Un anno esatto fa, il 20 febbraio 2018 Jan Kuciak, giornalista slovacco ucciso a sangue freddo il giorno successivo nella sua casa a Velka Maca, stava lavorando a un’inchiesta sulle connessioni tra Antonino Vadalà, allevatore di bovini emigrato in Slovacchia, e il primo ministro del Paese, Robert Fico.
Vadalà è uno dei tanti che, negli anni ‘90, sono emigrati dalla Calabria a cercare fortuna nel nuovo mercato dei Paesi post-comunisti. In 18 anni però è diventato un uomo importante: auto di lusso, vestiti alla moda, una fitta rete di relazioni tanto con politici dello Smer – il partito al governo – quanto con i servizi segreti. Non certo un allevatore qualunque. A un anno di distanza, i giornalisti della rete Organized Crime and Corruption Project (OCCRP) e dei centri partner IRPI e Investigace.cz che lavoravano con Kuciak rivelano come Vadalà fosse inserito in una rete di narcotraffico legata alla cosca Morabito di Africo.
Venezia caput mundi
«Carichiamo banane, cereali, arachidi, qualche cazzata la carichiamo, spediamo alla ditta tua qua, paghiamo la dogana, sdoganiamo quando arriva». Occhi verdi, capelli rasati, vestito bene: Antonino Vadalà, espatriato in Slovacchia, cerca di apparire sicuro di sé. Nel Paese est europeo alleva vitelli e commercia in carne, ma questa volta non parla di bistecche. Parla di carichi di cocaina da organizzare per la ‘ndrangheta.
È il 17 settembre 2014 e Vadalà ha raggiunto un centro commerciale alle porte di Venezia. L’incontro è dei più importanti, organizzato nei minimi dettagli e protetto da uomini a fare da palo. Si tratta di aprire un nuovo canale di importazione della droga direttamente dal Sudamerica al porto della laguna. Il suo interlocutore, un imprenditore locale, è la chiave di volta del piano. «Voglio fare due-trecento, capisci, almeno due-trecento», dice Vadalà a Francesco Giraldi.
Il calabrese cerca di testare l’affidabilità dell’imprenditore veneto, glielo hanno presentato come uno esperto. Con loro ci sono due uomini più anziani: sono Leo Zappia, luogotenente della cosca Morabito alias Tiradrittu di Africo, e Vittorio Attilio Violi, referente a Venezia dello stesso clan. Il primo garantisce per Vadalà, il secondo per Giraldi. Violi regge la locale distaccata di Motticella in Veneto dopo essere sopravvissuto – pur perdendo una gamba – ad una faida in Calabria.
È un uomo capace, e dalle grandi mire: conosciuto Giraldi grazie ad amici comuni, decide di scommettere sull’imprenditore per rendere il porto di Venezia un luogo strategico per la ‘ndrangheta. «Il compare sa fare bene il lavoro», commenta Zappia incontrando il sorriso complice di Violi. «Sembra che abbiamo trovato due pratici», conclude Zappia mentre Giraldi consegna a Vadalà il suo biglietto da visita.
Da cowboy a cokeboy
Antonino Vadalà, alias “bovino”, nasce a Melito di Porto Salvo – costa ionica calabrese – nel 1975. Nel 2001 raggiunge in Slovacchia la fidanzata Elisabetta Rodà, figlia di Diego Rodà che nel Paese è arrivato da otto anni. E che lì, nelle vuote praterie dell’est, ha stabilito allevamenti di bovini e aziende di macellazione.
Vadalà decide di stabilirsi a Michalovce, e con il suocero Rodà costruisce un impero grazie alle vacche e alla macellazione. L’indagine della Guardia di Finanza di Venezia svela però un Antonino Vadalà attivo nel traffico di stupefacenti da tempo, che aspettava un’occasione per “tornare in Italia” e inserirsi nel giro di uno dei più potenti clan della ‘ndrangheta di oggi, i Morabito alias Tiradrittu. Per raggiungere l’obiettivo la sua famiglia è disposta a tutto, e così investe un milione di euro in contanti: un biglietto d’ingresso al tavolo delle trattative consegnato al luogotenente Leo Zappia. «Dalle indagini emerge come sia stato grazie alla mediazione del suocero Diego Rodà presso Zappia, che Vadalà viene preso in considerazione dai Morabito», spiega a IRPI il maggiore Salvatore Rubbino della Guardia di Finanza di Venezia.
Diego Rodà viene dipinto da alcuni indagati come boss della ‘ndrangheta in Slovacchia, ma nessuna sentenza lo ha mai messo nero su bianco e l’uomo risulta incensurato. Il legale di Rodà, l’avvocato Dario Curatola, raggiunto da IRPI specifica che «si sono dimostrate del tutto infondate le accuse paventate circa un legame del signor Rodà con la criminalità calabrese, sul punto si specifica che mai il signor Rodà ha avuto dei procedimenti in Italia per legami con la criminalità organizzata calabrese».
La famiglia Rodà di Melito era finita sotto l’occhio degli inquirenti della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria in passato, ma seguirne le tracce in Slovacchia era stato complicato. «Quando degli italiani si trasferiscono all’estero, è per noi complesso seguirne le tracce. Abbiamo il problema di doverci confrontare con legislazioni che non riconoscono l’associazione mafiosa» ha spiegato a IRPI il magistrato Antonio De Bernardo che per anni si è occupato della Locride. «Avremmo bisogno di istituire una procura internazionale antimafia, o ancora meglio un sistema di norme condiviso che permetta di inseguire questi reati anche fuori dall’Italia».
Anche la famiglia Vadalà è rimasta protetta dalle frontiere, ma a svelarne i retroscena criminali sarà proprio l’uomo con cui Antonino vuole stabilire un import-export dall’America Latina, Attilio Vittorio Violi. Non sa di essere registrato quando spiega che Vadalà appartiene «ad una famiglia che da tanti anni si è stabilita in Slovacchia facendo affari d’oro e portando tanti soldi in Calabria» – aggiungendo che – «è gente che si muove sempre coperta da figure istituzionali dei paesi dove si sposta».
La ‘ndrangheta non è un’organizzazione statica, e chi indaga sulle cosche deve essere pronto a seguirne i repentini cambiamenti. Il procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo spiega a IRPI che «il territorio di Africo ha sofferto l’onda lunga dell’omicidio Fortugno (i molti arresti successivi hanno portato a significative testimonianze da membri della ‘ndrangheta, nda). Per paura di nuove collaborazioni, dal 2006 al 2014, c’è stata molta fibrillazione tra le varie famiglie della zona e in questo contesto alcune famiglie di Bova, tra cui i Vadalà, sono riusciti a ricollocarsi dal punto di vista criminale grazie all’impero economico costruito all’estero».
Da Africo al mondo
È novembre del 2014 e l’azienda di import-export “Gi.Fra srl” di Francesco Giraldi è pronta per iniziare l’importazione di frutta e cocaina dall’America Latina. Dopo un primo incontro il 17 ottobre 2014 a Venezia, Antonino Vadalà ne aveva richiesto un altro a Milano: era lì che avrebbe presentato Giraldi al narcotrafficante calabrese Mario Palamara. Palamara, di Africo, è il più giovane di quattro fratelli segnalati già negli anni ‘80 dalle autorità tedesche per traffico di droga.
Nel 2014 Mario è ancora il meno noto. Così riuscirà a muoversi per anni tra i porti di Anversa e Rotterdam diventando un punto di riferimento per varie cosche. Palamara ha esattamente ciò che serve a Vadalà: un’eccellente rete di distribuzione per la coca sulla piazza di Milano, e contatti diretti con i fornitori in Colombia. Ad aprirgli la porta dell’America Latina era stato il più grande dei narcos africoti: Rocco Morabito, alias U’Tamunga.
Nei trent’anni passati da latitante in Uruguay fino al suo arresto nel 2017, U’Tamunga è stato il principale broker della ‘ndrangheta nel Narcosur. Un uomo potentissimo, che tutt’oggi riesce a mantenere vivi gli affari dal carcere di Montevideo, assicurano fonti investigative del paese. Una storica indagine della Procura di Milano denominata “Fortaleza” dimostra come già dai primi anni ‘90 Morabito organizzasse carichi di centinaia di chili di cocaina dal Brasile all’Europa. Ad aiutarlo, il giordano Waleed Issa Khamays, un pezzo da novanta nella scacchiera del narcotraffico e in contatto diretto con il più potente cartello del Brasile, il Primer Comando Capital. Dagli anni ‘90 ad oggi Khamays non ha mai interrotto i rapporti con la ‘ndrangheta.
L’infiltrato
Alcuni giorni dopo il primo incontro con Antonino Vadalà, nell’intimità di uno scantinato, Francesco Giraldi inizia a digitare sulla tastiera. «In quell’incontro Vadalà si presentava come un imprenditore con molte attività in vari Stati, attività usate come “paravento” per consentire la movimentazione delle merci in maniera legale e soprattutto per creare una fitta rete di amicizie e contatti con importanti funzionari governativi appartenenti alle forze dell’ordine e delle dogane». Giraldi scrive perchè è un infiltrato, l’agente “8067” della Guardia di Finanza. Anche con il supporto di dispositivi di registrazione e intercettazioni, il finanziere sta raccogliendo prove sull’attività di narcotraffico del gruppo di calabresi.
Vadalà come copertura ha intenzione di aprire un’azienda ad-hoc in Ecuador per acquistare frutta e spedire il container al porto di Venezia. Il container avrebbe poi proseguito per la Slovacchia dove Vadalà poteva contare sull’appoggio delle dogane. Avrebbe garantito che a svolgere i controlli doganali in Slovacchia sarebbero stati agenti “fedeli”. «Li conosco tutti», diceva, anche riferendosi ai servizi segreti. E si vantava di avere vari canali commerciali aperti con l’America Latina da sfruttare per l’import illecito. «Ho comprato 20 milioni di dollari di carne giù, contratti reali. Io ho fornito Ankara, lo Stato turco per un anno e ora firmo un altro contratto con l’estero: Uruguay, Paraguay, Brasile, capisci?».
I carichi di droga però si sono sempre fermati in Italia, non è chiaro quindi a cosa servissero le vanterie di Vadalà, ma IRPI ha confermato che la sua azienda Bovinex Europa fosse proprietaria del deposito preso in affitto dalle Dogane.
Certo è che Vadalà può contare su uomini al porto di Guayaquil (Ecuador) e propone a Giraldi di acquistare gamberi da un grosso stabilimento della zona: uomini conniventi avrebbero caricato la cocaina sul container o nel tragitto dallo stabilimento al porto, o direttamente sul molo. IRPI ha verificato come l’azienda di gamberi scelta da Vadalà utilizzi il molo gestito da Contecon, un’azienda che gestisce terminal commerciali, definito dall’antidroga ecuadoregna “un colabrodo”. Per finalizzare l’affare, Vadalà invia dalla Slovacchia un bonifico da 175 mila euro all’azienda veneta di Giraldi, l’infiltrato, e poi aggiunge altri 53 mila euro in contanti per un carico di gamberi e cocaina. Ma qualcosa va storto, e il 16 maggio 2015 a Venezia arriveranno solo venti tonnellate di gamberi congelati.
I “milanesi” e le banane colombiane
I canali avviati da Palamara in Colombia sembrano invece funzionare meglio. Con la stessa strategia, questa volta usando banane come copertura, Palamara riesce a importare 243 chili di cocaina. La droga è destinata anche al gruppo veneziano di Violi, ma la maggior parte verrà gestita da lui con il suo socio Francesco Riitano, importante broker di Guardavalle che rappresenta gli interessi di più cosche.
Riitano è un alleato d’oro perché ha sempre denaro fresco a disposizione, oltre che buoni uffici nei porti del nord Europa, in particolare a Rotterdam. A stare alle calcagna di Palamara e di Riitano non è solo la Gdf veneziana. I Carabinieri di Milano e Brescia indagano sul gruppo già dal 2013 e a novembre 2015 fermano un Suv con 30 chili di polvere bianca: sono una parte del carico spedito a Venezia assieme alle banane.
«In quel momento abbiamo registrato grande fermento – racconta il Colonnello Nicola Sibilia che ha coordinato le Fiamme Gialle – Palamara è convinto che ci sia un infiltrato, e punta il dito su Giraldi, l’unico non calabrese. Violi lo difende a spada tratta, è il “suo” ragazzo. Palamara allora propone di metterlo alla prova: sarà lui a trasportare fino a Milano gli ultimi 30 kg rimasti nei magazzini a Venezia. È stato un momento difficile, abbiamo dovuto coordinare un’operazione di consegna controllata che metteva a grande rischio il nostro undercover».
Nel frattempo i carabinieri di Milano scoprono che il gruppo utilizza anche rotte aeree per importare coca. «Capiamo di essere sulle tracce dello stesso gruppo criminale», spiega a IRPI il maggiore Cataldo Pantaleo, che nell’ambito dell’operazione “Area 51” ha coordinato gli uomini del nucleo investigativo dei Carabinieri di Milano. «Palamara e Riitano lavorano insieme e non solo per i carichi via mare e porti, ma anche tramite gli aeroporti grazie a complici in una piccola compagnia aerea che vola su Malpensa dal Sud America. «Del resto – conclude Pantaleo – la forza di questi gruppi sta proprio nella capacità di diversificare i canali di importazione e mettere insieme gli investimenti di più clan».
Proprio per non rimanere senza merce, il gruppo aveva aperto anche un altro canale di importazione dalla Colombia, merce di copertura: le banane di Lorenzo “Bello Diaz Y Cia Ltda”, che ha estese piantagioni nel distretto di Urabà. Quest’area cade sotto l’influenza del Clan del Golfo, il più potente della Colombia: possiede tutte le raffinerie e non si muove carico di cocaina senza l’approvazione dei suoi capi.
«Nel distretto di Urabà la relazione tra imprenditori e gruppi criminali è di lunga data. È nata quando i proprietari terrieri hanno cercato l’aiuto dei paramilitari per fermare le rivolte dei contadini. I narcotrafficanti hanno infiltrato il commercio legale, tra cui l’export di banane che è l’attività commerciale principale della regione. Molti dei carichi di cocaina vengono spediti direttamente dalle piantagioni di banane», spiega a IRPI Ariel Ávila, analista della “Peace and Reconciliation Foundation”.
La “Lorenzo Bello Diaz” manderà tonnellate di banane cavendish a Venezia fino a quando, a novembre 2015, arriveranno anche 222 chili di cocaina, in 188 panetti da 1,2 chili l’uno. Il titolare dell’azienda, Lorenzo Bello Diaz, raggiunto da IRPI ha dichiarato di non essere a conoscenza di alcun carico di cocaina, e di non avere conosciuto né Vadalà né Palamara. Si ricorda di Giraldi, a cui dice di avere venduto un carico di banane, ma si lamenta: «Gli italiani mi devono ancora molte migliaia di dollari».
La battaglia interna
I rapporti fra i vari gruppi di narcos, anche laddove facciano tutti riferimento allo stesso clan, non sono sempre distesi. Nell’autunno del 2015 Antonino Vadalà consegna 125 mila euro a Francesco Giraldi (l’agente “8067”) per co-finanziare una spedizione di cocaina e pesce dalla Colombia organizzata da Palamara.
Il carico però non arriva. Vadalà va su tutte le furie, ha paura che Palamara l’abbia fregato e si rivolge al suo mentore Leo Zappia. Violi, incastrato tra i due gruppi, organizza un incontro a Venezia nello stesso centro commerciale che ha visto la nascita dell’alleanza. «Adesso questo qua (Palamara, nda) lo sistemo io», sbotta Zappia. «Gli faccio sequestrare la famiglia!». Violi cerca di mediare e promette che i soldi verranno restituiti. Anche l’agente “8067” inizia a preoccuparsi.
Nel suo rapporto scrive: «Violi mi ha detto che Vadalà Antonino in Calabria ha raccontato tutto. Violi dice che adesso quelli di giù si andranno a prendere Palamara. Questo perché sanno che Vadalà è uno che lavora con la droga, che ha già fatto diversi lavori, e che non butta via i soldi. Violi mi ha detto di averli rassicurati – aggiunge l’infiltrato – ha detto che darà un ultimatum a Palamara, o manda la droga o altrimenti lui sarà in una posizione scomoda».
Il problema per Palamara è serio. In ballo non ci sono solo i soldi, ma la sua credibilità. Il sospetto è che dietro il mancato arrivo del carico possa trovarsi una vecchia conoscenza del gruppo finito tra gli indagati nell’operazione “Area 51” dei carabinieri di Milano: l’intermediario colombiano Juan Carlos Hohmann Restrepo, che già nel 2013 aveva raggirato con le stesse modalità un gruppo di narcotrafficanti legati al braccio destro di Francesco Riitano. Originario di Calì, in Colombia, Hohmann Restrepo è pressoché uno sconosciuto, ma in Italia è oggetto di operazioni antidroga dagli anni ‘80 e non sembra aver mai cambiato mestiere.
IRPI ha scoperto che al momento del furto a Palamara, Hohmann Restrepo gestiva due aziende di “aereo-taxi” in Ecuador, e un’azienda di esportazione di prodotti ittici a Guayaquil, il porto principale del Paese. Esattamente la tipologia di attività commerciali propedeutiche al trasporto di cocaina.
A salvare la faccia di Palamara sarebbe stato un nuovo carico di banane e cocaina mandato dalla “Lorenzo Bello Diaz”. Ma la fortuna non gira dalla sua parte: il 3 dicembre 2015 la Gdf di Venezia irrompe nel magazzino della “Gi.Fra”, arrestando Giraldi (l’agente “8076”), Attilio Vittorio Violi e tre altri complici intenti a scaricare 88 chili di cocaina. È la fine dell’operazione “Picciotteria”, che segnerà la chiusura della locale distaccata di Motticella a Venezia guidata da Violi.
Una settimana dopo, 220 chili nascosti nel carico di banane marca “Lorenzo Bello Diaz” arrivano alla “Gi.Fra”, ma ad aspettarli c’è solo la Guardia di Finanza. Mario Palamara è già in fuga, e da allora rimarrà latitante.
Antonino Vadalà vive in Slovacchia senza nascondersi, pensa di essere intoccabile.
Invece, il 13 marzo 2018 viene arrestato su richiesta della procura di Venezia, dopo che i centri di giornalismo d’inchiesta IRPI, Investigace, OCCRP di concerto con il giornale slovacco Aktuality pubblicano un’inchiesta che lo riguarda e a cui stavano lavorando con Jan Kuciak. Per tutto il 2017 Kuciak e i colleghi internazionali avevano fatto ricerche su Vadalà e le sue aziende slovacche, che dietro al business della carne sembravano nascondere altro. Ma non c’era stato tempo per dimostrarlo: Kuciak viene freddato con un colpo al cuore il 21 febbraio 2018.
Una settimana dopo, il 28 febbraio 2018, il tribunale di Venezia emette un fermo per Vadalà, Palamara e il resto dei presunti narcotrafficanti. I corpi senza vita di Jan Kuciak e della sua fidanzata Martina Kušnírová sono stati trovati da due giorni.
All’alba di quello stesso 28 febbraio, mentre il gip firma il fermo, i giornalisti del consorzio pubblicano l’inchiesta postuma e dimostrano i legami di Vadalà con il primo ministro slovacco Robert Fico.