il dossier è oggi nelle mani dei rispettivi ministri degli Esteri.

Nel frattempo, su richiesta della Tunisia, la Regione Campania ha chiesto a Sviluppo Risorse Ambientali di riprendersi i rifiuti. Attraverso il suo avvocato, l’azienda italiana ha però fatto sapere che non ha alcuna intenzione di farlo a meno che sia completamente risarcita o dallo Stato tunisino o da quello italiano. Il 2 febbraio, però, il Tar ha ritenuto inammissibile il ricorso presentato da Sviluppo Risorse Ambientali.

CREDITI

Autori

IrpiMedia
Inkyfada

Infografiche & Mappe

Lorenzo Bodrero

Editing

Lorenzo Bagnoli

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