Visti d’oro in Italia: il lasciapassare per i “paperoni” del mondo

#GoldenVisa

Visti d’oro in Italia: il lasciapassare per i “paperoni” del mondo
Lorenzo Bagnoli
Matteo Civillini

La storia dei visti per investitori in Italia è cominciata con Matteo Renzi e si è evoluta con Giuseppe Conte. I due protagonisti dell’attuale crisi di governo sono accomunati dalla stessa sete di fondi esteri da far atterrare in Italia. Con Matteo Renzi come primo ministro, l’Italia ha introdotto per la prima volta il concetto di “Investor visa”, un tappeto rosso per l’ingresso nel Paese in cambio di lauti investimenti. Si tratta della formula più light dei cosiddetti “passaporti d’oro” perché concede un visto di durata biennale, mentre i programmi di altre nazioni garantiscono cittadinanze a tutti gli effetti. Il senso però è lo stesso: dare la possibilità ai super ricchi di fissare la propria residenza in Italia pur senza avere legami che vanno al di là dei denari investiti. Il visto per un imprenditore non-comunitario ha molte attrattive, tra cui la possibilità di circolare nell’Eurozona senza limitazioni.

Con lo scoppiare dell’emergenza Covid, il governo italiano guidato da Giuseppe Conte ha introdotto un rafforzamento di questo programma in nome del rilancio del made in Italy, visti i risultati finora fallimentari in termini di numeri di domande d’ingresso. Sono gli esperti del settore a dire che ora l’Italia ha un suo golden visa vero e proprio. Con tutti i problemi che questo sistema si trascina, tanto è vero che in Europa inizia ad avere una lunga storia di controversie. In passato, i programmi di golden visa sono stati criticati dall’Unione europea, sia per la tipologia di bene ceduto – la residenza o la cittadinanza- sia per l’infiltrazione di investitori pregiudicati nelle liste di chi fa domanda di visto allo scopo di ricostruirsi un’identità.

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A questo poi si aggiunge un tema tutto italiano: la giustizia fiscale. Nel 2020, l’Agenzia delle entrate ha calcolato in 90 miliardi di euro il buco all’erario prodotto dall’evasione e, al contempo, la tassazione è sempre considerata troppo pesante, da imprenditori e dipendenti. Chi porta la propria residenza fiscale all’estero viaggia in un sistema parallelo, fuori dalla logica delle aliquote progressive. Lo sconto fiscale per i neo residenti è comune anche ad altri programmi europei, ma la durata – 15 anni – è una prerogativa italiana. La logica è chiara: meglio meno soldi subito, che zero soldi in futuro. Tuttavia l’interrogativo su quanto questa soluzione sia equa, soprattutto nel lungo periodo, rimane.
Il mantra del rilancio dell’Italia

A leggere le presentazioni del programma, la motivazione che ha spinto verso i golden visa è il rilancio del “made in Italy”, uno dei mantra che si ripetono ciclicamente, soprattutto in tempi di crisi economiche. Le infrastrutture per rendere l’Italia più attrattiva sono diventate più solide a partire dal varo dello Sblocca Italia, promosso sempre dal governo Renzi nel 2014. Il decreto ha introdotto il Comitato Attrazione Investimenti Esteri (Caie), un organismo interministeriale che ha lo scopo di proporre normative che favoriscano gli investimenti esteri; fare da osservatorio sulle politiche in atto e di raccordare le istituzioni che lo compongono (il ministero dello Sviluppo Economico, il ministero degli Esteri, Ministero delle Finanze, Ministero della Pubblica amministrazione e Conferenza Stato-Regioni) con gli uffici esteri dell’Agenzia per la promozione e l’internazionalizzazione dell imprese (Ice).

È una sorta di ufficio pubbliche relazioni che rappresenta l’Italia e le sue imprese nel grande libero mercato tra nazioni. La competizione è su due piani: quello delle aziende italiane nei Paesi esteri (per conquistarsi appalti, commesse e clienti, favorendo l’export) e quello tra nazioni, in cui il marchio Italia compete con quello degli altri Paesi. Tutto l’apparato di marketing si basa da un lato su luoghi comuni più o meno veri e più o meno instillati ormai nell’immaginario comune collegato all’Italia (mare, sole, città d’arte, buon cibo, gente simpatica – elementi di questo genere), dall’altro si gioca quanto l’Italia offre in termini di vantaggi (fiscali e non solo) a un investitore straniero.

L’investor visa dopo la pandemia

Introdotto con la legge di bilancio 2017, l'”Investor visa” italiano nella sua declinazione originale prevedeva che i richiedenti potessero scegliere tra quattro diversi investimenti: due milioni di euro in titoli di Stato, un milione di euro in azioni in società di capitali, 500mila in quote di startup innovative o un milione di euro in donazioni filantropiche, categoria quest’ultima che rappresenta una particolarità del sistema italiano, finalizzata a recuperare nuovi mecenati della cultura. Risultati per quest’ultima strada, al momento zero, alla faccia della cultura prodotto d’eccellenza del made in Italy. Oltre all’erogazione di denaro, come per tutti i possessori del permesso di soggiorno, agli investitori veniva chiesta la sottoscrizione dell’accordo di integrazione e l’obbligo della continuità di soggiorno sul territorio italiano.

Poi c’è stato il ribaltone. Durante la pandemia, il governo ha inserito una serie di modifiche chiave che hanno trasformato il primo timido tentativo di visto per investitori in un golden visa competitivo con quanti ne esistono in Europa. Il primo cambiamento è arrivato con il Decreto Rilancio, il primo provvedimento dell’esecutivo pensato per rispondere alla crisi economica innescata dalla pandemia da Covid-19. Le categorie d’investimento attraverso cui ottenere il visto sono rimaste le stesse, ma le somme necessarie per gli investimenti in società di capitali e startup sono state dimezzate (500mila e 250mila euro rispettivamente). Dopo cinque anni, stante la normativa attuale, il titolare di “Investor visa” può richiedere il «permesso di soggiorno permanente», che in pratica dà accesso agli stessi diritti, ma senza scadenza.

Originariamente, i richiedenti potevano scegliere tra quattro tipi di investimenti: due milioni di euro in titoli di Stato, un milione di euro in azioni in società di capitali, 500mila in quote di startup innovative o un milione di euro in donazioni filantropiche

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La seconda novità, ancor più decisiva, è stata apportata a settembre nel Dl Semplificazioni e riguarda l’abolizione dell’obbligo di permanenza fisica in Italia per tutta la durata del visto. «Quello della libertà di spostarsi tra diversi Paesi è un aspetto fondamentale per i cosiddetti high net worth individuals (cioè persone che dispongono di alti redditi, ndr)», spiega l’avvocato Marco Bersani, a capo di uno studio specializzato in diritto di immigrazione per investitori esteri. «Questa novità – prosegue Bersani – ha reso l’Investor Visa molto competitivo rispetto agli altri Paesi europei e questo ha scaturito un grande interesse nel programma italiano». Il punto di forza, evidenzia il Ministero dello Sviluppo Economico, sarebbe la sua rapidità: al richiedente, infatti, viene garantita la comunicazione dell’esito della sua candidatura entro 30 giorni dall’invio.

«Prima del Covid – aggiunge l’avvocato Bersani – avevamo trattato 3-4 domande, numeri irrisori. Nessuno conosceva questo programma». La svolta c’è stata con le modifiche dei Dl Rilancio e Semplificazioni: «Nell’ultimo anno abbiamo ricevuto una quarantina di richieste di interessamento per questo visto. Probabilmente nel 2021 le domande saranno ancora superiori perché vedo che, a differenza del passato, ora l’Investor Visa è molto pubblicizzato all’estero e – conclude Bersani – viene considerato un programma competitivo».

L’iter di approvazione

L’iter prevede la valutazione della domanda da parte di un comitato che comprende rappresentanti dei ministeri dello Sviluppo Economico, dell’Interno, degli Esteri, della Guardia di finanza e dell’Agenzia delle entrate. A loro spetta il compito di verificare la documentazione presentata dai candidati. Tra questa una dichiarazione che la somma da investire sia di provenienza lecita e un certificato di insussistenza di condanne penali definitive, oltre che, ovviamente, al prospetto dall’investimento proposto.

Se non ci sono obiezioni, il comitato concede il nulla osta all’emissione di un visto per investitori, che il richiedente può utilizzare entro sei mesi dal rilascio. Una volta ottenuto, il visto (della durata di due anni), al beneficiario non resta che fare ingresso in Italia e presentare domanda per il permesso di soggiorno.

I dati sul golden visa made in Italy

I dati che IrpiMedia ha ottenuto dal Ministero dello Sviluppo Economico coprono la prima fase temporale del golden visa all’italiana. Raccontano, in effetti, di un mezzo fallimento: dall’inizio del 2018 a metà giugno 2020 sono arrivate soltanto 17 candidature, di cui dieci hanno portato al rilascio del visto e una ancora in valutazione al momento della nostra richiesta. In cima alla lista delle nazioni di provenienza dei richiedenti troviamo Russia e Siria – con quattro a testa – seguite da Cina, Israele (con due) e Brasile, Canada, Corea del Sud, Emirati Arabi e Turchia (una).

Una geografia che, a detta degli operatori del settore, sarebbe parzialmente mutata negli ultimi mesi. Al fianco di un rafforzato interesse da parte di investitori asiatici e russi, si sono infatti trovati di fronte a un boom di richieste dagli Stati Uniti. «Soprattutto prima delle elezioni presidenziali, con il rischio percepito di instabilità politica – racconta l’avvocato Marco Bersani – siamo stati avvicinati da numerosi americani alla ricerca di una via d’uscita che hanno individuato anche nell’Investor Visa italiano».

Tra le opzioni di investimento disponibili, l’acquisto di quote di società di capitali e, in minor misura la startup innovativa (qui il registro imprese “speciale”), fa maggiormente gola ai richiedenti del golden visa. Le aziende di questo genere usufruiscono già di Smart&Start Italia, un sistema di incentivi che prevede agevolazioni, accesso al credito e un fondo per le imprese che nascono a Sud. A gestire il meccanismo è InvItalia, l’Agenzia nazionale per lo sviluppo che dipende dal Ministero delle Finanze di cui è amministratore delegato l’ubiquo Domenico Arcuri. È infatti lo stesso Commissario straordinario nominato dal governo «per l’attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica Covid-19».

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Matteo Civillini

Mappe

Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi

Visti d’oro in Italia: ecco chi li sta utilizzando

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Visti d’oro in Italia: ecco chi li sta utilizzando

Lorenzo Bagnoli
Matteo Civillini

Nella puntata precedente abbiamo raccontato dell’approdo dei cosiddetti “visti d’oro” in Italia, osservando come si sia passati dalle diciassette candidature in due anni (2018-metà 2020) al boom nella seconda parte dell’anno appena passato, in cui un singolo studio legale che si occupa di queste pratiche ha rivelato a IrpiMedia di averne trattate oltre quaranta. In questo arco temporale, complici i decreti Rilancio e Semplificazione, un singolo studio che si occupa di tali pratiche, sentito da IrpiMedia, ha rivelato di aver istruito almeno quaranta pratiche per l’accesso alla cittadinanza per investimento. Siamo oggi in grado di aggiungere un ulteriore tassello, rivelando le società in cui i nuovi cittadini/investitori hanno investito per acquisire la cittadinanza.

Chi ha ricevuto i “golden investments”

Nel vecchio corso del golden visa, tra il 2018 e la prima metà del 2020, quattro domande andate a buon fine hanno portato al versamento di un milione di euro ciascuna in S.p.A. italiane. Per la prima volta IrpiMedia è in grado di indicare alcune delle aziende beneficiarie.

A ricevere un investimento è stata Prysmian, leader mondiale nell’industria dei cavi per la trasmissione di energia e per sistemi di telecomunicazioni. Una goccia nel mare per un colosso da 7,5 miliardi di euro di capitalizzazione. Più pesante in termini relativi, invece, la somma finita dentro Valsoia, altro beneficiario dell’Investor Visa. L’azienda specializzata in produzione di alimenti vegetali ha una capitalizzazione azionaria di circa 140 milioni di euro.

Chi siano le altre due S.p.A. ad aver incassato il milione di euro a testa non è dato sapersi. Il Ministero per lo sviluppo economico ha omesso i nomi facendo leva su un’eccezione della normativa che regola l’accesso agli atti. Unico dato certo è che si tratta di società quotate a partecipazione pubblica. Potrebbe essere una delle sei aziende controllate a maggioranza dal Tesoro: Banca Monte dei Paschi, Enav, Enel, Eni, Leonardo e Poste Italiane.

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Estratto della risposta alla richiesta di acceso agli atti di IrpiMedia presso il Ministero dello sviluppo economico

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Fino al giugno scorso sono stati solo due gli investitori che hanno barrato la casella dell’investimento in una startup innovativa. Ed entrambe hanno indicato lo stesso beneficiario: Its Energy Srl. Fondata nel 2017 a Milano, ma realmente operativa solo dall’aprile 2019, l’azienda sembra avvolta nel mistero. Online si trova solo un sito web di una pagina nella quale Its Energy promette di realizzare “la rivoluzione nel trading”. Come? Attraverso una piattaforma digitale che avrebbe lo scopo di facilitare la compravendita di crediti immobiliari, in particolare nella categoria dei cosiddetti non-performing loans (Npl). Ovvero prestiti in sofferenza che i debitori non sono sono in grado di rimborsare e che hanno un immobile come patrimonio a garanzia. Un mercato molto delicato e ad alto rischio dove, normalmente, ad acquistare portafogli di crediti deteriorati dalla banche sono fondi d’investimento specializzati. Operatori finanziari di grandi dimensioni che spesso fanno a loro volta fatica a gestire gli Npl accaparrati in fretta e furia negli ultimi anni.

L’ambizione di Its Energy sarebbe invece quella di spalancare le porte del mercato ai privati cittadini. Come si legge nel prospetto della startup, attraverso la piattaforma i singoli risparmiatori potrebbero trattare direttamente con le banche l’acquisto di crediti. Agli investitori verrebbero inoltre messi a disposizione «strumenti di realtà aumentata» allo scopo di effettuare perizie dei crediti offerti. Seppur innovativa, l’idea potrebbe attirare risparmiatori inesperti non in grado di valutare il reale grado di rischio degli investimenti.

Ad oggi, quale sia lo stato dell’arte delle attività di Its Energy non è chiaro. Nel bilancio del 2019 (l’ultimo depositato) l’azienda riportava un valore della produzione pari a zero, costi per circa mille euro e poco più di 5mila euro in disponibilità liquide. Un quadro generale molto diverso da quello di una startup di successo. Nel febbraio 2020, però, sarebbero entrati i capitali di due cittadini cinesi, che grazie all’investimento in Its Energy hanno ottenuto il golden visa.

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Il golden visa del mattone

All’inizio fu Confedilizia, il segmento di Confindustria legato all’industria immobiliare, e la Fiabci, la federazione internazionale degli immobiliaristi. Già nel 2013 le due organizzazioni di categoria chiedevano all’Italia di adottare misure per attrezzarsi con un proprio golden visa. «L’Italia – scriveva il presidente italiano di Fiabci Giancarlo Bracco in una lettera aperta rivolta all’allora primo ministro, Enrico Letta – secondo le statistiche è ai primi posti nella lista di gradimento dei Paesi preferiti da questa tipologia di investitori, i quali non sono unicamente grandi società o realtà istituzionali, ma famiglie che, investendo nell’acquisto di immobili, producono un grande beneficio per tutto il territorio».

Paradossalmente, nonostante il mondo dell’immobiliare sia quello che più si è speso per aprire l’Italia alla cittadinanza per investimento, ad oggi quello sul mattone non è uno degli investimenti possibili per ottenere l’Investor Visa. Durante un convegno organizzato a Roma nel dicembre 2017, il direttore del portale Investor Visa Italy Raffaele Miele ha precisato che «gli investimenti immobiliari possono “facilitare” il rilascio di un visto d’ingresso, sia esso per “residenza elettiva” o per “turismo”; ma, in entrambi i casi, non è “matematicamente” certo che all’investimento immobiliare corrisponda il rilascio del visto, non è consentito svolgere attività lavorativa».

Confedilizia a margine degli Stati generali dell’Economia convocati dal governo di Giuseppe Conte a giugno del 2020 ribadiva la necessità di attrarre investimenti nel settore immobiliare attraverso i golden visa, citando gli investimenti esteri nel settore immobiliare attratti dal 2013 da Malta (250 milioni di euro), Spagna (3 miliardi), Portogallo (5 miliardi) e Grecia (3 miliardi). Ad altre latitudini, Dubai ha costruito il successo degli ultimi 20 anni calamitando investimenti immobiliari dei super ricchi del mondo. In più c’è tutto il tema della ricaduta degli investimenti nell’economia reale.

Dal punto di vista di chi analizza e indaga il crimine finanziario transnazionale, però, l’esclusione del settore immobiliare è una precauzione ragionevole, dato che non è tra i più alti in termini di produttività ed è un settore privilegiato per operazioni di riciclaggio (lo scrive, per esempio il centro di ricerche dell’Università Cattolica Transcrime). Per altro, per quanto il settore lamenti la scarsità di investimenti, alcuni dei più grandi progetti con fondi esteri sono già legati all’industria del mattone. Durante la presentazione del Tour italiano attrazione investimenti del 2018, ad esempio, il Comitato investimenti esteri ha presentato, tra gli altri, il progetto per la realizzazione del centro commerciale più grande d’Europa (155mila metri quadri), il Westfield Milano, finanziato dal gruppo australiano Westfield. L’inaugurazione prevista è per il 2022, ma la pandemia potrebbe far cambiare i programmi.

Le controversie sul programma

Seppur in Italia le residenze per investimento inizino a decollare solo adesso, il mondo dei golden visa in Europa gode di una reputazione sempre peggiore. La versione di “passaporto d’oro” che offre la cittadinanza e non il visto, a Malta e Cipro è costata un’infrazione mossa dall’Unione europea a ottobre 2020. Il mese successivo, Cipro ha chiuso il programma mentre Malta promette di andare avanti senza cambiare una virgola. Il problema connaturato a questo meccanismo per attrarre capitali, in realtà, varca di molto il perimetro dei golden visa in tutte le sue varianti. Riguarda le possibili forme di concorrenza sleale provocate delle politiche di certi Paesi, con il risultato, alla fine, di facilitare reati fiscali di vario genere.

Già nel 2014 l’Ocse, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, ha costruito un software, il Common reporting standard (Crs), per migliorare lo scambio di informazioni tra enti di vigilanza e contrastare l’evasione fiscale. I diversi governi adottano la procedura Crs su base volontaria (nell’Europa geografica, il Montenegro, in cui vige un sistema di golden visa, non ne fa parte) principalmente allo scopo di rintracciare i soldi all’estero di un cittadino del proprio Paese. Secondo l’Ocse, le varie forme di golden visa rischiano però di vanificare il Crs, rendendo più difficile la due diligence fiscale. A questo si aggiunge il fatto che ormai numerose inchieste hanno dimostrato come siano sfuggiti ai controlli diversi pregiudicati che hanno ottenuto il visto o la cittadinanza in un Paese europeo. Per questa serie di motivi, il Tax Secrecy Index, l’indice di opacità fiscale pubblicato ogni anno dalla ong Tax Justice network, considera il fattore come negativo.

Seppur in Italia le residenze per investimento inizino a decollare solo adesso, il mondo dei golden visa in Europa gode di una reputazione sempre peggiore

L’editoriale

Passaporti d’oro: così si alimenta l’industria della diseguaglianza

Passaporti comprati a fronte di investimenti fatti nel Paese da cui si acquista la cittadinanza. La commissione europea contro lo Ius Doni: a rischio equità e giustizia fiscale

Si possono poi fare altre valutazioni, di ordine più politico. Davvero gli investimenti esteri tramite golden visa possono essere il volano della ripresa economica in Italia? I visti d’oro hanno certo contribuito a Malta o Cipro a uscire da una crisi economica, ma lo scotto da pagare sono state pesanti crisi di governo dovute principalmente alla corruzione crescente. L’industria dei visti d’oro è un settore a rischio.

C’è poi un tema legato alla giustizia fiscale. La principale agevolazione del golden visa italiano, sul piano della tassazione, consiste in un’imposta unica sostitutiva sui redditi in ingresso provenienti dall’estero, che vale per tutti i neo residenti. È sempre pari a 100mila euro. Per ciascun familiare che si vuole ricongiungere, se ne aggiunge un’altra da 25 mila euro. Ci sono poi altri vantaggi meno immediati, come lo sconto dell’imposta di successione, quello sui trasferimenti di asset da Paesi terzi in Italia e l’esenzione sul valore dei prodotti finanziari, di conti correnti, di libretti di risparmio.

In Italia il gettito fiscale si raccoglie soprattutto attraverso la tassazione sui redditi delle persone fisiche. È pari quasi al 25% del totale, più del doppio della media dei Paesi Ocse. La tassazione sui profitti delle imprese pesa per il 1,94% del Pil, contro una media Ocse di 3,14%. Il sistema è complicato e oggetto degli strali di ogni categoria. Ma al di là della giustizia, della corruzione e della fiscalità, il passaporto d’oro per gli investitori sembra essere più che altro una abdicazione della politica ai businessmen in termini di politica economica.

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Lorenzo Bagnoli
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I tentacoli del cartello di Sinaloa in Italia

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I tentacoli del cartello di Sinaloa in Italia
Cecilia Anesi
Giulio Rubino

All’inizio del 2019 due cittadini guatemaltechi – Daniel Esteban Ubeda Ortega, detto “Tito”, e Felix Ruben Villagran Lopez, detto “Felix” – si trovano a Catania per un sopralluogo. Sono “esploratori commerciali” del cartello di Sinaloa, una delle più potenti organizzazioni criminali messicane. Si trovano in Italia allo scopo di aprire una nuova rotta aerea per recapitare la cocaina del cartello ad acquirenti in Italia e in altri Paesi europei. Il cartello è in espansione: cerca nuovi clienti e deve trovare nuovi percorsi sicuri per rifornirli.

Tito Ortega e Felix Lopez hanno contatti da incontrare e mani da stringere. Se riusciranno a trovare un valido aggancio, metteranno a punto un “carico di prova” per testare la sicurezza della nuova rotta. Il piano è apparentemente semplice, per quanto insolito: mandare il carico tramite un aereo privato fino a Catania e da lì trasportare la droga a nord, verso Milano e il resto d’Europa. La modalità è inconsueta perché normalmente i carichi di un certo peso passano via nave, in qualche container, diretti a porti ben collegati con le grandi piazze di spaccio. Catania non ha nessuna di queste caratteristiche tanto è vero che la distribuzione al resto d’Europa avrebbe presentato sfide ulteriori per il cartello. Un informatore di fiducia della Guardia di finanza di Catania viene a sapere del piano e fa una soffiata al Gico, l’unità anticrimine organizzato della Guardia di finanza. Per quanto improbabile, l’informazione è comunque troppo ghiotta da ignorare.

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Anni dopo l’omicidio di Regina Martínez una squadra di giornalisti da Messico, Europa e Stati Uniti ha ripreso le sue indagini da dove è stata fermata. Il progetto è coordinato da Forbidden Stories, organizzazione francese nata per concludere le storie dei giornalisti assassinati. Questa inchiesta appartiene al Cartel Project, un progetto collaborativo che ha coinvolto 60 giornalisti di 25 media in 18 Paesi. IrpiMedia è partner italiano dell’inchiesta.

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Dei cartelli messicani manca una mappatura dell’influenza e degli affari a livello internazionale. E dal 2000, 119 giornalisti sono stati uccisi per loro mano. The Cartel Project fa luce su tutto questo

La banda dei narcos

Grazie a un lavoro impegnativo (e a una discreta dose di fortuna) gli uomini dell’unità anticrimine organizzato di Catania guidati dal capitano Pablo Leccese in tre mesi sono riusciti a ricostruire l’intero organigramma del gruppo di trafficanti. Insieme ai “commessi viaggiatori” del cartello Tito Ortega e Felix Lopez, lavora un compaesano di stanza in Colombia, Luis Fernando Morales Hernandez, detto “El Suegro”. È lui che si occupa di preparare i carichi aerei destinati all’Italia. L’uomo all’aeroporto di Catania, che dovrà scaricare la coca una volta a destinazione, è stato trovato. I messicani lo chiamano “Don Señor”.

La Gdf scopre anche il nomignolo del capo che gli inquirenti ritengono sovraintenda l’intera operazione dal Messico: “El Flaco”, “il secco”, uno che si presenta come braccio destro di Ismael Zambada Garcia, “El Mayo”. Quest’ultimo è considerato l’attuale boss di Sinaloa. È ricercato: sulla sua testa pende una taglia di 5 milioni di dollari. El Flaco – stando a riscontri della Dea (l’agenzia antidroga americana) – da almeno quattro anni supervisiona per il cartello una fetta importante della produzione di droghe sintetiche nel triangolo tra Taiwan, Vietnam e Cina. È la prima volta che degli inquirenti europei incrociano il nome di un luogotenente di così alto livello di un’organizzazione criminale messicana.

El Flaco da almeno da quattro anni supervisiona per il cartello una fetta importante della produzione di droghe sintetiche nel triangolo tra Taiwan, Vietnam e Cina

José Angel Riviera Zazueta detto “El Flaco” fotografato dalla sicurezza in un aeroporto cinese – Foto: Guardia di finanza
La messa a punto del piano richiede qualche passaggio rischioso. Non tutto si può fare via telefono e la banda deve incontrarsi di persona, a Catania, per stabilire la fiducia necessaria. Si danno un appuntamento nel capoluogo etneo per la fine di maggio 2019. Da questo momento in poi però, ogni programma del gruppo subirà una serie di ritardi che lo stravolgeranno completamente più e più volte.

El Flaco, per chi lo indaga, resta solo un nomignolo fino al momento in cui atterra in città, il primo giugno 2019. Gli investigatori ne conoscono la fisionomia, ma non il nome di battesimo. Lo pedinano dall’aeroporto fino all’Hotel Romano – l’albergo dove pernotta, sul lungomare etneo – e grazie alla copia del documento lasciato in portineria ottengono un nuovo pezzo del puzzle, il suo nome: José Angel Riviera Zazueta.

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Quella stessa giornata, El Flaco Zazueta viene raggiunto in albergo da Tito Ortega, uno dei due narcos arrivati a Catania per imbastire l’affare. Insieme incontrano in un ristorante Don Señor, il contatto dell’aeroporto. Parlano dei dettagli per l’importazione della cocaina, ignari del fatto che i microfoni della Guardia di finanza stanno captando la loro conversazione. Nel piano concepito da El Flaco, l’aereo privato sarebbe partito da Città del Messico, avrebbe fatto scalo in Colombia, a Cartagena, dove avrebbe caricato la droga, per poi raggiungere Catania dopo una sosta di rifornimento a Capo Verde. Alla fine invece, come vedremo più avanti, il gruppo di narcos utilizzerà un aereo di linea in partenza da Bogotà.

La consegna controllata

I carichi con cui si battezzano nuove rotte in genere sono di poche decine di chili. Non è il caso di quelli usati dai cartelli messicani, che apparentemente non hanno problemi a reperire grandi quantità di droga anche per i carichi “di prova”. Hanno solo bisogno di un punto di scarico sicuro a destinazione. «Questa cellula del cartello di Sinaloa aveva già importato cocaina in Europa e aveva almeno altri 1.500 chili pronti da spedire dopo questo carico di prova », spiega a IrpiMedia il capitano del Gico di Catania Pablo Leccese.

A metà giugno 2019 gli inquirenti apprendono dell’esistenza di un carico da 300 chili pronto per essere imbarcato a Cartagena. Pochi giorni dopo Don Señor è a Roma, per incontrare il gruppo dei messicani e discutere della logistica. C’è però un problema: i trafficanti non riescono a trovare un valido contatto all’aeroporto di Cartagena. La Gdf, che è in ascolto, vede l’opportunità e decide di dare loro “una mano”: grazie al supporto dell’esperto antidroga della DCSA di Bogotà, gli investigatori italiani riescono a infiltrare nell’organizzazione due informatori, Rodriguez e El Cholo. I due si aggiungono a un terzo, Lucas, infiltrato dalla polizia colombiana. Con questi nuovi appoggi preparano una “consegna controllata”, un piano per prendere la cellula di Sinaloa finalmente con le mani nel sacco.

La cocaina preparata dai fornitori colombiani – Foto: Guardia di finanza

Ci vogliono due mesi affinché la situazione si sblocchi. A fine agosto 2019, El Suegro, l’uomo di El Flaco in Colombia, riesce a organizzarsi con i fornitori colombiani, un gruppo di ex Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (Farc, i guerriglieri d’ispirazione marxista, ndr): dovrà andare nella Valle del Cauca – regione montagnosa a sud di Calì, dove si coltiva molta coca – per controllare la qualità della fornitura. Invita a partecipare alla spedizione El Cholo e Lucas, inconsapevole che i due siano il primo un informatore e il secondo un poliziotto sotto copertura in costante collegamento con gli investigatori.

El Cholo e Lucas dovranno poi occuparsi di fare uscire il carico dalla Colombia, via aereo, e portarlo a Catania. Il viaggio per raggiungere la raffineria dove si produce la cocaina è lungo: devono attraversare la selva, fare tappa in un altro villaggio, a un’ora di fuoristrada. L’ultimo tratto è a piedi, senza cellulare. Il “cristalizadero de coca”, così lo chiamano i locali, è gestito da “El Abuelo”, “il nonno”.

Quando l’informatore, l’agente sotto copertura e l’emissario di Sinaloa lo raggiungono, parte del prodotto da loro commissionato è già pronto, ma parte è ancora in lavorazione. El Abuelo assicura che basteranno un paio di giorni per ultimarlo, ma in realtà il carico sarà disponibile solo a ottobre. Un altro imprevisto, lo sciopero nazionale degli aeroporti colombiani, minaccia poi di ritardare a tempo indefinito la spedizione.

El Cholo, uno degli informatori, per sbloccare la situazione propone di usare un volo Alitalia in partenza da Bogotà, invece del velivolo privato. Garantisce di essere in grado di caricare la droga in tutta sicurezza, grazie ai suoi agganci. In realtà, dietro di lui, ci sono la polizia colombiana e la polizia italiana che stanno sfruttando l’occasione per una “consegna controllata” internazionale. Finalmente, il 9 gennaio 2020, il carico, che alla fine conterà 406 chili di cocaina, prende il volo, destinazione Catania.

Il 9 gennaio 2020, il carico, che alla fine conterà 406 chili di cocaina, prende il volo, destinazione Catania

Charlie ed El Arqui

Come previsto, una volta atterrato a Fontanarossa, il carico viene spostato in un magazzino di periferia da Don Señor, l’uomo dell’organizzazione all’aeroporto. El Flaco, da Cancun, in Messico, si informa per telefono: ha mandato un drappello di uomini a Catania perché siano i suoi occhi e le sue orecchie. El Cholo e Rodriguez controllano il magazzino per accertarsi che sia tutto a posto, insieme a uno dei due guatemaltechi, Tito. Trentadue panetti vengono dati a Don Señor come pagamento. Una bella fetta del totale: il valore può arrivare fino a un milione di euro, se si trovano gli acquirenti giusti. È molto più di quanto non avrebbe mai potuto sperare per un lavoro del genere, gli dice Rodriguez ridendo, mentre discutono della distribuzione della droga.

Tra i compratori interessati al carico c’è un certo “Charlie”, un italiano che lavora come broker. Si tratta di Mauro Da Fiume, 56 anni, nato a Sanremo ma residente in Spagna. Un veterano del narcotraffico: spulciando negli archivi giudiziari si scopre che nel 2015 il suo nome è comparso in un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Genova in qualità di braccio destro del boss Antonio Magnoli, legato al clan di ‘ndrangheta Piromalli-Molè. Il soprannome “Charlie” lo deve a “Charlie Import-Export SL”, la società che gestisce vicino Barcellona, insieme a un ristorante italiano. Il suo coinvolgimento fa quindi pensare a un interesse della ‘ndrangheta per il carico arrivato a Catania. Lo scrivono gli stessi Mossos d’Esquadra, i poliziotti catalani che arrestano Da Fiume il 4 febbraio, su richiesta delle autorità catanesi. Il compratore per cui lavora Da Fiume, però, non è mai stato identificato.

Tra i compratori interessati al carico c’è un certo “Charlie”, un italiano che lavora come broker

Dopo varie discussioni che innervosiscono i messicani, è a Verona che Charlie Da Fiume dà appuntamento al gruppo di Sinaloa per la consegna della droga. Dopo un primo test della qualità del prodotto con una partita da tre chili, l’accordo è di altre consegne da venti chili ciascuna, per un totale di oltre 300 chili. Per la vendita El Flaco manda come supervisore un suo uomo di grande fiducia: Salvador Ascensio Chavez, alias “l’architetto”, “El Arqui”. Il soprannome lo deve alla sua formazione, per quanto abbia fatto carriera nel narcotraffico. È stato condannato già due volte in Canada: tre anni per un carico di poco più di due chili nel 2001, poi nel 2010 altri sette anni, stavolta per un carico di 97 chili, nascosto in un macchinario agricolo.

A maggio 2017 ha ottenuto la libertà vigilata per sei mesi ed è stato immediatamente estradato in Messico. Nelle motivazioni riportate nel documento di scarcerazione si legge: «Ha ammesso di essere stato un membro dei cartelli messicani. Ha dichiarato di poter contare su un vasto appoggio da parte della sua comunità e di volere lavorare per progettare case in futuro». Ascensio Chavez deve essersi dimenticato di citare nel documento anche il piano di supervisionare la vendita di cocaina per il cartello di Sinaloa in Europa.

Charlie va a prendere in macchina El Arqui, non appena quest’ultimo è atterrato a Barcellona, a metà gennaio. Secondo programma, dovrebbero raggiungere insieme Verona. Anche questa volta, però, il piano originario salta e Charlie ed El Arqui si fermano a Milano per l’“appuntamento” con il compratore (rimasto senza nome per gli inquirenti) per cui lavora Charlie. Don Señor dovrà quindi consegnare nel capoluogo lombardo i tre chili di test, che aveva precedentemente portato a Verona, dove invece si fermano i guatemaltechi Tito e Felix.

El Arqui, subito dopo l’appuntamento, esce di scena: «Rientra in Messico subito, quasi a non voler dare altre occasioni di essere visto in Italia e associato a tali contesti – racconta Pablo Leccese, il capitano dell’unità anticrimine organizzato catanese che ha condotto le indagini -. Questo ci fa capire quanto conti quest’uomo per El Flaco». I tre chili di prova hanno un costo molto basso: 35mila euro, quando solitamente un solo chilo ne costa almeno 25mila.

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Murales dedicato a Javier Valdez, giornalista ucciso a Culiacan, capitale di Sinaloa. Valdez è stato assassinato a maggio 2017 con colpi di arma da fuoco per strada, a pochi metri dalla redazione del suo giornale Ríodoce – Foto: Amrai Coen/Die Zeit
«Al posto di El Chapo c’è stato prima il suo braccio destro e poi i figli che hanno preso le redini dell’organizzazione in contrapposizione con lo stesso braccio destro».
Guido Iannelli

esperto della Direzione Centrale Servizi Antidroga (Dcsa) in Messico

Gli investigatori hanno abbastanza tessere del puzzle per chiudere l’operazione: i due guatemaltechi Tito Ortega e Felix Lopez vengono arrestati a Verona il 7 febbraio con i 35mila euro del pagamento. Il 4 febbraio, in Spagna, i Mossos d’Esquadra avevano invece fermato Charlie Da Fiume e un complice. Ma il cuore della cellula di Sinaloa – El Flaco, El Suegro ed El Arqui – resta latitante da allora.

Perché Halcon è un’operazione importante anche in Messico

Prima di Halcon, l’ultima operazione in cui la polizia italiana ha indagato direttamente sui cartelli messicani risaliva al 2012. Battezzata operazione Monterrey, si è fermata, però, a corrieri e acquirenti, senza riuscire a stabilire chi fossero gli uomini dei cartelli in Italia, né il modo in cui le organizzazioni si sono infiltrate, un mistero per gli inquirenti di mezza Europa.

Indagare i narcos messicani è particolarmente complesso per le forze dell’ordine europee. Infatti non possono contare più di tanto sulla collaborazione dei colleghi in Messico, Paese in cui queste indagini sono perlopiù nelle mani delle frammentate e sottopagate forze di polizia locali. I poliziotti in forza ai 32 Stati della Federazione messicana lavorano infatti per un salario medio di 200 dollari a settimana, il che contribuisce all’altissimo livello di corruzione che affligge anche i livelli più alti. Basti pensare al coinvolgimento con i cartelli dell’ex console di Barcellona Fidel Herrera Beltràn, protagonista di una delle puntate precedenti dell’inchiesta Cartel Project.

Nonostante le evidenze fornite dalle indagini sull’attività del cartello in Europa in questi anni, fonti investigative italiane raccontano a IrpiMedia di non aver mai ricevuto dalla controparte messicana informazioni concrete riguardo un centinaio di nomi ritenuti vicini ai cartelli che agiscono nel Vecchio Continente.

In Messico «la legge federale che regola il reato di associazione a delinquere esiste dal 1996, ma solo recentemente le pene si sono inasprite fino a 20 anni per chi è leader di un cartello», spiega a IrpiMedia Guido Iannelli, esperto per la sicurezza, ufficiale di collegamento della Direzione Centrale Servizi Antidroga (Dcsa) in Messico. A una legge molto recente, si aggiunge il problema delle difficoltà nel portare a termine i sequestri dei beni, una delle armi che ha funzionato di più contro le mafie italiane.

Iannelli lo spiega prendendo l’esempio di Joaquín “El Chapo” Guzmàn, il più famoso tra i boss di Sinaloa, estradato negli Stati Uniti nel 2017. Nonostante l’arresto del capo dei capi, Sinaloa ha continuato a operare senza soluzione di continuità: «Al posto di El Chapo c’è stato prima il suo braccio destro e poi i figli che hanno preso le redini dell’organizzazione in contrapposizione con lo stesso braccio destro», sottolinea l’esperto della Dcsa.

Sarebbe potuta andare diversamente se le indagini messicane si fossero spinte oltre El Chapo: «Forti dell’esperienza italiana – conclude Iannelli – cerchiamo di aiutare gli inquirenti messicani facendo capire loro che bisogna sì identificare la mente del cartello, ma anche ricostruire l’intera associazione e attaccare le risorse economiche».

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L’espansione mondiale dei cartelli

Se nel commercio delle droghe sintetiche i cartelli messicani hanno certamente raggiunto una posizione dominante, quasi monopolistica, nel mercato della cocaina si contendono il primato con altri gruppi molto ben radicati: la ‘ndrangheta, i colombiani, gli albanesi. Sono sempre più frequenti però gli indizi di una strategia di espansione in Europa. Nel 2018, per esempio, in Belgio c’è stata una sparatoria fra membri della ‘ndrangheta e un gruppo di messicani non identificati.

Un pentito interrogato nell’ambito dell’indagine Pollino – operazione con cui nel 2018 è stata smantellata una rete di narcotrafficanti legata alla ‘ndrangheta che operava tra Belgio, Paesi Bassi e Germania – ha spiegato che un gruppo di messicani finanziava i carichi degli albanesi da cui lui stesso acquistava la cocaina. A loro volta gli albanesi importavano tramite dei colombiani circa una tonnellata e mezza al mese. I messicani erano al vertice del gruppo, senza avere mai contatti diretti con gli albanesi.

Nonostante le evidenze fornite dalle indagini sull’attività del cartello in Europa in questi anni, fonti investigative italiane raccontano a IrpiMedia di non aver mai ricevuto dalla controparte messicana informazioni concrete riguardo un centinaio di nomi ritenuti vicini ai cartelli che agiscono nel Vecchio Continente.

Le conversazioni intercettate durante l’operazione Halcon offrono anche un quadro, dall’interno, della campagna espansionistica dei cartelli. Felix Lopez, uno dei due guatemaltechi che lavorano per Sinaloa, durante una conversazione con gli altri sodali in un ristorante di Catania ha detto che solo la sua famiglia smista 2-3 tonnellate, non è chiaro se al mese o a settimana. Lo stesso Felix ha affermato che il cartello di Sinaloa conta su 35 voli a settimana dal Venezuela per Chetumal, una località turistica del Messico, con carichi di 500 chili di cocaina. Il tutto con la benedizione dei militari venezuelani. Numeri sicuramente esagerati, ma la modalità è confermata da InsightCrime, fondazione che pubblica analisi e studi sulla criminalità organizzata nelle Americhe: c’è una località al confine tra la Colombia e il Venezuela, San Felipe, da cui partono i voli della droga e dove ci sono talmente tanti narcos messicani che la gente del luogo l’ha ormai ribattezzata Sinaloa.

Sempre in una delle conversazioni al ristorante della banda di El Flaco captate dagli investigatori, i commensali si sono lasciati andare a commenti sugli agganci del cartello alla Guardia Nacional, la nuova polizia voluta dall’attuale presidente del Messico; sulla famiglia di El Flaco, il cui padre avrebbe gestito «20 mila “casas de cambio” (cambiavalute, ndr) e contatti con la Cia». I numeri sono ancora una volta esagerati, ma in effetti l’unica attività a nome José Angel Riviera Zazueta, alias El Flaco, rintracciata dal Cartel Project è una “casa de cambio” in Baja California.

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Giulio Rubino

Hanno collaborato

Antonio Baquero (OCCRP)
Paolo Frosina
Marco Oved (Toronto Star)
Mathieu Tourliere (Proceso)

In partnership con

Editing

Lorenzo Bagnoli

Foto

Amrai Coen/Die Zeit