Il mare di sabbia tra Libia ed Egitto

Il mare di sabbia tra Libia ed Egitto

Fabio Papetti

La notte del 4 settembre scorso le autorità di Tobruk, città nell’Est della Libia, hanno trovato 287 migranti, tra cui novanta minorenni. Provenivano tutti dall’Egitto e si trovavano in un capannone nella campagna a sud della città. Stando ai loro racconti, erano in attesa dei trafficanti che li avrebbero portati in Italia. Dal capannone, i migranti sono stati portati in uno dei centri di detenzione sotto il controllo del Directorate for Combating Illegal Migration (DCIM), l’autorità libica preposta alla gestione dei flussi migratori che risponde al Ministero dell’interno di Tripoli.

Dopo alcuni giorni di prigionia, le autorità libiche hanno portato il gruppo al valico di confine di Emsaed. In perfetta simmetria, come in un riflesso sull’acqua, si fronteggiano la stazione libica e quella egiziana: è lì che i migranti sono stati rimpatriati.

Il progetto The Big Wall

Da quest’anno IrpiMedia collabora con ActionAid nella realizzazione di inchieste che nascono da The Big Wall, osservatorio sull’esternalizzazione della spesa per gestire i flussi migratori diretti all’Italia. Questo lavoro raccoglie anche spunti dalle richieste di accesso agli atti di Asgi – Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione.

Quando la Libia era parte dell’Impero dell’Italia fascista, qui sorgeva Forte Capuzzo, avamposto del Regio Esercito italiano. Il generale Rodolfo Graziani aveva costruito una recinzione di filo spinato a protezione del confine che terminava 286 chilometri più a sud, presso l’oasi di al-Jaghbub, antica città berbera confinante con l’Egitto, di cui restano ancora ampie tracce. Oltre, inizia il mare di sabbia del Sahara. La vicinanza con l’oasi egiziana di Siwa ne fa ancora oggi l’unica tappa intermedia raggiungibile dai migranti lungo la rotta del deserto.

È il crocevia della maggior parte dei traffici di persone che provengono dal territorio egiziano, ed è qui che con molta probabilità i vari componenti del gruppo hanno attraversato in tempi diversi il confine: la maggior parte di loro proveniva dalle aree di Assiut e Minya, zone centrali dell’Egitto bagnate dal Nilo. Trasportati nei furgoni dai trafficanti egiziani, i migranti hanno attraversato il deserto prima di fare tappa all’oasi libica. Hanno raccontato che durante il tragitto i loro passeur li hanno lasciati in condizioni misere, con una minima quantità di cibo e acqua per combattere il caldo.

Da al-Jaghbub sono stati consegnati ai trafficanti libici della zona: qui diverse tribù e diversi gruppi paramilitari si spartiscono gli affari. Alcuni sono affiliati all’Esercito nazionale libico (LNA – Libyan national Army in inglese), la forza militare che domina la regione orientale della Libia, la Cirenaica. Dalla città berbera, i migranti sono stati in seguito portati verso nord, fino ad arrivare a Tobruk, dove avrebbero dovuto aspettare per poter prendere una nave che li avrebbe portati in Italia.

L’economia sommersa dell’Esercito nazionale libico

L’Esercito nazionale libico è stato creato ufficialmente nel 2014 dal generale Khalifa Haftar alla vigilia della sua campagna denominata Karama (Dignità) contro i gruppi estremisti islamici presenti nell’est della Libia, principalmente a Benghazi. Dopo una serie di successi, i militari si sono guadagnati il supporto della popolazione e dell’esercito libico. Ma quando gli è stato chiesto di riconoscere il Governo di accordo nazionale (GNA in inglese) stanziato a Tripoli, Haftar ha negato l’appoggio, contribuendo a creare la divisione di oggi tra Est e Ovest. In questo modo Haftar ha avuto contro buona parte della comunità internazionale occidentale, ad eccezione in particolare della Francia, e non ha potuto accedere ai finanziamenti statali erogati dal governo dell’Ovest.

In mancanza di un approvvigionamento economico legale, il LNA ha dovuto escogitare metodi meno convenzionali per riempire i forzieri. Uno degli esempi più evidenti è avvenuto proprio nella città di Benghazi, dove l’esercito è stato accusato dagli abitanti di aver saccheggiato o del tutto occupato le loro abitazioni e preso controllo delle loro attività durante il conflitto avvenuto dal 2014 al 2017: ancora oggi ci sono proteste per reclamare i beni sottratti.

Insieme ai furti di proprietà, gli uomini del LNA si sono arricchiti attraverso traffici illeciti. Tra quelli maggiormente redditizi, prima di ottenere il controllo sulla tratta di esseri umani, c’è stato il traffico di petrolio. Già dall’inizio della campagna Karama uno dei maggiori finanziatori delle operazioni militari è stato Ali al-Gatrani, allora presidente della Commissione per il commercio e gli investimenti internazionali del parlamento libico di base a Tobruk, coinvolto nella rete del traffico di petrolio che si dirama nel Mediterraneo e arriva fino in Paesi come Italia e Malta. È infatti uno degli storici sostenitori degli uomini della Brigata al-Nasr, in particolare della mente del contrabbando di gasolio, Fahmi Slim Ben Khalifa.

Una volta consolidata la posizione dell’esercito in territorio libico, il traffico si è espanso ed è diventato sistemico grazie all’aiuto dell’Autorità per gli investimenti militari e pubblici, ente governativo che gestisce i soldi pubblici nella regione sotto il controllo di Haftar. Dai dati della NOC (acronimo di National Oil Company, la compagnia petrolifera libica) sono risultati carichi di carburante ordinati dall’Autorità e destinati a rifornire le navi militari a Benghazi e Tobruk in misura nettamente superiore rispetto alle necessità di navigazione delle imbarcazioni.

Secondo diversi analisti, il petrolio in eccesso sarebbe spedito illegalmente dalle città costiere dell’est per arrivare fino a Malta, e non solo. Oltre ai collegamenti con i porti egiziani e ciprioti, negli ultimi due anni i traffici si sono estesi fino all’Albania: lo scorso 15 settembre la Guardia costiera albanese ha infatti sequestrato un carico dal valore di oltre due milioni di dollari trasportato da una nave attraccata al porto di Durazzo e avente equipaggio misto libico e siriano, come ha riportato la testata online Libya Review.

La disponibilità di tanto petrolio è dovuta al controllo quasi egemonico del LNA sulle grandi riserve di giacimenti petroliferi che caratterizzano le zone a Nord-Est e Sud-Ovest del Paese. Dai vasti campi nel deserto da cui si estrae il greggio viene l’80% degli export totali del Paese verso l’Unione europea, per un valore stimato intorno ai 3,2 miliardi di dollari. Sebbene le forniture per l’estero debbano per legge essere regolate dalla NOC, i militari di Haftar hanno in realtà un controllo diretto sui vari pozzi presenti e sulla gestione di parte dell’export.

Il LNA fa affidamento sulle proprie truppe o su gruppi armati affiliati per gestire le risorse e per ricambiare la loro lealtà chiude un occhio sul traffico di petrolio che queste effettuano in maniera ormai costante, come evidenziato da Noria Research. Il predominio sull’area dove si producono i prodotti petroliferi libici garantisce ad Haftar un’enorme potere: ad aprile di quest’anno infatti, Haftar ha avviato un blocco della fornitura di petrolio che è durato fino alla fine di giugno, causando perdite in termini di miliardi di dollari alla NOC e a Tripoli. Dopo la crisi, Haftar ha avuto diverse concessioni dal governo dell’Ovest, una su tutte il cambio dell’allora direttore della NOC, Mustafa Sanalla, in favore di Farhat Bengdara, persona vicina al generale libico.

Diversi migranti tra i 287 che sono stati poi presi dalle autorità libiche nel capannone poco fuori la città hanno dichiarato ad Al Jazeera di aver pagato fino a 170 mila lire egiziane, circa 8.700 euro, per potersi procurare un posto per il viaggio.«La mia famiglia ha dovuto vendere i terreni che avevamo per farmi partire», dice un ragazzo ai giornalisti. Alcune famiglie hanno venduto i loro terreni e i loro beni per poter dare ai figli, anche minorenni, una possibilità per raggiungere le coste libiche, da cui poi partire per l’Europa. Nel tragitto sono stati derubati dei loro cellulari, soldi, beni in loro possesso e sono stati rinchiusi senza contatto con l’esterno. Non è raro che alcuni migranti vengano torturati, a volte fino alla morte.

Nel capannone nella campagna di Tobruk non sono arrivati tutti insieme: c’è chi ha affermato di essere stato lì solo per qualche giorno e chi invece ha detto di esserci rimasto per mesi. Tutto questo fa pensare che ci sia un’organizzazione più grande di semplici trafficanti isolati che gestisce la tratta orientale della Libia. L’organizzazione non governativa specializzata in violazioni dei diritti umani Libyan Crimes Watch Organization, intervistata da IrpiMedia, ha rivelato che la zona che va da Tobruk fino alla città di Derna (ad ovest rispetto a Tobruk) è controllata dagli “Uomini rana” libici, l’unità militare di sommozzatori appartenente alla Marina Militare Libica sotto il LNA guidata dal maggiore al-Tawati al-Manfi. Sarebbero proprio loro i trafficanti che stavano aspettando i migranti prima di essere presi dalla polizia locale.

A destra, il Maggiore al-Tawati al-Manfi, a capo della Marina Militare della Libyan national Army (LNA) – Foto: Facebook

Gli Uomini rana infatti entrano in contatto con i trafficanti che percorrono la rotta fino a Tobruk e da lì prendono il controllo delle operazioni. I migranti egiziani sono stati lasciati nel deposito e man mano che passavano i giorni vedevano arrivare altri connazionali nel deposito. Una volta raggiunto un numero sufficiente da rappresentare un profitto vantaggioso per i trafficanti, il gruppo sarebbe dovuto essere spostato sulla costa durante la notte. Qui i migranti avrebbero avuto davanti a loro diverse barche di piccole dimensioni, solitamente di gomma o legno, che possono contenere tra le venti e le trenta persone. Scortati dalle truppe di al-Tawati, uomini e bambini sarebbero saliti sulle imbarcazioni che li avrebbero portati ad un’altra nave più grande, una “nave madre” (in Libia generalmente chiamata bulldozer) che aspetta lontano dalla costa (la nave è impossibilitata ad attraccare per via del basso fondale).

La dinamica è identica a quella descritta dagli inquirenti italiani per le traversate del Mediterraneo cominciate dalle città dell’Ovest della Libia. Come sempre, le fasi di imbarco dalle navi più piccole alla nave madre sono tra le più delicate per il rischio di capovolgimenti: già ad aprile di quest’anno sono stati rinvenuti in una spiaggia nella vicina città di Shahat, a metà strada tra Tobruk e Benghazi, i corpi di chi aveva provato a imbarcarsi per i bulldozers, mentre l’ultima notizia in questo senso è del 27 agosto scorso, quando 27 persone imbarcatesi di notte con un gommone sono state capovolte dalle onde del mare, e di loro solo sette sono sopravvissute.

Una volta occupata tutta la nave, i migranti avrebbero visto gli Uomini rana prendere i soldi dai trafficanti locali, una percentuale per ogni persona salita a bordo, prima di essere lasciati andare in mare aperto e, inshallah, raggiungere l’Italia.

IrpiMedia è gratuito

Ogni donazione è indispensabile per lo sviluppo di IrpiMedia

Non si hanno informazioni precise sulle partenze ed è difficile stabilire se a bordo rimanga uno dei trafficanti per pilotare la nave. Secondo alcune testimonianze ottenute dalla Libya Crimes Watch Organization con i familiari delle vittime, i migranti sarebbero istruiti sul posto su come condurre l’imbarcazione e gli verrebbe dato un telefono con cui contattare le autorità internazionali per essere messi in salvo in caso di naufragio.

Dal 2021 si è visto un incremento nell’uso di barche da pesca in legno di dimensioni maggiori. Portare un carico più grande è un prerequisito fondamentale per aumentare i profitti che derivano dal traffico di esseri umani. Queste navi hanno una maggior stabilità e forniscono maggior possibilità di riuscita del viaggio in mare aperto rispetto alle piccole o medie imbarcazioni gonfiabili utilizzate dai migranti, soprattutto da chi viene dall’Ovest libico. Grazie anche ai diversi canali social, i migranti si scambiano informazioni sui punti migliori da cui poter partire per raggiungere l’Italia e avere a disposizione mezzi adeguati è un fattore che pesa sulla scelta del posto in cui andare. Secondo il report del Global Initiative against Transnational Organised Crime (GITOC), nel 2021 si è registrato il doppio del numero di barche di legno rispetto al triennio 2018-2020.

Come funzionano gli ingressi dei migranti irregolari in Libia via aereo

A Benina, aeroporto di Benghazi, i militari dell’Autorità per gli investimenti pubblici e militari sono attivi già dal 2018. Si presentavano all’aeroporto per prendere i migranti che provenivano da Egitto, Bangladesh e Siria e li facevano passare attraverso i controlli, generando a volte diverbi con la sicurezza interna dell’aeroporto. Una volta fuori, gli uomini della Commissione consegnavano ai migranti, previo pagamento in contanti, un foglio che aveva la funzione di visto per far attraversare i confini della zona Est della Libia. Sicuri del loro stato regolare nel Paese, i migranti si avviavano verso l’Ovest, direzione Tripoli, per trovare un modo di arrivare in Italia. Ma una volta fermati dalle autorità occidentali della Libia, gli veniva detto che questi visti non erano regolari perché ottenuti da un’autorità che non era riconosciuta dal governo di Tripoli.

Con questo pretesto, i migranti venivano presi sotto la custodia delle unità di sicurezza, buona parte delle volte milizie o gruppi paramilitari, per poi essere portati nei centri di detenzione. Per evitare questa fine, che rendeva poco affidabile il percorso, dal 2019 l’Esercito ha cambiato strategia. Adesso, per chi arriva con una compagnia aerea, i militari forniscono un trasporto speciale, che chiamano taxi, e portano i migranti verso Tobruk, ora il centro di maggior concentrazione di migranti e di attività legate al traffico di persone.

Una rotta particolarmente trafficata soprattutto dai migranti siriani è rappresentata dall’asse Damasco – Benina. Questa connessione è resa possibile dalla flotta aerea della Cham Wings, compagnia di volo di base in Siria e connessa con il regime di Bashar al-Assad.

Già nel 2012 la compagnia aerea ha ricevuto sanzioni da parte degli Stati Uniti per l’accusa di essere complice nella logistica dell’esercito siriano durante la guerra scoppiata nel 2011. La compagnia era accusata di trasportare militari, armi e altri equipaggiamenti fondamentali all’esercito governativo, oltre che essere una delle vie di trasporto usate dal gruppo Wagner, milizia privata connessa con il Cremlino e tutt’ora presente in Libia. Alle sanzioni degli USA sono seguite quelle dell’Unione europea a dicembre 2021, quando diversi voli sono finiti sotto i riflettori per aver portato migranti provenienti dall’Iraq a Minsk, in Bielorussia, di fatto aggirando i tentativi dell’Ue di limitare il numero di migranti iracheni che arrivava alle porte d’Europa alla fine dello scorso anno. Sebbene l’Europa avesse pressato con successo il governo iracheno per fermare i voli diretti verso Minsk, il tragitto aveva solo subito una variazione, e invece di arrivare direttamente dall’Iraq, i migranti facevano tappa in Siria per poi partire alla volta della Bielorussia.

Ad oggi, stando alle fonti dell’organizzazione Libya Crimes Watch Organization, la Cham Wings opererebbe voli diretti da Damasco a Benina, facilitando il traffico di persone dirette in Libia. I migranti siriani infatti si trovano a pagare circa 1.500 dollari per arrivare a Benghazi, e da lì tra i 300 e i 500 dollari per avere un falso visto dalle truppe della Commissione per gli investimenti pubblici e militari della Libia dell’Est che gli garantirebbe accesso al territorio nazionale.

Da qui si inizia a capire il motivo dietro l’aumento delle partenze dall’Est della Libia. In un momento delicato come la fine della guerra interna tra Est e Ovest della Libia finita nel 2020 che ha indebolito entrambe le fazioni, le forze del generale Haftar hanno trovato un nuovo sbocco economico capace di generare profitti per l’esercito e allo stesso tempo espandere ulteriormente il controllo militare sul territorio. Questo è stato reso possibile dall’Autorità per gli investimenti pubblici e militari, un’organizzazione militare ora sotto il Generale Maggiore Ramadan Bu Aisha, il cui scopo principale è il coordinamento delle attività economiche del LNA e l’incremento delle sue capacità di produzione e militari. In pratica questo si traduce nella ricerca di altre fonti di guadagno e nel controllo di nuovi mercati non ancora battuti.

L’impiego delle truppe dell’Esercito fedele ad Haftar per supervisionare il traffico dei migranti permette ai trafficanti di gestire indisturbati gruppi più grandi di persone e di conseguenza aumentare i profitti anche per i militari che prendono una quota.

Il 26 ottobre è stato un caso esemplare del trend, con due grandi imbarcazioni segnalate dall’ong Alarm Phone alla deriva tra le zone di ricerca e soccorso maltesi e italiane con a bordo oltre 1.300 migranti. Le due navi erano partite proprio da Tobruk, nella cui campagna erano stati trovati i 287 migranti egiziani. Questi numeri dall’Est sono il risultato di un cambiamento avvenuto negli ultimi anni e che ha visto moltiplicare e professionalizzare i protagonisti attivi lungo la rotta. Come in un lungo ingranaggio di produzione in cui ogni operaio mette al servizio la sua competenza per completare un prodotto, così i vari attori coinvolti nella tratta mettono al servizio il controllo del territorio, mezzi navali o terrestri per generare quello che per loro è un prodotto, una nave carica di persone, paganti, pronta a salpare.

Migrare dal Bangladesh

I migranti che arrivano nell’Est della Libia non sono solo egiziani. Tanti sono bengalesi: «Il Bangladesh è uno dei Paesi che maggiormente esportano forza lavoro nel mondo», afferma Benjamin Etzog, ricercatore presso il Bonn International Centre for Conflicts Studies (BICC), istituto di ricerca tedesco. «In qualche modo il Paese ne ha fatto una strategia economica e molte famiglie basano la loro sussistenza sulle rimesse, i soldi che i migranti inviano da Paesi esteri a casa», continua.

Per lasciare il Paese e garantirsi un lavoro una volta arrivati in territorio straniero, i migranti dal Bangladesh si affidano al dalal, termine che viene benevolmente tradotto come “agente di viaggio” o broker. Il dalal viene rappresentato come un facilitatore del viaggio che riesce a fornire documenti e biglietti aerei. È stimato che circa l’80% dei migranti dal Bangladesh si appoggiano al dalal, figura presente nel villaggio o nelle campagne e conosciuto dalla popolazione locale o, in certi casi, vicina alla famiglia del migrante. Il prezzo che viene proposto per il trasporto e i servizi offerti è talmente alto che la famiglia è costretta a vendere le proprie terre pur di dare una possibilità ai propri figli.

Una delle prime tappe più battute sul percorso che li porterà poi in Libia è Dubai, dove, assicurano i dalal, si può trovare un buon lavoro per mantenere la famiglia che rimane a casa. In questo caso i dalal fanno le veci di compagnie di reclutamento fittizie basate negli Emirati il cui solo scopo è vendere illegalmente i visti lavorativi. Con la promessa di un lavoro, i migranti pagano fino a cinque volte il prezzo necessario per arrivare a Dubai e una volta arrivati si trovano in una posizione vulnerabile e facilmente sfruttabile, costretti a prendere i lavori più estenuanti per paghe misere.

Sfruttati e di fatto in balia dei datori di lavoro locali, hanno davanti a sé una scelta: tornare indietro o proseguire verso un’altra meta che possa garantire condizioni di vita migliori. Ma una volta che si è partiti per garantire un futuro alla propria famiglia tornare indietro non è un’opzione. Si decide dunque di proseguire, e di tentare la fortuna in un altro posto. È così allora che dagli Emirati Arabi Uniti partono in aereo per arrivare in Libia. Questi spostamenti sono resi possibili dai collegamenti tra le varie agenzie di viaggio che gestiscono il business della tratta di esseri umani.

«Queste agenzie sono un’evoluzione del dalal e tramite un sistema tra la legalità del volo e l’illegalità della corruzione e falsificazione di documenti, portano i migranti fino in Libia, a volte passando per la Turchia», dice Etzog. Il migrante paga in media 4.000 euro, e gli viene assicurato il viaggio, il pernottamento e un posto di lavoro quando arriverà alla sua meta finale.

Rispetto agli anni 2020 e 2021 in cui le città con il maggior numero di migranti provenienti dal Bangladesh erano nell’Ovest del Paese, una su tutte Tripoli, nel 2022 Benghazi, nell’Est, è al primo posto con oltre 5.600 persone presenti. I migranti bengalesi sono il gruppo con maggiori risorse a disposizione grazie ai legami familiari sparsi nel mondo e perciò conviene ai trafficanti mantenere attive le rotte migratorie e fornire i mezzi adeguati per il raggiungimento dell’obiettivo, così da fornire un’offerta costante alla sempre presente domanda. Se i migranti invece non possiedono abbastanza soldi da potersi garantire un posto sulle navi allora il tempo che dovranno restare in Libia aumenterà, con il conseguente aumento dei rischi a cui saranno sottoposti.

Questo è stato il caso raccontato dalla BBC di alcuni migranti arrivati dal Bangladesh con la prospettiva di lavorare in una fabbrica di Benghazi per poter guadagnare circa 450 euro al mese e poter così inviare soldi alla famiglia. Persuasi e aiutati dai dalal, sono giunti all’inizio del 2020 nell’Est libico per poi essere immediatamente presi dai trafficanti e portati in prigione e alle famiglie è stato chiesto un riscatto. Chi non può pagare il riscatto rischia di subire ulteriori abusi e torture nei centri di detenzione e, nei casi più estremi, morire. Anche una volta pagato il riscatto il migrante non sempre viene liberato, e prima di poter andare viene trattenuto dai suoi sequestratori per lavorare forzatamente in una fabbrica o in uno stabilimento, con con razioni misere di cibo e controllato a vista da guardie armate.

CREDITI

Autori

Fabio Papetti

Editing

Lorenzo Bagnoli

In partnership con

Foto di copertina

Una foto scattata il 2 luglio 2022 all’esterno del palazzo del governo della fazione dell’Est della Libia, a Tobruk, a seguito del saccheggio e delle proteste da parte della popolazione locale
(Getty)

Come l’Italia ha costruito le forze marittime della Libia

Come l’Italia ha costruito le forze marittime della Libia

Lorenzo Bagnoli
Fabio Papetti

Dal primo gennaio alla fine di settembre 2022 oltre 16.600 migranti sono stati riportati indietro dalle forze marittime della Libia occidentale. Le “operazioni” sono state più di 160, in netta crescita rispetto al passato. La parola “operazione” in questo contesto può assumere due significati: salvataggio, oppure intercettazione di una barca con a bordo un gruppo di migranti. In entrambi i casi il finale è lo stesso: i passeggeri ritornano in Libia per essere nuovamente incarcerati in un centro di detenzione, in attesa di pagare di nuovo il proprio riscatto e tentare nuovamente la fortuna.

Il report dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) del 24 ottobre afferma che nelle prigioni ufficiali ci sarebbero oltre 3.500 persone su circa 43 mila richiedenti asilo e rifugiati nel Paese.

Il progetto The Big Wall

Da quest’anno IrpiMedia collabora con ActionAid nella realizzazione di inchieste che nascono da The Big Wall, osservatorio sull’esternalizzazione della spesa per gestire i flussi migratori diretti all’Italia. Questo lavoro raccoglie anche spunti dalle richieste di accesso agli atti di Asgi – Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione.

Le foto dell’articolo sono realizzate dalla fotogiornalista Sara Creta, che da anni segue inchieste e reportage sui migranti.

Sono numeri che testimoniano una crescita nell’attività delle forze marittime libiche. “Risultati” che senza il contributo dell’Italia e di altri Paesi europei, la Libia non avrebbe mai potuto raggiungere. Solo l’Italia infatti ha fornito almeno 12 navi e gestisce gli affidamenti delle gare per la loro manutenzione e la fornitura di equipaggiamenti specifici. Organizza i corsi di formazione degli equipaggi e guida il progetto per la creazione di un centro di coordinamento delle operazioni di salvataggio (in inglese Maritime rescue coordination center – Mrcc). Sono questi i mattoni con i quali l’Italia ha costruito il Grande Muro delle frontiere esterne in Libia. Un muro la cui costruzione è stata spinta dal Memorandum of Understanding tra il governo italiano e quello libico, entrato in vigore a febbraio del 2017 e in attesa di automatico rinnovo (per altri tre anni) il 2 novembre. L’accordo ha disegnato i confini della collaborazione per il controllo delle frontiere.

Lo scorso anno ActionAid ha lanciato The Big Wall, il Grande Muro, un osservatorio sulle politiche di contenimento dei flussi migratori, che l’Italia, con il sostegno dell’Unione europea, ha messo in piedi a partire dal 2015. Il progetto ha rivelato che l’Italia si è impegnata a spendere quasi un miliardo di euro per spingere le frontiere sempre più a Sud, allo scopo di evitare nuove partenze e rendere meno visibile il fenomeno migratorio all’opinione pubblica europea.

La Guardia costiera libica durante un’operazione di intercettazione nel Mediterraneo centrale – Foto: Sara Creta
Un gruppo di migranti a bordo di un vascello della Guardia costiera libica a seguito di un’operazione di intercettazione nel Mediterraneo centrale – Foto: Sara Creta
Uno scorcio del centro di detenzione di Tajoura. Qui, secondo l’Onu, nel luglio 2019 una bomba sganciata da un aereo straniero a supporto della fazione guidata da Khalifa Haftar ha ucciso 53 persone e ferite 130 – Foto: Sara Creta

Quest’anno IrpiMedia e ActionAid hanno cercato di capire come siano stati spesi i soldi del Muro nel Mediterraneo centrale, la rotta seguita dai migranti per raggiungere l’Italia da Libia, oggetto di questa inchiesta, e Tunisia, protagonista della prossima. L’obiettivo di fondo, stando ai documenti, è stabilizzare i Paesi per interrompere i flussi migratori e combattere l’immigrazione alla radice. Evidentemente, però, i due Paesi nordafricani sono tutt’altro che stabili e gli aiuti economici hanno semmai alimentato, invece che pacificato, le divisioni interne. La logica del Grande Muro alimenta la ricattabilità dell’Italia e dei suoi partner europei: mettendo queste risorse in mano ai Paesi nordafricani si diventa dipendenti dalla loro politica interna nella gestione delle frontiere d’Europa.

Mattone su mattone

I mattoni del Grande Muro sono bandi di gara che rispondono a strategie disegnate da convenzioni spesso sconosciute all’opinione pubblica. Le fonti di finanziamento sono sia italiane, sia europee. Non le amministra un’unica cabina di regia e il risultato è una spesa frammentata su diverse stazioni appaltanti: Polizia, Guardia di Finanza, Marina Militare ed Invitalia, l’agenzia che ha tra le sue funzioni l’implementazione di progetti europei. Poche di queste pubblicano i bandi di gara completi e in ogni caso il processo di finanziamento non è trasparente. Da anni molte ong chiedono una diversa condivisione dei dati, alla luce delle ripetute violazioni dei diritti umani dei migranti e delle morti in mare.

La mancanza di trasparenza ha anche una conseguenza più politica: senza dati completi è impossibile valutare quanto questi progetti abbiano realizzato i loro scopi. C’è un’espressione in inglese che descrive questo scenario: «muddle through», tirare avanti raggiungendo qualche risultato, ma ben al di sotto delle aspettative e delle promesse iniziali.

La Libia è uno Stato sovrano in punto di diritto, ma nei fatti il controllo delle sue frontiere, il suo esercito e la sua integrità territoriale sono a brandelli. «I gruppi armati libici e i loro leader hanno preso il ruolo che un tempo era di élite politiche e imprenditori corrotti, diventando così uno strumento fondamentale per qualsiasi sviluppo del Paese», scrive il ricercatore Emadeddin Badi in un articolo pubblicato dall’Ispi l’8 luglio.

Un conflitto senza soluzione
In Libia ci sono due governi, uno a Tripoli sostenuto dalle Nazioni unite e uno a Tobruk, sostenuto dal parlamento libico, che si contendono il potere. Il primo è guidato dal premier Abdul Hamid Dabaiba (traslitterato anche come Dbeibah), il secondo da Fathi Bashagha. In agosto la capitale Tripoli è tornata contesa tra le bande armate che sostengono l’una o l’altra fazione. Bashagha da giugno chiede al presidente del Consiglio sostenuto dalle Nazioni unite di cedere il passo. Dbeibah avrebbe dovuto governare fino allo scorso dicembre, quando avrebbero dovuto svolgersi delle elezioni che invece non si sono mai tenute.

L’instabilità si riflette anche sui migranti: insieme alla crisi economica in Tunisia, è tra i principali push factor che hanno spinto le partenze di quest’estate. Da oltre un anno, alcuni migranti hanno organizzato un movimento, Refugees in Libya, per denunciare gli episodi di repressione e gli arresti arbitrari che subiscono. Chiedono all’Italia di non rinnovare l’accordo con la Libia. Grazie all’aiuto di una rete di attivisti internazionali, il gruppo ha costruito un proprio blog.

Anche le forze marittime sono frammentate e contaminate dai gruppi armati di varia appartenenza. Ci sono formazioni che rispondono a signori della guerra per la maggior parte fedeli personalmente a Dbeibah. Poi ci sono la Guardia costiera libica (Gcl) e l’Amministrazione generale della sicurezza costiera (di cui Gacs è l’acronimo inglese), che sono affiliate al ministero della Difesa e al ministero dell’Interno di Tripoli. La differenza è che le prime sono forze “private”, che rispondono direttamente all’ufficio del presidente, le secondo invece sono “ufficiali” e quindi rispondono alla catena di comando dei ministeri di riferimento.

Anche nelle forze ufficiali sono tuttavia presenti soggetti di ben altra natura, come la brigata al-Nasr, considerata dalle Nazioni Unite un’organizzazione di trafficanti di esseri umani e contrabbandieri di gasolio. La brigata costituisce anche la Gcl di Zawiya, ovest della Libia. Gli uomini di al-Nasr sono guardie e ladri allo stesso tempo, interessati alle forniture italiane per imporre il proprio potere in mare. Per loro e per altre forze marittime della Libia la promessa di effettuare salvataggi dei migranti è stata negli anni una moneta di scambio.

Il cimitero del Mediterraneo centrale

A cinque anni dall’inizio della cooperazione, dalla Libia si continua a partire e morire annegati: il tasso di mortalità del 2021 è stato del 4,7%, quello del 2017 era il 2,6%. Il dato indica la percentuale di persone annegate e disperse sul totale di chi è partito quell’anno

L’opacità dei flussi di denaro

L’instabilità permanente della Libia è stata presentata ufficialmente come la principale causa dei ritardi nella realizzazione dei progetti per controllare le frontiere terrestri e marittime della Libia. Il Support to Integrated Border Management and Migration Management in Libya, acronimo Sibmmil, avrebbe dovuto concludersi nel 2020 ma solo nel corso del 2022 ha cominciato a ottenere alcuni dei risultati previsti. Ha come obiettivi principali il rafforzamento sia delle capacità di salvataggio in mare, sia del controllo del confine marittimo.

Tra il 2017 e il 2022, secondo la Ragioneria di Stato, dei 32 milioni di euro da gestire dei fondi europei dedicati a questo progetto, l’Italia ne ha spesi 27,2. La dotazione prevista totale è di circa 44,5 milioni di euro, di cui l’Italia ha fornito di tasca propria circa 2 milioni. Il ministero dell’Interno è l’ente attuatore di Sibmmil, che rappresenta uno dei principali mattoni sui quali si regge The Big Wall.

Sibmmil alle frontiere terrestri: l’accordo con l’Oim

Tra i beneficiari del fondo c’è anche l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), agenzia associata alle Nazioni Unite che si occupa di migranti, richiedenti asilo e rifugiati. È tra le poche organizzazioni che riescono ad accedere – con grande difficoltà – ai centri di detenzione libici.

Oim ha ricevuto un pezzo dei 44 milioni del progetto Sibmmil, 12 milioni di euro, a seguito di un accordo triangolare con Commissione europea e ministero dell’Interno italiano. Spiegano dall’agenzia delle Nazioni Unite che non si tratta di accordi nuovi. La convenzione tra Oim e il Viminale, ottenuta dall’Associazione studi giuridici per l’immigrazione (Asgi) con una richiesta di accesso agli atti, prevede per l’Oim il coinvolgimento soprattutto nell’assistenza medica dei migranti che arrivano dalle frontiere desertiche meridionali, dove il progetto per la realizzazione delle frontiere è più indietro.

Assistenza e protezione sono due delle principali missioni dell’Oim, ma non sono le uniche azioni richieste all’agenzia delle Nazioni Unite. C’è anche la «verifica dei pubblici ufficiali libici che partecipano all’addestramento affinché siano esclusi coloro che hanno commesso abusi e violazioni dei diritti umani e quindi non possano essere ritenuti affidabili e credibili nella promozione e nell’applicazione degli standard internazionali». Sembra un tentativo di evitare di finire di nuovo al centro delle polemiche, come accaduto dopo le rivelazioni del 2019 di Avvenire: il quotidiano cattolico ha scoperto che tra i guardacoste libici che hanno partecipato ai percorsi formazione in Italia c’era anche Abdel Rahman al-Milad detto Bija, accusato di traffico di migranti e contrabbando di gasolio.

Asgi non ha tuttavia potuto avere accesso agli allegati che contengono i dettagli della convenzione Oim-Viminale perché rientrano «nel più ampio quadro delle attività e dei rapporti di cooperazione internazionale di Polizia con la Libia» e di conseguenza rientra in questioni di politica estera coperte da segreto che le richieste di accesso agli atti non possono penetrare.

Dei 27,2 milioni di euro spesi dall’Italia è stato possibile tracciarne poco meno di quattro-quinti, circa 20 milioni, tra appalti già completati e altri in corso di assegnazione nel periodo 2019-2022. Le principali voci di spesa sono 8,3 milioni per nuovi mezzi marini (20 barche veloci di diverse lunghezze); 3,4 per mezzi terrestri (30 fuoristrada, 14 ambulanze e dieci minibus); 5,7 per ricambi e manutenzione degli assetti navali; un milione in attività di addestramento e un milione per 14 container.

Milioni di euro per il Big Wall

Dei 44,5 milioni di euro stanziati dall’Europa, l’Italia ne ha gestiti più di 32. Di questi, ne abbiamo tracciati circa 27

Il bando di gara prevede tra le unità mobili anche la sede dell’Mrcc, il centro di coordinamento dei salvataggi in mare. Un Mrcc svolge funzioni fondamentali sia per rendere efficaci i soccorsi, ma anche per dare legittimità dal punto di vista del diritto internazionale a queste operazioni, senza il quale rischiano di essere considerati come “respingimenti per procura” da parte dell’Italia. Attraverso il progetto quindi, l’Unione europea – sotto la spinta italiana – conta di fornire alla Libia il principale strumento per gestire in autonomia il recupero dei migranti in mare.

Della missione ha parlato il 7 luglio 2021 l’ormai ex ministro della Difesa Lorenzo Guerini durante le Commissioni riunite Esteri e Difesa di Camera e Senato. Guerini ha descritto i due indirizzi intrapresi dalle forze armate italiane in Libia: il primo riguarda un maggiore coinvolgimento della missione europea Irini (pattugliamento delle acque antistanti la Libia) nell’addestramento e nel monitoraggio delle autorità marittime libiche; il secondo riguarda «lo sviluppo di una capacità di comando e controllo dei propri mezzi da parte della Marina libica», vale a dire la gestione delle operazioni di pattugliamento, recupero e soccorso.

Su questo Guerini è stato chiarissimo: «A partire dal 3 luglio 2020 l’attività è condotta in piena autonomia dalla marina libica presso proprie infrastrutture a terra e senza coinvolgimento alcuno del personale della Difesa italiano».

Migranti intercettati nel Mediterraneo Centrale attendono in condizioni di sovraffollamento a bordo di una nave della Guardia costiera libica nella base navale di Abu Sita – Foto: Sara Creta

Dalla Libia, però, arrivano informazioni diverse. Una fonte che fino al 2021 è stata molto vicino alla sala di coordinamento delle operazioni di salvataggio di Tripoli, che parla in forma anonima in quanto non autorizzata a rilasciare interviste, sostiene che in realtà i guardacoste libici siano tuttora informati via e-mail principalmente dall’Italia (in misura molto minore da Spagna o Malta) ogni volta che c’è da gestire un’operazione di salvataggio. Secondo la fonte, anche la nave militare italiana impegnata ufficialmente in quell’area in una missione di «supporto tecnico» è coinvolta nella trasmissione delle email ai libici.

Il mistero sull’effettivo ruolo degli italiani a Tripoli si lega all’imbarazzo sul progetto Sibmmil: con tutti i soldi spesi il centro di coordinamento dovrebbe essere pienamente in funzione, ma la stessa natura dei partner libici – milizie più che ufficiali di un apparato statale – rende impossibile avere il pieno controllo sull’implementazione del progetto.

Il supporto a Gacs e Guardia costiera

Sia la Gacs, sia la Gcl hanno «limitate capacità operative», si legge nel rapporto di monitoraggio sulle attività della marina libica curato dai militari della missione Irini lo scorso dicembre, un documento confidenziale.

La Gacs è una forza di polizia che fino al 2019 circa ha avuto mandato di operare strettamente entro le acque territoriali libiche. Nel 2021 ha partecipato a 14 operazioni di recupero in mare ed è stata coinvolta in un progetto pilota ancora in corso con Frontex e il ministero dell’Interno italiano per rafforzare la propria capacità di salvataggio. L’intento è inserirla all’interno di un sistema di monitoraggio delle frontiere marittime nel quale la Gacs possa avere uno scambio di informazioni con le altre polizie di frontiera europee. Lo scopo va anche oltre l’immigrazione: la Gacs dovrebbe contribuire a fermare anche navi mercantili e pescherecci che muovono prodotti di contrabbando, armi o che pescano senza rispettare le regole. L’Italia ha fornito e svolto la manutenzione su un totale di sette motovedette tra i 28 e i 35 metri fornite alla Gacs e un’altra ventina di imbarcazioni tra i nove e i dodici metri, per una spesa complessiva di oltre nove milioni di euro.

Un video promozionale della Gacs pubblicato su Youtube l’8 giugno mostra le motovedette cedute dagli italiani anche al loro interno: i loghi del Cantiere Navale Vittoria, i monitor, le bussole elettroniche e le bussole satellitari Furuno, i sistemi di navigazione, tutto è stato fornito alla Libia attraverso gare d’appalto bandite dalla Polizia e dalla Guardia di Finanza. Nel video, il direttore della Gacs Al-Bashir Bannour dichiara: «Ringraziamo i nostri partner italiani per sostenerci da anni con la costruzione, la fornitura di pezzi di ricambio, di manutenzione e la formazione dei lavoratori».

Il video esplicita il ricatto delle forze marittime libiche all’Europa: «Secondo le stime ufficiali il numero dei migranti è raddoppiato – spiega la voce narrante – e la Gacs non ha la forza per ridurre gli sbarchi ma può combattere i trafficanti». Più avanti spiega che la possibilità di contrastare il fenomeno è condizionata dalla mancanza di mezzi «che limita l’efficacia delle forze di sicurezza costiere». «Il Ministero dell’Interno – prosegue il video – spera che queste nuove navi aiutino ad aumentare la capacità degli equipaggi» grazie a «nuovi strumenti» e «sistemi di propulsione per affrontare le condizioni in alto mare».

La Guardia costiera, invece, è la forza marittima che, insieme alla Marina Militare, dipende dal ministero della Difesa. Secondo il report di monitoraggio della missione europea Irini – punto di contatto dei militari sia per la formazione, sia per lo scambio di informazioni – la Gcl e la Marina Militare dispongono di 26 navi, 17 delle quali sono state donate o riparate dall’Italia. La spesa complessiva, tra soldi già spesi e da spendere nell’arco del 2022, supera i tre milioni di euro, dal 2018 a oggi. Le motovedette Ubari, Ras Al Jadar, Sabratha, parte delle 26 complessive della flotta libica, sono state protagoniste di scontri con le ong o di violenze sui migranti.

Cosa sappiamo del centro di coordinamento dei salvataggi

Il 2 dicembre 2021, la nave della Marina Militare San Giorgio ha ormeggiato ad Abu Sitta, base militare della Marina libica, per consegnare dieci container. Le casse mobili sono abitabili: servono per la creazione del centro di coordinamento dei salvataggi e di una sorta di accampamento. In attesa della collocazione migliore, la struttura sarà mobile e si troverà all’interno di uno dei container. In prospettiva, l’Unione europea vorrebbe arrivare a finanziare due Mrcc fissi, uno in Libia e l’altro in Tunisia, Paese che ancora non ha dichiarato alla comunità internazionale i confini della sua zona di ricerca e soccorso.

Secondo quanto riferisce la fonte in Libia, il container con le attrezzature del centro di coordinamento libico si trova nel porto commerciale da diverso tempo. Gli italiani avrebbero già fornito alcuni computer e un’antenna, ma parte del materiale ancora non sarebbe arrivato. Quindi, riferisce, al momento le operazioni sarebbero gestite da un appartamento in un bell’edificio storico poco lontano da piazza dei Martiri, nel centro di Tripoli.

Il mancato utilizzo del centro di controllo nel container sarebbe da imputare a una forte competizione interna tra Marina e Guardia costiera, entrambe sotto il Ministero della Difesa di Tripoli, per la gestione delle operazioni di salvataggio e presumibilmente anche dei fondi europei e dei mezzi messi a disposizione dall’Europa. Più della sala di controllo mobile, i guardacoste libici sperano quindi di spostare il cuore delle base a Tajoura, città al confine orientale di Tripoli, già in passato sede di un centro di coordinamento, per ritagliarsi maggiore autonomia dalla Marina.

Due uomini della Marina italiana nella base navale di Abu Sita a Tripoli – Foto: Sara Creta

Insieme ai container, sono arrivate ad Abu Sitta anche delle apparecchiature radio e radar fornite dalle aziende italiane Gem Elettronica srl e Elman srl, parte del pacchetto per il centro di coordinamento dei soccorsi. Nessuna azienda italiana coinvolta ha voluto commentare le nostre richieste di chiarimento sull’implementazione del Mrcc. Dal fascicolo tecnico risulta che possono essere collegati con un sensore che si trova nella base di Abu Sitta.

Gem Elettronica, di proprietà al 30% di Leonardo spa, è stata coinvolta nella fornitura di radar per le frontiere terrestri di Tripoli già dal 2013. Elman srl nel maggio 2021 ha pubblicato sul proprio sito un comunicato in cui annunciava la sua partecipazione al progetto per realizzare il centro di coordinamento dei salvataggi in Libia. La Marina Militare ha solo confermato di aver preso parte alla missione Sibmmil per la realizzazione dell’Mrcc ma non ha fornito ulteriori chiarimenti rispetto alla messa a terra dei container.

L’altro muro: fondi europei senza trasparenza

Durante le ricerche, IrpiMedia ha chiesto più volte accesso alle informazioni riguardanti gli sviluppi del Mrcc. Le risposte o non sono arrivate oppure «per motivi di sicurezza» ne sono state omesse alcune. Vale soprattutto per i fondi europei dedicati all’esternalizzazione delle frontiere in Africa, i quali «sono al di fuori del controllo del parlamento europeo» secondo la parlamentare europea Özlem Demirel e la sua assistente Ota Jaksch. Il parlamento riceve un report annuale, un file che si può trovare facendo una semplice ricerca su internet, e le informazioni contenute non sono specifiche di ogni operazione o progetto.

Inoltre, non vengono menzionati i beneficiari di tali fondi. «La commissione stila il programma del fondo senza chiedere ai parlamentari di esprimere un parere – continua Jaksch -. Ciò che il fondo segue sono gli interessi che vogliono raggiungere i singoli Stati membri, e questo era così fin dall’inizio». L’unico strumento a disposizione dei parlamentari per chiedere maggiori informazioni alla Commissione e al Consiglio sono le interrogazioni, «ma hanno un limite di 200 parole e di tre domande massimo. Noi dobbiamo già sapere qualcosa per conto nostro e poi solo allora possiamo provare a chiedere qualcosa e sperare di avere una risposta», concludono Jaksch e Demirel.

Quando lo Stato sragiona

Esiste uno schema ricorrente nella cooperazione tra Paesi europei e paesi governati da regimi autoritari oppure da esecutivi molto deboli. C’è spesso una “ragion di Stato” che spinge a stringere accordi anche quando è difficile capire chi sia davvero l’interlocutore e quali siano i suoi obiettivi. Finanziamenti e progetti di cooperazione sono il mezzo per raggiungere il proprio scopo. Finora la strategia non ha funzionato in Libia: per quanto le forze marittime libiche siano più efficienti, il contesto in cui operano è molto instabile. E questa analisi non tiene conto del fattore dello stato di diritto: gli stessi militari formati dall’Europa sono accusati di traffico di esseri umani e contrabbando e non si è nemmeno certi che esista una vera catena di comando tra l’Est e l’Ovest del Paese, come sarebbe previsto in uno Stato unitario.

Navi appartenenti alla General Administration for Coastal Security (GACS) nel porto di Tripoli – Foto: Sara Creta
Una guardia del centro di detenzione Shara Zawya a Tripoli – Foto: Sara Creta
Un ufficiale della Guardia costiera libica a bordo della nave Fezzen – Foto: Sara Creta

L’Italia ha cercato di guidare il processo europeo in Libia perché il Paese è il cuore del “Mediterraneo allargato”, uno spazio geopolitico sul quale anche Giorgia Meloni è già impegnata (ne è la riprova il suo discorso alla Camera, in cui ha parlato del «nostro ruolo strategico nel Mediterraneo»).

Eppure, quando si parla delle dirette conseguenze delle missioni europee sui flussi migratori, già negli anni passati alcuni alleati avevano mostrato molte riserve rispetto all’efficacia delle iniziative europee a traino italiano. Nel 2017, quando la Gran Bretagna era ancora parte dell’Unione europea, i parlamentari della Camera dei Lord hanno prodotto un report in cui hanno definito «fallita» la missione Sophia, quella che nel 2020 è diventata Irini. Il documento sottolineava che la missione europea di sostegno alla creazione di un sistema di frontiere integrato, Eubam, non aveva nel proprio mandato combattere l’immigrazione irregolare, che per gli inglesi era invece l’obiettivo principale della loro partecipazione. Definiva poi «una grande sfida» formare una guardia costiera rispettosa dei diritti umani.

Il punto è vero oggi quanto allora: a fine marzo 2022 la Germania ha deciso di non partecipare più ai corsi di addestramento dei libici a causa del «comportamento inaccettabile» di questi ultimi. Secondo Mark Micallef, esperto di Libia presso il Global Initiative Against Transnational Organized Crime (GITOC), le forze libiche non sono da considerare come un’unità omogenea. Al contrario, sono in continua opposizione e solo una parte sta cercando di migliorare le capacità di ricerca e soccorso. Eppure la spesa per l’esternalizzazione delle frontiere in Libia continua senza tregua.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Fabio Papetti

Ha collaborato

Antonella Mautone

Foto

Sara Creta

Editing

Giulio Rubino

Infografiche

Lorenzo Bodrero

In partnership con

Le mille vite del lobbista di Gheddafi, Hassan Tatanaki

#SuisseSecrets

Le mille vite del lobbista di Gheddafi, Hassan Tatanaki

Occrp

Nel tumultuoso ambiente politico della Libia, Hassan Tatanaki è un survivor. Nato a Bengasi, nell’est della Libia, discende da una famiglia di imprenditori. Oggi dice di essere più coinvolto nella filantropia che nell’impresa, per quanto ricopra ancora posizioni apicali nelle società del suo gruppo, che spazia dallo sviluppo immobiliare al marketing, dall’oil&gas, il business principale, alla fornitura di calcestruzzo. Grazie alla sua influenza e al suo potere economico è sempre stato un pezzo importante della politica libica, sia come promotore degli interessi della famiglia Gheddafi, sia come finanziatore della rivoluzione del 2011. Ora ha fondato un partito con il quale ha deciso di correre per le elezioni presidenziali della Libia che avrebbero dovuto tenersi nel dicembre 2014.

Il longevo dittatore Muammar Gheddafi negli anni Settanta aveva nazionalizzato tutte le attività economiche della Libia, comprese quelle della famiglia Tatanaki. Hassan Tatanaki ha per questo trascorso diversi anni all’estero fino a quando nel 1990 ha deciso di fare ritorno in patria per lanciarsi nel settore petrolifero con la Challenger Limited. Da allora in avanti ha finanziato gli sforzi di promozione del governo di Gheddafi negli Stati Uniti, anche quando la Libia era un Paese sotto sanzioni internazionali.

Hassan Tatanaki

Dopo l’esplosione delle proteste contro il regime Gheddafi nel 2011 però, Tatanaki si è rapidamente sintonizzato sulle frequenze dei manifestanti, dei quali è diventato un sostenitore. Durante la guerra civile che ne è seguita, ha sostenuto Khalifa Haftar, il generale ribelle che combatte contro il governo di Tripoli riconosciuto dalle Nazioni unite, e ha fondato anche un canale televisivo apertamente anti-islamista. L’Esercito nazionale libico di Haftar conta infatti tra i suoi alleati milizie che si schierano contro i gruppi militari d’ispirazione religiosa (a parte pochissime eccezioni). Ora ha deciso di candidarsi alle elezioni in Libia con il supporto di un partito laico e con l’obiettivo di sostenere le martoriate istituzioni pubbliche della Libia.

All’inizio degli anni Duemila, una società di trading petrolifero in cui era coinvolto è stata accusata di aver ottenuto contratti vantaggiosi a discapito delle finanze pubbliche della Giordania e del Venezuela. In Libia, le autorità insediatesi post Gheddafi lo hanno brevemente inserito nella lista dei ricercati dell’Interpol per crimini finanziari come molti ritenuti vicini all’ex rais.

Dal 1988 Tatanaki è stato anche titolare di almeno otto conti presso il Credit Suisse, di cui il più ricco, nel 2010, appena un anno prima della rivolta libica, conteneva 530 milioni di franchi svizzeri (736 milioni di euro, con il cambio dell’epoca) depositati, come rivelano i dati di Suisse Secrets. Almeno due di questi conti sono rimasti aperti fino a pochi anni fa.

Tatanaki, contattato da Occrp, ha negato qualsiasi accusa a suo carico e ha ribadito di essere solo un normale uomo d’affari, che a volte è stato frainteso o attaccato in malafede. Ha affermato di non aver mai sostenuto personalmente né Gheddafi né Haftar. Occrp non ha prove che abbia effettivamente commesso dei crimini.

Tatanaki ha confermato di essere un cliente di Credit Suisse, ma ha detto di non essere a conoscenza del conto corrente da 530 milioni di franchi.

#SuisseSecrets, il progetto

Suisse Secrets è un progetto di giornalismo collaborativo basato sui dati forniti da una fonte anonima al giornale tedesco Süddeutsche Zeitung. I dati sono stati condivisi con Occrp e altri 48 media di tutto il mondo. IrpiMedia e La Stampa sono i partner italiani del progetto.

Centocinquantadue giornalisti nei cinque continenti hanno rastrellato migliaia di dati bancari e intervistato decine di banchieri, legislatori, procuratori, esperti e accademici, e ottenuto centinaia di documenti giudiziari e finanziari. Il leak contiene più di 18 mila conti bancari aperti dagli anni Quaranta fino all’ultima decade degli anni Duemila. In totale, lo scrigno è di oltre 88 miliardi di euro.

«Ritengo le leggi sul segreto bancario svizzero immorali – ha dichiarato la fonte ai giornalisti-. Il pretesto di proteggere la privacy finanziaria è semplicemente una foglia di fico che nasconde il vergognoso ruolo delle banche svizzere quali collaboratori degli evasori fiscali. Questa situazione facilita la corruzione e affama i Paesi in via di sviluppo che tanto dovrebbero ricevere i proventi delle tasse. Questi sono i Paesi che più hanno sofferto del ruolo di Robin Hood invertito della Svizzera».

Nel database di Suiss Secrets ci sono politici, faccendieri, trafficanti, funzionari pubblici accusati di aver sottratto denaro alle casse del loro Paese, uomini d’affari coinvolti in casi di corruzione, agenti dei servizi segreti. Ci sono anche molti nomi sconosciuti alle cronache giudiziarie.

Credit Suisse non ha dato risposta alle domande specifiche su Tatanaki, ma in un comunicato ha dichiarato di «rigettare con forza le affermazioni e le deduzioni sulle presunte pratiche commerciali della banca» formulate dai giornalisti nel progetto Suisse Secrets.

«Le questioni riportate sono prevalentemente storiche, in alcuni casi risalenti agli anni Settanta, e i resoconti riguardo tali questioni si basano su informazioni parziali e selettive estrapolate dal contesto, dando luogo a interpretazioni tendenziose della condotta commerciale della banca», ha scritto la banca nel suo comunicato di risposta.

Secondo Graham Barrow, consulente britannico in materia di criminalità finanziaria, le banche hanno una particolare responsabilità nel controllare i clienti accusati di corruzione oppure che hanno legami con governi coinvolti in simili reati: «Tutti dovrebbero avere accesso al sistema bancario… – ha spiegato -. Si dovrebbe però evitare di permettere che il sistema bancario legittimi la ricchezza acquisita con la corruzione e ripulsca il denaro». «Alla fine – ha concluso – è impossibile distinguere il denaro pulito da quello sporco».

Gli oligarchi della Libia

di Lorenzo Bagnoli

Anche la Libia ha i suoi oligarchi. Quest’inchiesta di Occrp su Hassan Tatanaki apre uno squarcio su ciò che resta di un sistema di potere che passa ancora per alcuni degli uomini che più hanno aiutato Muammar Gheddafi a prosperare, anche se con la rivoluzione del 2011 hanno poi cambiato bandiera. Non solo: rivela anche come la guerra per procura che si combatte in Libia (per semplificare: Turchia e Unione europea schierati – seppur con fratture in seno all’Ue – a favore di Tripoli e Russia ed Emirati arabi uniti a favore di Haftar) passi anche attraverso uomini d’affari libici che si muovono fuori dal Paese. Hassan Tatanaki non fa eccezione: ha una parte consistente del suo impero commerciale negli Emirati arabi uniti, che hanno ovviamente molto interesse a mantenere una presenza amica nella Libia che verrà.

Sono anni che in Libia le Nazioni unite cercano di organizzare le elezioni. Quelle evaporate della fine del 2021 erano entrate nel vivo quando a un certo punto aveva cercato di candidarsi Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi ed ex socio di Tatanaki, accreditato di un certo consenso. Sembra tuttavia sempre più difficile riappacificare la Libia attraverso un voto.

Intorno al caos che domina sul campo, però, ci sono influenti uomini d’affari che hanno buona parte dei loro business all’estero, ma che vogliono comunque cercare di entrare a far parte nel nuovo gruppo di potere che emergerà nella futura Libia. La loro principale preoccupazione, a tutela dei loro affari, è garantire, attraverso le proprie reti di lobbisti, anche una legittimità internazionale alla Libia che verrà. In fondo lo stesso Abdul Hamid Dbeibeh, il presidente ad interim del Governo di unità nazionale di Tripoli, che intende anche lui candidarsi quando si andrà alle urne, è un imprenditore delle costruzioni che ha avuto un forte sostegno da Muammar Gheddafi. Lo sostiene Mohamed El-Taher Issa, che è proprietario di una nuova compagnia aerea che dalla Libia porta a Malta. A volte gli interessi di questi businessman s’intrecciano

Un altro imprenditore che in vista del voto aveva fatto ritorno in Libia è stato Husni Bey, uomo d’affari che lavora nei settori finanziario, assicurativo, immobiliare e di distribuzione di beni di consumo. È finito più volte in carcere nell’epoca di Gheddafi perché aveva interessi diversi da quelli del dittatore. Ha ottimi rapporti in particolare in Italia, dove c’è una delle più importanti sedi del suo gruppo imprenditoriale.

Questi soggetti sono quelli che più di tutti hanno costruito una serie di relazioni fuori dalla Libia. Saranno importanti per il futuro del Paese tanto quanto i signori della guerra locali come i Busriba, di cui abbiamo scritto, oppure i Koshlaf.

Lobbista per la Libia

Nel marzo 1992, il Consiglio di sicurezza dell’Onu impose sanzioni alla Libia per spingere Gheddafi a collaborare alle indagini sull’attentato di Lockerbie, in Scozia. Il 21 dicembre 1988 l’esplosione di un aereo della PanAm, infatti, provocò la morte di 270 persone (principalmente americani), 259 a bordo e undici a terra. Pochi mesi prima, nel novembre 1991, i due principali organi della magistratura di Stati Uniti e Scozia accusarono un agente segreto libico di essere l’esecutore dell’attentato (è stato condannato nel 2001). L’embargo ha avuto un forte impatto economico sul Paese e ha reso più difficile per il governo libico operare all’estero.

Dopo aver vietato l’impresa privata, nazionalizzando tutti i settori dell’economia, il regime di Gheddafi ha iniziato a far coltivare numerosi uomini d’affari, a volte gli stessi a cui erano state prima confiscate le proprietà. Li ha impiegati come “intermediari” finanziari per spostare denaro dalla Libia all’estero, spiega Tim Eaton, ricercatore del think tank londinese Chatham House: «Con le sanzioni dopo l’attentato di Lockerbie – aggiunge – è emerso chiaramente il vero e proprio disastro economico che era in corso in Libia e il regime ha capito che doveva cambiare rotta».

All’epoca Tatanaki era tornato in Libia dopo anni trascorsi all’estero. Aveva appena fondato, grazie alle amicizie con Gheddafi, la sua società petrolifera. Lo stesso mese in cui furono imposte le sanzioni dell’Onu, Tatanaki iniziò quella che sarebbe stata una lunga carriera di finanziamento delle attività di lobbying per promuovere il governo di Gheddafi negli Stati Uniti.

Per prima cosa firmò un accordo con un’azienda dell’isola di Jersey chiamata GBM Consultancy Ltd, di proprietà di due ex membri del Congresso degli Stati Uniti, David Bowen e John Murphy. Già nel 1980 Murphy era stato costretto a dimettersi dal Congresso in seguito a uno scandalo per concussione ed ha trascorso in carcere quasi due anni. Il contratto di un anno, firmato in Marocco, stabiliva che Tatanaki avrebbe agito come procuratore per la società, pagando 450 mila dollari come anticipo e 225 mila dollari al mese per coprire i costi. In cambio, l’azienda avrebbe lavorato per «normalizzare le relazioni tra gli Stati Uniti d’America e la Libia» e «ritrarre l’immagine della Libia e della sua amministrazione [sic] in una visione più favorevole».

Nel 1993, quando la società era già stata chiusa, Bowen e Murphy sono stati multati dal governo statunitense per aver violato le sanzioni sulla Libia e sono stati condannati a pagare 30 mila dollari, una cifra irrisoria rispetto al volume che avrebbero voluto spostare. Il collegamento tra Tatanaki e i due è stato ampiamente riportato dai giornali, così come l’attività di lobbista per conto del governo di Gheddafi. Eppure questo ruolo non sembra aver influito sulla possibilità di essere un cliente di Credit Suisse: tre conti correnti, aperti nel 1988 e nel 1991, sono infatti rimasti aperti anche a seguito di questi episodi. Un quarto è stato aperto nel 1999 a suo nome, insieme ad altri tre titolari, tra cui due membri della famiglia.

Tatanaki ha dichiarato a OCCRP che la sua attività di lobbying è stata legale e non era finalizzata a promuovere Gheddafi o il suo regime, ma piuttosto ad aiutare il popolo libico, che stava sopportando il peso delle sanzioni.

Muammar al-Gaddafi nel 2009 - Foto: Jesse B. Awalt/Released, Public Domain
Muammar al-Gaddafi nel 2009 – Foto: Jesse B. Awalt/Released, Public Domain

Dopo che le Nazioni unite hanno revocato le sanzioni alla Libia nel 2003, Tatanaki ha continuato a finanziare attività di lobby mentre il Paese cercava di rilanciarsi. Nel 2007 avrebbe contribuito a finanziare uno sforzo del governo, guidato dal figlio di Gheddafi Saif Al-Islam, per trasformare l’antica città di Cirene in un centro di “eco-turismo” (il progetto non è mai decollato e non è chiaro se e quanto denaro sia stato effettivamente fornito).

Nel 2008, Tatanaki ha finanziato un’altra campagna a favore della Libia. Nel gennaio dello stesso anno ha firmato un contratto con la società di consulenza statunitense Brown Lloyd James Worldwide, accettando di pagare 35.000 dollari al mese. In cambio, la società ha dichiarato che avrebbe aiutato «cittadini libici», non meglio identificati a contattare politici e accademici statunitensi, e di aver aiutato Saif Al-Islam a organizzare programmi di ricerca e per lo studio all’estero.

In un altro documento, Brown Lloyd James ha dichiarato di aver fornito consulenza su un editoriale a firma di Gheddafi e di aver contribuito a organizzare la famosa visita del 2009 del dittatore a New York per partecipare all’Assemblea generale delle Nazioni unite, durante la quale Gheddafi ha strappato pubblicamente una copia dello Statuto dell’Onu. Brown Lloyd James ha poi dichiarato di aver ricevuto oltre 1,25 milioni di dollari dalla missione libica presso il Palazzo di Vetro.

Lo scandalo del petrolio giordano

Le connessioni ad alto livello di Tatanaki si estendevano però ben oltre la Libia. Dopo il trasferimento della sua famiglia in Egitto negli anni Settanta, Tatanaki ha collaborato con personalità di spicco. Mentre studiava in Gran Bretagna, ha frequentato anche i membri della famiglia reale emiratina. Ha persino ottenuto un passaporto degli Emirati, oltre a quelli di Egitto, Turchia e Brasile.

Nel 2004, uno scandalo in Giordania ha mostrato come le connessioni internazionali di Tatanaki potessero invischiarlo in accuse di appropriazione indebita, commessa grazie alla partecipazione a un sistema clientelare.

La controversia ebbe inizio dopo l’annuncio che il Kuwait aveva concesso alla Giordania una fornitura di 25 mila barili di petrolio al giorno per un anno. L’allora ministro del petrolio del Kuwait, Ahmed Al-Fahad, disse ai media che la fornitura era stata «offerta alla Giordania come compensazione per ciò che aveva perso dal petrolio iracheno durante la guerra di liberazione dell’Iraq».

Ahmed Al-Fahd nel 2015 - Foto: Tasnim News Agency
Ahmed Al-Fahd nel 2015 – Foto: Tasnim News Agency

Il ministro Al-Fahad ha però glissato sul fatto che il petrolio non sarebbe stato utilizzato direttamente dalla Giordania, ma venduto sui mercati internazionali. I funzionari giordani hanno sostenuto che fosse necessario in quanto il greggio era troppo pesante per essere raffinato nel loro Paese.

Non è stato nemmeno reso noto che i proventi della vendita del petrolio non sarebbero stati depositati nelle casse pubbliche della Giordania, ma sarebbero invece stati trasferiti sul conto statunitense di una società registrata nel Delaware chiamata Free Market Petroleum. Tra gli azionisti di quest’ultima società c’era anche Tatanaki.

Quando un membro del parlamento kuwaitiano ha reso pubbliche queste informazioni, si è scatenato un putiferio in Kuwait e in Giordania.

I funzionari giordani e kuwaitiani non hanno mai detto quanto petrolio sia stato effettivamente venduto nè a quale prezzo. Dato che all’epoca il costo al barile oscillava tra i 30 e i 40 dollari, si può stimare con prudenza una fornitura da 270 milioni di dollari all’anno.

Sui giornali di Giordania e Kuwait ci sono state molte critiche all’accordo, e sospetti in merito alla destinazione finale dei fondi. Parlamentari giordani hanno chiesto di sapere perché i pagamenti non erano stati fatti attraverso la loro banca centrale, una domanda rimasta senza risposta da parte del governo giordano.

L’intera storia non è mai stata davvero chiarita, ma la controversia, col tempo, è scomparsa dai titoli dei giornali.

Secondo Tatanaki l’accordo mirava solo ad aiutare a vendere il petrolio per conto dei giordani, ma non è mai stato completato. Ha aggiunto che le accuse dei membri del parlamento giordano nei suoi confronti sono infondate e «totalmente fuori luogo» e che non si è quindi mai preoccupato di rispondere. Ha confermato di essere un azionista della Free Market Petroleum, ma non ha fornito ulteriori informazioni. La società, ha detto, è stata in definitiva uno «spreco di denaro» perché non ha prodotto alcun affare concreto.

Alla domanda se fossero stati effettuati pagamenti sul conto della Free Market Petroleum, ha risposto: «Per quanto ricordo, nessuno».

I rapporti di Tatanaki con Credit Suisse sono proseguiti anche dopo la denuncia del suo ruolo nell’affaire Giordania-Kuwait: nel 2006 sono stati aperti due conti a suo nome, uno dei quali insieme ad altri due membri della sua famiglia. Un altro, anch’esso con due parenti, è stato aperto nel 2009.

Da Amman a Caracas

A migliaia di chilometri di distanza, la Free Market Petroleum è stata coinvolta in un altro caso simile, questa volta riguardante la vendita di petrolio per conto della compagnia petrolifera statale venezuelana Petróleos de Venezuela S.A. (PDVSA).

In base a un accordo triennale firmato nel gennaio 2003, la Free Market Petroleum avrebbe dovuto vendere 50 mila barili di petrolio al giorno, dalla PDVSA alla Strategic Petroleum Reserve del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti. I termini dell’accordo non sono stati resi pubblici, ma i dettagli sono poi trapelati ai media.

Petróleos de Venezuela S.A. (PDVSA), la compagnia petrolifera statale venezuelana - Foto: Humberto Matheus/Alamy Stock Photo
Petróleos de Venezuela S.A. (PDVSA), la compagnia petrolifera statale venezuelana – Foto: Humberto Matheus/Alamy

L’accordo, del valore potenziale di oltre 1 miliardo di dollari, ha suscitato un’attenzione particolare in Venezuela e negli Stati Uniti per diversi motivi. La PDVSA è solita condurre le trattative direttamente con gli acquirenti, non attraverso intermediari, e la Free Market Petroleum – che avrebbe potuto realizzare un profitto significativo – non era in alcun modo accreditata in Venezuela. Una bozza dell’accordo, visionata da Occrp, includeva anche una clausola che permetteva alla Free Market Petroleum di vendere il greggio ad acquirenti diversi dalla Strategic Petroleum Reserve con l’approvazione della PDVSA.

Il rappresentante venezuelano per l’accordo era l’ex ministro dell’Energia e presidente della PDVSA Rafael Ramírez, che la Commissione del congresso venezuelano del 2016 ha ritenuto responsabile di corruzione e illeciti che sono costati alla PDVSA 11 miliardi di dollari.

L’accordo ha attirato l’attenzione anche per il coinvolgimento di Jack Kemp, ex segretario degli Stati Uniti per la casa e lo sviluppo urbano e candidato alla vicepresidenza nella lista di Bob Dole, senatore Repubblicano e candidato alla presidenza degli USA nel 1996. La bozza del contratto indicava Kemp come firmatario della Free Market Petroleum e indicava fra i suoi azionisti l’avvocato americano dell’industria energetica William Hickman e Arturo Sarmiento, un uomo d’affari venezuelano che si è arricchito commerciando petrolio e importando whisky scozzese (nessuno dei due ha risposto alle telefonate e alle richieste di commento).

I documenti dei Paradise Papers – trapelati al quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung e condivisi con l’International Consortium of Investigative Journalists – elencano Tatanaki e queste stesse persone come proprietari di una Free Market Petroleum registrata alle Bermuda nel 2003, questa volta insieme a Jamal Ali Abdulla Sanad Al-Suwaidi, che in seguito è diventato consigliere politico di Mohamed bin Zayed quand’era principe della Corona di Abu Dhabi.

Tatanaki ha negato qualsiasi ipotesi di illecito nell’accordo, che a suo dire non è mai stato attuato. Ha sottolineato che all’epoca non esistevano sanzioni o altri divieti a trattare con il Venezuela.

Dopo la rivoluzione

Nel febbraio 2011, la Primavera araba ha investito la Libia. Le manifestazioni hanno rapidamente lasciato il posto a una rivolta armata, sostenuta dalla potenza aerea della Nato.

Mentre i ribelli avanzavano, Tatanaki iniziò a modificare il suo brand, innanzitutto creando un’associazione di beneficenza chiamata Libya Al Hurra Foundation (Fondazione Libia Libera), registrata in California con uffici in Egitto, Libia e Tunisia. Nel 2011, la testata statunitense The Hill ha identificato Tatanaki come il suo principale donatore. Lo ha confermato Omar Khalifa, che si è descritto come un consigliere della fondazione, secondo cui la Fondazione aveva speso più di 20 milioni di dollari dall’inizio della rivoluzione.

Nell’ottobre 2011, la Libya Al Hurra Foundation ha accettato di pagare 15 mila dollari al mese alla Franklin Partnership, una società di lobbisti con sede a Washington DC costituita per informare i politici statunitensi sulle attività della fondazione in Libia, che includono opere civili, sviluppo di infrastrutture e cura dei libici feriti in Egitto e Tunisia.

La svolta di Tatanaki verso una posizione più favorevole alla rivoluzione non ha impedito alle autorità libiche, dopo la caduta di Gheddafi, di inserirlo per un breve periodo nella red notice, la lista dell’Interpol che include latitanti da tutto il mondo, con l’accusa di frode. I documenti dell’Interpol non chiariscono quando o perché Tatanaki sia stato rimosso. Tatanaki ha detto che le accuse sono derivate da un attacco personale da parte di un singolo funzionario e sono state chiarite «nel giro di una settimana» dopo aver presentato i documenti necessari alle autorità.

Dopo la caduta di Gheddafi, la Libia è stata dilaniata dagli scontri tra milizie rivali. Nel maggio 2014, il generale ribelle Khalifa Haftar ha lanciato una campagna per attaccare le milizie filo-islamiste a Bengasi, nella Libia orientale. La campagna si è poi trasformata in una vera e propria ribellione contro il governo riconosciuto dalle Nazioni unite a Tripoli, nella Libia occidentale, dividendo il Paese in due.

Khalifa Heftar - Foto: Reuters/Alamy Stock Photo
Khalifa Heftar – Foto: Reuters/Alamy

Nei resoconti dei media, Tatanaki è stato spesso descritto come un sostenitore di Haftar. In un’intervista, ha definito la campagna di Haftar «il futuro della Libia». Nell’agosto 2014, in un’intervista rilasciata a Foreign Policy dal suo ufficio a Dubai, si è definito «partner» del generale ribelle.

Tatanaki ha dichiarato a Occrp di non aver sostenuto Haftar in prima persona, ma di aver appoggiato la campagna agli inizi perché la vedeva come un possibile modo per affrontare la minaccia delle milizie islamiste e per ricostruire le istituzioni libiche.

Nel 2017, il nome di Tatanaki è emerso anche in relazione all’ex procuratore capo della Corte penale internazionale, Luis Moreno Ocampo. Secondo i documenti ottenuti dal giornale francese Mediapart, analizzati dalla European Investigative Collaborations e condivisi con Occrp, nel 2015 Tatanaki ha firmato un accordo per pagare a Ocampo tre milioni di dollari in tre anni per servizi di consulenza (il contratto è stato concluso prima della scadenza e solo la prima rata di 750 mila dollari è stata pagata).

Ocampo ha dichiarato di aver accettato il lavoro nel tentativo di aiutare i libici. Ma i documenti dimostrano che era stato informato dei legami potenzialmente problematici di Tatanaki.

Diverse e-mail, ad esempio, indicano chiaramente la sua relazione con Haftar e i suoi sostenitori regionali. In una di queste, Omar Khalifa, dipendente di Tatanaki, ha anche detto a Ocampo che si erano incontrati con «apparati di sicurezza» egiziani e che «Hassan è in comunicazione con il capo dell’intelligence nazionale egiziana».

In un’altra e-mail, uno dei dipendenti di Ocampo segnala un audio su YouTube, apparentemente di una telefonata intercettata di Saif Al-Islam Gheddafi durante i primi giorni della rivolta, in cui il figlio del dittatore dice che Tatanaki stava ancora «facendo il suo lavoro» per sostenere il regime. Tatanaki ha replicato di essere stato travisato nella telefonata e di non aver avuto alcun contatto con Saif Al-Islam all’epoca.

Nel maggio 2015, un leader militare vicino ad Haftar è apparso sul canale televisivo Libya Awalan, di proprietà di Tatanaki per dichiarare che coloro che non si fossero uniti a Haftar sarebbero stati «massacrati» e «le loro donne violentate davanti ai loro occhi». Il video non chiarisce se fosse una minaccia o se fosse un allarme per le atrocità che i militanti islamisti avrebbero potuto commettere se non fermati in tempo, ma le email di cui Mediapart è entrata in possesso mostrano che il team di Ocampo considerava l’incidente come potenzialmente problematico.

Pochi giorni dopo, Ocampo scrisse a Omar Khalifa per suggerirgli di sviluppare un piano per proteggere Tatanaki da un eventuale processo della Corte penale internazionale, come risulta dai documenti. I risultati sono stati ampiamente riportati da Der Spiegel, Financial Times e Sunday Times.

Raggiunto per un commento, Ocampo ha detto: «Non ci sono errori a cui dare spiegazioni: Hassan Tatanaki, un cittadino libico, mi ha chiesto un consiglio su come la giustizia internazionale potesse contribuire a porre fine alla violenza nel suo Paese».

Ocampo ha sostenuto di aver subito un furto di dati personali nell’ambito di un conflitto tra i Paesi del Golfo che coinvolge la Libia e che «le informazioni confidenziali sono state utilizzate per condurre un attacco infondato contro la reputazione di Tatanaki, la mia integrità e la Corte penale internazionale».

Tre dei conti Credit Suisse di Tatanaki sono stati chiusi nell’anno successivo all’inizio della rivolta. Ma almeno due sono rimasti aperti fino a pochi anni fa, secondo i dati di Suisse Secrets.

Alla fine dello scorso anno, Tatanaki ha annunciato che sarebbe entrato nella mischia politica libica e si sarebbe candidato alle elezioni presidenziali previste per dicembre.

Il suo aereo è arrivato all’aeroporto Mitiga di Tripoli il 22 novembre. Per ragioni non chiare, è stato brevemente trattenuto, ma presto rilasciato. Ha presentato la sua candidatura e il suo nome è stato inserito in una lista di oltre 70 candidati.

A seguito di altre complicazioni interne e divisioni politiche c’è stato un nuovo rinvio delle elezioni in Libia. Secondo gli esperti, le possibilità di successo elettorale di Tatanaki sono sempre state scarse. Ma questo non lo ha scoraggiato. Alla domanda se avesse ancora intenzione di candidarsi alla presidenza, ha risposto a Occrp: «Assolutamente sì».

L’articolo è un adattamento in italiano di IrpiMedia. Questo è l’articolo in inglese originale.

Luis Moreno Ocampo - Foto: imageBROKER/Alamy Stock Photo
Luis Moreno Ocampo – Foto: imageBROKER/Alamy

CREDITI

Autori

Occrp

Traduzione e adattamento

Lorenzo Bagnoli

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

Hassan Tatanaki discute le strategie elettorali, a novembre 2021
(Hassan Tatanaki/Facebook)

SSA, i nuovi predoni della Libia

#MediterraneoCentrale

SSA, i nuovi predoni della Libia

Fabio Papetti

«Tutte le strade sono aperte per Tripoli e, se Allah vorrà, ci entreremo nei prossimi giorni». Così ha affermato l’11 luglio Fathi Bashagha, primo ministro eletto dalla Camera dei rappresentanti, il parlamento dell’est della Libia di base a Tobruk. Il suo piano è riprendere Tripoli e formare un unico governo che ponga fine al periodo della grande divisione territoriale in cui si trova la Libia dal 2014, anno in cui il generale dell’Esercito nazionale libico (LNA) Khalifa Haftar appoggiò il primo governo dell’est in opposizione al governo di Tripoli appoggiato dalle Nazioni unite. Adesso Bashagha ha intenzione di prendere la capitale libica e destituire Abdul Hamid Dabaiba (traslitterato anche come Dbeibah) , nominato presidente ad interim del Governo di unità nazionale (GNU) dal marzo 2021.

I media internazionali parlano di tentativi di accordi anche tra Haftar e Dabaiba passati ad esempio dalla destituzione del vecchio presidente della National Oil Corporation (NOC), la compagnia petrolifera statale. Di certo il premier di Tripoli si trova in una posizione sempre più scomoda: il GNU avrebbe dovuto gestire un governo transitorio fino al voto previsto per dicembre 2021 ma le elezioni non si sono tenute. Il mancato voto di allora si ripercuote sull’instabilità di oggi.

Tutti vogliono le SSA

Da quando è salito al potere nell’est della Libia, Bashagha ha avuto come obiettivo quello di riprendere posto a Tripoli. La capitale oggi è controllata da diversi gruppi paramilitari. Tra questi, nell’ultimo anno si è fatto notare l’Apparato di supporto alla stabilità (SSA nell’acronimo inglese): è emerso come uno dei gruppi più potenti pur essendo stato formato poco più di un anno fa. «L’SSA ha avuto una crescita senza precedenti – afferma un ricercatore che conosce bene le milizie libiche e che preferisce restare anonimo per evitare ripercussioni sul proprio lavoro -. Le unità sul territorio sono sempre più violente e più onnipresenti». È quasi impossibile, spiega il ricercatore, evitare l’SSA: sono partiti dalle città di Zawiya, Tripoli e Warshafanah ma ormai sono presenti anche a Gharyan (città a sud della capitale) e in tutti i principali snodi da cui passa l’immigrazione. L’SSA sono le milizie che controllano la parte maggioritaria del traffico degli esseri umani.

IrpiMedia è gratuito

Ogni donazione è indispensabile per lo sviluppo di IrpiMedia

Un video di presentazione delle SSA

Inizialmente l’SSA è stato costituito per decreto presidenziale da Fayez al-Serraj, presidente del governo delle Nazioni unite che ha preceduto quello di Dabaiba, il Governo di accordo nazionale (GNA). Serraj aveva attribuito alla milizia il ruolo di guardia presidenziale privata, benché un’unità del genere già esistesse. L’SSA è stata finanziata con 40 milioni di dinari libici, circa 8,7 milioni di euro. Lo scopo reale dell’SSA era però destabilizzare Fathi Bashagha, che di quel governo è stato ministro degli interni libico tra 2018 e il 2021. Ex pilota diventato commerciante di pneumatici, dopo la caduta di Gheddafi Bashagha ha cominciato la sua conquista del potere a partire dalla sua città, Misurata, e da due milizie che gli erano fedeli. Fa parte della Camera dei Rappresentanti dal 2014. Nel 2020 è stato sospeso, secondo Bloomberg, con l’accusa, all’epoca, di «aver incoraggiato le proteste contro la corruzione».

Gli esperti di Libia dell’Onu nel loro ultimo rapporto sulla situazione nel Paese scrivono che sia Bashagha sia Dabaiba «stanno producendo sforzi » per «ottenere il supporto dell’Apparato, dimostrando l’importanza che (la milizia) ha guadagnato dalla sua creazione l’11 gennaio 2021». Bashagha ha infatti nominato ministro dell’Interno del suo governo Issam Busriba, fratello di Hassam. Quest’ultimo è il comandante dell’Apparato a Zawiya, città costiera dell’ovest della Libia. Il consolidamento nell’occidente libicoè uno dei passaggi fondamentali per Bashagha per ambire al potere.

Cosa succede nell’oriente della Libia

Il controllo delle frontiere marittime e le relative operazioni di intercettazione delle navi partite dalle coste ovest della Libia non sono coordinate in maniera unitaria e nello scenario marittimo si trovano contemporaneamente quattro unità: la guardia costiera, la marina, l’Amministrazione generale di sicurezza costiera (Gacs) e l’SSA. Ognuna di queste in rivalità con le altre con lo scopo di acquisire maggior controllo sul territorio, e quindi maggiori tornaconti economici e politici nello scenario libico. I loro punti di approdo principali sono Tripoli e Zawiya, centri territoriali del potere delle milizie dove si riportano i migranti intercettati. Tuttavia ad est lo scenario è più confuso.

Dalla seconda metà del 2021 i numeri delle partenze dalle coste orientali sono aumentati drasticamente ed è cambiata la provenienza dei migranti che si imbarcano per l’Italia. Se prima dall’est della Libia partivano soprattutto egiziani, adesso le nazionalità in maggioranza sono afghani e bangladesh che partono da Benghazi e da Tobruk in una varietà di imbarcazioni, dal peschereccio con a bordo 450 persone arrivato il 17 maggio scorso sulle coste di Pozzallo alle piccole barche approdate in Calabria nello stesso mese. Secondo i dati del ministero degli interni italiano aggiornati al 12 luglio sono arrivati in italia 30.958 migranti dall’inizio dell’anno, di cui oltre cinquemila dal Bangladesh, la nazionalità di maggioranza, e circa 3.700 dall’Afghanistan, tutti attraverso la rotta nel Mediterraneo. Quello che non è chiaro è chi opera le attività in mare nell’est del Paese.

Dalle testimonianze delle diverse ong sentite risulta che la zona sia fuori dal loro campo d’azione, e che sulla zona siano presenti diverse unità militari, compreso Frontex, le unità della missione delle marine militari europee Irini e la marina militare turca. Il report della missione Irini aggiornato a novembre 2021 afferma che le unità della GCL e della marina operano solo nella zona ovest, ma allo stesso tempo afferma che le autorità portuali di Benghazi operino missioni SAR nella zona est coordinate dal MRCC italiano. Non è chiaro a quali unità faccia riferimento il report, ma sappiamo che recentemente la Gacs ha aperto in tutto dieci distaccamenti da Zawiya (ovest) a Tobruk (est), compreso il capitolo di Benghazi, segno dunque di un’espansione delle capacità operative della polizia marittima libica.

A questo si aggiunge la volontà di aprire nuovi distaccamenti dell’SSA sempre in territori orientali. Se a questo quadro si uniscono le considerazioni del report Irini secondo cui le attività compiute in mare «hanno mostrato una mancanza di coordinazione tra l’MRCC libico (stanziato a Tripoli) e le unità orientali», il contesto generale inizia a delinearsi. Da un punto di vista più generale sembra prevalere il contesto di una Libia divisa in due opposte fazioni e territori che istituzionalmente non collaborano tra di loro. Dall’altro, le diverse unità militari, alcune composte da una varietà di gruppi tribali e brigate, sembrano ignorare il macro-contesto per infiltrarsi tra i pori delle divisioni territoriali per raggiungere i loro scopi personali. Infatti, si nota che la Gacs vuole asserire la propria presenza a est per aggiudicarsi una posizione di potere così da rivaleggiare con le unità della guardia costiera libica.

I training con la Turchia sono uno strumento valido per raggiungere questo obiettivo: cooperando con uno stato forte come quello turco la Gacs si assicura un potente alleato che potrebbe tornare utile nel futuro, come lo è stato anche in passato durante la guerra, soprattutto se si considera che la marina militare turca è già presente nelle acque orientali libiche.

Ghenewa, il signore di Tripoli

L’attuale leader del gruppo è Abdel Ghani al-Kikli, detto Ghenewa. Dal 2016 varie milizie sotto il suo comando sono stato integrate all’interno del Ministero dell’Interno. La loro principale area di influenza è la cintura urbana intorno a Tripoli, in particolare il quartiere di Abu Salim. Al-Kikli ha aumentato la presa nella città sfruttando il periodo di instabilità avvenuto prima dell’insediamento nel 2021 del consiglio presidenziale del Governo di unità nazionale (GNU). La costituzione della nuova autorità ha imposto alle bande rivali di prendere una posizione: riconoscere o combattere il governo voluto dalle Nazioni unite. Inizialmente la brigata di Ghenewa di stanza ad Abu Salim si è dichiarata contraria ma alla fine il capo del gruppo paramilitare ha deciso di appoggiare il GNU con tutte le sue truppe. Questa presa di posizione ha fatto automaticamente schierare le altre bande rivali dalla parte dell’opposizione. Nei mesi che sono seguiti ci sono stati ulteriori scontri conclusi con la vittoria delle milizie che avevano appoggiato il nuovo governo. In teoria il GNU era la nuova autorità con cui relazionarsi, ma in pratica la forza militare delle milizie che avevano appoggiato il consiglio presidenziale avevano già stabilito il proprio dominio sulla città.

Uno dei mezzi blindati in dotazione alle SSA – Foto: Facebook

Milizie dell’SSA – Foto:Facebook

Già dal 2013-2014 le forze di al Kikli hanno iniziato a controllare i dintorni di Tripoli, imponendo il proprio dominio e agendo come una mafia locale, chiedendo soldi in cambio di protezione e infiltrandosi negli apparati bancari. Nello stesso periodo sono comparsi report di varie organizzazioni, governative e non, nei quali si denunciava Ghenewa per gli abusi inflitti alla popolazione locale e migrante. Già nella seconda metà del 2014 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite lo ha citato come protagonista insieme ad altri gruppi armati dell’escalation di violenze seguite dall’operazione Fajr (Alba), campagna militare durata da luglio a dicembre 2014 e avente come obiettivo le milizie rivali di Tripoli e Zintan. Qui al-Kikli è stato accusato, tra le altre cose, di aver attaccato in maniera indiscriminata posizioni civili, saccheggiando e distruggendo le infrastrutture locali. Negli anni che seguono, rapimenti, detenzioni arbitrarie, torture e uccisioni spregiudicate sono solo alcune delle accuse mosse nei suoi confronti. Nel 2015 sono stati documentati casi di rapimenti e uccisioni sommarie nel quartiere di Abu Salim da parte delle forze di al-Kikli verso chi si opponeva allo strapotere della milizia.

Nell’agosto 2018 un gruppo armato riconducibile a Ghenewa ha attaccato il centro per rifugiati interni Tariq Al-Mattar a Tripoli che ospitava più di 500 persone, derubando gli abitanti e rapendo 77 persone, tra cui un minorenne. Nel 2019 un report della Global initiative against transnational organized crime (GITOC) afferma che la milizia di Abu Salim controlla l’area e il centro di detenzione al suo interno come fosse un mini Stato. Numerose erano le testimonianze di torture, violenze sessuali, privazioni dei diritti e uccisioni risultate dalle pratiche violente delle guardie, il tutto legittimato dall’integrazione delle forze di al-Kikli nei reparti del Ministro dell’Interno.

Dunque, quando nel 2021 è stato nominato a capo dell’SSA, il gruppo armato di Ghenewa aveva già permeato l’apparato di sicurezza istituzionale della Libia. La nomina non ha fatto altro che aumentare il livello di influenza di al-Kikli. Sotto la sigla SSA si è così riunito un numero cospicuo di militari e miliziani già noti nel panorama nazionale e internazionale per violazioni dei diritti umani. Al fianco di Ghenewa, infatti, è stato una presenza costante e componente fondamentale delle forze e delle attività dell’SSA Ali Mohammed Abu Zriba, detto Busriba, particolarmente attivo nella zona di Zawiya, a ovest di Tripoli. È la zona dove comanda il Battaglione dei Martiri di Abu Surra e la Brigata al-Nasr.

Quest’ultima è tristemente nota per ospitare membri come Mohammed Koshlaf, braccio destro di Abu Zriba, accusato in diversi report, sia delle ONG che delle Nazioni Unite, di violazione dei diritti umani avvenute nei centri di detenzione sotto il suo controllo.

Altro membro della brigata al-Nasr è Abd al-Rahman Milad detto Bija, accusato di essere uno dei principali trafficanti di vite umane in Libia e incarcerato fino ad aprile 2021. Il traffico di prodotti petroliferi è invece una delle attività principali di Busriba stesso, grazie alla quale si stimano ogni mese guadagni milionari e traffici che si diramano dal nord Africa, tra Tunisia e Chad, fino ad arrivare a Malta. Questo apparato di distribuzione nell’ombra è aiutato dalla raffineria di Zawiya, già protagonista delle indagini sul contrabbando di carburante lungo l’asse Libia-Malta-Italia, accanto a cui ha stabilito diversi centri di detenzione illegali per migranti.

Una delle navi in dotazione alle SSA per il pattugliamento delle coste libiche – Foto: Migrant Rescue Watch

Un gruppo di migranti è intercettato e trasportato verso la Libia dalle milizie SSA – Foto: Migrant Rescue Watch

Di questi centri se ne conoscono quattro: il principale al-Maya, al-Nasr, Abu Salim e un quarto dalla posizione non meglio identificata. A dicembre 2021 sono stati confermati sei casi di tortura dentro il centro di al-Maya, tre dei quali sono risultati nella morte delle persone soggette alle violenze.

I “nuovi arrivati” nel controllo delle frontiere

Al momento, Busriba supporta Fathi Bashargha, mentre al-Kikli appoggia la fazione di Dabaiba. Sebbene questa possa sembrare una mossa contraddittoria, in realtà esemplifica quella che è la natura di questa nuova milizia: sfruttare la molteplicità dei suoi dipartimenti dislocati sul territorio per avere un guadagno netto in termini di potere e assicurarsi matematicamente la vittoria in campo politico. Appoggiando entrambi i contendenti si garantisce un posto privilegiato nella scelta del futuro governo, diventano dunque la forza militare che può decidere il prossimo leader.

«La SSA è simile a un cancro – spiega il ricercatore che chiede l’anonimato -, si è sviluppata in fretta e ha attecchito in diversi tessuti sociali, non si parla di un’unità militare con delle infiltrazioni maligne, ma di un vero e proprio virus, una versione più potente di milizia» del tutto diversa dalla guardia costiera libica o dall’Autorità generale per la sicurezza costiera (Gacs).

Europa vs Turchia, la partita sulle forze marittime della Libia

Alla metà di aprile del 2019 le forze del generale Khalifa Haftar, ad est, opposte al governo di Tripoli, ad ovest, hanno iniziato l’offensiva in Tripolitania, conquistando Sirte, Jufra e altre città lungo l’avanzata. In quei giorni il governo di Tripoli guidato da Fayez al Serraj aveva bisogno di alleati che potessero supportarlo militarmente. Da parte europea la risposta ha tardato ad arrivare, complice anche una spaccatura interna che vedeva il presidente francese Emmanuel Macron supportare il generale Haftar. È così che a soccorrere il governo di unità nazionale libico arriva la Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Verso la fine di giugno 2020 le forze libiche supportate dalla Turchia riescono a riprendere la Tripolitania.

Dall’intervento in Libia la presenza turca è divenuta sempre più costante, fino a proporsi come alleato principale del Paese nord africano. In questo modo la Turchia ha potuto da un lato espandere la sua sfera d’influenza nel Mediterraneo e allo stesso tempo ha acquistato una leva strategica sull’Europa. Il cambio di tendenza risulta evidente se si notano le operazioni di training delle forze armate libiche.

Fino a metà del 2021 la missione delle marine militari europee Irini portava avanti training per la guardia costiera libica e le forze della Gacs, cioè le due entità ufficiali preposte al controllo delle frontiere marittime, una dipendente dal ministero della Difesa, l’altra dell’Interno. Nel report aggiornato a fine novembre 2021 di Irini si legge che le forze europee non coordinano più i training, «complice anche il fatto che sono le stesse forze libiche a non voler più mettere a disposizione le loro truppe negli addestramenti», afferma Matteo de Bellis, ricercatore presso Amnesty International.

Dal 2022 si vedono sui siti delle autorità libiche foto e video di corsi presenziati da istruttori turchi. «Si preferisce la cooperazione con chi chiude gli occhi di fronte a tutto», conclude De Bellis. La Turchia continua ad avanzare, ma ai tempi dettati dalla Libia. La guardia costiera libica ha infatti rifiutato la proposta turca di equipaggiamenti perché non vengono considerati della stessa qualità di quelli europei che arrivano attraverso le diverse missioni internazionali. E la Gacs ha accettato gli addestramenti turchi per assumere maggior importanza nel sistema militare libico e far concorrenza alla GCL. Ognuno ha il suo tornaconto.

La flotta

Negli ultimi report sull’andamento del training dei guardacoste libici a cura della missione delle marine militari europee Irini sono state conteggiate in tutto sei navi adoperate dall’SSA per le operazioni in mare, di cui quattro note: la Alqayid Saqar, le Alqayid 1 e 2 e la Alqayid Alharbi. Le prime tre vengono dalla Turchia e sono state fabbricate da cantieri con base a Istanbul. Secondo le ricerche di IrpiMedia, la Alqayid Saqar e la Alqayid 1 potrebbero essere state acquistate dall’SSA nel mercato internazionale di barche di seconda mano, mentre la Alqayid 2, fotografata nel porto di Istanbul già con scritte arabe che corrisponderebbero allo stile delle imbarcazioni libiche, fa supporre che l’SSA abbia commissionato la costruzione della nave. La Alqayid Alharabi è invece appartenuta alla guardia costiera ellenica. Viene chiamata dai migranti la “nave Sabratha” per via del modello diverso rispetto alle solite imbarcazioni che partono da Tripoli.

In questo modo hanno l’opportunità di posizionarsi come la forza regolatrice capace di influenzare l’andamento della politica libica. Al Kikli appare come l’uomo pronto a schierarsi con chiunque lo possa aiutare a espandere il proprio controllo. Questo atteggiamento si è già visto nel periodo precedente all’insediamento del GNU a Tripoli e nelle sue attività nella zona orientale. Adesso che Bashagha ha intenzione di rientrare a Tripoli, la situazione ricorda gli eventi avvenuti quasi dieci anni fa, con Ghenewa che afferma di appoggiare Dabaiba mentre un’altra unità dell’SSA supporta Bashagha. Al-Kikli ha già fatto trasparire l’ambizione di allargare la propria sfera di influenza oltre gli attuali confini politici e una tendenza a destreggiarsi tra opposte fazioni.

CREDITI

Autori

Fabio Papetti

Editing

Lorenzo Bagnoli

Foto di copertina

Il caso Bonnie B e la flotta contesa

#PiratiDelMediterraneo

Il caso Bonnie B e la flotta contesa

Lorenzo Bagnoli

DDal 2015 al 2017 tra Libia, Malta e Italia si è costituito un cartello di contrabbandieri che ha cercato di mettere le mani sul business dei prodotti petroliferi, uno dei più lucrosi in quel quadrante del Mediterraneo. In quei tre anni, il tema del contrabbando di gasolio è stato tra le prime preoccupazioni per aziende petrolifere, governi, organizzazioni internazionali. Erano moltissimi gli attori in gioco, tutti in competizione costante per mettere le mani su un affare che tutti sapevano era destinato a esaurirsi, almeno in quelle dimensioni. In quegli anni a Malta si sono anche aperte cause giudiziarie che riguardano la proprietà di alcune navi che hanno fatto parte della flotta di imbarcazioni sospettate di aver preso parte a traffici di gasolio.

Da anni le autorità internazionali cercano di disegnare l’intera filiera del contrabbando nel Mediterraneo centrale, dai venditori, ai broker, agli acquirenti. Pedine del sistema attraverso cui si sono arricchite anche organizzazioni mafiose italiane (in qualità di intermediari) e milizie libiche (in qualità di fornitori). Fin da subito Malta è stata lo snodo principale dei traffici, sia per la posizione geografica, sia per il suo ruolo di fabbrica della documentazione contraffatta che accompagnava i carichi di gasolio in una prima fase. Questa condizione ha come minimo offerto alle organizzazioni locali di costruire network criminali più strutturati al di fuori dell’isola. Come per la pesca del tonno, si sa che il tempo impiegato dal pesce per la migrazione – il momento in cui lo si può prendere – non è infinito. Sarà anche per questo che molti dei principali trafficanti, almeno le figure di livello medio-basso, vengono dal mondo dei pescatori maltesi.

IrpiMedia è gratuito

Ogni donazione è indispensabile per lo sviluppo di IrpiMedia

L'inchiesta in breve
  • Sono anni che le autorità internazionali cercano di disegnare il perimetro del cartello di contrabbandieri tra Libia, Malta e Italia. Gli anni d’oro del cartello sono stati tra il 2015 e il 2017.
  • In questi ultimi anni si sono sviluppati diversi casi giudiziari intorno alla proprietà di navi poi coinvolte secondo i report delle Nazioni Unite in presunti casi di contrabbando di gasolio.
  • La Bonnie B è una petroliera che è stata acquistata a novembre 2017 dalla società Daha Oils&Gas, di cui uno dei soci è Amer Abdelrazek, secondo Europol un contrabbandiere di gasolio. A firmare i documenti per la cessione è stato un imprenditore, Norman Spiteri, dopo però che si era dimesso dalla carica di direttore.
    Il venditore della nave, Nicolò Alì, contesta a Spiteri la frode. Il processo è in corso ma a febbraio Spiteri ha subito un primo congelamento dei beni per 3,5 milioni di euro. L’avvocato di Spiteri contesta fortemente l’accusa.
  • La Daha Oils & Gas ha acquistato la Bonnie B nel momento in cui l’altra società di Abdelrazek, Rema Trading, era bloccata in un altro procedimento giudiziario contro Graziella Attard. Tra i vantaggi per il cartello ci sarebbe stata la possibilità di utilizzare diverse navi poi coinvolte nei report delle Nazioni Unite.
  • Graziella Attard è un’avvocata che nel 2015 ha portato in tribunale un gruppo di imprenditori accusandoli di averla costretta a firmare una dichiarazione per cedere le sue imprese a degli investitori italiani. La sua macchina è stata data alle fiamme nell’ottobre del 2017. Del cartello avrebbe fatto parte anche Abdelrazek, che però nega.
La petroliera Bonnie B – Foto: MarineTraffic.com

La cessione della Bonnie B

La petroliera Bonnie B è stata indicata come «un’imbarcazione di interesse» per il contrabbando dal comitato di esperti delle Nazioni Unite nel report sulla situazione in Libia del 2019. La petroliera era stata comprata tra ottobre e novembre 2017 dalla Daha Oils & Gas, una società maltese. Valore dell’imbarcazione: 700mila euro. A pagare è stato un imprenditore di lungo corso a Malta con interessi soprattutto nel settore immobiliare, Norman Spiteri, che tra il 2013 e il 2017 ha anche fatto parte del consiglio di amministrazione della compagnia aerea di Stato AirMalta. Eppure già dal 19 ottobre 2017 i documenti depositati in un procedimento giudiziario dall’esito ancora in bilico a Malta riportano come proprietari di Daha Oils & Gas Amer Abdelrazek, uomo di mare egiziano che Europol ritiene legato al contrabbando di gasolio dalla Libia, e un secondo imprenditore maltese: Paul Cutajar. «Mi occupo delle navi, dell’equipaggio, delle riparazioni. Non mi occupo del business», ha spiegato Abdelrazek al telefono. Sostiene di non essere più nella società, per quanto invece dalla visura risulti ancora socio.

Spiteri, fino al gennaio 2018, è rimasto solo in qualità di segretario, cioè una carica amministrativa. Perché Norman Spiteri, che formalmente non poteva più rappresentare Daha Oils & Gas, ha comprato per conto dell’azienda una nave in seguito coinvolta in operazioni sospette? «Chiaramente – è stata la risposta via email dell’avvocato di Norman Spiteri – lei ha accesso agli atti processuali di cui mi scrive e quindi sa che il mio cliente sta contestando energicamente le accuse», ha risposto. «Le consiglierei di attendere l’esito del suddetto caso giudiziario prima di giungere a qualsiasi conclusione poiché la fonte delle sue informazioni potrebbe essere sospetta. Le risposte alle vostre domande sono riservate all’analisi indipendente e alla decisione finale del tribunale», ha concluso. Secondo quanto emerge dalle carte processuali, la causa riguarda prima di tutto il ruolo di Spiteri all’interno della società e la sua capacità o meno di firmare in qualità di direttore alcuni documenti che impegnavano Daha Oils & Gas all’acquisto di una petroliera.

Il venditore della Bonnie B, cioè il querelante di Norman Spiteri, è un imprenditore italiano, Niccolò Alì, citato nelle due principali operazioni italiane contro il contrabbando di gasolio, Dirty Oil e Vento di Scirocco (del 2017 e del 2020), ma mai rinviato a giudizio per mancanza di prove, come ha precisato l’imprenditore in una replica a IrpiMedia dopo l’uscita del primo articolo su Abdelrazek. Le indagini sono le stesse che hanno fatto scoprire le attività di Gordon e Darren Debono, due imprenditori maltesi al momento sotto sanzione negli Usa per contrabbando di gasolio, e gli interessi di cosa nostra etnea al business petrolifero.

La Bonnie B era stata armata per conto di Alì dallo stesso Abdelrazek, come conferma il comandante. È di proprietà di Alì dal gennaio 2017, secondo quanto risulta dai registri navali aperti. Nei piani dell’imprenditore italiano la nave avrebbe dovuto fare la spola tra Malta e Mazara del Vallo, in provincia di Trapani, dove la società petrolifera Pinta Zottolo, tra i clienti di Alì, aveva un deposito fiscale. La Pinta Zottolo però nel dicembre 2016, mentre l’imprenditore chiudeva le trattative per l’acquisto della petroliera, ha subito il sequestro di 40 milioni di euro per «fittizie operazioni di denaturazione», si legge nell’ordinanza, cioè un sistema attraverso cui si faceva in modo che il gasolio sembrasse di una categoria diversa, con un regime fiscale agevolato. Dopo quell’episodio, Alì si è trovato con una nave dal costo di circa 20mila euro al mese che non riusciva a far lavorare. In quei mesi tra i clienti di Alì c’è stato anche Marco Porta della Maxcom Bunker, acquirente dei prodotti dei Debono al centro dell’indagine Dirty Oil. Nicolò Alì ha spiegato sempre in una nota ricevuta da IrpiMedia dopo la prima uscita di non essere mai riuscito a chiudere un affare con Gordon Debono, che in realtà era un suo concorrente in qualità di fornitore della Maxcom. Secondo Amer Abdelrazek, dopo l’acquisto di Daha Oils & Gas la nave è stata ferma per altri due anni. Poi, sempre Daha Oils & Gas, l’ha mandata in Turchia: «L’unico viaggio che ha fatto è stato per la demolizione», ha spiegato il comandante.

Navi ancorate a Hurd’s Bank, al largo di Malta – Foto: maltashipphotos.com (Lawrence Dalli)

La firma della discordia

La vicenda processuale tra Niccolò Alì e Norman Spiteri è cominciata per una questione economica: la società dell’imprenditore italiano sostiene di non aver mai incassato l’ultimo degli assegni per il pagamento della Bonnie B. Così è partita la prima causa, ora ritirata dal querelante. Nel preparare il materiale difensivo, Alì si è accorto che Spiteri firmava da direttore quando invece era ormai solo il segretario della società. La questione, per il querelante, diventa allora frode e non più mancato adempimento degli obblighi contrattuali: Spiteri secondo Alì non aveva i poteri per firmare quell’accordo. Così Alì ha sporto una seconda denuncia che, dopo un iniziale rigetto da parte del tribunale maltese, a febbraio ha portato al congelamento di 3,5 milioni di euro di proprietà delle due holding familiari di Spiteri. Queste due società nel luglio 2018 hanno effettuato un prestito da due milioni alla Daha Oils & Gas per mantenere attive le due navi della sua flotta: la già citata Bonnie B e la Jaguar. Anche quest’ultima ha concluso la sua vita nel 2019. Norman Spiteri ha fatto appello alla decisione del tribunale e la prossima udienza è prevista a luglio.

L'abbandono della Bonnie B e della Jaguar

Entrambe le navi della Daha Oils & Gas hanno avuto un caso di abbandono dell’equipaggio nella fase finale della loro vita. Nel caso della Bonnie B, l’episodio è stato registrato sul portale dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) il 15 novembre 2018. Il 4 febbraio 2019 il sindacato ha preso contatti con i marittimi che hanno detto di non aver ricevuto paghe, né cibo. Secondo quanto osservato dai sindacalisti, «la proprietà dell’imbarcazione è cambiata oppure lo scafo nudo sarebbe stato dato a nolo». La pratica del noleggio dell’imbarcazione è molto diffusa nell’industria marittima e rende difficile rintracciare chi sia il proprietario del carico e di conseguenza il committente del lavoro per l’equipaggio. Infatti nel caso si legge che si tratta di una «disputa sul passaggio di proprietà». Il caso è stato tuttavia risolto quando a dicembre 2020 è stato liquidato il 72% delle paghe dei marittimi. Il caso della Jaguar, Jag dal luglio 2017, è invece ancora aperto, per dei pagamenti in arretrato. Secondo la scheda dell’Ilo, la nave è arrivata a Malta il 5 maggio 2019 per una serie di riparazioni. Il 6 luglio 2019 ha invece lasciato l’isola trainata da una rimorchiatore, per essere demolita ad Aliaga, in Turchia. Nella scheda dell’abbandono si legge di un’accusa per «demolizione irregolare» per la quale il governo di Ankara, però, dice di non essere stato in grado di raccogliere prove.

Dall’inizio della querelle giudiziaria con Spiteri, Alì ha cambiato diversi difensori, come si può ricostruire attraverso le carte giudiziarie. Durante l’ultima udienza, il 17 giugno, si è presentato senza avvocato, si legge nel verbale dell’udienza e a questo è dovuto l’ultimo rinvio. Kris Scicluna, l’avvocato che ha istruito la causa, ha spiegato di aver abbandonato il procedimento «per una scelta personale» e non per condizionamenti esterni. Un altro ex avvocato di Alì, contattato, non ha voluto chiarire per quale motivo avesse lasciato l’incarico e una terza non ha mai risposto alle domande mandate via whatsapp.

Vecchi contenziosi

A marzo 2017 Amer Abdelrazek stava già lavorando come procacciatore di navi per Nicolò Alì, ma questa volta attraverso un’altra società, Rema Trading. Una fattura dell’epoca dimostra l’acquisto da parte della società di Alì per conto della Rema trading di Abdelrazek di un carico di 2 milioni di litri di gasolio da trasferire sulla Bonnie B nella secca al confine delle acque contigue maltesi che in quegli anni è stata usata in diverse occasioni per consegne di prodotti petroliferi di contrabbando, Hurd’s Bank. Quell’acquisto è una forma di cofinanziamento della Rema Trading, in linea con le regole della sharia, la legge islamica, che impedisce la ricezione di prestiti in denaro, come dimostra la stessa email allegata. In sostanza, quindi, Rema gestiva l’approvvigionamento dai fornitori, la società di Alì invece la distribuzione del prodotto. Rema, da gennaio 2017, era però già impegnata in un’altra causa legale, durata fino alla fine di quell’anno, che ha sostanzialmente reso impossibile agire per la società. È in questo contesto che Abdelrazek, come si legge in un’email depositata a processo, ha ottenuto dalla società di Alì il passaggio del cofinanziamento alla Daha Oils & Gas, con l’obiettivo di continuare a lavorare.

La lunga causa che ha bloccato Abdelrazek in tribunale è stata intentata dall’avvocata Graziella Attard, fino al 2016 segretaria della Rema. «Non abbiamo più niente in sospeso con quella donna (Graziella Attard, ndr) dal 2017. Mi ha tolto tutto», è stato il commento di Abdelrazek alla richiesta di maggiori informazioni sul caso giudiziario che ha riguardato Rema Trading. L’avvocata nel 2015 ha depositato un esposto in cui dichiarava di essere stata costretta dalle sue controparti a cedere la direzione di due società a un gruppo italiano. Diceva di essere stata costretta a firmare «con la forza, con le minacce e con atti fraudolenti». Secondo la sua ricostruzione, le controparti, dodici in tutto, sarebbero state già d’accordo sulla cessione ai nuovi arrivati italiani, nonostante non esistessero rapporti commerciali precedenti. Tra i partecipanti a questo cartello, secondo la denuncia depositata da Attard, c’erano anche Amer Abdelrazek, suo fratello Khaled e Gordon Debono. «Ho lavorato per Gordon Debono nel 2012 per un paio d’anni», ha replicato il comandante al telefono. Alcune delle navi che la società italiana ha ottenuto da questo cartello di imprenditori – di cui avrebbero fatto parte anche Debono e gli Abdelrazek – sono state segnalate a partire dal 2016 per sospette attività di contrabbando.

Il 16 ottobre 2017, lo stesso giorno dell’omicidio di Daphne Caruna Galizia e tre giorni prima che Abdelrazek facesse il suo ingresso nella quote di Daha Oils & gas, la macchina dell’avvocata è stata data alle fiamme in un incendio doloso. La polizia all’epoca aveva suggerito che l’episodio potesse essere maturato nell’ambiente dei contrabbandieri di gasolio. Il mistero, però, ad oggi non si è ancora risolto e la diretta interessata non è più raggiungibile al telefono. «So che si diceva in giro di questo episodio, ma non ho mai visto documenti che lo provassero – ha commentato Abdelrazek -. Non è mai stata costretta a firmare dei documenti».

Contrabbandi di ieri e di oggi

Oggi il traffico via mare è molto meno fiorente di cinque-sei anni fa, annota il comitato di esperti delle Nazioni Unite nell’ultimo rapporto pubblicato, tuttavia non si può dire che si sia davvero esaurito. Sul sito di IRINI – la missione europea con il mandato di pattugliare le acque internazionali per impedire l’ingresso di armi in Libia, il contrabbando di prodotti petroliferi e il traffico di esseri umani – nel corso del 2020 e del 2021 sono apparse diverse notizie di imbarcazioni (per lo più turche) intercettate perché sospettate di trasportare prodotti petroliferi la cui esportazione non è stata approvata dalla National Oil Corporation (NOC), la società petrolifera statale libica. La Libia ha speso moltissimo denaro in sussidi pubblici per fare in modo di vendere carburanti raffinati a prezzi calmierati all’interno del paese. Una parte, però, grazie al prezzo bassissimo sostenuto dai sussidi, è diventata la materia prima del mercato nero.

Dal 2015 in avanti, il prodotto è uscito principalmente dai porti dell’ovest del paese – Zuwara, Zawiya e Abu Kammash – secondo quanto è stato possibile dimostrare finora. Questa circostanza rafforza le accuse contro la Brigata al Nasr, milizia che a Zawiya svolge il compito di Guardia costiera e di sicurezza armata alla raffineria cittadina. Sono stati i fornitori del cartello dei contrabbandieri negli anni d’oro del business. A Bengasi, nell’area sotto il controllo del generale Khalifa Haftar, l’uomo che dal 2014 sfida il governo di unità tenuto insieme dalle Nazioni Unite, il ramo locale della NOC ha cercato di diventare indipendente e ha autorizzato esportazioni senza tenere conto della volontà di Tripoli almeno fino al 2020. La NOC di Begasi costituiva un’alternativa più “grigia” per chi cerca prodotti a basso prezzo da importare in Europa. Oggi Haftar è appoggiato da Fathi Bashagha, premier voluto dalla Camera dei Rappresentanti di Tobruk, in contrapposizione del primo ministro nominato dalla missione delle Nazioni Unite a Tripoli, Abdul Hamid Dabeiba. Sono i due principali protagonisti degli scontri in corso oggi.

Il petrolio resta tutt’oggi la principale fonte di ricchezza libica e continua a dividere il paese. Scontri e chiusure degli impianti fanno oscillare la produzione da un minimo di 100 mila a un massimo di 700 mila barili al giorno, che vanno portati principalmente all’estero per essere raffinati e poi riportati in Libia per il mercato interno. L’instabilità perenne, data da una decennale guerra civile “a bassa intensità”, si sovrappone alla necessità di tenere attiva l’unica industria che veramente può funzionare ora nel paese, quella di gas e petrolio. In questo contesto è evidente che il contrabbando continua ad avere spazio.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli

Editing

Giulio Rubino