Lavoro grigio: tra i braccianti che dormono in strada a Saluzzo

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Lavoro grigio: tra i braccianti che dormono in strada a Saluzzo

Sara Manisera

Q uando a gennaio del 2015 Bakari (nome di fantasia, come quelli di tutti i braccianti citati nell’articolo) ha lasciato la sua casa a Gao, capoluogo del nord Mali per fuggire dagli scontri tra gruppi islamisti e forze armate maliane, il suo desiderio era quello di arrivare in Francia. Aveva 18 anni e sognava di concludere lì gli studi. Invece si ritrova in una cittadina del nord Italia a raccogliere mirtilli per pochi euro al giorno e a dormire per terra. Cinque anni dopo quella fuga, Bakari è uno dei duecento braccianti stagionali che dorme, senza servizi igienici e docce, nei giardini di villa Aliberti, a Saluzzo, uno dei 22 Comuni della frutta, in provincia di Cuneo. È uno degli Invisible Workers, i lavoratori invisibili di cui parla la serie di inchieste coordinata dalla piattaforma olandese Lighthouse Reports, di cui IrpiMedia è partner.

Saluzzo è l’epicentro di un’area agricola che si estende per quasi 50 chilometri, tra la Valle Po e la Val Varaita, ai piedi della catena del Monviso. I campi di mais e gli interminabili filari di frutta, allineati senza discontinuità, fanno da scenografia a questo ricco distretto ortofrutticolo. Secondo i dati della Coldiretti di Cuneo per il 2020, dei 500 milioni di euro dell’intera regione Piemonte, il 60% arriva da qui. Le aziende del comparto sono 4500 e il 70% della frutta raccolta (kiwi, mirtilli, pesche, mele e susine) è destinata all’esportazione. Da questa zona, i pallet di frutta vengono spediti ovunque nel mondo: Germania, Norvegia, Svezia, Finlandia, Paesi Bassi, Australia, Nuova Zelanda, India, Vietnam e Thailandia sono solo alcuni degli Stati che consumano la frutta prodotta in questa regione. I mercati del Sud Est asiatico sono la nuova frontiera in particolare per le mele.

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«La sola produzione di pesche, mele e kiwi genera un valore in campo di oltre 180 milioni di euro».

Coldiretti Cuneo

«La produzione di solo pesche, mele e kiwi – spiega in una nota la Coldiretti di Cuneo – genera un valore in campo di oltre 180 milioni di euro: è quanto incassano i produttori agricoli, al lordo dei costi di produzione, senza contare costi di condizionamento e commercializzazione». Eppure, nonostante i fatturati, sempre più importanti soprattutto per i grandi produttori, ogni anno, all’inizio della stagione dei mirtilli, delle pesche e delle mele, Saluzzo e i Comuni limitrofi balzano al centro dell’attenzione mediatica nazionale per le condizioni di vita e di lavoro dei migranti stagionali che giungono qui, alla ricerca di un’azienda agricola che li faccia lavorare. Da giugno a metà novembre, infatti, sono oltre 12 mila gli stagionali – di cui il 42% africani – che raccolgono la frutta di stagione nelle aziende agricole di questo territorio.
Una fase della raccolta dei mirtilli – Foto: Arianna Pagani

«Ho lavorato 170 ore in 14 giorni per 6 euro l’ora»

Il periodo della raccolta è fatto di momenti di picco, in cui la produzione è maggiore, quindi servono più braccia. Variano a seconda della frutta: ad esempio per le pesche, la cui stagione comincia a luglio, il picco si registra nella seconda metà del mese. Sui 12mila braccianti impiegati in media durante questi periodi di picco, quasi il 10% resta sprovvisto di un alloggio. Dato che gli imprenditori agricoli impiegano molti braccianti che sono già sul territorio nazionale, la legge non prevede l’obbligo di fornire loro l’alloggio, che invece è previsto per chi arriva attraverso il Decreto Flussi, provvedimento governativo che ogni anno fissa una quota di lavoratori non comunitari che possono essere impiegati in Italia per motivi di lavoro subordinato, autonomo e stagionale, come spiega l’Inps sul suo sito.

La maggior parte dei braccianti, impiegati da aziende agricole in molti casi beneficiarie dei sussidi europei della Politica Agricola Comune (Pac), lavora spesso dalle 10 alle 16 ore al giorno con paghe orarie che oscillano tra i 4 e i 6 euro all’ora, una parte in busta, il restante in nero. Il poco che guadagnano non può in parte essere speso per garantirsi un alloggio durante i mesi di lavoro, così se non lo fornisce il datore di lavoro o una struttura gratuita, il letto lo si trova per strada. Per i lavoratori agricoli non esistono ferie e straordinari. Benché le assunzioni siano aumentate del 53% nel 2019, secondo i dati della Flai-Cgil di Cuneo, il lavoro grigio resta la modalità più diffusa di pagamento. Si firma il contratto stagionale ma le giornate effettivamente lavorate non sono segnate in busta paga, così gli imprenditori risparmiano, pagando meno tasse e contributi. E i lavoratori non possono accedere nemmeno alla disoccupazione agricola.

La maggior parte dei braccianti, impiegati da aziende agricole in molti casi beneficiarie dei sussidi europei della Politica Agricola Comune (Pac), lavora spesso dalle 10 alle 16 ore al giorno con paghe orarie che oscillano tra i 4 e i 6 euro all’ora, una parte in busta, il restante in nero

Il lavoro grigio

Accanto al lavoro nero, da tempo ormai si sta consolidando il cosiddetto “lavoro grigio”, su cui si basa gran parte del comparto agricolo nazionale.

In busta paga il lavoratore avrà una busta paga mensile con una media che va dai 5 ai 10 giorni dichiarati, pagati da tabelle Cpl (contratto provinciale) 7,56€ lordi l’ora. Nei fatti il lavoratore ha lavorato tutti i giorni del mese, con una media di almeno 2 ore di straordinario giornaliere, che mai verranno riconosciute.

In pratica il bracciante è assunto con un contratto stagionale ma non vengono segnate tutte le giornate effettivamente lavorate. Ciò significa che solo una parte delle giornate viene segnata e regolarmente pagata ma le altre giornate sono pagate in nero, con retribuzione inferiore rispetto a quella che appare sulla busta paga e con un orario di gran lunga superiore a quello previsto dalla normativa. Per esempio si lavorano 30 giorni ma le giornate segnate sono 15. Quelle segnate vengono pagate con bonifico, le restanti in nero, quindi gli imprenditori agricoli non pagano contributi e risparmiano sul costo della manodopera.

È il caso di Bakari. Di giorno lavora come bracciante stagionale, raccogliendo mirtilli per un’azienda agricola della zona, tra le tante beneficiarie dei fondi Pac. Di notte, stende il suo giaciglio e si raggomitola su un pezzo di cartone. Cambia spesso dove passa la notte. Quando lo incontriamo, una mattina di fine giugno, dopo un forte temporale estivo che ha infradiciato i pochi indumenti dei braccianti che vivono nei giardini pubblici, il suo periodo di lavoro è quasi terminato. A breve inizierà a raccogliere le prime varietà di mele per un’altra azienda. «Ho lavorato 170 ore in 14 giorni per 6 euro l’ora – racconta con un sottile filo di voce – a volte persino 16 ore al giorno, dalle 6 del mattino alle 10 di sera. Un po’ nel campo, un po’ in fabbrica a fare la selezione dei mirtilli». «Quando arrivano i controlli – continua Bakari -, il padrone ci obbliga a nasconderci tra gli alberi di kiwi, così nessuno ci vede. Non è una cosa giusta questa situazione, sai. Non puoi neanche prenderti in affitto una casa, né essere libero di farti una doccia», dice con aria stanca.

L’azienda nega e ci invita a visitare le condizioni di lavoro. Sostiene che il racconto di Bakari sia inventato, ma conferma che il pagamento orario è di 6 euro contro i 7,50 previsti dal contratto nazionale. Secondo quanto ci è stato raccontato da sindacati e gruppi di sostegno ai migranti, l’imprenditore proprietario dell’azienda è venuto a cercare «chi ha parlato con una giornalista» nelle aziende confinanti. Chi conosce Bakari conferma la sua storia, ma non può essere considerato una fonte neutrale. Non è stato possibile nemmeno controllare la busta paga per vedere quanto effettivamente Bakari ha ricevuto come compenso. Le stesse difficoltà che abbiamo incontrato durante la nostra inchiesta sono le stesse che incontra un qualunque ispettore del lavoro. La tipica situazione è quella della parole dell’imprenditore contro quella di uno o più suoi dipendenti.

Il Covid-19 non cambia nulla

Secondo quanto risulta a sindacati e gruppi di sostegno ai braccianti stranieri, così come dall’archivio dei procedimenti giudiziari, casi come quello di Bakari non sono sporadici. Durante la raccolta del 2018, tre lavoratori hanno cominciato una vertenza, poi abbandonata, contro un’azienda della zona di Saluzzo perché ritengono di essere stati pagati con salari molto inferiori rispetto al dovuto. Dal confronto tra i loro conteggi ore e le buste paga emerge che Samba, uno di loro, aveva contato oltre 300 ore quando invece gliene sono state rendicontate circa 60. Quando il bracciante è andato dal datore di lavoro a chiedere spiegazioni, ha registrato la conversazione. IrpiMedia l’ha potuta ascoltare. Si sente il datore di lavoro affermare di non avere soldi e di non poter pagare più di quello che ha già fatto. La situazione è tesa perché il lavoratore si è rivolto a Caritas e sindacati. Il datore di lavoro li definisce «gente di merda». E più avanti aggiunge: «Se ti fai aiutare da loro è meglio che vai in Sicilia, qua nessuno ti fa più lavorare». Contattata, l’azienda smentisce categoricamente la ricostruzione dei migranti e sostiene di non aver mai avuto problemi con braccianti che si lamentano, anzi, in molti vengono tutte le stagioni, perciò non possono sentirsi sfruttati. Di nuovo, la situazione è la parola del bracciante contro quella del datore di lavoro.

Un’altra azienda agricola che nel 2018 aveva impiegato otto stagionali oggi sembra scomparsa nel nulla. Sei di loro avevano cominciato una vertenza sindacale. Per due di loro si è trasformata in un procedimento civile, tuttora in corso. A marzo 2019 uno dei braccianti è tornato a lavorare nella stessa azienda, insieme ad altri quattro stranieri, visto che aveva necessità di un impiego per rinnovare il permesso di soggiorno: si è trovato di nuovo con una paga misera (tre euro l’ora) per una sola giornata di lavoro riconosciuta. Per evitare una nuova vertenza, secondo il bracciante il datore di lavoro gli avrebbe corrisposto dei pagamenti sempre di pochi euro per due mesi nei quali non ha realmente lavorato. In questo caso, non è stato possibile sentire la controparte.

A maggio del 2019, gli imprenditori agricoli Diego Gastaldi e Marilena Bongiasca, titolari dell’azienda agricola Gastaldi, e Moumouni Tassembedo, detto Momo, originario del Burkina Faso, sono stati sottoposti a misure cautelari per il presunto reato di caporalato nei confronti di diciannove lavoratori. I tre sono stati rinviati a giudizio e a settembre inizierà il processo a loro carico. È il primo processo di questo genere nell’area di Saluzzo.

Zeno Foderaro, 31 anni, è un sindacalista della Flai-Cgil Cuneo e da anni verifica i contratti e le buste paga dei braccianti. All’interno del suo ufficio spiega: «Non si tratta di casi isolati ma di un fenomeno strutturale in questo territorio. Durante la raccolta, i braccianti lavorano quasi tutti i giorni, con una media di almeno due ore di straordinario giornaliero, che mai verranno riconosciute. Il pagamento finale è in media di 5 euro per tutte le ore lavorate, ordinarie e straordinarie, una parte saldata con assegno o bonifico, il restante in mano, come dicono i lavoratori», spiega Foderaro, mostrandoci alcuni contratti e vertenze sindacali portate avanti gli scorsi anni. «Vedete in questo caso, il contratto dura 2 mesi e mezzo, le giornate segnate sono solo 10 ma sicuramente questo bracciante lavorerà almeno 40-50 giorni. Sono dieci anni che il disagio cresce in questa zona. Le parti datoriali si rifiutano di fornire il reale fabbisogno di manodopera e così si incentivano i viaggi della speranza. La soluzione dovrebbe essere un servizio di collocamento unico, obbligatorio e pubblico», sostiene Foderaro.

«I braccianti lavorano quasi tutti i giorni, con una media di almeno due ore di straordinario giornaliero, che mai verranno riconosciute. Il pagamento finale è in media di 5 euro per tutte le ore lavorate, ordinarie e straordinarie, una parte saldata con assegno o bonifico, il restante in mano, come dicono i lavoratori».

Zeno Foderaro

Flai/Cgil Cuneo

L’arrivo a maggio di quest’anno degli aspiranti braccianti a Saluzzo – Foto: Arianna Pagani
Senza una retribuzione giusta e senza un servizio di intermediazione efficace, capace di incrociare domanda e offerta di lavoro, le asimmetrie si accentuano. Per risolvere almeno l’ultimo punto, servirebbero banali portali online o app, magari in più lingue, per fare in modo che braccianti e datori di lavoro possano sapere gli uni dell’esistenza degli altri. Invece Coldiretti, Confagricoltura, Regione Piemonte e Confederazione italiana agricoltura (Cia) al posto di organizzare un unico servizio hanno lanciato quattro piattaforme diverse. Così, anche quest’anno, nonostante il Covid-19 e i protocolli d’intesa firmati da tutti gli attori del territorio per risolvere la questione dell’arrivo e dell’accoglienza degli stagionali, la situazione non è cambiata. Anzi.

Il centro di Prima accoglienza stagionali, il cosiddetto Pas, un’ex caserma militare aperta negli ultimi due anni dal comune di Saluzzo per offrire un alloggio a circa 300 stagionali è rimasta chiusa per l’emergenza Covid-19. Diversi tavoli di confronto avevano proposto soluzioni alternative, delle quali però alla fine non si è fatto nulla. Così i braccianti continuano ad arrivare spontaneamente sul territorio dal Piemonte o da altre regioni italiane, cercando lavoro in bicicletta tra le campagne e le aziende agricole. In quello che è uno dei distretti agricoli più importanti del nord Italia, l’incontro tra la domanda e l’offerta avviene ancora tramite il passaparola.

«Facciamo finta che ci sia la manodopera di 10 anni fa ma non è così. Negli anni la manodopera straniera che si sposta internamente da un bacino ortofrutticolo all’altro ha affiancato e in larga parte sostituito i braccianti locali e quelli extracomunitari che arrivavano tramite il Decreto flussi. Il quadro normativo è fermo a quasi venti anni fa: da una parte c’è ancora la legge Bossi-Fini che lega il permesso di soggiorno al contratto di lavoro, dall’altra ci sono i Decreti sicurezza Salvini che hanno spinto questi lavoratori verso una maggiore vulnerabilità e ricattabilità».

A parlare è Virginia Sabbatini, 30 anni, coordinatrice del Presidio della Caritas di Saluzzo che da anni monitora le condizioni dei raccoglitori della frutta. Oltre a distribuire coperte, scarpe e indumenti, il progetto Presidio è diventato un punto di riferimento fondamentale per i braccianti stagionali. Qui chiedono informazioni sul contratto, sul lavoro e sui documenti. Alla precarietà lavorativa e abitativa, si somma, infatti, l’instabilità dei documenti. La maggior parte dei lavoratori per strada sono in attesa del rinnovo del permesso di soggiorno, senza assistenza sanitaria, in una situazione di estrema vulnerabilità.

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Le normative su lavoro e immigrazione

Dalla Legge Martelli, alla Turco-Napolitano e alla Bossi-Fini, passando per il Pacchetto Sicurezza di Maroni e il Decreto Salvini: leggi che regolano la presenza degli stranieri in Italia, inserendoli in una dimensione di forza lavoro e di sicurezza a discapito della tutela dell’asilo e dei diritti.

Il primo intervento, la legge 39/1990 cosiddetta legge Martelli, si presenta come provvedimento in materia di rifugiati e profughi, che amplia e definisce lo status di rifugiato e il diritto di asilo politico a esso collegato. La seconda parte del testo si pone invece come un tentativo di regolamentare l’aumento esponenziale dei flussi migratori degli anni ’80, mediante programmazione statale dei flussi di ingresso degli stranieri non comunitari in base alle necessità produttive e occupazionali del Paese. Si delinea fin da subito quella che diventerà una costante della legislazione: la gestione dell’immigrazione da un punto di vista economico.

Con la legge 40/1998, la cosiddetta Turco-Napolitano, confluita successivamente nel Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulle condizioni dello straniero, il meccanismo di controllo dell’immigrazione rimane la politica del flussi, quantificata annualmente dal governo mediante un decreto che fissa il numero di stranieri che possono fare ingresso in Italia per motivi di lavoro. La norma si basa essenzialmente sulla necessità di controllare i flussi migratori, sostenere i processi di integrazione, semplificare le espulsioni.

Nel 2002 venne presentata una nuova legge, la Bossi-Fini, la norma che negli ultimi 18 anni ha disciplinato l’ingresso in Italia, l’accesso al mercato del lavoro, la vita e l’esplusione degli stranieri in Italia. Una norma che subordina l’ingresso e la permanenza in Italia al contratto di lavoro.

Come Bakari. Dopo la fuga dal Mali, il passaggio in Libia, esposto al carcere e a violenze di ogni tipo, il ragazzo attraversa il Mediterraneo. Viene salvato da una nave di una ong nel 2016, sbarca in Sicilia, a Palermo, ed è trasferito a Bologna dove entra in un progetto di accoglienza. Bakari ha ottenuto la protezione sussidiaria ma nel 2018 esce dal progetto di accoglienza e si ritrova nel limbo delle campagne italiane, seguendo il ciclo delle stagioni.

«Sicuramente l’imprenditore che fa la frutta non riesce più a garantirsi uno status sociale ed economico come prima ma io in questi anni ho visto tanti braccianti dormire per strada o sul cartone, che è ben diverso. A pagare sono sempre i più fragili e vulnerabili», conclude Sabbatini.

AGGIORNAMENTO 11 APRILE 2022: Il giudice Alice Di Maio del Tribunale di Cuneo ha condannato in primo grado a 5 anni di reclusione Diego Gastaldi e la madre Marilena Bongiasca nell’ambito del primo procedimento per caporalato in provincia di Cuneo. Il padre di Diego Gastaldi, Graziano Gastaldi, è stato invece assolto. 

 

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Autori

Sara Manisera

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Editing

Lorenzo Bagnoli

L’Europa dei braccianti: lavoratori invisibili e senza tutele

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L’Europa dei braccianti: lavoratori invisibili e senza tutele
Lorenzo Bagnoli
Matteo Civillini
Sara Manisera

L’Italia ha un problema irrisolto con il settore agricolo. L’emergenza Covid ne è stata l’ennesima dimostrazione. «Mancano migliaia di stagionali», era il messaggio d’allarme che girava tra aziende e amministrazioni locali tra fine aprile e inizio maggio: il blocco imposto dalla pandemia ha impedito a migliaia di lavoratori di entrare in Italia, proprio nel momento decisivo per la stagione agricola. Per far fronte alla crisi, il governo ha introdotto una sanatoria per migranti che lavorano in nero, nella speranza di recuperare manodopera. Come scrive il Viminale in una nota del primo luglio, al 30 giugno sono pervenute in totale 80.366 domande di regolarizzazione. Di queste circa l’80% riguardava operatori domestici. Doveva essere la regolarizzazione dei braccianti, invece per ora lo è più che altro di colf e badanti. Gli stagionali agricoli, invece, restano nell’ombra.

Verso la fine di giugno è scoppiato poi il caso di Mondragone: un focolaio di una quarantina di persone in mezzo alle palazzine ex Cirio, in una delle zone centrali della cittadina, dove abitano i braccianti della zona, soprattutto bulgari di etnia rom. Il focolaio non è partito dai campi, ma si è diffuso nella comunità rom a causa delle condizioni abitative in cui sono costretti a vivere: appartamenti sovraffollati, subaffittati in nero. Una situazione mai affrontata, che dura da decenni. Alcuni bulgari pare siano andati alle piantagioni comunque, nonostante fossero in quarantena. Sostenevano di non potersi permettere di stare a casa.

Si è scatenata la rabbia sociale che scorreva carsica per le vie di Mondragone: da un lato della barricata, asserragliati in casa, stavano gli stranieri che lavorano nei campi; dall’altro chi li accusava di essere il motivo per cui la città fosse stata messa in zona rossa proprio in prossimità dell’inizio della stagione turistica. Per fortuna i casi Covid erano asintomatici e poco gravi. Il focolaio è stato contenuto e risolto in poco tempo. Però, le condizioni di totale emarginazione in cui vivono i rom bulgari non sono cambiate da allora. I braccianti della città, finita l’emergenza Covid, sono tornati invisibili.

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Invisible workers è la serie di inchieste coordinata da Lighthouse Reports a cui IrpiMedia partecipa insieme a Der Spiegel, Mediapart, Euronews, The Guardian Follow the Money. È un quadro di come l’Europa intera abbia ignorato il tema del lavoro agricolo, salvo poi accorgersene quando in piena pandemia frutta e verdura continuavano ad arrivare sugli scaffali dei supermercati. Nelle prossime settimane usciranno nuove puntate riguardanti l’Italia su IrpiMedia.

Le contraddizioni delle politiche agricole europee

Nemmeno le politiche europee sull’agricoltura mettono un freno allo sfruttamento dei braccianti, ma anzi spesso ne acuiscono i punti critici. Ogni anno l’Unione europea versa circa 50 miliardi di euro di contributi alle aziende agricole attraverso i fondi della Politica agricola comune (Pac). Un terzo di questi fondi è erogato in modo diretto. Inizialmente concepiti come strumenti per stabilizzare le rendite agricole, oggi non riescono più a incentivare alcun miglioramento nelle aziende. Sono versati a prescindere, senza che venga richiesto ai beneficiari di garantire condizioni lavorative degne ai propri dipendenti. Il criterio dei pagamenti diretti favorisce infatti grandi produttori e proprietari terrieri: più è esteso il terreno, più soldi si ricevono. Gli unici incentivi previsti riguardano, in minima parte, il benessere degli animali e il rispetto dell’ambiente. «Gli animali hanno delle lobby più forti rispetto ai lavoratori migranti», commenta Arnd Spahn, segretario generale del settore agricoltura per la European Federation of Trade Unions in the Food, Agriculture and Tourism (Effat), sigla sindacale che difende 22 milioni di lavoratori europei.

Condizioni assimilabili al caporalato si vedono anche nel Nord Europa. In questo caso, il problema legato allo sfruttamento non è solo la presenza dei caporali o intermediari. È frequente infatti che il problema nasca dall’intermediazione delle agenzie interinali

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Nell’Unione europea sono in tutto oltre nove milioni i braccianti contrattualizzati, di cui 1,1 milioni solo in Italia, il Paese con il numero più alto di impiegati nel settore agricolo. A volte si ha l’illusione che lo sfruttamento di chi lavora nei campi sia una condizione solo di Italia, Spagna e Grecia, Paesi dell’Europa meridionale con un alto tasso di lavoro nero e molto esposti al fenomeno migratorio. Invece condizioni assimilabili si vedono anche nel Nord Europa. In questo caso, il problema legato allo sfruttamento non è solo la presenza dei caporali o intermediari. È frequente infatti che il problema nasca dall’intermediazione delle agenzie interinali. Sono previste dalla legge, ma per accumulare gli utili offrono servizi sempre più scadenti e offrono paghe sempre più basse a chi firma con loro, seppur il regolamento europeo preveda che a parità di mansione, il salario debba essere per tutti uguale. Sono una forma di caporalato mascherato. Il motivo per cui le aziende si rivolgono a loro è infatti, paradossalmente, lo stesso per cui ci si rivolge a un caporale: ottenere manodopera a bassissimo costo.

Dal Sud America alle campagne francesi: il caporale è l’agenzia di lavoro interinale

Nei tre dipartimenti delle Bocche del Rodano, Valchiusa e Gard, nella Francia meridionale, a giugno sono scoppiati diversi focolai di Covid tra i braccianti agricoli stagionali. In tutto si stimano 250 lavoratori contagiati. Tra questi, alcuni sono stati portati in Francia dall’agenzia interinale Terra Fecundis. L’azienda è spagnola, di base a Murcia. Somministra, specialmente in Francia, lavoratori stagionali provenienti dall’America Latina, ma anche da Marocco e Senegal. I lavoratori sono sotto contratto con l’agenzia, che si occupa di portarli sul posto di lavoro e nel loro alloggio. L’emergenza Covid ha riacceso i riflettori su Terra Fecundis che proprio a maggio sarebbe dovuta andare a giudizio al Tribunale di Marsiglia: l’azienda è accusata, secondo le leggi francesi, di “lavoro nero” e “somministrazione fraudolenta di lavoro”. Secondo i documenti della procura, l’azienda sarebbe inoltre all’origine di una frode contributiva che solo tra il 2012 e il 2015 avrebbe toccato quota 112 milioni di euro. Il processo però è stato rimandato proprio a causa della pandemia.

Terra Fecundis – il cui profitto è generato in Francia per 57 milioni di euro su 77 totali – secondo le leggi transalpine dovrebbe registrare i lavoratori e pagare i loro contributi in Francia. E invece non lo fa, motivo per il quale è scattata l’accusa di frode al sistema previdenziale. L’azienda, concludono le indagini, a partire dal 2016 ha beneficiato di una «redditività eccessiva» dovuta proprio al mancato rispetto delle leggi sul lavoro. Una società del gruppo Terra Fecundis è stata già condannata alla pena di 75 mila euro per «lavoro nero» e applicazione indebita del regolamento europeo sul lavoro distaccato.

Il lavoro distaccato

I lavoratori distaccati, in inglese posted worker sono impiegati mandati dal loro datore di lavoro a svolgere una mansione in un Paese membro dell’Unione europea per un periodo di tempo limitato, secondo la definizione del Dipartimento Occupazione affari sociali e inclusione della Commissione europea.

Sudamericani lavorano anche in Guascogna, nella Francia sud-occidentale. Qui i reporter di Mediapart, partner del progetto, hanno intervistato decine di migranti impiegati nella raccolta delle carote. La principale azienda agricola della zona è Les fermes Larrère, leader del settore. Decine di interviste descrivono un quadro di sfruttamento, con paghe da 660 euro per 70 ore di lavoro, a fronte di promesse di paghe mensili da 1.500 o 2.000 euro con turni da sei ore. I lavoratori si devono anche pagare l’alloggio.

Come nella Francia meridionale, anche in Guascogna il sistema funziona con un’agenzia interinale che fa da tramite, la G.e.n.a. Una volta ricevute le domande dai giornalisti, Les fermes Larrère ha risposto dicendo di aver organizzato un sondaggio interno tra i suoi stagionali, i quali hanno effettivamente rilevato una serie di malfunzionamenti nella raccolta delle carote di quest’anno. L’azienda si è quindi impegnata ad avviare un audit interno al fine di emanare una “carta etica” per quanto riguarda il rispetto del diritto del lavoro.

Germania, il paradiso perduto dei braccianti che arrivano da Est

George Mitache è uno dei centinaia di romeni partito per la Germania per la raccolta delle fragole con la promessa di guadagnare 5 o 6 mila euro in tre mesi di lavoro. Netti: il costo del volo, del pernottamento e del cibo saranno coperti dal datore di lavoro. È quanto gli ha assicurato l’intermediario, un concittadino di Bacani, villaggio vicino al confine con la Moldavia. Invece, una volta atterrato a Bonn, Mitache è costretto a lavorare per pagarsi il viaggio e l’alloggio, insieme agli altri lavoratori. Preferisce vivere in strada ed evitare di mangiare, pur di guadagnare qualcosa.

Truffe come queste sono molto frequenti durante le campagne di raccolta di asparagi e fragole, soprattutto con i lavoratori comunitari. Con l’emergenza coronavirus, la situazione si è ulteriormente aggravata. Nicolae Bahan, un bracciante romeno che ha lavorato nella raccolta degli asparagi a Bad Krozingen, vicino al confine con la Francia, ha contratto il virus ed è morto a fine aprile. Nello stesso periodo, ad Ahrweiler, a sud di Bonn, gli ispettori del lavoro notificavano l’assenza di disinfettanti e carenze nelle misure di distanziamento nell’azienda in cui lavorava Mitache.

Lagnasco, Cuneo – Foto: Arianna Pagani

Al problema dei contagi nei campi, si è aggiunto il clamoroso caso dei macelli. Il caso più importante riguarda un’azienda di Gütersloh, città del Nord Reno-Vestfalia. Qui intorno all’azienda Tönnies ci sono stati duemila contagi. Anche qui, la maggior parte dei dipendenti sono stagionali che provengono da Paesi dell’Europa dell’Est e sono stati i primi ad essere contagiati.

Tra Germania e Francia il virus ha colpito così forte la comunità romena da spingere la ministra dell’Interno Violeta Alexandru a violare il lockdown. È salita sull’auto a Bucarest e dopo 18 ore ha raggiunto Berlino per incontrare il suo omologo Hubertus Heil. «Questa situazione rivela una grande quantità di problemi sistematici che non abbiamo affrontato nel modo corretto», ha detto alla Reuters a margine dell’evento.

Il boom olandese dei contratti temporanei

Agata, dalla Polonia, ha lavorato a giugno nella filiera della raccolta della frutta a Waddinxveen, cittadina a meno di 30 chilometri da L’Aja. Ogni mattina cominciava il turno alle 6 di mattina, senza sapere quando avrebbe finito. Ha ricevuto insulti, è stata scaricata dal furgone che la portava al lavoro in mezzo a una strada, senza sapere esattamente dove. Furgone dell’agenzia interinale impiegata dalla società. Per ogni trasporto pagava sei euro, a cui doveva aggiungene 94 a settimana se avesse voluto un letto più vicino al posto di lavoro. Trattamenti inumani come questi sono stati confermati da altri partecipanti alla raccolta degli asparagi.

In azienda, non è stata presa nessuna misura anti-Covid, nonostante le statistiche dimostrino che i migranti impegnati nella raccolta della frutta e nei macelli siano stati i più contagiati. Quando attendeva di riavere indietro i documenti a fine giornata, Karolina aspettava in una mensa sovraffollata, dove non era possibile mantenere il rispetto delle distanze di sicurezza. È in un contesto simile che, tra maggio e giugno, diverse aziende dell’industria della macellazione (sulla stampa locale sono usciti i nomi di Van Rooi Meat e Vion Food Group) sono finite in quarantena, dopo l’esplosione di piccoli focolai.

Tra maggio e giugno, diverse aziende dell’industria della macellazione sono finite in quarantena, dopo l’esplosione di piccoli focolai

I dipendenti con contratti temporanei, nei Paesi Bassi, sono passati da 140 mila nel 1995 a 900 mila oggi. Il business più importante non è per i datori di lavoro, ma per le agenzie interinali che somministrano i lavoratori, passate in 30 anni da poche centinaia a circa 14 mila. Tutto grazie alla “flessibilità”: in altri termini, la stagione che dal 1996 in avanti ha reso possibile per legge il lavoro a tempo determinato, stagionale o precario.

Sugli stagionali del settore agricolo e dell’allevamento esistono solo stime, i numeri esatti sono difficili da trovare. Di certo la filiera ortofrutticola e quella della macellazione sono due dei settori di impiego più importanti. Ci lavorano soprattutto polacchi, altrimenti romeni e bulgari. Una stima molto al ribasso fornita dai sindacati parla di almeno centomila stagionali che tengono in piedi questi due settori. Nonostante i regolamenti europei sul lavoro stabiliscano paghe uguali per chi svolge la stessa mansione, nei Paesi Bassi chi raccoglie la frutta con un contratto stagionale guadagna di media il 13% in meno dei colleghi con un impiego fisso, nota il Centraal Bureau voor de Statistiek (Cbs), l’Istat olandese. Un dato che gli stessi analisti definiscono «inspiegabile», ma che è possibile, paradossalmente, per legge. Infatti il principio della parità retributiva può essere derogato in caso sopraggiunga un accordo tra le parti sociali, come in questo caso. Non solo: il lavoro temporaneo, con le condizioni di svantaggio di cui sopra, sono consentiti dal contratto collettivo di lavoro. Questo tipo di somministrazione riduce al minimo i costi del lavoro e al contempo riduce le tutele. È evidente, quindi, il motivo del successo di questo modello di impiego.

La scappatoia legale è stata sempre tollerata perché altrimenti, evidentemente, si dovrebbe mettere mano all’intero sistema. A partire dai contratti collettivi. Lo ha scritto in modo chiaro il ricercatore dell’Università di Amsterdam Niels Jansen in un report di Social Economic Research Agency (Seo), istituto universitario che conduce studi per conto di ministeri o aziende. Il lavoro si intitola “La posizione dei lavoratori temporanei” ed è stato presentato anche alla Camera dei deputati olandese. Tra i principali risultati c’è il fatto che i contratti collettivi, per chi ha un lavoro temporaneo o stagionale, sono controproducenti. Chi si ritrova in questa situazione dovrebbe conoscere sia quello della categoria nella quale lavorano (come a esempio quella ortofrutticola), sia quello degli stagionali: una missione praticamente impossibile. Eppure il sindacato confederale olandese Fnv lo difende. Il sindacalista Erik Pentenga ammette che il contratto collettivo crea differenze salariali rispetto agli altri 800 contratti collettivi, ma molte delle disposizioni erano in buona fede. È un problema di uso improprio, non dello strumento di per sé.

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Autori

Lorenzo Bagnoli
Matteto Civillini
Sara Manisera

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Editing

Luca Rinaldi

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mikeledray/Shutterstock
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Stefan Widua, Moritz Knöringer, Frederic Köberl, Stephan Bernard/Unsplash