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Dalle privatizzazioni a Dazn, l’ascesa del “diversamente oligarca” Blavatnik
#FuoriGioco
Lorenzo Bodrero
Non solo è uscito incolume dalla feroce battaglia per la privatizzazione dei principali colossi ex sovietici dell’energia dei primi anni Novanta. Ma anche straordinariamente ricco. A osservare quel periodo trent’anni più tardi, il capolavoro è stato però un altro: riuscire a smarcarsi da quell’alone di mistero e pregiudizio che circonda i grandi magnati russi – quelli che nelle cronache giornalistiche sono gli “oligarchi” – e diventare tra i più apprezzati imprenditori e filantropi dell’Occidente. Caso più unico che raro tra i facoltosi uomini d’affari di origine ex sovietica.
Len Blavatnik è, secondo Forbes, il 46esimo uomo più ricco al mondo ma non c’è dubbio che sia quello più invidiato tra gli oligarchi russi che, seppur ricchi quanto o più di lui, sono pressoché esclusi dal sistema finanziario occidentale per via delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea a partire dalla guerra in Crimea. Insomma, dove lui è riuscito, gli altri hanno fallito. Inclusi due dei suoi più vecchi soci in affari, protagonisti della scalata nei settori dell’alluminio e del petrolio che ha fruttato miliardi di dollari. E così, mentre a giugno 2017 Len Blavatnik veniva insignito del titolo di cavaliere della Regina Elisabetta II, meno di un anno dopo Oleg Deripaska e Viktor Vekselberg venivano inseriti nella lista di oligarchi sanzionati dagli Usa. Per Blavatnik, il cavalierato è stata la definitiva legittimazione all’interno dell’elite finanziaria europea nonché il compimento di un percorso lungo trent’anni fatto di scommesse imprenditoriali quasi sempre vinte su entrambe le sponde dell’Oceano Atlantico. Che prosegue grazie, anche, all’Italia, o meglio alla Lega Serie A che lo scorso 26 marzo ha assegnato alla piattaforma di streaming Dazn, una delle più recenti creature di Blavatnik, i diritti televisivi per la trasmissione delle partite di Serie A per il triennio 2021-2024 a fronte di un esborso di 840 milioni di euro all’anno, superando l’agguerrita concorrenza del colosso Sky.
Il Selvaggio Est
Classe ‘57, natìo di Odessa, oggi Ucraina ma all’epoca Unione Sovietica, Leonid Valentinovich Blavatnik si trasferisce da bambino con la famiglia a Yaroslav, storica città a nord di Mosca. Qui studia fino al liceo dove incontra Viktor Vekselberg, quello che diventerà uno dei signori dell’energia mondiale. A 21 anni si trasferisce poi a Brooklyn e negli anni successivi ottiene due master alla Columbia University e ad Harvard. Dopo sei anni dal suo arrivo in terra americana ne ottiene la cittadinanza e Leonid diventa “Leonard”. Poco dopo fonda la Access Industries, quella che da lì in poi sarà la holding e il braccio destro del suo futuro impero. È la fine degli anni ‘80 e i primi scricchiolii del crollo del Muro arrivano anche negli Stati Uniti. Dapprima riluttante, è il suo vecchio compagno di liceo a convincerlo a gettarsi nel caotico periodo di privatizzazioni dei colossi dell’industria sovietica.
Sono i mesi in cui Boris Eltsin avvia la vendita delle società statali: miniere, raffinerie e società estrattive dapprima intoccabili sono ora a portata di mano di chi ha capitale da investire e lo stomaco per superare una guerra senza esclusione di colpi in quelle che la storia ricorderà come “le guerre dell’alluminio” che secondo fonti ufficiose hanno causato un centinaio di vittime. «Ogni tre giorni qualcuno veniva ucciso», ha dichiarato nel 2011 un altro oligarca che proprio grazie all’alluminio è diventato uno degli uomini più ricchi della Russia, Roman Abramovich. Stava nascendo il “capitalismo di Stato” russo.
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Dalle guerre dell’alluminio emergono vincitori anche Blavatnik e Vekselberg acquisendo quote azionarie nel settore delle fonderie. Ma capiscono ben presto che i soldi veri sono nel petrolio. E così, insieme a un imprenditore di origini ucraine, acquistano il 40% di TNK, un gigante del settore petrolifero in grosse difficoltà economiche. Poco dopo, il trio ne acquisisce le quote di maggioranza e va alla carica di Sidanco, concorrente di TNK e in parte controllata dalla British Petroleum (BP). La società viene “accompagnata” alla bancarotta e i suoi asset più redditizi vengono acquistati ben al di sotto del prezzo di mercato, a tal punto che nel 1999 un tribunale di New York accusa Blavatnik e i suoi soci di “furto” ai danni di Sidanco. Le accuse vengono però fatte cadere quando viene decisa la fusione delle due società. Le trattative che portano alla joint venture tra TNK e BP sono oggetto delle attenzioni dell’ambasciata americana a Mosca. In un cablogramma pubblicato da Wikileaks, l’allora ambasciatore americano riporta gli esiti di un incontro con l’amministratore delegato di BP. Quest’ultimo definisce i negoziati con la controparte russa «unilaterali» ma «pur sempre meglio di una guerra aperta e della spoliazione dei beni della società» prima in corso. Alle trattative prendono parte anche Vekselberg e Blavatnik. Quest’ultimo, nel discutere la ripartizione dei dividendi da incassare in vista della fusione, risulta «disperatamente bisognoso di contanti per far fronte alla crisi finanziaria [globale, ndr]».
Le buone notizie per Blavatnik proseguono nel 2003 quando la BP mette sul tavolo otto miliardi di dollari per formare la TNK-BP in quello che diventerà il terzo produttore di petrolio in Russia. L’operazione, secondo il Financial Times, fruttò a Blavatnik due miliardi di dollari.
L’impero Warner Music
Il capitale accumulato rappresenta l’inizio della “separazione” dall’amico e socio in affari Viktor Vekselberg. Permette infatti a Leonard Blavatnik di diversificare il portfolio di investimenti ma soprattutto di prendere dimora nel cuore di Londra, allora come adesso centro finanziario dell’Europa, e di diventare parte integrante dell’elite londinese.
Nel 2010, attraverso la sua Access Industries, acquisisce per 1,8 miliardi di dollari la LyondellBasell, gigante statunitense in crisi del settore chimico. Quattro anni più tardi l’azienda ha più che quintuplicato il proprio valore, incoronando l’imprenditore di origini ucraine come l’artefice del più grande affare nella storia di Wall Street. L’entrata nel mondo dell’intrattenimento di Blavatnik arriva nel 2011 con l’acquisizione della Warner Music per 3,3 miliardi di dollari.
L’acquisto nel 2011 della Warner Music è tanto audace quanto vincente. Non solo si rileva remunerativa ma contribuisce ad allargare il solco che lo separa dagli altri oligarchi russi
La scelta è tanto audace quanto in controtendenza rispetto ai settori di investimento dei suoi ricchi connazionali. Sono anni in cui le vendite globali dell’industria musicale sono ai minimi storici, in piena transizione verso lo streaming e in un settore dominato dalla pirateria. Ma la scelta paga, sia dal punto di vista economico sia da quello reputazionale: otto anni più tardi, a giugno 2020, la Warner Music viene quotata sul Nasdaq e oggi vale circa 20 miliardi di dollari, quasi sei volte il valore al momento dell’acquisto. Nel 2013 Blavatnik vende le proprie quote in TNK-BP per 7 miliardi di dollari.
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Ma quanto del percorso professionale di Leonid Blavatnik è ascrivibile al suo istinto per gli affari e quanto, invece, a una precisa strategia di reputation washing per penetrare il capitalismo americano ed europeo?
Le strade dei due storici amici, Blavatnik e Vekselberg, ormai corrono parallele senza più incrociarsi e sono la diretta conseguenza di due modi opposti di presentarsi alla società. Mentre Vekselberg è a Mosca a districarsi tra la politica russa e i giganti dell’energia, Blavatnik si divide tra Londra e New York scegliendo un più basso profilo senza mai venire direttamente coinvolto con gli uomini del Cremlino. Una strategia che si dimostra vincente per fare breccia nella classe dirigente londinese, ancora più efficace a seguito di generose donazioni in ambito culturale e accademico sia nella City sia a New York. Nella sola Inghilterra dona 75 milioni di sterline all’Università di Oxford per la creazione della Blavatnik School of Government nel 2010, 50 milioni vanno al complesso museale Tate mentre altri 200 milioni di sterline finiscono alla Harvard Medical School. La sua generosità, combinata a una cura maniacale della privacy che lo tiene lontano dai riflettori, gli vale il cavalierato per servizi alla filantropia nel 2017.
L’ombra lunga del Russiagate
Se i primi anni ‘90, periodo in cui Blavatnik si guadagna l’ingresso nella ristretta cerchia di miliardari di origine sovietica, sono ancora circondati da un alone di mistero lo stesso si può dire degli anni più recenti. Quelli che ruotano intorno al quadriennio della presidenza Trump.
Non è un mistero che, negli anni, le sue donazioni alla politica americana siano state bipartisan. Le sue preferenze sono però in netto favore del partito Repubblicano. Utilizzando i dati disponibili su opensecrets.org – portale della Ong americana Center for Responsive Politics (CRP) che traccia le donazioni ai partiti e ai politici Usa – IrpiMedia ha infatti calcolato che dal 1996 a oggi Blavatnik ha donato 7,5 milioni di dollari al gruppo conservatore, contro i 1,9 milioni destinati al partito Democratico. La differenza si fa ancor più marcata durante la campagna presidenziale di Donald Trump: dal 16 giugno 2015 al 19 gennaio 2017 – periodo che comprende la corsa alla Casa Bianca di The Donald – finiscono nelle tasche repubblicane circa 5,3 milioni di dollari contro i 250 mila dollari donati ai democratici. Questa generosità gli ha garantito un posto a tavola a una delle cene di gala che precedeva la cerimonia di inaugurazione di Donald Trump e alla quale ha partecipato anche Viktor Vekselberg. I rapporti con il 45° presidente degli Stati Uniti sembrano però saldarsi ben prima di quella cena.
Makan Delrahim era il vice procuratore generale della divisione antitrust del Dipartimento di Giustizia americano, nominato direttamente da Trump. Ancor prima, tra gennaio e settembre del 2017, aveva ricoperto il ruolo di vice consigliere di The Donald. David Bernhardt è invece stato l’equivalente del vice ministro degli Interni dell’amministrazione Trump. Due uomini che sembrano avere in comune soltanto dei buoni rapporti col tycoon americano. E invece no, c’è dell’altro. Un documento visionato da IrpiMedia mostra infatti che i due nel biennio 2011-2012 sono stati registrati come lobbisti proprio per conto di Access Industries, la grande multinazionale di Blavatnik. Un dettaglio che non è passato inosservato agli occhi della giustizia americana, ancora impegnata a far luce sulle interferenze russe nelle elezioni presidenziali del 2016 e a chiarire i legami di Trump e dei suoi uomini con la Russia nell’ambito del Russiagate.
Amici e rivali a Londongrad
Secondo l’ultima classifica di Forbes in Gran Bretagna, Len Blavatnik è l’imprenditore più ricco del Regno Unito. A Londra ha acquistato il titolo nobiliare di “sir” nel 2017, grazie alle laute donazioni museali e alla sua incessante attività filantropica. L’imprenditore – ebreo di nascita – ha scelto Londra dopo gli studi negli Stati Uniti, dove già aveva ottenuto la cittadinanza. Prima di arrivare sulle sponde del Tamigi, si è fermato in Russia durante gli anni delle “guerre dell’alluminio”, la privatizzazione del comparto industriale che gli ha permesso, insieme a Vekselberg, Abramovich e Deripaska, di diventare tanto ricco. Si è trasferito a Londra nel 2005, negli anni in cui la capitale inglese si trasformava in Londongrad, un’enclave per gli imprenditori russi alla conquista dei mercati europei. Erano gli inizi degli anni Duemila.
Sono tanti i protagonisti delle guerre dell’alluminio e della privatizzazione del settore petrolifero che hanno trovato casa nella capitale britannica. Tra questi il più famoso è Roman Abramovich, che nel 2003 si è comprato anche il Chelsea, una delle sei squadre londinesi che giocano in Premier League. Come riporta la giornalista Catherine Belton nel libro Gli uomini di Putin, diverse fonti indicano l’acquisto del Chelsea come un’operazione orchestrata direttamente dal Cremlino, un modo per infiltrarsi in una delle industrie più amate al mondo, quella del calcio. Rumor del genere non hanno mai riguardato Blavatnik, per quanto il modo in cui si è mosso, per certi versi, ricordi quello del rivale. C’è però una differenza fondamentale: mentre Abramovich all’inizio dell’epoca di Putin è stato governatore nelle remote regioni del nord est della Russia, Blavatnik dal 1978 è stato più tempo all’estero che in Russia. Come per altro ha ricordato un portavoce di Blavatnik a Bloomberg, il magnate non è mai stato indicato come “oligarca” nelle diverse liste pubblicate dagli Stati Uniti, né è mai finito sotto sanzione.
Con la nascita di Londongrad, Londra è diventata il secondo campo di battaglia delle guerre tra oligarchi più o meno vicini al Cremlino. È dove risiede Boris Mints, magnate ormai decaduto, che a Mosca è stato arrestato in absentia per appropriazione indebita. Oppure Mikhail Khodorkovsky, un tempo proprietario di Yukos. L’oligarca è stato spogliato delle proprietà dopo essere diventato un nemico politico per Putin e da Londra, ogni tanto, continua a dire la sua su come funziona il potere a Mosca.
Altri nomi di imprenditori russi di casa a Londra sempre presenti nella lista Forbes dei più ricchi del mondo sono Oleg Deripaska, un tempo amico e poi rivale di Abramovich, anche lui imprenditore del settore metallurgico; Mikhail Fridman, socio di Vekselberg e Blavatnik nella joint venture TNK-BP e Alisher Usmanov, imprenditore nato in Uzbekistan proprietario del Facebook russo – VKontakte – e cittadino onorario del piccolo comune sardo di Arzachena, dove possiede una villa.
Le strade di Blavatnik e del suo vecchio compagno di liceo si separano ancor più nell’aprile 2018 quando il Tesoro americano lancia il secondo round di sanzioni contro la Russia che colpiscono, tra gli altri, anche Oleg Deripaska e Viktor Vekselberg, per “attività maligna” nei confronti degli Stati Uniti. Nel documento si legge di un passato professionale dei due soci non propriamente impeccabile: mentre il primo è stato accusato di riciclaggio di denaro, di aver intercettato illegalmente ufficiali governativi e di aver minacciato di morte alcuni suoi rivali in affari, nel 2016 l’azienda di Vekselberg si è vista arrestare due dei suoi manager principali per aver corrotto dei pubblici ufficiali.
La partita dei diritti TV
Con sede negli Usa, oggi Access Industries è un colosso del capitalismo a stelle strisce. Nel suo portfolio sono incluse partecipazioni nei settori petrolchimico, immobiliare, dell’intrattenimento e tecnologico. Nel 2007 fonda Dazn Group, società per la distribuzione online di contenuti sportivi. La crescita è lenta ma costante e, come per tutte le creature di Blavatnik, si rivela vincente: dagli esordi in Austria, Germania, Svizzera e Giappone oggi la piattaforma distribuisce contenuti sportivi in 30 Paesi.
Storico dei ricavi per dititti televisivi della Figc
I ricavi per la vendita dei diritti televisivi e radiofonici della Figc dalla stagione 2007-2008 alla 2018-2019
Valori in €/miliardi

A partire dalla stagione calcistica 2021/2022 e per tre anni il campionato di Serie A per la prima volta sarà trasmesso interamente in streaming. Con sette partite in esclusiva ogni giornata e altre tre in condivisione con un altro operatore ancora da individuare più tutta la Serie B in esclusiva, Dazn verserà nelle casse della Lega Serie A un totale di oltre 2,5 miliardi di euro in tre anni. Ossigeno puro per il maggiore campionato di calcio nel quale la vendita dei diritti per la trasmissione televisiva dei match costituisce la principale fonte di entrata (40%) per i club.
CREDITI
Autori
Lorenzo Bodrero
Infografiche
Lorenzo Bodrero
Editing
Lorenzo Bagnoli