Il grande gioco delle piattaforme

01 Maggio 2023 | di Laura Carrer

Una delle cose più normali che ci viene insegnata sin da quando siamo piccoli è possedere. “Mio” e “tuo” sono aggettivi o pronomi possessivi per definire, ad esempio, cosa possiamo portare a casa con noi o meno, in un contesto di relazione con gli altri. La proprietà è un concetto fondante della nostra società e determina in modo inequivocabile il rapporto che abbiamo con chi ne fa parte. Le piattaforme digitali sempre più presenti nelle nostre vite di consumatori hanno superato questo concetto. Seppur in maniera molto controversa, vanno infatti esattamente nella direzione opposta: spingono verso la condivisione e l’uso dei loro prodotti, disponibili in ogni momento e luogo, al fine di mettere tutti al centro di un nuovo modo di consumare (più che di vivere). Lo vediamo con i contenuti musicali, che Spotify ha tolto dai cd che si riponevano con cura nelle custodie sopra gli scaffali.

Da un certo punto di vista, anche utilizzare una macchina per spostarsi in città o per le vacanze senza possederla è al passo con i tempi: in un sistema economico capitalistico che ha portato ineluttabilmente all’attuale crisi climatica è preferibile utilizzare mezzi sostenibili, che permettono di risparmiare soldi e incentivare indirettamente una pratica di società differente. Il concetto di condivisione è nobile, ma funziona se nessuno degli attori coinvolti guadagna più di altri.

La giungla del food delivery

#LifeIsAGame è la serie che ha indagato l’oligopolio del food delivery per raccontare l’ascesa di un nuovo modello organizzativo fortemente improntato sull’utilizzo di tecnologie digitali. Il nome della serie deriva da un ragionamento in merito alla vita lavorativa, e di riflesso anche personale, che i rider si trovano a sperimentare: definita dagli ordini che impartisce un’applicazione attraverso un processo continuo di “gamificazione” del lavoro, sempre più impersonale, fatto di bonus monetari, percorsi più veloci e in cui a guadagnare sono solo le piattaforme che hanno un infinito ricambio di lavoratori disposti a inforcare la bici e mettersi a competere. Consegnare pasti non è un gioco, ma da fuori può sembrarlo. Le sue regole sono fissate da algoritmi opachi e precarietà sul lavoro. Ciò che #LifeIsAGame ha esplicitato è il gioco invasivo che l’economia delle piattaforme del delivery continua a sperimentare, grazie a regole di sfruttamento mascherate da nuove, in contesti come il mercato del lavoro, la città, il settore della ristorazione.

Nell’ambito delle consegne a domicilio, la storia delle piattaforme nasce nei primi anni 2000 in Danimarca e si spinge fino all’Italia undici anni dopo. Si chiamava JustEat e faceva perlopiù da collante tra ristoratori e clienti che ordinavano pizze online tramite fattorini in bicicletta. Ricordo che un amico all’università lavorava negli uffici di questa piattaforma, e che il primo interrogativo che io e un gruppo curioso di compagni gli avevamo posto era: chi mai ordinerebbe del cibo a casa? Evidentemente molti di più di quelli che pensavamo.

Il cambiamento nel consumo di cibo, almeno nelle città, è stato radicale in poco più di dieci anni. Da quel momento in poi, JustEat ha acquisito una serie di competitor tra Spagna, Regno Unito, Canada e anche Italia, definendo la cifra di una strategia orientata all’aggregazione. Altre piattaforme hanno preso la stessa direzione assorbendo sempre più aziende e rendendo un mercato economico importante il lavoro del fattorino della pizza, fino a poco prima considerata solo un’economia informale. A separare il consumatore dal cibo che ordina c’è però una filiera determinata nella sua interezza dai distributori, per l’appunto l’oligopolio delle piattaforme, che spinge all’estremo limite, e come mai prima, il sistema capitalistico.

L’anello debole della catena

I protagonisti della filiera sono tre: il consumatore finale, che dalla sua app ordina cibo da casa e viene profilato nelle sue minime scelte e abitudini di consumo e al quale le varie piattaforme lasciano anche l’onere di decidere quanto valga la prestazione del fattorino. I ristoratori, piegati alla logica della “fabbrica di cibo” che prevede la creazione in serie di piatti pronti e adatti al trasporto in città, e che snatura la loro stessa attività commerciale. E gli ultimi, non solo nell’elenco ma anche di fatto, i fattorini. L’anello debole della catena, composta perlopiù da migranti spesso senza documenti in tasca nè diritti minimi sul lavoro e alla mercè di tutti.

Le piattaforme del delivery li hanno infatti relegati a capro espiatorio: sono vittime dei ristoratori, che spesso li lasciano in mezzo alla strada sotto la pioggia o sotto il sole perché la loro presenza dentro il ristorante disturberebbe i clienti; sono vittime dei consumatori, che li additano come motivo del ritardo nel portare il cibo all’uscio della loro porta e li puniscono di conseguenza con una valutazione negativa; e sono vittime anche della città che attraversano quotidianamente. Il lavoro per le piattaforme della gig economy, e quindi anche del food delivery, è precario per natura: anche se per la maggior parte dei lavoratori è l’unico lavoro, il guadagno che ne traggono non è assimilabile nemmeno a un ipotetico salario minimo, le ore lavorate sono esponenzialmente più alte che per ogni altro impiego, e l’unica costante che accompagna i lavoratori quotidianamente è un mix tra fragilità e insicurezza.

Per approfondire

Life is a game

Attraverso l’estrazione di dati e informazioni il capitalismo delle piattaforme governa un’economia finora considerata informale. L’oligopolio della gig economy si mostra attraverso decisioni algoritmiche e precarietà

Per le donne, poi, tutto peggiora. L’economia delle piattaforme ha portato indietro la lancetta dei diritti basilari sul lavoro all’inizio del Novecento: nonostante sia un lavoro considerato “innovativo”, tecnologico e moderno, che apparentemente si può svolgere quando si vuole durante la giornata e in autonomia, è invece ancor più degli altri un impiego che non fa che nutrirsi e reiterare dinamiche tipiche della struttura di una società patriarcale. Non permette un vero e proprio bilanciamento tra lavoro fuori casa e lavoro di cura, non fornisce neanche l’ombra di un sostentamento economico fisso, non garantisce sicurezza fisica né psicologica. In sostanza non è strumento di liberazione per le donne, al contrario di quello che racconta la retorica del lavoro autonomo.

Inghiottiti anche i ristoratori

Pensare che gli utili delle piattaforme del food delivery, tra l’altro scarsi, derivino dall’intermediazione tra ristoratori e clienti è ormai ipocrita. La nuova idea di impresa che propugnano è governata dall’estrazione di dati e informazioni grezze dal valore non solo strettamente commerciale ma anche organizzativo e politico, estrazione silente che viene compiuta su tutti gli attori della filiera.

Come detto, seppur in modo diverso, tutti i protagonisti della filiera contribuiscono indirettamente a tenerla in piedi e su questo il lockdown imposto dall’emergenza Covid-19 ha gettato una luce ormai difficile da spegnere. Non è sbagliato infatti dire che le piattaforme dettano le regole di un gioco al quale però poi non partecipano.

Nel Paese della cultura del cibo, i pesanti costi da sostenere per l’apertura e la gestione di un’attività nella ristorazione hanno portato le piattaforme a ritagliarsi il ruolo di “risolutrici”, introducendo un nuovo modello di cucina a basse spese iniziali che parimenti significa bassa qualità del cibo prodotto in serie. Fenomeni come le cloud e le ghost kitchen sono i più evidenti passaggi dall’intermediazione tra consumatore e ristorante a un’idea di cucina 3.0. Niente più sala né camerieri, niente più tovaglie a quadretti né sguardi per chiedere il conto. Solo il menù rimane vario, e il cliente lo può ordinare da un’app: va dal primo al dolce, attraversando più ristoranti che per sostenere le spese si sono riuniti sotto un unico brand virtuale.

In queste cucine che si vedono in zone della città ad alta richiesta di delivery un cuoco per ogni pietanza, in modo veloce e ordinato, impacchetta la sua parte di pranzo o cena e la aggiunge a quella prodotta dagli altri. Una piadina o un poké, ma anche una pasta alla carbonara e un cannolo siciliano. Associato ad un numero il pacchetto confezionato è poi dato nelle mani di un rider attraverso una finestrella, alla quale si affaccia senza sapere troppo chi c’è dentro e cosa stia facendo. Non conoscere cosa fa chi viene prima e chi dopo è un’altra regola del gioco del delivery.

Città visibile, città invisibile

Quando la pandemia da Covid-19 ha obbligato la chiusura delle città, una parte del processo di digitalizzazione che si sta imponendo già in altri campi nel contesto urbano è emersa prepotentemente in superficie. La città è diventata sempre di più un bene pubblico assoggettato a scopi privati. Di fatto, per i rider la città è il luogo di lavoro quotidiano senza formalmente esserlo. L’algoritmo sul quale si basano le piattaforme di delivery, e che regola il lavoro dei rider, non solo è segreto e inaccessibile, ma sta incessantemente ridisegnando la geografia urbana attraverso nuovi percorsi e nuovi luoghi. Una città scollata dalla città “reale”, alla quale i lavoratori oppongono quotidianamente una resistenza silenziosa fatta di scelte diverse e soste in luoghi non previsti. I rider si ritrovano ad aspettare gli ordini di consegna del cibo ai margini delle strade, sulle scalinate delle piazze, nei parchi deserti che per un processo lento di abbandono dello spazio pubblico da tempo non accolgono più i residenti.

Anche per Luca, rider italiano, il luogo più importante della città è il parco pubblico dietro alla stazione di Porta Romana: «Un luogo per me essenziale, che mi ha dato la possibilità di conoscere e fare davvero amicizia con alcuni colleghi. Un luogo dove cercavo di tornare quando non c’erano molti ordini perché questo lavoro può essere molto solitario». Come lui anche altri, soprattutto migranti, si trovano ad accontentarsi di spazi urbani pubblici non adatti alle loro esigenze e spesso insicuri. Una coppia di rider sudamericani che lavora in stazione Centrale, da dove parte per il turno tutte le sere, è l’emblema di questo senso di insicurezza e porta inevitabilmente con sé le storture di questo lavoro.

Magazzino fantasma

La trasformazione dello spazio urbano da parte delle piattaforme di delivery, con tutto ciò che in esso è inglobato e si può inglobare per uno scopo squisitamente privato, ha percorso però anche strade più tradizionali. Per permettere una consegna veloce della spesa a domicilio, la “promessa dei dieci minuti”, è stato necessario aprire decine di magazzini in città. Arrivare al cliente fornendo i prodotti acquistati a pochi minuti dall’ordine non è solo questione di quanto veloce corre il rider. Dipende inevitabilmente dalla quantità di magazzini ai quali può recarsi sfrecciando in velocità per ritirare la merce, luoghi prima riservati ad attività commerciali ben diverse. Negozi falliti, attività chiuse dopo la pandemia, vuoti urbani sono stati comprati dalle piattaforme di delivery per stoccare merce come di solito si fa nelle aree fuori dal centro.

In questi magazzini dalle vetrine mascherate e non accessibili al pubblico si riassume il visibile/invisibile delle piattaforme, perfettamente definite da una dicotomia che ha molte ripercussioni sul tessuto urbano. Una su tutte quella di svuotare spazi che avevano una valenza comunitaria o erano attività commerciali di quartiere, per renderli nuovamente vuoti e visibili unicamente online. All’interno ci sono infatti migliaia di prodotti ma nessuno può entrare a comprarli, solo ordinarli tramite app. Dieci minuti per consegnare potrebbe tutto sommato sembrare un fatto positivo per i fattorini: più ordini per tutti. La realtà è che le piattaforme di delivery non svelano come vengono ripartiti gli ordini dal proprio algoritmo, e nemmeno quanto di umano possa esserci nel controllarlo. I rider sono costretti a migliorare continuamente le loro prestazioni, o almeno cercare di farlo, e questo avviene di nuovo aumentando l’unico parametro sul quale hanno il controllo: la velocità. In giro non si vedono più bici normali ma quasi esclusivamente elettriche, con batterie acchittate alla bell’e meglio con il nastro adesivo.

Se non hai diritti, difendili

Nonostante le grandi problematiche che affrontano quotidianamente, dall’insicurezza sul lavoro alla mancanza quasi totale di tutele lavorative, i sindacati europei fanno molta fatica a sindacalizzare i rider. Questo, insieme al continuo finanziamento alla ricerca e sviluppo delle tecnologie che utilizzano, permette alle piattaforme di delivery di continuare incontrastate a crescere in barba anche a sanzioni di milioni di euro per la mancata adozione di contratti di lavoro subordinati.

L’Ispettorato del Lavoro spagnolo ha comminato una sanzione di 79 milioni di euro a Glovo, che ha sede proprio in Spagna, ma la compagnia ha fatto spallucce. Le strutture elefantiache dei sindacati tradizionali hanno il loro peso in questa perdita di potere nella contrattazione con le piattaforme. I collettivi e i movimenti dal basso legati alle lotte per i diritti dei lavoratori giocano invece un ruolo inedito: cercano i fattorini, ci parlano e li aiutano nelle questioni più basilari del loro lavoro quotidiano, li sottraggono alle maglie di un destino già scritto e a volte riescono anche nell’arduo compito di renderli coscienti della loro condizione. I collettivi fanno anche da ponte perché le loro lotte sono poi inglobate dai sindacati maggioritari.

Nonostante ciò, questo lavoro politico non risulta ancora sufficiente a rendere le piattaforme responsabili dello sfruttamento che operano davanti alla collettività. Un settore come quello della ristorazione, in Italia già ampiamente basato sulla precarietà e sullo sfruttamento degli addetti ai lavori, è stata la chiave di volta per le piattaforme di delivery: lì sono state lasciate indisturbate nell’ignorare deliberatamente le più basilari tutele sul lavoro, processo coadiuvato dalla tecnologia che esse stesse producono come più importante e vero prodotto della loro attività commerciale. Tecnologie abilitanti basate su infrastrutture che permettono a milioni di persone di connettersi l’una con l’altra, supportate da device che si interpongono tra il prodotto, chi lo vende e chi lo compra.

La narrazione del lavoro autonomo come liberatorio poi, di matrice anglosassone e fondata sul guadagno del singolo rider per ogni ordine come base da integrare con mance o bonus di ogni sorta per raggiungere un salario accettabile, è ancora cavallo di battaglia delle aziende di delivery. In fin dei conti, il modello che propongono è moralmente corrotto: né la crescita dei loro profitti, né la quotazione in borsa o le multe milionarie che vengono comminate a queste aziende cambieranno materialmente in alcun modo il lavoro dei fattorini. Lo spiraglio, forse, va trovato cambiando punto di vista perché le regole delle piattaforme di delivery non sono le nostre. L’alternativa, per noi, è giocare totalmente ad un altro gioco.

Foto: un frame di Emma, protagonista del documentario Life Is A Game in uscita prossimamente su IrpiMedia e al cinema – Marco Meloni
Editing: Lorenzo Bagnoli

Il fondo speculativo e l’advisor senza investitori: come è fallito il rilancio della GKN

28 Aprile 2023 | di Edoardo Anziano, Giovanni Soini

«Ora: 05:24 Data: 9/07/2021». Così si legge sull’etichetta di uno degli ultimi pezzi usciti dalla fabbrica GKN Driveline Firenze Spa di Campi Bisenzio, uno stabilimento di 26 mila metri quadrati incastrato fra il multisala UCI e il centro commerciale I Gigli. Siamo nella Piana di Firenze-Prato-Pistoia, a una dozzina di chilometri dal centro del capoluogo toscano. Il prodotto è un semiasse, uno dei componenti che trasferiscono l’energia del motore alle ruote, destinato a un mezzo Fiat. Questo stabilimento, che inizialmente si trovava a Novoli (sempre in provincia di Firenze), è appartenuto al gruppo fondato dalla famiglia Agnelli fino al 1994. La cessione alla GKN, storica azienda britannica leader nella fabbricazione delle componenti automobilistiche, rientrava nel piano cominciato in quegli anni di esternalizzazione della produzione di automobili. Il gruppo Stellantis – l’ultimo agglomerato di cui FCA, l’erede di Fiat, fa parte – è rimasto fino all’ultimo il principale committente di GKN.

Quel semiasse da quasi due anni giace immobile al termine di una delle linee di produzione. È lo specchio del fallimento di politiche per il rilancio del settore automobilistico da realizzare senza investitori, con piani industriali che esistono solo su carta e con traghettatori che alla fine hanno cercato di battere cassa allo Stato per tenere in piedi i loro progetti. Dentro la fabbrica, occupata da quando è iniziato lo stallo produttivo, il Collettivo dei lavoratori cerca di trovare in autonomia un’altra strada per salvarsi. La soluzione sembra però dover necessariamente passare da un sostegno con fondi pubblici.

Il semiasse prodotto della GKN nel luglio del 2021 – Foto: Edoardo Anziano

Acquisire, smembrare, rivendere

La crisi entra in fabbrica la mattina del 9 luglio 2021. Gli operai del turno di notte hanno da poco lasciato lo stabilimento, quando l’amministratore delegato Andrea Ghezzi invia un’email certificata ai rappresentanti dei lavoratori. In modo del tutto improvviso, Melrose «intende avviare una procedura di licenziamento collettivo relativamente a tutta la forza lavoro occupata». Sono 442 dipendenti a tempo indeterminato, di cui la maggior parte operai.

Ghezzi scrive che l’automotive è un comparto in crisi da tempo e non sarebbe riuscito a riprendersi dopo la pandemia. Lo stabilimento toscano non è più competitivo, con previsioni di fatturato al 2025 in calo di quasi la metà rispetto a prima della pandemia. Ghezzi parla di «indifferibile ed irreversibile decisione di chiudere lo Stabilimento», di «immediata interruzione della produzione», con la «consapevolezza che eventuali ulteriori investimenti non cambierebbero la situazione attuale».

Per i sindacati, il motivo reale è invece la decisione di delocalizzare la produzione dei semiassi per Stellantis nell’Europa dell’Est, dove costa meno. I lavoratori entrano quindi in presidio permanente, occupando lo stabilimento fiorentino: nasce il Collettivo di fabbrica dei lavoratori ex GKN . Intanto, i sindacati promuovono una vertenza per denunciare il mancato dialogo dell’azienda sui licenziamenti. A settembre 2021 il giudice del lavoro di Firenze condanna GKN per comportamento antisindacale. In parallelo, si aprono i tavoli di crisi presso il ministero dello Sviluppo economico (Mise) – oggi ministero delle Imprese e del Made in Italy (Mimit) – per trovare una soluzione al licenziamento collettivo. Soluzione che ad oggi ancora non si trova.

Chi possiede Melrose

Fra i principali azionisti di Melrose ci sono diversi hedge fund, fondi speculativi che puntano a massimizzare i rendimenti a prescindere dall’andamento dei mercati. Possiedono azioni Melrose due delle maggiori società di investimenti al mondo: le statunitensi BlackRock e Vanguard Group. Due giganti che, sommati insieme, gestiscono patrimoni per oltre 16 mila miliardi di dollari. Uno dei più antichi fondi d’investimento, Capital Group, possiede la maggioranza relativa delle azioni. Completano la lista dei maggiori azionisti un fondo più piccolo e di più recente costituzione come Select Equity, e Norges Bank, la banca centrale norvegese.

Fino a dicembre 2021, proprietaria dell’intera GKN è il fondo Melrose Industries Plc, che aveva acquistato il gruppo al prezzo di 8,1 miliardi di sterline nel 2018. Il fondo, di “mestiere”, incassa: il suo modello di business si basa sull’attrazione di investitori ai quali stacca dividendi ogni anno, a seguito di una strategia finanziaria di acquisizioni, ristrutturazioni o dismissioni. Il motto di Melrose è «compra migliora vendi». Un ciclo che, nel caso dello stabilimento di Campi Bisenzio, si è chiuso in tre anni, ma saltando la fase di miglioramento. Come ricostruisce Dario Salvetti, portavoce del Collettivo di fabbrica GKN, in un suo intervento alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, a Campi Bisenzio iniziano ad affluire macchinari per la produzione automatizzata, facendo calare la redditività dello stabilimento.

Chi possiede Melrose

«Quando arriva la crisi del Covid, questa valanga di macchinari, che stando fermi perdono valore e scaricano i propri ammortamenti sullo stabilimento, diventano ancora più devastanti», spiega Salvetti. Giovanni Dosi, Andrea Roventini e Maria Enrica Virgillito – tre docenti di economia della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa – in un articolo sulla rivista il Mulino hanno definito il modello di Melrose, già noto nel settore per precedenti simili, «chiusura e spezzatino»: le imprese vengono «spacchettate e date in pasto ai migliori offerenti». In venti anni di attività, è scritto sul sito di Melrose, i suoi azionisti hanno ricevuto oltre cinque miliardi e mezzo di sterline.

Nel bilancio 2021 di Melrose Industries Plc, lo stabilimento fiorentino è definito «insostenibile» – stessa definizione applicata in Gran Bretagna per quello di Erdington, nella periferia di Birmingham – nonostante nel 2017, prima dell’acquisizione, ci fossero già stati dei tentativi di riconversione. Se per la fabbrica inglese i lavoratori erano d’accordo nel procedere con la chiusura, a Firenze no, tanto è vero che nel bilancio si legge che il fondo inglese è riuscito «a garantire un futuro di reindustrializzazione del sito con un nuovo proprietario». Ecco perché il management dell’azienda insiste tanto sulla riconversione: è una parte del disegno di Melrose. La storia, in realtà, non è andata così e, a dispetto di quanto si legge nel bilancio, il destino dei lavoratori di Campi Bisenzio non sembra mai essere stato davvero sul piatto delle decisioni del fondo. La preoccupazione era invece proseguire nei progetti di «ristrutturazione», tra cui la «reindustrializzazione dell’impianto GKN Automotive di Firenze», in quanto queste operazioni possono contribuire fino al 4% del bonus incassato dai direttori del fondo.

Mentre Campi Bisenzio chiude, l’altro stabilimento italiano, quello di Brunico, in Valtellina, rimane aperto, perché l’intenzione è trasformarlo in un polo altamente tecnologico. Come analizzato da Fondazione Feltrinelli, nel quaderno Un piano per il futuro della fabbrica di Firenze, però, i dati non supportano la scelta di liquidare in particolare Campi Bisenzio, dato che anche altri stabilimenti, fra la cinquantina che compone il gruppo GKN Driveline nel mondo, vedono i loro margini di profitto, produttività e vendite diminuire a partire dal 2018.

La crisi del settore automotive

La vicenda di GKN va inserita in un processo di crisi più ampio, che non riguarda solo il settore della componentistica. Il destino del sito produttivo di Campi Bisenzio infatti, è legato all’intero comparto automotive, che comprende tutte le imprese coinvolte nella produzione di autoveicoli, dalla progettazione alla commercializzazione. La pandemia ha comportato l’accelerazione di tendenze pregresse, come i processi di delocalizzazione e digitalizzazione delle imprese, che hanno causato l’impoverimento tecnologico e reddituale di intere aree geografiche. Basti pensare che, nell’agosto 2021, un mese dopo il licenziamento collettivo dei dipendenti di Campi Bisenzio, risultavano in corso 87 tavoli di crisi aziendale presso il Mise.

Il ramo della componentistica dovrà affrontare anche un altro processo imminente: la transizione verso la mobilità elettrica. Con lo stop alla vendita dal 2035 di auto ICE, acronimo che indica tutte le auto a benzina, diesel, metano e GPL, l’Unione europea ha già intrapreso la strada dell’elettrificazione. La transizione, che coinvolgerà l’intera filiera automotive italiana, necessita quindi di una riconversione industriale che, al momento, contrasta con le prospettive occupazionali. Questo è dovuto anche al fatto che un’auto elettrica ha un quinto delle componenti mobili di un’auto a combustione interna, e quindi comporta un minor fabbisogno di manodopera, sia per la produzione che per la manutenzione. E il nostro Paese, forte di una lunga tradizione nell’industria del motore a scoppio, è fra i più esposti sul piano occupazionale.

L’ingresso della fabbrica di Campi Bisenzio occupato dal Collettivo di fabbrica dei lavoratori ex GKN – Foto: Edoardo Anziano

Un consulente di chiara fama

Per uscire di scena, Melrose ha bisogno che la cessione dell’azienda si concluda. La controllata GKN incarica come «advisor specializzato di comprovata fama» Francesco Borgomeo, imprenditore fiorentino di nascita e laziale d’adozione con alle spalle già varie operazioni di riconversione industriale.

Borgomeo è diventato un volto pubblico quando nel 2018 ha partecipato all’edizione della Leopolda, il festival delle idee di Matteo Renzi, con un accorato discorso sulle potenzialità dell’«economia circolare». Aveva in mano un sanpietrino prodotto da un suo gruppo di aziende, Saxa Gres, con le ceneri dei termovalorizzatori. Saxa Gres, nel 2018, ha acquisito e riconvertito una fabbrica di sanitari di Ideal Standard, all’epoca a rischio chiusura (oggi Saxa Gres è in crisi a causa dell’aumento vertiginoso dei prezzi del gas). La sua presenza alla kermesse renziana si spiega dal fatto che per rendere possibili le sue operazioni, Borgomeo afferma di aver pescato a mani piene dai provvedimenti promossi da Matteo Renzi quando era primo ministro. Tra questi, il principale è il Jobs Act, per il quale a settembre 2018, un mese prima del discorso di Borgomeo, la Corte Costituzionale ha sancito l’incostituzionalità per quanto concerne l’indennità di licenziamento, ossia il provvedimento che voleva modificare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

«A me – diceva dal palco della Leopolda l’imprenditore – interessa quella gente che da decenni sa fare la ceramica perché c’è una cultura del saper fare che è un patrimonio straordinario». Belle parole che sembrano applicarsi perfettamente alla situazione della GKN, sostituendo a “ceramica” “giunti di trasmissione”. Dal 2020, Borgomeo è anche presidente di Unindustria Cassino, l’associazione regionale che appartiene al sistema Confindustria, con la quale continua a puntare sulla presenza del litio nella regione per trasformare l’area in un polo industriale dell’auto elettrica.

L’opacità dei tavoli di trattativa del governo

Online sono pubblicamente disponibili solo dei riassunti dei tavoli di crisi, che evidenziano le posizioni espresse di volta in volta dalle parti in causa. Questi riassunti, tuttavia, non vengono concordati con le parti stesse, ma vengono pubblicate dal Ministero. Inoltre, secondo il Ministero «non esistono […] trascrizioni integrali relativamente all’attività svolta», come comunicato ai giornalisti che hanno chiesto formalmente di accedere agli atti integrali. IrpiMedia è però venuta in possesso delle trascrizioni delle registrazioni complete degli incontri presso l’ex Mise effettuate da chi era presente.

Già da novembre 2021, Borgomeo «ha approntato un piano di reindustrializzazione sottoposto con positivi riscontri a potenziali investitori», scrive la dirigenza a Mise e Ministero del Lavoro. Per il governo significa chiudere la procedura di licenziamento collettivo e avviare la richiesta degli ammortizzatori sociali con la nuova proprietà. Il piano prevede, in una prima fase, che sia proprio Borgomeo il nuovo proprietario dell’azienda, per poi annunciare a gennaio 2022 gli investitori che prenderanno il suo posto e reindustrializzeranno la fabbrica. «Sarei un pazzo se non avessi almeno un candidato affidabile, ne ho due», dice durante il tavolo di crisi del dicembre 2021, secondo una trascrizione integrale di cui è venuta in possesso IrpiMedia.

Si è così ufficialmente chiusa l’era Melrose ed è iniziata quella di Borgomeo. Prezzo e clausole dell’operazione sono dati confidenziali, conosciuti solo da Invitalia, l’agenzia controllata dal ministero dell’Economia, chiamata a partecipare al tavolo di crisi come garante dell’interesse pubblico.

A mani vuote

La nuova GKN di Borgomeo assume il nome di QF Spa, acronimo che sta per “Quattro F”, ovvero Fiducia nel Futuro della Fabbrica a Firenze Spa. Con il sostegno del Presidente della Regione Toscana Eugenio Giani, il piano per far ripartire la produzione a Campi Bisenzio sembra procedere su premesse solide: cassa integrazione ordinaria da inizio del nuovo anno, non più due ma ben tre investitori disponibili ad entrare nella ormai ex GKN.

Alla fine di dicembre 2021 c’è molto ottimismo. In una presentazione riservata che Deloitte ha realizzato per QF Spa ci sono anche i profili dei tre potenziali compratori individuati da Borgomeo. Il primo è una «corporation italiana» che vorrebbe produrre a Campi Bisenzio dei macchinari per l’industria farmaceutica; il secondo è una società quotata in Italia, che realizza principalmente impianti fotovoltaici e che nell’ex GKN vorrebbe produrre gli inverter, ossia gli strumenti che consentono di regolare la velocità di un motore elettrico; il terzo è una holding finanziaria che è a caccia di opportunità di investimento in un’ottica che sembra simile a quella di Melrose. È sul primo dei tre che Borgomeo si sente di puntare: «Sono più avanti rispetto ad altri, e potremmo quindi garantire un closing (cioè la cessione, ndr) entro questa estate, forse anche prima».

Tuttavia, nel caso qualcosa andasse storto, l’imprenditore dichiara di essere disponibile a prendersi personalmente la responsabilità. «Se le operazioni non andranno in porto comunque io ci sarò», afferma Borgomeo. Una promessa che viene messa su carta bollata con la stipula, a gennaio del 2022, dell’accordo quadro con tutte le parti in causa: se al 31 agosto 2022 la fabbrica non verrà ceduta al nuovo investitore, sarà QF, cioè Francesco Borgomeo in prima persona, a farsene carico.

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Dalle trascrizioni integrali dei tavoli di negoziato, si comprende che – durante tutto il periodo delle negoziazioni – le preoccupazioni di Borgomeo sono principalmente due: «Trovare un accordo con le organizzazioni sindacali», ovvero mettere fine all’occupazione della fabbrica e «coinvolgere il pubblico», per quanto il progetto industriale debba comunque «stare in piedi da solo».

Già nella presentazione di Deloitte però, realizzata proprio per l’entrata in scena di Borgomeo, si legge che «il progetto dovrà avere la possibilità di accedere ai fondi europei del Pnrr, agli incentivi speciali destinati agli investimenti in settori strategici oltre ai “Contratti di sviluppo” locali», ossia degli altri fondi messi a disposizione dal Mise. «Per favorire l’investitore dobbiamo eliminare i simboli del passato», dichiara l’imprenditore durante uno dei primi tavoli. Anche in questo caso, il riferimento è all’occupazione della fabbrica e alle lotte sindacali per impedire il trasferimento della produzione. La tensione con il sindacato sarà anche la scusa accampata dall’imprenditore per decretare la fine di un progetto industriale mai nato.

I segni di cedimento del castello di carte si vedono da marzo 2022. Secondo il resoconto sintetico del tavolo di crisi, disponibile online, Borgomeo parla di «difficoltà a portare avanti il progetto a causa dell’inagibilità dello stabilimento». La fabbrica, in realtà, è perfettamente accessibile nonostante il presidio degli operai, come provano le numerose visite istituzionali e le attività di sorveglianza e manutenzione regolarmente svolte dai lavoratori su mandato della stessa azienda.

Durante lo stesso tavolo di crisi, Borgomeo presenta le linee guida del nuovo piano industriale: investimenti per 80 milioni di euro e «produzioni customizzate nel settore della mobilità elettrica, della propulsione elettrica e delle energie rinnovabili, all’interno delle linee strategiche del Pnrr». «Questa fabbrica avrà un cuore molto importante di ricerca e sviluppo – afferma l’imprenditore secondo le trascrizioni integrali. Lo dico con un pizzico di orgoglio, perché siamo riusciti a convincere i grandi player industriali».

Passano i mesi, e gli investitori, invece di farsi avanti, iniziano a tirarsi indietro prima ancora di annunciare pubblicamente il loro interesse. Borgomeo chiede altro tempo ma non presenta un dettagliato piano industriale, condizione fondamentale anche per attivare gli ammortizzatori sociali. Il 4 agosto al Ministero si svolge una riunione il cui resoconto non è stato pubblicato online. Sono presenti gli attori istituzionali, i sindacati, ma non l’azienda. Qualche giorno prima, infatti, la QF di Francesco Borgomeo aveva costituito il Consorzio Iris Lab, insieme ad altre imprese dell’automotive e dell’elettronica, per far ripartire l’ex GKN.

«Borgomeo o no, questa reindustrializzazione la vogliamo portare a casa. Non ci sono stati presentati a questo tavolo tecnico, poco male, li chiameremo noi», dichiara un dirigente del Mise presente al tavolo. Se le aziende del Consorzio non si presentano al tavolo di crisi è semplicemente perché non sono investitori. È un’operazione di propaganda, che serve a mascherare la mancata presentazione di chi finanzierà il rilancio della fabbrica. Infatti, è lo stesso Borgomeo a confermare che sarà solo QF, e non il Consorzio Iris Lab, a farsi carico della reindustrializzazione.

Uno striscione fuori dalla fabbrica occupata – Foto: Edoardo Anziano

La costruzione di un’alternativa dal basso

A settembre 2022 la promessa di investimento autosufficiente e privato si è rapidamente trasformata in un progetto dipendente da soldi pubblici. «Al momento non ci sono investitori che entrano in QF», spiega Borgomeo durante un tavolo di crisi. Per questo «ho bisogno come QF di finanziamenti pubblici», aggiunge, parlando di «sostegno delle istituzioni nazionali e regionali, tra cui Invitalia».

Rispetto agli albori dell’operazione, l’investimento si è già ridotto da 80 a 50 milioni di euro. Di questi, la quota più rilevante, 15 milioni, dovrebbe versarla un investitore istituzionale, come Invitalia o Cassa depositi e prestiti. Sono dieci i milioni di «finanziamento soci e/o bancario» da trovare.

La stessa bozza di accordo con Invitalia è ancora a uno stadio embrionale: si accenna a un «prodotto di massima avanguardia, altamente customizzato», realizzato all’interno di uno stabilimento «completamente governabile da remoto e dotato di intelligenza artificiale». Persino la data di avvio del progetto è indicata con «31.12.XX». Nei fatti, però, il piano industriale non esiste. Lo afferma anche la Direzione provinciale dell’Inps di Firenze, che rigetta la richiesta di attivazione della cassa integrazione ordinaria, anticipata da gennaio 2022 dalla nuova proprietà di GKN per quasi 11 mesi. Scrive l’Inps che «la relazione tecnica è molto scarna e non illustra il reale andamento degli ordini e delle commesse». Rispetto alla capacità di ripresa della produzione, condizione essenziale per l’erogazione della cassa integrazione ordinaria, «le dichiarazioni aziendali sono molto vaghe e, nelle domande, è riportato testualmente: “ripresa attività prevista ma non certa”».

La parola fine la mette Borgomeo stesso, annunciando il 21 febbraio 2023 la messa in liquidazione di QF e certificando il fallimento della propria strategia imprenditoriale. Ai giornali racconta la propria frustrazione: «Tutti mi hanno trattato come un delinquente e invece io sono l’unico che ci ho (sic) messo i soldi», dice, accusando il Ministero per non aver preso in mano la situazione. Non la pensano così i lavoratori: «Più che gettare la spugna – scrivono i rappresentanti sindacali di GKN -, Borgomeo ha probabilmente gettato la maschera. Tutto quanto abbiamo sostenuto si è realizzato. Temiamo che come sempre la risposta delle istituzioni sarà debole o addirittura nulla». Intanto, i lavoratori spiegano dalla loro pagina Facebook, che «il liquidatore non sappiamo che faccia ha o che voce ha. Non paga gli stipendi, ferie, non consegna le buste paga, non agisce come sostituto di imposta, non consegna i Cud», mentre 200 decreti ingiuntivi sono stati accolti e sono iniziati i pignoramenti per ripagare i creditori.

Mentre Borgomeo si faceva avanti con il suo piano poi fallito, a marzo 2022, anche il Collettivo di fabbrica dei lavoratori ex GKN ha proposto la sua riconversione alternativa. Lo ha fatto grazie all’apporto del mondo accademico: in una conferenza stampa di fronte ai cancelli della fabbrica è stato presentato il «piano delle competenze solidali», a cura di docenti, ricercatori e ricercatrici dell’Istituto di economia della Scuola superiore Sant’Anna e del gruppo di ricerca solidale. È stato inviato alla proprietà e alle istituzioni che compongono il tavolo di trattativa già aperto da mesi presso il Mise.

Il piano prevede tre scenari: produzione di componenti meccanici per il trasporto pubblico locale verde, di componentistica per la filiera dell’idrogeno verde e impianti fotovoltaici o, infine, sistemi di robotica. I vari scenari sono tutti contraddistinti dal ruolo di Invitalia come garante dell’interesse pubblico. Il Collettivo ha lanciato un crowdfunding per lavorare “senza padroni” che scadrà l’8 maggio (hanno raccolto circa 120 mila euro per ora).

Nè Francesco Borgomeo, nè GKN hanno risposto alle richieste di commento di IrpiMedia.

Foto: Lo stabilimento della GKN Driveline Firenze Spa a Campi Bisenzio – Edoardo Anziano
Infografiche: Edoardo Anziano
Editing: Lorenzo Bagnoli
Ha collaborato: Carlotta Indiano

“SheCession”: la recessione è (ancora) donna

21 Dicembre 2021 | di Francesca M. Chiamenti

Siamo in piena Shecession. A differenza infatti della recessione che nel 2008 ha visto protagonisti gli uomini a causa della brusca perdita di posti di lavoro nei settori nell’edilizia e nell’industria manifatturiera (la Hecession o Mancession appunto), quella che il mondo sta vivendo ora è una crisi a dominanza femminile (da qui il termine she-cession, dove in inglese “she” corrisponde alla terza persona singolare femminile) dovuta in gran parte agli effetti sociali ed economici della pandemia globale da Coronavirus. Di sicuro c’è che la pandemia ha peggiorato sensibilmente le condizioni economiche delle lavoratrici di tutto il mondo. Ma la retorica sul fatto che ciò dipenda solo ed esclusivamente dal “fattore Covid” è un castello di carte che fatica a stare in piedi, e a dirlo sono prima di tutto i dati.

Nonostante infatti una leggera ripresa del tasso di occupazione nel 2021 dovuta all’allentamento delle restrizioni dovute al Covid – ripresa però che ha coinvolto entrambi i sessi, non solo quello femminile – le donne lavoratrici restano comunque sempre un passo più indietro. Secondo il report dell’Istat in collaborazione con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Inps, Inail e Anpal dal titolo Il mercato del lavoro. Una lettura integrata (II trimestre 2021) sono il 67,% gli occupati uomini mentre solo il 49,3% le donne. Ed è anche l’Organizzazione Internazionale del Lavoro ad evidenziare, in occasione della prima Giornata internazionale per la parità di retribuzione, come il gender pay gap, cioè la differenza salariale tra donne e uomini, sia una delle maggiori ingiustizie dell’attuale mercato del lavoro.

Donne & uomini

Il tasso di occupazione in Italia negli uomini e nelle donne tra il 2004 e il 2021, riferito al mese di gennaio di ciascun anno

Scrive infatti: «In Italia, il gap salariale di genere si attesta al 12 per cento, soprattutto a causa del minor accesso delle donne a posizioni apicali, la maggiore diffusione del part-time involontario, così come la discontinuità delle carriere professionali. Il part-time involontario, per esempio, ha un’incidenza sulle donne che è quattro volte superiore rispetto agli uomini. Questi – si legge nel report – sono alcuni dei fattori che “spiegano” la componente del divario retributivo di genere. Vi è tuttavia una componente “non spiegabile” che potrebbe mascherare situazioni di discriminazione di genere nell’impiego e nelle professioni».

Anche, ma non solo Covid

La pandemia ha notevolmente allargato la forbice tra occupazione femminile e maschile. Come ci racconta infatti la panoramica nazionale dell’Istat contenuta del documento Il mercato del lavoro 2020. Una lettura integrata, i tasti dolenti che hanno riguardato le lavoratrici italiane sono stati cinque. In primis la percentuale di donne che nel 2020 ha perso il lavoro è stata doppia rispetto a quella degli uomini (-1,3% di tasso di occupazione delle donne contro il -0,7% degli uomini). Secondo punto, tristemente prevedibile, è che il gender gap a livello lavorativo che si era palesato durante il lockdown non è stato colmato. Anzi: secondo le indagini Istat infatti, nel terzo trimestre del 2020 il tasso di disoccupazione femminile era dell’11% (registrando un +1,3% rispetto al 2019) contro il 9% maschile.

Terzo punto. A un calo della curva pandemica non è poi equivalso un sano reintegro della forza lavoro femminile. Solo il 42,2% dei 67 mila lavoratori che hanno fatto di nuovo ingresso nel mercato del lavoro dopo una precedente perdita dell’impiego era donna. Quarto elemento individuato dall’analisi è che anche le nuove assunzioni hanno penalizzato la parte femminile della popolazione. «Considerando i primi nove mesi dell’anno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, si registra un calo del 26,1% delle nuove assunzioni che hanno riguardato le donne a fronte della diminuzione del 20,7% dei contratti attivati per gli uomini», si legge nel report. Trend che si è mantenuto più o meno stabile per tutto il 2020. E queste assunzioni le donne, infine, le hanno dovute sudare di più anche in relazione al tempo impiegato per trovare lavoro: 100 giorni in media, tre mesi (21 giorni in più rispetto al 2019). Per gli uomini invece la media è di 76 giorni.

L’eterno fanalino europeo

Ampliamo però ora lo sguardo e spostiamoci in zona Europa perché l’Italia anche qui, nel confronto con gli altri ventisei Paesi, è riuscita a catalizzare l’attenzione su di sé. In negativo, di nuovo. Secondo i dati del rapporto Gender Equality Index 2021 riferiti all’Italia, infatti, con 63,8 punti su 100, il nostro Paese si posiziona al 14° posto nell’indice europeo di parità di genere. Il suo punteggio è di 4,2 punti al di sotto del punteggio dell’Ue. Come si legge nel report, che addolcisce nei modi linguistici una situazione decisamente critica: «Le prestazioni dell’Italia potrebbero essere notevolmente migliorate nel campo del lavoro, in cui ottiene 63,7 punti e si colloca costantemente all’ultimo posto tra tutti gli Stati membri dell’Ue. L’Italia è la più lontana dalla parità di genere nel sottodominio della partecipazione al lavoro, classificandosi 27° con un punteggio di 69,1 punti».

Per quanto riguarda la partecipazione al mondo del lavoro, l’Italia registra un tasso di occupazione a tempo pieno pari al 31% per quanto riguarda le lavoratrici e del 52% per i lavoratori. La media europea è invece del 41% per le donne e del 57% per gli uomini. E alle donne italiane non va meglio nemmeno in termini di durata della vita lavorativa che si registra sui 27 anni a fronte dei 36 degli uomini (in Europa si parla invece di 33 anni per le donne e 38 per gli uomini). Spostandosi poi in ambito retribuzioni le cose non sembrano migliorare. Il guadagno medio mensile (in standard di potere di acquisto) di una lavoratrice italiana è di 2.201 euro mentre quello di un lavoratore è 2.620 euro (in Europa le stime sono 2333 per le donne e 2819 per gli uomini). E a non migliorare è anche la situazione in relazione alla tipologia e libertà di movimento e crescita occupazionale offerta alle lavoratrici italiane in confronto a quelle europee.

In materia di “Segregazione nell’occupazione” – ovvero il fenomeno per cui alle donne è associata una gamma più ristretta di occupazioni rispetto agli uomini (chiamato segregazione orizzontale) e spesso legate anche a livelli di responsabilità più bassi (segregazione verticale) – i valori italiani sono rispettivamente del 26% per le donne e del 7% per gli uomini, mentre in Europa la media è del 31% per le donne e dell’8% per gli uomini. Così come per l’“Indice sulle prospettive di carriera” che segna un 52% per le lavoratrici italiane e un 56% per i lavoratori (63% e 64% le rispettive percentuali europee).

Forzatamente wonder women

Altra questione spinosa che ruota attorno alla galassia del lavoro femminile e al gender gap che lo caratterizza è inoltre quella del lavoro di cura non retribuito. Retaggio di una società che ancora non riesce a scrollarsi di dosso l’assunto per cui è compito della donna assolvere compiti di cura familiare e domestico, questo elemento finisce con il tramutarsi in un ulteriore impedimento nella già difficile corsa ad ostacoli per l’occupazione femminile. E a documentarlo è anche il Gender Equality Index 2021 che riporta come le donne italiane impegnate nell’assistenza dei figli, dei nipoti, degli anziani o delle persone con disabilità sono il 34% rispetto al 24% degli uomini; in una panoramica più ampia sono il 38% le donne che svolgono mansioni di cura non retribuita a livello europeo contro il 25% della controparte maschile. Stessa sorte nell’ambito di “Cucina e/o lavori domestici quotidiani” che vede l’80% dello svolgimento al femminile contro il 20% maschile.

Ma non andava meglio nemmeno l’anno precedente. Anzi. Il 2020, l’“anno del Covid” ha segnato una brusca frenata all’occupazione femminile che non solo ha visto uno stop forzato, come d’altronde anche quella maschile, ma ha anche perso un po’ di quelle “conquiste” raggiunte in tempi pre pandemici. Secondo analisi Istat, tenendo in considerazione la platea di donne lavoratrici tra i 25 e i 49 anni, «nel secondo trimestre 2020, il tasso di occupazione passa dal 71,9% per le donne senza figli al 53,4% per quelle che ne hanno almeno uno di età inferiore ai 6 anni». In maggiore difficoltà erano però le donne con figli piccoli soprattutto nel Mezzogiorno, dove ad avere un’occupazione è il 34,1% delle donne, contro il 60,8% del Centro e il 64,3% del Nord. E a voler tornare ancora indietro al 2019, prima del grande stop causa pandemia, stime Censis – contenute nel documento già citato – indicavano come una donna occupata su tre (il 32,4%, più di 3 milioni di lavoratrici) ha un impiego part-time, contro l’8,5% maschile.

Inoltre, si legge, «lungi dal rappresentare una forma di emancipazione e una libera scelta, il lavoro a tempo parziale è subito per mancanza di alternative da circa 2 milioni di lavoratrici (è involontario per il 60,2% delle donne che hanno un impiego part-time). Del resto, il 63,5% degli italiani riconosce che a volte può essere necessario o opportuno che una donna sacrifichi parte del suo tempo libero o della sua carriera per dedicarsi alla famiglia». Ma quante erano le donne lavoratrici italiane? Secondo il Censis quasi 6 milioni le lavoratrici con figli minori, di cui 2,4 milioni sono capofamiglia e 2 milioni hanno almeno tre figli minori. Tra le donne occupate con almeno tre figli inoltre «quasi 1,3 milioni (il 63,5%) lavora a tempo pieno e 171.000 (l’8,5% del totale delle occupate) sono dirigenti, quadri o imprenditrici».

Anche nel 2018, inoltre, le lavoratrici italiane continuavano a portare avanti, senza troppe libertà di scelta, la pratica per cui toccava loro modificare la propria attività lavorativa per combinare il lavoro retribuito con lavoro di cura non retribuito, esempio le esigenze di cura dei figli. Precisamente il 38,3% delle madri occupate (oltre un milione) contro poco più di mezzo milione di padri, l’11,9%.

Nodo pensioni

L’occupazione è un tasto dolente, ma non va diversamente nemmeno guardando alle pensioni. Anche in questo ambito le donne italiane non sono per nulla immerse in un humus politico-economico favorevole. Secondo il documento Quei 16 milioni di pensionati in Italia pubblicato dall’Istat il 2 marzo 2021, «le donne, nel complesso, sono oltre la metà di coloro che percepiscono una pensione, ma in termini economici ricevono poco meno del 44% del totale della cifra erogata». Disparità questa che l’Istat descrive come causa di un pericoloso mix di: tasso di occupazione inferiore rispetto agli uomini, carriere più brevi e discontinue, salari mediamente più bassi che equivalgono ad assegni pensionistici più modesti.

Alta invece la percentuale delle pensioni di reversibilità erogate alle donne italiane, il 90%, conseguenza della loro maggiore longevità. Ma il malessere in tema pensionistico ce lo tiriamo dietro da anni. Secondo il report pubblicato a novembre 2019 dal Censis Donne: lontane dagli uomini e lontane dall’Europa, il gender gap nel lavoro già nel 2017 il gap salariale per genere in questo ambito stimava a 5 milioni le donne che percepivano una pensione (con un importo medio annuo di 17.560 euro) mentre a 6 milioni gli uomini (con importo di 23.975 euro).

E tornando a oggi? Come è valso per l’anno scorso, anche per il prossimo anno il Governo ha deciso di riconfermare Opzione donna, ovvero la possibilità di pensionamento a 58 anni per le lavoratrici dipendenti e 59 anni per le autonome (sommati ad almeno 35 anni di contributi). Diversi però i giudizi non pienamente soddisfatti, con molte voci hanno lamentato dapprima un innalzamento di due anni per i requisiti di accesso al pensionamento e in seguito un ritorno a ciò che essenzialmente era già stato concesso in precedenza. Senza contare che, costrette in molti casi a lavorare part-time per adeguarsi alle esigenze di cura familiare, le lavoratrici finiscono per percepire somme pensionistiche nettamente inferiori dei lavoratori uomini.

Imprenditoria femminile: tra piccoli rilanci e soffitti di cristallo

Ambito che invece sembra riservare una recente controtendenza è quello dell’imprenditoria. Come consolidato dalle ultime stime italiane ed europee, quello dell’imprenditoria sembra essere l’unico settore in cui l’occupazione italiana intravede un rialzo. E di conseguenza anche l’imprenditoria femminile. Secondo il Rapporto imprenditoria femminile 2020 realizzato da Unioncamere in collaborazione con Si.Camera sono 1 milione e 340 mila le imprese femminili in territorio nazionale, il 22,0% del totale.

«Si tratta – si legge nel report – di una imprenditoria, a confronto con quella non femminile, prevalentemente più piccola di dimensione, più presente nel Mezzogiorno, più giovane, guardando sia agli imprenditori under 35 sia all’età dell’impresa. I settori a maggior presenza di donne sono quelli legati al Wellness, Sanità e assistenza sociale, manifattura, Moda, Istruzione e Turismo&Cultura, mentre dal punto di vista geografico le regioni più femminili sono Molise, Basilicata e Abruzzo per il Mezzogiorno, Umbria, Toscana e Marche per il Centro, e Valle d’Aosta per il Nord».

Imprese che contano circa 75,297 addetti. Ma che strutture hanno, a proposito di addetti, queste imprese femminile? Secondo i dati di Unioncamere riferiti al 2019, le imprese con a capo una donna composte da 0-9 addetti sono il 96,5% (94,5% quelle a guida maschile) e i settori in cui si sviluppano maggiormente sono Servizi finanziari e assicurativi (99,6%), Attività di servizi alla persona (99,3%), Agricoltura, silvicoltura e pesca (99,1%), Commercio (98,4%), Altri servizi 98,3%, Attività professionali, scientifiche e tecniche (97,9%). Le imprese femminili individuali vedono invece uno stacco maggiore rispetto a quelle maschili: 62,3% le prime, 48,7% le seconde.

Italia fanalino di coda

Il tasso della partecipazione femminile al lavoro nei Paesi dell’Unione europea

Nonostante la crescita registrata nell’ultimo anno dall’imprenditoria a guida femminile, a pesare sul futuro lavorativo delle donne italiane vi è – sempre e comunque – il fenomeno del cosiddetto “soffitto di cristallo”, che metaforicamente sta a indicare quel limite oltre il quale una lavoratrice non può spingere la propria carriera. Un limite trasparente che rende il gender gap negli ambienti di lavoro perfettamente limpido, cristallino, sotto gli occhi di tutti ma che nonostante ciò continua a essere alimentato.

«Le donne – ribadisce in un comunicato Antonella Giachetti, presidente Aidda (Associazione Imprenditrici e Donne Dirigenti d’Azienda) – si trovavano rispetto agli uomini in posizioni lavorative più fragili (posizioni meno decisive e meno indispensabili per l’impresa) e quindi più facilmente “eliminabili”, poi sicuramente ha giocato un ruolo importante il maggior bisogno di cura avvertito nella famiglia (per tutte le problematiche connesse alle restrizioni pandemiche) che ha fatto sì che nella famiglia chi si è ritirato dal lavoro fossero prevalentemente le donne e non gli uomini, infine sono stati proprio i settori a maggior vocazione di occupazione femminile (turismo, ospitalità, artigianato) ad essere più colpiti dalla crisi pandemica».

In merito alla questione “imprenditoria femminile” qualche movimento sembra esserci stato. Lo scorso 2 ottobre infatti è stato varato dal ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti il decreto sul Fondo impresa Donna che ha sbloccato il finanziamento di 40 milioni di euro. Aggiungendosi ai promessi 400 milioni delle risorse del PNRR, questa misura ha l’intento di incentivare e fornire supporto economico per l’avvio di nuova attività a guida femminile, con un particolare focus sui progetti con contenuti innovativi.

Gli aiuti economici per eliminare il gender gap nel mondo del lavoro sono misure necessarie e imprescindibili ma, come puntualizza la direttrice dell’Istat Linda Laura Sabbadini intervenuta in un evento organizzato da Aidda, «bisogna fare i conti con la resistenza culturale che esiste, in particolare, nel nostro Paese. Dobbiamo sapere ad esempio che al sud più del 60% delle donne laureate lavora, contro poco più del 20% di chi ha la licenza media. Dobbiamo abbattere questi stereotipi culturali, spesso inconsapevoli, investendo sulle persone fin da bambini, con una formazione continua. Dobbiamo dire basta ai libri di testo dove le donne sono rappresentate come casalinghe e gli uomini come dei capi. Serve una rivoluzione culturale».

Foto: HollyHarry/Shutterstock | Infografiche: Lorenzo Bodrero | Editing: Luca Rinaldi

Braccianti italiani, le conseguenze del «ritorno all’agricoltura»

#InvisibleWorkers

Braccianti italiani, le conseguenze del «ritorno all’agricoltura»

Matteo Civillini

Sembrava che quest’anno la frutta e la verdura dovessero restare a marcire nei campi, senza che nessuno le raccogliesse, a causa della chiusura delle frontiere provocata dal Covid. Così, tra le tante iniziative per scongiurare il pericolo, in aprile è stato aperto Jobs in country, un portale promosso da Coldiretti con l’obiettivo di raccogliere domanda e offerta per portare soprattutto italiani a lavorare nei campi e risolvere la carenza di manodopera dovuta all’emergenza coronavirus. La nota dell’associazione di categoria del 15 aprile diceva che erano già arrivate 1.500 candidature «di italiani con le più diverse esperienze – spiegava Coldiretti – dagli studenti universitari ai pensionati fino ai cassaintegrati, ma non mancano neppure operai, blogger, responsabili marketing e tanti addetti del settore turistico in crisi secondo Istat, desiderosi di dare una mano agli agricoltori in difficoltà e salvare i raccolti. L’aspetto del ritorno degli italiani nei campi era molto enfatizzato, come un elemento di discontinuità rispetto al passato.

A leggere i numeri, però, questo aspetto è più che altro retorica, così come lo era il rischio di buttare i raccolti. Come in altri ambiti, anche per il settore dei braccianti l’emergenza sanitaria non ha fatto altro che acuire fenomeni già esistenti, in particolare di precarizzazione del lavoro. Il fatto che, a coprire la manodopera straniera che avrebbe dovuto fare ingresso in Italia tramite Decreto Flussi, siano stati gli italiani, ha permesso di rendere più visibili alcune condizioni di lavoro: accettabili se si rischia il rimpatrio, altrimenti più difficili da mandare giù.

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Invisible Workers è la serie di inchieste coordinata da Lighthouse Reports che indaga sulle male pratiche, del tutto o in parte legali, che girano attorno al sistema dei lavoro in agricoltura, in Italia e in Europa.

I dati del 2019

IrpiMedia ha ottenuto dalla Uila, la sezione della Uil che si occupa di agricoltura, i dati dei braccianti a contratto nella scorsa campagna di raccolta di frutta e verdura, in tutto 955.239 persone. Il 63% circa sono italiani. Il dato non vale però per il Nord Italia, dove invece gli stranieri rappresentano il 55% della forza lavoro. «Questo dato è importante perché evidenzia come l’agricoltura sia un’attività che interessa in primo luogo gli italiani che, malgrado la difficoltà e la durezza del lavoro e la sua precarietà, lo considerano ancora una importante fonte di reddito», commenta a IrpiMedia Giorgio Carra, segretario nazionale Uila.

«È nel “lavoro grigio” che si nascondono elusione ed evasione contributiva e forse retributiva»

Giorgio Carra

Segretario nazionale Uila

Al di là dei ghetti tristemente noti come quelli della Piana di Gioia Tauro o del foggiano o in qualche altro contesto del Meridione, dove il lavoro è nero e la filiera è dominata dal caporalato, secondo Uila tra i principali problemi del settore agricolo c’è il “lavoro grigio”. È qui «dove maggiormente si nascondono elusione ed evasione contributiva e forse retributiva, dove andrebbero intensificati i controlli non solo delle forze dell’ordine a seguito di denunce o indagini particolari ma degli organi istituzionalmente preposti alla verifica della regolarità dei rapporti di lavoro», aggiunge Carra.

Un esempio riguarda la questione delle ore lavorate: dai dati Uila risulta che 140 mila braccianti risultano aver lavorato meno di 10 giornate all’anno. È un dato enorme, pari al 15% del totale. Per la maggior parte si tratta di italiani (60,6%) e il fenomeno è più marcato al nord (20,6%) che al sud (10,6%). È un dato reale o è frutto di un’elusione contributiva con l’obiettivo contenere i costi? Il dubbio c’è e diventa più tenendo conto del fatto che solo 320 mila lavoratori, un terzo del totale, raggiunge le 51 giornate di lavoro previste per accedere alle tutele previdenziali e assistenziali. Di questi, il 53% sono italiani, in maggioranza (50,6%) al Nord Italia. La Uila sottolinea tuttavia come rispetto al 2014 sia cresciuto il numero di lavoratori e di giornate pro capite, due dati che fanno pensare a una riduzione, seppur ancora insufficiente, del grigio.

Con il 2020, almeno a leggere le analisi a caldo delle associazioni di categoria, gli italiani impiegati nel settore agricolo dovrebbero essere aumentati. In alcuni casi, proprio il fatto che a lavorare ci fossero persone che non rischiavano di essere espulse nel caso in cui avessero perso il lavoro, sono emerse situazioni che dimostrano la precarietà endemica – tuttavia legale – che divora il settore. Come dimostra un episodio accaduto nel bolognese.

Il lavoro tramite agenzia interinale

A metà giugno, l’Unione sindacale di base (Usb) Lavoro agricolo ha pubblicato sul proprio sito la lettera di «alcuni lavoratori» impiegati da un’azienda di raccolta ciliegie del bolognese, la Selva Maggiore di Pianoro. Denunciano di essere stati assunti con la promessa di lavoro per almeno un mese, per poi, invece, finire alla porta dopo pochi giorni senza una chiara motivazione.

Grazia e Giulio Romagnoli siedono sia nel consiglio d’amministrazione di Selva Maggiore, sia in quello di Romagnoli Fratelli spa, leader italiano nella coltivazione di patate con un fatturato annuo di circa 33 milioni di euro. Giulio Romagnoli, ex patron della Fortitudo Bologna, una delle due squadre di basket del capoluogo emiliano, è stato coinvolto con la sorella nel cosiddetto “Patata gate”. Ovvero, una presunta truffa alimentare che sarebbe consistita nella vendita di tuberi stranieri spacciati per italiani, con conseguente aumento dei margini di guadagno. Giudicata con il rito abbreviato nell’ottobre 2019, Grazia Romagnoli è stata condannata a 10 mesi di reclusione (con pena sospesa) per corruzione tra privati. Il fratello Giulio è stato invece rinviato a giudizio nel processo ordinario. A una richiesta di commento, Selva Maggiore ha precisato tuttavia che «non vi è nessun legame tra “Selva Maggiore” e quanto oggetto del procedimento, fatti già ampiamente ridimensionati in sede di udienza preliminare e non ancora giudicati in via definitiva».

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Le madri lontane

Le migliaia di braccianti rumene e bulgare che lavorano nei campi di Italia, Spagna e Germania devono separarsi dai figli per mesi. La lontananza e la “maternità delegata” segnano i figli per sempre

Il sapore amaro del kiwi

Dalla provincia di Latina arrivano i kiwi Zespri, esportati in tutta Europa. I lavoratori indiani impiegati nella raccolta sono sottopagati e senza tutele. Le aziende locali rimandano ogni responsabilità a enti terzi di controllo

Dal Punjab a Latina, pagare per diventare schiavo

Come, attraverso i debiti, una rete di intermediari che collega l’India all’agro pontino tiene sotto ricatto migliaia di lavoratori indiani, sfruttati in uno dei maggiori distretti ortofrutticoli d’Europa

Secondo quanto risulta al sindacato, per la sua manodopera, fino all’anno scorso, Selva Maggiore faceva affidamento principalmente su stagionali rumeni e nigeriani, che durante il periodo della raccolta alloggiavano in azienda. «Tutti regolarmente inquadrati secondo le norme vigenti e retribuiti secondo le tariffe in vigore in Italia», sottolinea Selva Maggiore. Quest’anno, però, la pandemia ha bloccato le frontiere e l’ha portata ad attingere al canale delle agenzie interinali. Se per loro il lavoro a chiamata era comunque un buon affare perché permetteva di mantenere un titolo per restare in Italia, con gli italiani questo benefit non ha più alcun appeal.

Dal sito della Openjobmetis di Imola, circa una quindicina di persone ha trovato posto come «addetti alla raccolta ciliegie». L’annuncio diceva come tempo d’impiego «da inizio Giugno a metà luglio circa (con possibilità di proroga)». «L’impegno richiesto era di 35-40 giornate di lavoro, 39 ore a settimana, più eventuali proroghe», scrivono i lavoratori nella lettera pubblicata sul sito della Usb. La paga prevista è 7,56 euro l’ora, in pieno rispetto del contratto nazionale.

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Eugenio e Alberto

Eugenio e Alberto sono due dei braccianti che hanno risposto all’annuncio. Il primo, giovane precario di Bologna, già in passato ha fatto «lavoretti» nell’agricoltura. Il secondo è un chitarrista di flamenco, regolarmente in Italia da 15 anni: il Covid ha cancellato tutte le sue date e – di conseguenza – ogni sua fonte di reddito. Entrambi hanno bisogno di lavorare e Selva Maggiore sembra il posto giusto.

«Dopo una prima selezione presso l’agenzia, la società ci convoca per un colloquio formale con la dirigenza», ricorda Eugenio. «In quella sede ci ribadiscono chiaramente di aver bisogno un impegno per almeno 35/40 giornate, più una possibile proroga, e ci chiedono massima serietà».

L’offerta dell’agenzia di lavoro interinale

Sia Eugenio sia Alberto ricevono un’offerta di lavoro e la chiamata nell’ufficio dell’agenzia per la firma del contratto. È qui che trovano la prima spiacevole sorpresa. Invece di un contratto per l’intero periodo di lavoro, al gruppo di neo-raccoglitori di ciliegie viene presentato un accordo per i primi dieci giorni: un contratto di prova. «Ci dicono che questa è la prassi, il loro metodo per fare il periodo di prova, e che poi il contratto verrà rinnovato automaticamente», spiega Eugenio.

Il 25 maggio i lavoratori si presentano nella sede della Selva Maggiore per il primo giorno di lavoro. Vengono suddivisi in squadre da cinque componenti ciascuna e, dopo una breve spiegazione, si mettono all’opera per la raccolta dei frutti. Inizialmente il lavoro prosegue senza intoppi: «Ci avevano indicato un minimo giornaliero di casse che noi stavamo superando abbondantemente», ricorda Alberto, «il nostro responsabile diceva che eravamo i più produttivi».

Per approfondire

I lavoratori invisibili dell’agricoltura in Europa

I tre milioni di lavoratori stagionali dell’agricoltura in Europa tra sfruttamento, caporalato e irregolarità contrattuali

L’azienda, da parte sua, spiega di non aver violato alcuna legge e nega con forza che il lavoro si svolgesse in un clima di tensione. I sei braccianti che hanno smesso di lavorare avevano un contratto con l’agenzia interinale che scadeva il 3 giugno: «Tale contratto di somministrazione – si legge nella nota di replica che l’azienda ha mandato a IrpiMedia – è cessato senza che sia intervenuto alcun licenziamento o che la data coincidesse con la scadenza del periodo di prova pattuito con l’agenzia». Per quanto riguarda i dipendenti con un contratto a tempo determinato stipulato direttamente con l’azienda, nella risposta si legge che «come previsto dal contratto di lavoro agricolo di riferimento che prevede il carattere discontinuo e intermittente della prestazione» alcuni lavoratori «non sono stati in alcune occasioni convocati a causa di andamenti climatici avversi e andamento del raccolto inferiore alle attese».

Facendo i calcoli, se il netto per i lavoratori è di 7 euro all’ora, in una giornata piena di otto ore di lavoro, il guadagno è di 56 euro. Se tutte e dieci le giornate di prova fossero state tanto piene, il guadagno sarebbe stato di 560 euro. Poco per chi sperava di trovare un impiego per la stagione. Secondo quanto raccontano i lavoratori che hanno scritto all’Usb, intanto sarebbero stati impiegati nuovi lavoratori. In questo scenario, sempre secondo il sindacato, ci si troverebbe di fronte a una delle situazioni cui più lavoratori sono tenuti in prova con l’obiettivo di non far accumulare loro le giornate lavorative necessarie a raggiungere la quota per ricevere i contributi di disoccupazione. È il motivo di fondo per cui il sindacato si è scontrato con l’azienda, accettando di pubblicare la lettera degli ex dipendenti.

L’azienda spiega di non aver violato alcuna legge e nega con forza che il lavoro si svolgesse in un clima di tensione

Alberto ricorda con amarezza il momento in cui, senza preavviso, gli è stato detto che non c’era più bisogno di lui: «Questa decisione mi ha lasciato a terra, avevo accettato quel lavoro, rifiutando altre offerte, proprio perché mi avrebbe garantito uno stipendio per un mese e mezzo. Siamo stati trattati come numeri e non come persone», afferma. Al di là dell’aspetto legale, è fuori di dubbio che il lavoratore si aspettasse tutt’altro quando aveva risposto a quell’annuncio di lavoro.

«Ci risulta che ad alcuni lavoratori italiani assunti quest’anno per la prima volta l’azienda abbia detto “noi non siamo abituati a guardare a queste finezze, siamo abituati ad altro tipo di lavoratori”», prosegue il sindacalista dell’Usb, Federico Orlandini. «Questa situazione è migliore di tante altre, ma – conclude Orlandini mette comunque a nudo la precarietà di un settore selvaggio come l’agricoltura e come la retorica del “ritorno nei campi nel pieno rispetto dei diritti dei lavoratori’ sia falsa».

CREDITI

Autori

Matteo Civillini

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Lorenzo Bagnoli

L’economia criminale del post-emergenza Covid-19

6 Aprile 2020 | di Luca Rinaldi

In piena crisi è necessario progettare ciò che verrà dopo. La pandemia da Covid-19 ora in atto avrà strascichi economici e sociali di enorme portata e si entrerà in una fase di crisi economica importante. Lo scorso 31 marzo l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) ha presentato il rapporto sugli impatti di lungo termine generati dall’emergenza Covid-19. Il prezzo in termini di vite umane è già altissimo e l’Onu chiede agli Stati membri «il massimo supporto finanziario e tecnico» per fasce più deboli della popolazione. Stando alle stime del Fondo Monetario Internazionale ci prepariamo a vivere una crisi peggiore di quella del 2008 e una mancata risposta coordinata porterebbe a un taglio del Pil globale del 10%.

Allo stesso modo l’Organizzazione mondiale del lavoro ha stimato una perdita di posti di lavoro compresa tra i 5 milioni (scenario a basso impatto) e i 25 milioni (scenario a impatto medio-alto), con un costo per l’economia globale di almeno 860 miliardi di dollari che potrebbe toccare quota 3.400 miliardi. La stessa organizzazione stima che tra 8,8 e 35 milioni di persone in più si troveranno in condizioni di povertà lavorativa (working poor) in tutto il mondo, rispetto alla stima di inizio anno che prevedeva un calo di 14 milioni nel 2020. Una situazione quella dei lavoratori in situazione di povertà acuita dalla continua deregolamentazione del mercato del lavoro che anche in Italia sta mostrando tutte le sue crepe.

Una simile situazione inevitabilmente impatterà in modo significativo anche in Europa e in Italia: se nel vecchio Continente la quota di persone in condizione di povertà lavorativa è fissata al 9,6%, l’Italia supera la media Ue attestandosi al 12%, preceduta solo da Grecia, Spagna e Romania, che tocca quota 17. Qui e sulla prevedibile contrazione del credito si giocano due partite fondamentali per la tutela dell’economia del Paese, che in periodi di crisi scatena l’appetito delle organizzazioni criminali, in particolare quelle mafiose che possono contare sulla scorta di liquidità derivante dai traffici illeciti e pronta per essere reinvestita in attività del tutto legali. Prevedibile che il settore della piccola e media impresa che popola il panorama italiano sia un bersaglio ancora più facile.
Parola chiave: Working poor

I working poor, o lavoratori in condizione di povertà, sono coloro che, pur avendo un’occupazione, si trovano a rischio di povertà e di esclusione sociale a causa del livello troppo basso del loro reddito, dell’incertezza sul lavoro, della scarsa crescita reale del livello retributivo. Il fenomeno, causato anche da una progressiva polarizzazione del mercato del lavoro, che non facilita la disponibilità occupazionale per le fasce medie di reddito. Per l’Eurostat, l’ufficio statistico europeo, una famiglia rientra fra i working poors se almeno un membro della stessa lavora e se il reddito complessivo familiare è circa al di sotto del 60% (ma la percentuale per alcuni può variare) del reddito mediano del paese.

Scenari simili del resto si sono palesati con le ondate della crisi che si sono fatte sentire maggiormente tra il 2008 e il 2012. Allora si osservò un peggioramento generale delle condizioni di accesso al credito da parte delle imprese, sia manifatturiere sia dei servizi, una picchiata sull’erogazione dei prestiti bancari e in parallelo una recrudescenza nello stesso periodo dei reati di usura ed estorsione. Le più penalizzate furono le imprese con meno di venti addetti e il settore della vendita al dettaglio.

Allo stesso modo con la crisi in arrivo e allo stabilizzarsi dei numeri del contagio organizzazioni mafiose con grandi liquidità, come lo è soprattutto la ‘ndrangheta, individueranno quei settori produttivi in cui immettere i propri capitali. Questo succederà nelle aree economicamente più fragili del Paese, ma sarà uno scenario a cui fare attenzione anche nelle regioni più produttive del nord, che sono state le più colpite dal contraccolpo della pandemia.

Qui si andrà oltre lo schema del prestito a usura che, come ha sottolineato alcuni giorni fa sul Fatto Quotidiano il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, «continuerà a esistere solo quale reato tipico delle manifestazioni criminali meno ramificate ed evolute». Dunque la seconda fase di fatto setterà l’agenda criminale sul medio-lungo periodo toccando settori come il mercato immobiliare e la sanità arrivando a consolidare le proprie posizioni, ha sottolineato ancora Lombardo, anche all’interno del mercato creditizio e dei beni di prima necessità. Nei settori in cui arriveranno investimenti, finanziamenti a pioggia e appalti saranno necessarie regolamentazioni importanti anche per arginare i sistemi corruttivi. Tema ancora più caldo dal momento che si è destinati ad andare incontro a una stagione di appalti in deroga e non possono verificarsi situazioni come quelle dell’appalto Consip denunciata lo scorso 2 aprile da IrpiMedia.

«Molto dal punto di vista della liquidità delle mafie dipenderà dalla velocità con cui ripartiranno dopo il rallentamento i mercati illegali per poi fornire denaro a quelli legali»

Federico Varese, criminologo

«Molto dal punto di vista della liquidità delle mafie – spiega a IrpiMedia il criminologo dell’Università di Oxford Federico Varese – dipenderà dalla velocità con cui ripartiranno dopo il rallentamento i mercati illegali per poi fornire denaro a quelli legali: si guardi storicamente alle mosse della mafia italo-americana di Joe Bonanno dopo la crisi del 1929 il quale sospese la richiesta del pizzo per iniziare a erogare prestiti alle imprese a cui faceva estorsioni in precedenza».

Altri tempi, ma un modus operandi che nel tempo è diventato paradigma. La risposta dello Stato, delle banche e delle imprese al momento della ripresa dovrà dunque essere tempestiva e regolamentata anche se, afferma ancora Varese «ci saranno soprattutto piccole imprese che scontando irregolarità del passato avranno comunque difficoltà ad accedere al credito e si rivolgeranno ai mercati illegali. In questi contesti – ragiona Varese – le organizzazioni mafiose potrebbero anche non comparire tanto come fornitore di liquidità quanto come “garante” di chi presta denaro ma non necessariamente legato a famiglie mafiose. In questo modo la mafia entra in gioco come parte di un meccanismo e abilitata a usare la violenza». In sostanza un fornitore di servizi.

Il mercato dell’immobiliare, soprattutto se si verificheranno crolli nei prezzi, si consoliderà come uno dei settori prediletti per il riciclaggio, in particolare per mettere al sicuro il denaro. Qui non saranno solo le mafie a investire, ma anche e soprattutto attori come grandi fondi internazionali dove spesso è impossibile identificare il beneficiario effettivo.

Attenzione anche al cybercrime. Lo spostamento radicale di molte attività online sono un bersaglio ancora più interessante di quanto già non sia in questo momento per le organizzazioni criminali. Tra frodi e truffe «un mercato che crescerà in modo esponenziale in cui non saranno necessariamente le organizzazione mafiose “tipiche” a operare», sostiene Varese.

Infine la componente di consenso e ammortizzatore sociale delle organizzazioni criminali è l’aspetto più “di governo” dell’intera gestione del momento di crisi economica che ci apprestiamo a vivere. In prima istanza la categoria dei working poor sarà un grande bacino da cui pescare: dimenticata dalla politica è una categoria a cui le mafie guardano con interesse per guadagnare consenso. Ancora più interessante per le future economie criminali dal punto di vista politico saranno in particolare le aree di povertà estrema: «L’esempio dell’America Latina – specifica Varese – è in questo senso attinente. Lì le varie declinazioni criminali che siano gang, cartelli o mafie stanno offrendo sussidi di cibo e beni di prima necessità nelle favelas dove il governo non arriva».

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