Carichi, navi ed equipaggi abbandonati: il rischio di nuove Beirut
14 Agosto 2020 | di Ian Urbina
La causa ufficiale dell’esplosione, secondo gli inquirenti libanesi, sta nell’incendio di un carico di fuochi d’artificio, che avrebbe innescato l’esplosione di 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio stipato in un magazzino del porto. Ma la vera causa viene da più lontano, ed è radicata in fattori molto meno eclatanti. La mancanza di controlli da parte dei registri navali, che non responsabilizzano mai gli armatori, un inasprimento delle frontiere che blocca gli equipaggi impedendo loro di scendere a terra e li imprigiona su vecchie navi decrepite, regolamenti marittimi più improntati alla protezione dell’anonimato degli armatori che non alla trasparenza e al controllo della sicurezza.
Questi fattori permettono agli armatori e alle aziende navali di schivare con sorprendente facilità ogni conseguenza legale delle loro azioni, talvolta, con conseguenze fatali per gli equipaggi che vengono lasciati al loro destino.
L’arrivo a Beirut
La Rhosus, un cargo di proprietà russa che trasportava un pericoloso carico di nitrato di ammonio, era stata bloccata in porto dalle autorità libanesi nel 2013, dopo un ispezione che l’aveva giudicata non adatta a tenere il mare. Il proprietario, Igor Grechushkin, era stato sanzionato pesantemente, condannato a pagare circa 100.000 dollari fra paghe arretrate e tasse portuali.
In risposta, l’armatore ha fatto quello che molti altri fanno: ha dichiarato bancarotta ed è quietamente scomparso, lasciando la vecchia nave e il pericoloso carico sulle spalle delle autorità portuali libanesi.
L’equipaggio si è improvvisamente trovato in una situazione terribile, ma purtroppo fin troppo comune. Senza acqua potabile, né carburante, né cibo, senza conoscere la lingua locale, senza accesso alla rete telefonica, ne a un supporto legale. I marinai non avevano le risorse per comprare un biglietto per tornare a casa, e neppure il visto necessario a sbarcare. Alcuni dei membri dell’equipaggio, che pure avevano denunciato a chiunque li ascoltasse i rischi connessi al carico sotto i loro piedi, hanno dovuto aspettare un anno intero prima di poter tornare a casa, e ci sono riusciti solo grazie all’appoggio della International Transport Workers’ Federation (ITF), il più grande sindacato internazionale dei marittimi al mondo.
La nave Rhosus nel porto di Beirut nelle immagini dal satellite dal 2015 all’affondamento nel 2018.
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Centinaia le navi nella stessa situazione
Ogni giorno centinaia di navi, e migliaia di marinai si trovano nella stessa situazione. Un database creato dall ITF e dall’ILO (International Labour Organization) riporta circa 400 casi che coinvolgono cinquemila marittimi che sono stati abbandonati sulle loro navi fra il 2004 e il 2018. Parte del problema sta nel fatto che abbandonare una nave in porto o in mare è più semplice ed economico che smantellarla correttamente, anche quando crea seri rischi, come in un caso a Manila, dove una nave cisterna spagnola è al momento bloccata con 15 persone a bordo. La nave è a rischio incendio ed esplosione, perché piena di gas di petrolio liquefatto, e non ha abbastanza carburante per mantenere il carico refrigerato.
Che il proprietario della Rhosus abbia potuto così facilmente evitare le sue responsabilità è parzialmente una conseguenza della natura fluida e transnazionale di questo settore. Le autorità libanesi hanno avuto enormi difficoltà ad arrestare Grechushkin o a sequestrare le sue proprietà, visto che lui è residente a Cipro e la sua azienda, la Teto Shipping Ltd., è registrata alle isole Marshall.
Il covid-19 ha ulteriormente peggiorato la situazione, bloccando decine di migliaia di navi e circa 400.000 marinai nei porti e in mare. «L’ITF ha ricevuto centinaia di email al giorno, preoccupate per l’estendersi dei periodi a bordo in condizioni difficili» ha detto Stephen Cotton, segretario generale dell’ITF.
Le difficoltà delle autorità portuali
Le autorità portuali in tutto il mondo hanno difficoltà a prevenire l’abbandono di navi ed equipaggi, principalmente a causa delle politiche opache del settore. Per secoli le flotte mercantili hanno battuto la bandiera del loro porto d’origine. Quel paese era di conseguenza responsabile per i contratti dei marinai e per la sicurezza della nave. Questo ha cominciato a cambiare all’inizio del ventesimo secolo con l’emergere dei “registri aperti”, comunemente noti come “flags of convenience” (bandiere di convenienza, registri cioè, di paesi che non impongono regolamenti particolarmente rigidi per l’industria navale).
Le aziende che intascano le quote per il diritto a battere una certa bandiera, sono anche in teoria responsabili di controllare i loro clienti, assicurandosi che le leggi ambientali, di sicurezza e del lavoro siano rispettate, e dovrebbero condurre accertamenti quando qualcosa va storto. In pratica però, le “flags of convenience” creano un circolo vizioso che incentiva gli armatori a cercare quei registri che offrono il prezzo più basso e impongono meno restrizioni.
La Rhosus, ad esempio, batteva bandiera moldava, che è almeno dal 2013 su una lista nera per il numero di navi che sono state bloccate a seguito di ispezioni in base al Memorandum di Parigi, una delle convenzioni internazionali che regola la sicurezza in mare.
Ci sono stati dei passi avanti, compreso l’obbligo per i maggiori armatori di avere un assicurazione per le spese dei marittimi bloccati in porto. Inoltre, aziende che si occupano di immagini satellitari, come SkyTruth e KSAT cominciano a giocare un ruolo chiave nella ricerca, aiutando a collegare diversi incidenti come sversamenti in mare e navi abbandonate ai loro proprietari.
Ma finché la privacy garantita dal complesso sistema di paradisi fiscali e flags of convenience non verrà smantellato, le autorità marittime e nazionali hanno di fronte una battaglia impossibile per inchiodare gli armatori alle proprie responsabilità
Traduzione ed editing: Giulio Rubino – Foto: Vista aerea dell’area danneggiata al porto di Beirut – Alex Gakos/Shutterstock