I Signori del grano

I Signori del grano

#Grainkeepers

Icereali sono il nuovo petrolio, i terreni agricoli le nuove cisterne e le navi cariche di grano i nuovi oleodotti. Con l’aumento del valore dei raccolti, ogni Paese in possesso di questa risorsa si trova in una posizione di potere e ogni trasporto diventa un’operazione politicamente sensibile.

Nel XX secolo le nazioni che sfruttavano le loro riserve di petrolio hanno approfittato del boom della domanda di idrocarburi, aprendo un divario tra Stati ricchi e poveri in Medio Oriente, Europa e Africa. Il presente rischia un nuovo squilibrio, tra i Paesi e le multinazionali che controllano le terre fertili, il raccolto e la vendita dei prodotti, e quelli che non hanno alcun potere in questa catena di approvvigionamento.

L’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022 ha esacerbato questo “divario del grano”, provocando un’impennata dei prezzi di molti cereali, interrompendo molte rotte e mettendo a rischio la vita di milioni di persone in quei Paesi che non possono più permettersi di importare del cibo.

Questa crisi ha messo in evidenza i vincitori e i vinti nella lotta per l’accesso ai cereali, che analizziamo nel progetto giornalistico transfrontaliero The Grainkeepers, con il sostegno del Journalism Fund.

Vuoi fare una segnalazione?

Diventa una fonte. Con IrpiLeaks puoi comunicare con noi in sicurezza

Quel che sarà dell’agricoltura italiana

Quel che sarà dell’agricoltura italiana

Il 2022 dell’agricoltura italiana è stato duro. Con il 2023 prende il via la nuova Politica Agricola Comune Ue. Ma il rischio è che a farne le spese sarà l’ambiente

CREDITI

Autori

Michael Bird
Ana Maria Luca
Vlad Odobescu
Paolo Riva
Razvan Zamfira

In partnership con

Editing

Lorenzo Bagnoli

Infografiche & Mappe

Lorenzo Bodrero

Foto di copertina

Christian Ender/Getty

Con il sostegno di

Guerre rurali, lo scontro per la “sovranità alimentare”

09 Novembre 2022 | di Paolo Riva

Negli anni Novanta, al momento della sua nascita, il termine “sovranità alimentare” significava costruire un sistema di sviluppo agricolo ed economico diverso da quello fondato sul mercato libero e l’assenza di dazi doganali. Secondo la definizione del 1996 de La Via Campesina, movimento internazionale di lavoratori della terra e contadini piccoli e medi, “sovranità alimentare” è «il diritto dei popoli, delle comunità e dei Paesi di definire le proprie politiche agricole, del lavoro, della pesca, del cibo e della terra che siano appropriate sul piano ecologico, sociale, economico e culturale alla loro realtà unica». A portarlo alla ribalta, molti anni dopo, sono stati però i partiti politici di destra insieme all’invasione russa in Ucraina. Con un significato molto diverso da quello originale.

Il nuovo governo di Giorgia Meloni ha cambiato il nome del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali in Ministero dell’agricoltura e della sovranità alimentare. «La sovranità alimentare non è un concetto di destra», ha spiegato in un’intervista il neoministro Francesco Lollobrigida, che già aveva precisato come anche nella Francia di Emmanuel Macron, molto lontana dalle posizioni politiche di Fratelli d’Italia, si utilizzasse lo stesso concetto. Secondo l’esperto di sistemi alimentari Nicolas Bricas, in realtà, «il termine sovranità alimentare è molto caro all’estrema destra francese». «Il Rassemblement national è molto radicato negli ambienti rurali – prosegue Bricas che fa parte di IPES Food, un panel di esperti indipendenti in sistemi alimentari sostenibili -. Macron aveva bisogno di sedurre quell’elettorato e quindi ha cercato di accontentarlo».

Pochi giorni dopo l’invasione dell’Ucraina di fine febbraio, “sovranità alimentare” ha fatto la sua comparsa anche in un documento del Consiglio dell’Unione europea (in quel momento guidata dalla presidenza a rotazione della Francia): i ministri dell’agricoltura dei 27 hanno detto di voler «migliorare la resilienza e la sovranità alimentare dell’Ue» e di «incorporare la sovranità alimentare nella politica agricola Ue». Ne ha parlato poi Copa-Cogeca, la più importante organizzazione di agricoltori del continente: per fare fronte alla «questione essenziale di sovranità alimentare e di stabilità democratica» posta dal conflitto, ha chiesto alle istituzioni europee «di poter coltivare tutte le terre disponibili nel 2022 per compensare il blocco della produzione russa e ucraina», «per evitare interruzioni nelle catene di approvvigionamento, che inevitabilmente porteranno a carenze in alcune parti del mondo».

La pressione ha sortito gli effetti desiderati: nel giro di un mese, a fine marzo, la Commissione ha approvato «una gamma di interventi a breve e a medio termine» in ambito agroalimentare, tra i quali «una deroga eccezionale e temporanea» per consentire agli agricoltori, proprio come chiesto da Copa-Cogeca, di coltivare anche quei terreni che, solitamente, vengono lasciati a riposo o a prato permanente per ragioni ambientali. Il provvedimento riguardava solo il 2022, ma a luglio è stata decisa un’ulteriore deroga per tutto il 2023.

È così che la sovranità alimentare è entrata nel novero degli argomenti a sostegno dell’imperativo di produrre di più, molto lontano dall’obiettivo originale de La Via Campesina.

Il progetto I Signori del grano

I Signori del grano è una serie sul divario crescente tra Stati ricchi e poveri nella disponibilità di risorse agricole scatenato dalla guerra in Ucraina. La serie è realizzata in collaborazione con Scena9 e NOW, grazie al sostegno di JournalismFund.

Ambiente Vs produzione

La pandemia, prima, e il conflitto in Ucraina, poi, sono arrivati in un momento cruciale per l’agricoltura europea. Il settore è responsabile di circa il 12% delle emissioni di gas serra Ue e, di queste, quasi il 70% arriva dagli allevamenti. Per combattere il cambiamento climatico, quindi, l’agricoltura va resa più sostenibile. Per questo, nel maggio 2020, la Commissione Ue, nell’ambito del Green Deal europeo, ha presentato la strategia Farm to Fork – dal produttore al consumatore (F2F).

Agricoltura insostenibile

Il settore agricolo, nel 2020, è stato responsabile di circa il 12% delle emissioni di gas serra Ue. Di queste, quasi il 70% arriva dagli allevamenti

Il documento ha al suo interno diversi obiettivi, come per esempio la riduzione dell’uso dei pesticidi chimici e la crescita delle superfici coltivate a biologico. Alcuni principi sono stati parzialmente incorporati nella nuova programmazione della Politica Agricola Comune (PAC), in partenza a gennaio 2023, ma la maggior parte dovranno essere concretizzati in nuovi testi legislativi. Il mondo agricolo europeo è spaccato in merito all’attuazione della strategia F2F.

Secondo diverse organizzazioni di categoria degli agricoltori, le norme proposte potrebbero portare a un calo della produzione agricola europea, facendo aumentare i prezzi e rendendo l’Europa dipendente dalle importazioni. «C’è il rischio che le nuove normative siano un boomerang – sostiene Vincenzo Lenucci, direttore Politiche europee e internazionali di Confagricoltura, organizzazione italiana che fa parte di Copa-Cogeca -. Potrebbero rendere difficile avere una disponibilità di cibo sufficiente, salubre e accessibile», aggiunge riferendosi ad alcuni studi sull’impatto della Farm to Fork e del Green deal europeo pubblicati negli ultimi anni, come quelli di JRC e Wageningen University & Research. A causa del minor uso di pesticidi e fertilizzanti e del maggiore ricorso all’agricoltura biologica, il primo studio stima un calo medio della produzione agricola tra il 5 e il 15% mentre il secondo tra 10 e il 20%.

L’industria agricola e quella chimica europee, per l’ong che si occupa di lobbying e trasparenza Corporate European Observatory, stanno cercando di «far deragliare la Farm to Fork, utilizzando la crisi ucraina per rinvigorire le argomentazioni contro le pratiche agricole più ecologiche», già espresse anche prima del conflitto, ma senza esiti. «Copa-Cogeca – scrive ancora Corporate European Observatory – ha collaborato con il gruppo del Partito popolare puropeo (PPE) per indebolire e bloccare le regole vitali per l’attuazione degli obiettivi climatici». L’ong, inoltre, sostiene che il rapporto del JRC sia incompleto e tenda a privilegiare i fattori economici rispetto a quelli sociali e ambientali mentre ricorda che quello di Wageningen University & Research è stato commissionato dall’associazione di categoria delle imprese agrochimiche Croplife Europe e si basa su 25 casi studio relativi a «solo dieci colture in sette Stati membri».

Rilievi simili sono stati fatti da associazioni e parlamentari ambientalisti, convinti che l’attuale sistema agroindustriale vada superato, producendo in maniera più sostenibile e cambiando la destinazione dei prodotti.

Oggi il 52% dei cereali prodotti e importati in Ue viene usato per nutrire gli animali e solo il 19% per uomini e donne. «Ci troviamo di fronte a un problema di solidarietà e di organizzazione del mercato, non a un problema di volume», sostiene Benoît Biteau, agricoltore biologico francese, eurodeputato verde e vicepresidente della commissione agricoltura del Parlamento europeo. A suo giudizio, la scelta della Commissione di derogare temporaneamente ad alcune norme ambientali è una decisione politica «molto discutibile». In questa situazione, anziché produrre di più, secondo Biteau, bisognerebbe «controllare la speculazione», «tassare i superprofitti» dei grandi attori internazionali e «riorientare parte delle scorte destinate all’allevamento verso l’alimentazione umana», compensando economicamente gli allevatori penalizzati.

Per Bricas, le deroghe decise a marzo rivelano «uno scontro interno alla Commissione Ue»: «Da un lato – spiega l’esperto di IPES Food – c’è chi vuole aumentare la produzione di cereali per recuperare quote di mercato ed evitare una crisi globale. Dall’altro, chi vuole difendere la strategia Farm to Fork», proponendo di sprecare meno cibo e cambiare alcune abitudini alimentari. Ad impersonificare le due posizioni all’interno dell’esecutivo comunitario ci sono Frans Timmermans, il socialista olandese vicepresidente della Commissione e responsabile del Green Deal, e Janusz Wojciechowski, il commissario polacco all’agricoltura, del partito di governo PiS. Il primo sostiene con forza la F2F, mentre il secondo vuole incrementare la produzione.

Ma lo scontro non si esaurisce nelle stanze dei palazzi di Bruxelles e nei prossimi mesi è destinato a intensificarsi per diversi motivi. Uno di questi è l’estate appena trascorsa. La siccità che ha investito l’Europa quest’anno è stata talmente acuta che, secondo i ricercatori del Joint Research Centre, potrebbe rivelarsi la peggiore degli ultimi cinquecento anni. Ovvio che ne abbia risentito fortemente anche l’agricoltura.

Siccità e deroghe

Stando alle ultime previsioni della Commissione europea, principalmente a causa della siccità la produzione cerealicola Ue 2022 dovrebbe essere inferiore sia a quella dello scorso anno sia alla media degli ultimi cinque, rispettivamente del 7,8 e del 5,1%. Tra i Paesi con le prestazioni peggiori, se comparate con il quinquennio precedente, ci sono Ungheria, Romania, Spagna, Francia e anche l’Italia, con un calo superiore alla media europea. Oltre alla mancanza d’acqua, hanno influito sicuramente anche il caro energia, il conseguente aumento dei costi di produzione e il fatto che le deroghe stesse siano state decise a marzo e inizialmente durassero solo fino a dicembre.

Sta di fatto che, per ora, le deroghe alle norme ambientali non hanno ottenuto i risultati sperati. «La disponibilità di cibo – continua la Commissione – non è a rischio nell’Ue» che, anzi, grazie alle scorte degli anni precedenti, dovrebbe esportare cereali per «51 milioni di tonnellate, con un aumento del 6,5% rispetto alla scorsa stagione e del 20,9% rispetto alla media quinquennale».

La crisi Ucraina, che ha spinto alcuni stati sull’orlo della carestia perché non potevano permettersi di importare cibo, in Europa non ha causato un problema di disponibilità degli alimenti, quanto piuttosto di accessibilità, soprattutto per i cittadini meno abbienti. «Le importazioni totali dell’Ue hanno subito un impatto minimo» dal conflitto, ha spiegato Rico Ihle, professore della Wageningen University nel corso di un’audizione al parlamento europeo a fine ottobre. «Le importazioni dall’Ucraina – ha aggiunto – non sono crollate, alcune sono addirittura aumentate. Il crollo delle importazioni dalla Russia è stato sostituito. Nessun problema di scarsità nell’Ue, in quanto il modello commerciale è cambiato a malapena». Per contro, solo per fare un esempio, in agosto, il prezzo del pane in Unione europea è stato più alto del 18% rispetto all’anno precedente, con punte del 33% in Lituania e del 66% in Ungheria.

Caro pane

Variazione percentuale del prezzo del pane ad agosto 2022 rispetto all’anno precedente. La media in Unione europea segna un +18%, con punte del +33% in Lituania e del +66% in Ungheria

La sicurezza alimentare non è mai venuta meno. I dati oggi lo dicono, ma alcune scelte politiche, come l’estensione al 2023 delle deroghe ambientali, nel frattempo sono state prese. E altre dovranno esserlo presto. Da un lato, molti agricoltori sostengono che le oggettive difficoltà create dalla siccità e il perdurare della guerra siano ulteriori motivi per non approvare ora misure ambientali che potrebbero rendere la loro vita ancora più complessa, limitare la produzione e far alzare ulteriormente i prezzi. Dall’altro, i sostenitori della Farm to Fork rispondono che un’agricoltura più sostenibile serve proprio a essere meno dipendenti dai fattori di produzione chimici e a non esacerbare la crisi climatica, che causa eventi estremi inediti come quello di quest’estate. Come Timmermans aveva dichiarato a fine aprile, ancora prima che la siccità si manifestasse in tutta la sua gravità, questa strategia «è un tentativo di salvare l’agricoltura, non di punirla, alla luce degli effetti devastanti della perdita di biodiversità e dei cambiamenti climatici sulla produzione alimentare a livello globale».

Nonostante gli appelli del vicepresidente, però, il percorso della Farm to Fork procede difficoltoso, tra ritardi e spinte in direzione contraria.

Uno degli esempi più significativi riguarda la proposta di riforma del regolamento per i pesticidi. Il testo legislativo per dimezzare l’uso dei pesticidi chimici entro il 2030 era programmato per il primo trimestre 2022, era stato annunciato per marzo e poi è stato rimandato fino a fine giugno. Presentandolo, Timmermans ha dichiarato che «utilizzare la guerra in Ucraina per annacquare le proposte e spaventare gli europei facendogli credere che la sostenibilità significhi meno cibo è francamente irresponsabile». Tuttavia, quando a settembre la proposta è arrivata al Parlamento europeo, è stata duramente criticata da popolari e liberali proprio per il suo effetto sulla sicurezza alimentare europea e per la mancanza di una valutazione di impatto su questo tema specifico. L’iter di approvazione si annuncia lungo e complesso. E il tempo a disposizione è ormai limitato.

«La proposta sull’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari è arrivata in ritardo. Non sappiamo se riuscirà ad essere approvata prima della fine della legislatura», ragiona Ellen Hof, direttrice operativa ed esperta di agroalimentare per la società di consulenza con sede a Bruxelles #SustainablePublicAffairs. La scadenza può sembrare ancora lontana, ma i negoziati per le norme europee richiedono tempo, perché vanno trovati dei compromessi sia tra le diverse forze politiche sia tra le diverse istituzioni Ue, con Parlamento e Consiglio cui spetta il voto finale. Per fare un paragone, la discussa normativa che prevede la fine delle vendite delle auto a combustione è stata presentata nel luglio 2021 e solo nelle prossime settimane la plenaria del Parlamento Ue dovrebbe votare per l’ultima e definitiva volta la sua entrata in vigore. In tutto, fa quasi un anno e mezzo. Che è all’incirca quanto manca al prossimo voto continentale.

Transizione a rischio

«Ci stiamo ormai dirigendo verso le elezioni europee della primavera 2024. È improbabile – riprende Hof – che sulle iniziative legislative in arrivo nei prossimi mesi Consiglio e Parlamento europeo trovino un compromesso, portando quindi alla loro approvazione». Chi è contrario alla strategia Farm to Fork o, più in generale, al Green deal europeo, quindi, può anche non battersi nelle trattative per cambiare i testi legislativi, ma può semplicemente cercare di allungare i tempi il più possibile per non arrivare ad alcuna decisione.

«Onestamente, la situazione non è buona», commenta Thomas Waitz, europarlamentare austriaco copresidente del Partito verde europeo. «I prossimi anni saranno fondamentali per raggiungere gli obiettivi climatici. Ciò significa che molte industrie e conservatori dovranno cambiare il loro modello di business, potrebbero non guadagnare più come prima e faranno di tutto per impedirlo», attacca.

In una delle prime interviste da quando è stato nominato, il ministro dell’agricoltura e della sovranità alimentare Lollobrigida ha dichiarato che serve «una riforma della PAC che si liberi dall’ ideologia intrinseca del Farm to Fork» e che bisogne togliere il limite ai terreni incolti perché «non basta quello che ci mette a disposizione l’Europa». Per quanto ancora un po’ vaga, quest’ultima proposta rimanda alle richieste fatte anche da altri attori europei di estendere ulteriormente le deroghe alle norme ambientali già prese per questo e il prossimo anno fino alla fine dell’attuale programmazione PAC, nel 2027.

Un’eventuale decisione di questo tipo sarebbe un’ulteriore battuta d’arresto per la transizione verde dell’agricoltura europea. Al tempo stesso, potrebbe essere un’astuta mossa elettorale dei Conservatori e riformisti europei, il partito ECR di cui fanno parte Lollobrigida e Fratelli d’Italia, il Commissario polacco all’agricoltura Janusz Wojciechowski e anche la presidenza di turno del Consiglio dell’Unione europea, fino a fine anno nelle mani del governo conservatore ceco. Il gruppo ECR, oggi, non fa parte della maggioranza popolari-liberali-socialisti che al Parlamento europeo sostiene la Commissione Von der Leyen, ma le cose potrebbero cambiare dopo le elezioni del 2024. Alcuni osservatori pensano che si potrebbero creare nuove alleanze nella parte destra dell’emiciclo continentale. Dei segnali, in tal senso, sembrano esserci stati, come la nomina di un membro ECR, il lettone Roberts Zīle, tra i vicepresidenti dell’eurocamera lo scorso gennaio.

Per ora si tratta solo di ipotesi, ma a Bruxelles, riprende Hof, ci si inizia a chiedere «cosa ne sarà del Green Deal europeo e di tutte le misure ad esso collegate, anche in campo agricolo». «Cosa succederà dopo il voto?», si domanda con una certa preoccupazione la direttrice operativa di #SustainablePublicAffairs.

In attesa del 2024, quello agricolo potrebbe diventare un terreno fertile per coltivare intese politiche inedite. E la sovranità alimentare potrebbe diventare un concetto intorno al quale testarle, trasformandosi da critica del sistema a tattica per mantenere lo status quo: produrre di più, come si è sempre fatto.

Foto: Una mietitrebbia al lavoro in un campo di grano in Germania – Picture Alliance/Getty
Editing: Lorenzo Bagnoli
Infografiche: Lorenzo Bodrero
In partnership con: Scena9, NOW
Con il supporto di: JournalismFund

Le voci del Recovery: chi ha deciso il piano di ripartenza in Europa

Le voci del Recovery: chi ha deciso il piano di ripartenza in Europa

Giulio Rubino

Come maggiore beneficiaria dei fondi messi a disposizione dell’Europa per la ricostruzione post-Covid, l’Italia è chiaramente sotto esame. Colpita forse più duramente di ogni altro Paese europeo dalla pandemia, presa da una crisi economica che pare ormai un male cronico e da una continua instabilità politica che sembra impedire ogni riforma sostanziale, non è sorprendente che il nostro Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) sia stato al centro dell’attenzione europea e che in molti abbiano tirato un gran sospiro di sollievo lo scorso giugno, quando la presidentessa della Commissione Europea Ursula von der Leyen a Roma ha dichiarato che l’Italia «ha il completo appoggio della Commissione» e che «Next Generation EU Italia Domani soddisfa chiaramente i criteri stabiliti assieme». «Sono certo che riusciremo ad attuare questo Piano», aveva detto due mesi prima il presidente del Consiglio Mario Draghi, ad aprile, nel presentare il PNRR italiano al Parlamento. «Sono certo – aveva aggiunto – che l’onestà, l’intelligenza, il gusto del futuro prevarranno sulla corruzione, la stupidità, gli interessi costituiti».

Ma, come IrpiMedia ha già analizzato nella serie di inchieste #Greenwashing, gli “interessi costituiti”, sono riusciti a far sentire la loro voce. Le lobby dei combustibili fossili infatti hanno avuto successo a far accettare, nonostante l’opposizione degli ambientalisti di tutta Europa, le controverse tecnologie del Carbon Capture and Storage (CCS), ovvero la cattura e lo stoccaggio della CO2, e la connessa produzione di idrogeno “blu” all’interno dei PNRR nazionali di diversi paesi in nome della transizione ecologica.

Per quanto riguarda l’Italia, lo scorso maggio IrpiMedia ha evidenziato le piccole ma significative differenze tra la versione del PNRR in inglese presentata alla Commissione europea e quella in italiano che è stata discussa dal Parlamento, segno evidente di come non ci sia mai stata davvero la possibilità di analizzare e discutere il documento inviato a Bruxelles. Eppure solo in tre Paesi – Italia, Danimarca e Lussemburgo – la Decisione di esecuzione del Consiglio, ovvero il documento di approvazione del Piano firmato dal Consiglio europeo, fa accenno a una discussione parlamentare sui contenuti.

E nel resto d’Europa le cose non sembrano essere andate troppo diversamente, come dimostra questa prima inchiesta del progetto #RecoveryFiles.

IrpiMedia è gratuito

Ogni donazione è indispensabile per lo sviluppo di IrpiMedia

L'inchiesta

Questo articolo lancia Recovery Files, un progetto di ricerca paneuropeo che indagherà le spese dei fondi di ripresa e resilienza nei mesi a venire. Il progetto è coordinato da Follow the Money, piattaforma di giornalismo olandese.

Il progetto d’inchiesta è importante non solo in termini di quantità di investimenti pubblici – circa 725 miliardi di euro- ma anche per il preoccupante mancato coinvolgimento dei parlamenti nazionali. Il modo in cui questa enorme quantità di denaro verrà spesa è ovviamente una materia di interesse pubblico per i cittadini di tutta Europa.

IrpiMedia lavora al progetto insieme al resto del team di Recovery Files:

  • Attila Biro, Rise (Romania)
  • Atanas Tchobanov, Bird.bg (Bulgaria)
  • Hans-Martin Tillack, Die Welt (Germania)
  • Petr Vodsedalek, Denik (Repubblica Ceca)
  • Anuska Delic/Matej Zwitter, Ostro (Slovenia)
  • Gabi Horn, Atlatszo (Ungheria)
  • Marie Charrel, Le Monde (Francia)
  • Peter Teffer/Remy Koens/Lise Witteman, Follow the Money (Paesi Bassi)
  • Piotr Maciej Kaczynski, Euractiv.com e Onet.pl (Polonia)
  • Staffan Dahllöf, DEO.dk (Danimarca/Svezia)

Cosa è rimasto della «piena trasparenza»

Senza la catastrofe della pandemia ogni proposta di costituire un budget comune per l’eurozona, in particolare quelle di Francia e Germania del 2018, ha sempre incontrato la ferma opposizione di molti Paesi membri, tanto che sembrava un obiettivo quasi irraggiungibile. Non che il Covid abbia istantaneamente fatto cambiare idea a tutti, certo. Le obiezioni e le preoccupazioni di diversi Paesi, primi su tutti i famosi “frugali”, hanno tenuto tutti col fiato sospeso per mesi, e ancora non cessano del tutto.

Una prudenza eccezionale è più che comprensibile. Il presidente della Corte dei Conti Europea (ECA), Klaus-Heiner Lehne, ha sottolineato come il Recovery Plan rappresenti un «cambiamento significativo nelle finanze Ue. Comporta un’evidente necessità di controlli efficaci su come il denaro europeo verrà speso, e sul raggiungimento o meno degli obiettivi che si propone».

Ma un’altra fonte all’interno della ECA, che ha chiesto di non essere identificata, ha detto ai giornalisti di Recovery Files che non ci sono sufficienti risorse né personale per tenere sotto controllo le spese di tutti i piani nazionali dei vari paesi. OLAF, l’agenzia antifrode europea, dal canto suo ha sollevato un allarme sul concreto rischio che tali fondi possano essere abusati.

Quando Ursula von der Leyen ha presentato il fondo a luglio 2020, aveva anche detto che i parlamentari europei avrebbero avuto «piena voce in capitolo sulla struttura [del fondo] e sul suo funzionamento» e che «la Commissione avrebbe garantito piena trasparenza». A oltre un anno di distanza da queste dichiarazioni, però, si può affermare che le cose non sono andate esattamente così.

PNRR e cittadini

I finanziamenti totali a disposizione di ciascun Paese e il corrispettivo pro capite

Il fondo messo in piedi dall’Unione europea, e il modo in cui dovrà essere utilizzato, è stato fondamentalmente regolamentato dai soli poteri esecutivi, cioè dalla Commissione stessa e dai governi degli Stati membri. Al contrario i parlamenti, tanto quello europeo quanto quelli nazionali, hanno avuto ben poca voce in capitolo.

Obbligo di riforme, altrimenti scatta il “freno d’emergenza”

Nei due Paesi politicamente più rilevanti per l’approvazione di questo piano, Francia e Germania, la stesura dei PNRR nazionali si sarebbe limitata a un rimaneggiamento di piani già fatti in precedenza. I Verdi tedeschi in particolare hanno lamentato questo approccio semplicistico e il fatto che non sia stata data possibilità al Bundestag di discutere e votare il piano direttamente. Anche il partito liberale (FDP) ha criticato la chiusura del dibattito: «Non abbiamo nessuna influenza diretta [sul PNRR tedesco, ndr] – ha detto il deputato liberale Otto Fricke – né sulle entrate, né sulle spese». In Francia il governo Macron ha rassicurato i parlamentari sul fatto che le richieste di riforme fatte da Bruxelles per l’approvazione del piano erano già in linea con quelle promesse in campagna elettorale: «La Commissione non ci imporrà nuove riforme che non siano state già validate dal popolo francese», ha detto lo scorso aprile il ministro dell’Economia Bruno Le Maire.

Eppure, sebbene inclusa solo in termini piuttosto vaghi, il PNRR francese include anche la riforma del sistema pensionistico, un tema potenzialmente esplosivo per la politica d’oltralpe. Infatti alcuni economisti e il socialista Arnaud Montebourg, candidato alle presidenziali del 2022, sottolineano come la presenza di tale riforma nel PNRR la renda di fatto quasi obbligatoria, anche se non è ancora calendarizzata in termini di traguardi da raggiungere.

Un problema analogo c’è anche in altri Paesi, come la Spagna, dove il nodo principale rischia di essere la riforma del mercato del lavoro, e anche in Italia, dove a preoccupare gli analisti è principalmente la riforma fiscale.

Il piano per la ripresa dell'Europa, glossario

Next Generation EU: è uno strumento temporaneo per la ripresa da oltre 800 miliardi di euro, che contribuirà a riparare i danni economici e sociali immediati causati dalla pandemia di coronavirus.

Il dispositivo per la ripresa e la resilienza: da cui prendono il nome i piani nazionali di ripresa e resilienza (PNRR) è il fulcro di NextGenerationEU, e metterà a disposizione 723,8 miliardi di euro di prestiti e sovvenzioni per sostenere le riforme e gli investimenti effettuati dagli Stati membri.

Assistenza alla ripresa per la coesione e i territori d’Europa (REACT-EU): NextGenerationEU stanzia anche 50,6 miliardi di euro per REACT-EU, una nuova iniziativa che porta avanti e amplia le misure di risposta alla crisi. Le risorse saranno ripartite tra:
– il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR)
– il Fondo sociale europeo (FSE)
– il Fondo di aiuti europei agli indigenti (FEAD)

Tali risorse aggiuntive saranno erogate nel periodo 2021-2022.

All’interno di Next Generation EU sono confluiti anche i fondi già esistenti per la transizione ecologica (Just Transition Fund) e il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale.

Queste riforme strutturali, che tendono a generare lunghi e difficoltosi dibattiti in parlamento, rischiano di essere affrettate dalla necessità di rispettare gli accordi presi ora con la Commissione, pena l’interruzione delle erogazioni di fondi anti-Covid.

Dall’entrata in vigore nel 2009 del Trattato di Lisbona, la carta fondamentale che distingue le competenze di Unione europea e Stati membri, “ce lo chiede l’Europa”, è stato il ricatto strumentale impiegato dai governi di tutta Europa per tagliare il dibattito parlamentare sul merito di alcune riforme, scegliendo a seconda delle inclinazioni politiche nell’infinito prontuario di regolamenti, direttive e procedimenti di infrazione prodotto ogni anno da Bruxelles.

Questa volta, però, non è retorica: il rischio dell’esclusione dal più grande pacchetto di aiuti comunitari mai erogato se non si rispettano le promesse di riforma è una minaccia molto concreta. È previsto dal cosiddetto “freno d’emergenza”, un meccanismo di controllo che permetterebbe il blocco dei fondi in arrivo da Bruxelles verso uno specifico Paese se determinati traguardi non sono raggiunti nei tempi previsti dai piani. È stato uno dei principali risultati della linea dei quattro “frugali”: Olanda capofila seguita da Austria, Danimarca e Svezia.

Questo sistema però rischia di avere conseguenze negative specialmente sui Paesi più poveri. David Bokhorst, ricercatore associato all’Istituto universitario europeo di Firenze, spiega che con questo sistema «i parlamenti nazionali potrebbero sentirsi obbligati ad accettare i traguardi già stabiliti perché il loro Paese ha bisogno di fondi. Questo comporta che il controllo da parte del potere esecutivo sui parlamenti si fa più forte». Jean Pisani Ferry, economista francese e membro del think tank Bruegel, ha evidenziato come ci siano da aspettarsi «accese polemiche se la Commissione rifiuta i piani inefficaci e ritarda gli esborsi quando i traguardi stabiliti non vengono raggiunti. Il rischio è che il processo finisca in un battibecco burocratico che l’opinione pubblica non riesce a decifrare ma che fornisce munizioni ai populisti».

Gli inascoltati

In diversi altri Paesi europei i parlamenti hanno lamentato di essere stati ignorati o consultati in modo insufficiente. In Danimarca, che come l’Italia ha formalmente dichiarato di aver avuto una consultazione parlamentare sul tema, questa si è in realtà limitata a una ratifica del mandato al governo per la stesura del piano. Allo stesso modo in Belgio il parlamento ha potuto solo rinnovare il mandato al governo. In Repubblica Ceca il piano è stato discusso troppo poco a detta di alcuni parlamentari e ong, e non è stato votato in aula. In Slovenia il governo ha presentato al parlamento una versione confidenziale del piano nazionale alla fine del 2020, che è stata discussa a porte chiuse alla fine di gennaio 2021. Il governo ha dichiarato di aver ascoltato oltre duemila organizzazioni, comprese ong, sindacati, municipi e associazioni professionali. La maggioranza di queste sarebbero state “consultate” in una singola mattinata durante una presentazione online del PNRR sloveno. Alcune di queste organizzazioni hanno dichiarato che sono state invitate a mandare le loro proposte in merito, ma che non hanno avuto nessuna forma di dialogo col governo. Quando la versione definitiva del piano è andata a Bruxelles lo scorso aprile, il parlamento non ha avuto modo di votarlo.

Una fonte all’interno della ECA, che ha chiesto di non essere identificata, ha detto ai giornalisti di Recovery Files che non ci sono sufficienti risorse né personale per tenere sotto controllo le spese di tutti i piani nazionali dei vari paesi.

Considerate le controversie che ci sono fra il suo governo e Bruxelles, l’Ungheria è certamente tra i “sorvegliati speciali” in Europa. Secondo l’Associazione dei Governi locali d’Ungheria (MÖSZ) il governo centrale non ha fatto nessuna consultazione significativa sul proprio PNRR. L’associazione ha minacciato di inviare una formale protesta alla Commissione se il governo di Orban avesse continuato a «prepararsi a spendere i fondi inappropriatamente». Il sindaco di Budapest, esponente di spicco dell’opposizione a Viktor Orban, lo scorso giugno ha inviato a Ursula von der Leyen una lettera in cui denuncia che, a parte quello iniziale, tutti gli altri incontri con il governo centrale in programma sono stati cancellati per volontà dell’esecutivo. L’unica consultazione pubblica è stata fatta in base a un documento di 13 pagine pubblicato a novembre 2020, che però conteneva solo dichiarazioni di intenti generali e nessun dettaglio su come le risorse sarebbero state allocate.

Le proteste hanno avuto successo e alla fine la Commissione europea ha insistito affinché il governo di Orban organizzasse una vera consultazione. Il piano è stato pubblicato il 17 aprile scorso e subito la Commissione ha criticato la riforma dell’università prevista nel piano, segnalando che rappresentava una violazione dell’indipendenza accademica.

Alla fine buona parte della riforma dell’istruzione superiore è stata tolta dal piano, ma nemmeno la seconda versione del PNRR ungherese non è passata dal parlamento e la città di Budapest è stata esclusa completamente da ogni possibilità di ricevere fondi.

Il parlamento olandese aveva inizialmente cercato di mantenere il controllo sui negoziati a Bruxelles imponendo al primo ministro Mark Rutte la linea “frugale”, cioè il rifiuto di garantire il debito di altri Paesi. La delegazione olandese, nel frattempo, ha anche spinto per ottenere finanziamenti e aiuti di Stato per “tecnologie pulite” come l’idrogeno blu, a prescindere dai negoziati sul fondo Next Generation EU. Il parlamento olandese è venuto a sapere di queste azioni di lobby solo dalla stampa, e ha ricevuto la relativa documentazione oltre un mese dopo. Nonostante a giugno avesse approvato una mozione per richiedere che le attività legate ai combustibili fossili fossero escluse dai fondi in arrivo dall’UE, questi contributi alla fine sono stati inseriti in diversi PNRR nazionali, incluso quello olandese.

La voce delle lobby

Se quindi i rappresentanti eletti delle democrazie europee hanno avuto relativamente poco spazio, sembrerebbe che al contrario interessi privati ne abbiano avuto molto di più, per discutere temi cruciali come la transizione ecologica.

Vuoi fare una segnalazione?

Diventa una fonte. Con IrpiLeaks puoi comunicare con noi in sicurezza

In Italia, dove il PNRR è stato steso fondamentalmente dal governo, prima da quello di Conte e poi da Draghi, l’agenda del ministro della transizione ecologica Cingolani e del suo predecessore Sergio Costa (quando ancora si chiamava ministero dell’ambiente) sono fitte di incontri con le più grandi aziende dell’energia.

Snam, Enel, Eni, Italgas, e molte altre aziende del settore energetico e petrolifero hanno avuto un numero sproporzionato di incontri sia rispetto sia alle associazioni di categoria che, prevedibilmente, alle ong come Legambiente,Greenpeace e WWF (che pure appaiono in un incontro a testa). Anche le case automobilistiche come Stellantis (la holding nata nel 2021 che raggruppa la vecchia galassia Fiat con quella di Peugeot), BMW, Mercedes, Volkswagen e Toyota hanno avuto spazio, e addirittura Costa Crociere e (ancora con il ministro Costa a gennaio 2020) Royal Carribbean.

Un rapporto dell’ong The Good Lobby, che analizza le audizioni informali nelle Commissioni della Camera dei deputati, fa un focus preciso su quelle che, fra gennaio e marzo 2021, hanno riguardato il PNRR italiano.

Secondo il report gli stakeholder esterni hanno avuto molto poco tempo per partecipare alla stesura del PNRR, ma soprattutto sono state chiamate molto tardi, tra febbraio e marzo 2021, quando sostanzialmente le decisioni importanti erano già state prese e la possibilità di contribuire era molto limitata.

Il report, in generale, sottolinea come le associazioni di categoria, anch’esse portatrici di interessi particolari, abbiano avuto enormemente più spazio di quelle della società civile, e di come il governo abbia scelto i suoi interlocutori «in modo tutt’altro che trasparente».

La partita, naturalmente, è ancora molto aperta. Mano a mano che si chiarisce dove esattamente e con che tempi arriveranno gli aiuti europei l’esigenza di un monitoraggio sull’esecuzione del PNRR è sempre più sentita. Il progetto Recovery Files è appena all’inizio e nei mesi a venire continuerà tenere alta la guardia non solo sull’efficienza del processo di riforma ma soprattutto alla sostanza dei progetti e la loro aderenza ai principi che li dovrebbero ispirare.

CREDITI

Autori

Giulio Rubino

In partnership con

Il team di Recovery Files

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Editing

Lorenzo Bagnoli

Foto

Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea
Foto: martinbertrand/Shutterstock

Le lobby decidono ancora sul gas in Europa

5 Luglio 2021 | di Francesca Cicculli, Carlotta Indiano

La strada europea per un’economia a zero emissioni entro il 2050 è lastricata di buone intenzioni, ma l’obiettivo è ancora lontano. Nonostante alcuni tentativi concreti da parte dell’Unione europea di limitare le emissioni di CO2, come l’adozione dell’European Green Deal, le lobby dei combustibili fossili e molti degli Stati membri dell’Europa dell’Est, si stanno battendo per mantenere lo status quo energetico. Una battaglia economica e politica che si consuma tra il Parlamento e la Commissione Europea in particolare su come gestire questa fase di transizione. Bloccare tutte le fonti di energia inquinanti, infatti, è particolarmente complesso per alcuni Paesi, che sono ancora molto dipendenti dai combustibili fossili.

La Tassonomia

Per raggiungere gli obiettivi climatici che si è prefissata, l’Unione europea deve riuscire ad orientare efficacemente gli investimenti verso attività che possano essere considerate sostenibili. Per questo motivo, negli ultimi mesi, i lavori della Commissione si sono in parte concentrati nella redazione della Tassonomia degli investimenti sostenibili, una lista verde che classifica tutte le attività produttive sulla base di sei criteri: adattamento al cambiamento climatico, protezione delle risorse idriche e marine, transizione verso un’economia circolare, prevenzione e controllo dell’inquinamento e protezione della biodiversità. Sulla base di queste linee guida, le aziende dovranno dichiarare quanto siano sostenibili le loro attività.

L’importanza della tassonomia sta nel fatto che potrebbe dirottare gli investimenti, sia pubblici che privati, verso progetti sostenibili. Pochi, infatti, sarebbero quelli disposti a investire su aziende e attività che l’Europa non considera verdi.

La storia di questo documento inizia il 18 giugno 2020, quando viene pubblicato il regolamento sulla tassonomia. Il regolamento incaricava la Commissione di stabilire l’elenco effettivo delle attività sostenibili dal punto di vista ambientale, definendo poi i criteri tecnici di selezione attraverso altri documenti successivi: gli atti delegati. Il valore innovativo di questo documento è proprio nella creazione di uno standard univoco, applicabile in tutti gli ambiti.

Esistono già, infatti, altre “liste verdi”, ad esempio le tassonomie stilate da enti finanziari privati, come quelle che regolamentano i Green Bond, titoli i cui proventi vengono allocati su progetti che prestano particolare attenzione all’ambiente. Quella europea dovrebbe rappresentare, al contrario, un documento concordato e approvato in maniera democratica e costruito su basi scientifiche. «Questa in teoria doveva essere la tassonomia del popolo, una tassonomia fatta dagli scienziati e non dai banchieri, decisa su mandato della società civile», ci spiega Luca Bonaccorsi, membro della ONG Transport&Environment (T&E).

Il lavoro di classificazione delle attività verdi per l’Europa è iniziato grazie a un Technical Group of Expert (TEG) selezionato dalla Commissione europea e incaricato di compilare il primo atto delegato della tassonomia, un testo di oltre 600 pagine in cui erano descritte in dettaglio le soglie tecniche di ciascuna delle attività considerate, dall’agricoltura, ai trasporti, alle costruzioni.

A settembre 2020, il lavoro del TEG è terminato e al suo posto è stata creata la Piattaforma per la finanza sostenibile composta da 67 membri scelti per «competenze su temi ambientali, di finanza sostenibile o diritti umani e sociali». «Il lavoro che facciamo noi è quello di prendere tutta la letteratura, chiamare gli esperti e consultarli uno alla volta. Dobbiamo classificare tutte le attività merceologiche, dai blu jeans alle macchine, per sei criteri differenti. Sarà una lista molto lunga», spiega a IrpiMedia Luca Bonaccorsi, che fa parte della Piattaforma come rappresentante della T&E.

La Piattaforma ha scritto una seconda bozza di Atti delegati, sottoposta a consultazione pubblica a dicembre 2020, ma è stata sommersa di critiche e attualmente il processo di approvazione è a un punto morto. Una decina di Stati – Bulgaria, Croazia, Cipro, Repubblica Ceca, Grecia, Ungheria, Malta, Polonia, Romania e Slovacchia – hanno infatti chiesto e ottenuto un rinvio dell’approvazione del secondo atto delegato, perché questo nega al gas naturale lo status di combustibile di transizione.

La Commissione europea ha quindi chiesto alla Piattaforma di rielaborare i criteri tecnici della tassonomia. Il 21 aprile 2021 è stato finalmente approvato il primo atto delegato, che stabilisce un limite alle emissioni di Co2 per le attività energetiche pari a 100gCO2e/kWh. Questo atto però ha messo in standby la regolamentazione delle attività che si basano sul gas e sul nucleare, per i quali la Commissione avrebbe intenzione di presentare una proposta legislativa separata entro fine anno.

Questo rinvio, per Luca Bonaccorsi, rappresenta già una grande vittoria per l’industria del gas. Infatti, la prima bozza di atto delegato considerava sostenibile la produzione di energia a base di gas solo se avesse soddisfatto tre criteri piuttosto stringenti: doveva sostituire un vecchio impianto a base di combustibili fossili tagliando almeno la metà delle emissioni per kWh; utilizzare combustibili a basso contenuto di carbonio con meno di 270 grammi di CO2 per kWh, e produrre anche calore insieme all’energia elettrica. Tali limiti erano abbastanza rigidi da escludere di fatto tutte le attività legate al gas dalla lista di quelle sostenibili, quindi il ritardo, per le aziende del gas, significa quantomeno guadagnare tempo.

Il secondo atto delegato è ancora in discussione, ma anche se dovesse passare, nonostante l’opposizione che incontra, dovrà comunque essere approvato dal Parlamento, dove si sta già formando un ampio fronte di opposizione che potrebbe uccidere la tassonomia prima ancora che nasca.

Uno standard europeo per i Green Bond

La proposta di una tassonomia condivisa è arrivata in Commissione parallelamente a quella di un Eu green bond standard. Tassonomia e Eu green bond standard sono i due pilastri del Piano d’azione della Commissione Europea per la finanza sostenibile. Secondo Aldo Romani vicedirettore di Euro Runding per la European Investment Bank (EIB), infatti, investitori, banche emittenti e policy makers stanno cercando un linguaggio unico che possa stabilire cosa può essere condiviso in termini di sostenibilità a livello internazionale e quali sono gli indicatori su cui accordarsi, ma il processo si sta rivelando più difficile del previsto.

«Per essere conforme allo Eu Green Bond standard, l’impiego dei fondi deve essere allineato con la tassonomia che verrà approvata, e fino ad allora con i principi e la logica del regolamento sulla tassonomia entrato in vigore l’anno scorso» , spiega a IrpiMedia.

Nel Climate Bank Roadmap pubblicato a novembre 2020, la EIB, già membro del Teg e poi della Piattaforma per la finanza sostenibile, ha sottolineato l’intenzione di allineare completamente la propria metodologia di monitoraggio per l’azione per il clima e gli obiettivi di sostenibilità ambientale con il quadro definito dalla tassonomia dell’Ue. «Noi abbiamo adottato una documentazione che stabilisce un nesso diretto tra l’allocazione dei titoli e la legislazione europea in materia di finanza sostenibile, incluso il regolamento sulla tassonomia. Nel campo della mitigazione del cambiamento climatico, emettiamo già titoli che vengono allocati a progetti allineati sulla proposta di tassonomia avanzata dal TEG l’anno scorso», spiega Aldo Romani. «Gli indicatori del TEG possono infatti essere utilizzati come riferimento mentre il processo legislativo è ancora in atto, con tempi più lunghi di quelli previsti dal regolamento».

Non solo Tassonomia

Un altro esempio di come gli interessi dell’industria dei combustibili fossili si stiano facendo strada tra le crepe del processo legislativo dell’Ue è rappresentato da un rapporto che il Parlamento europeo ha votato lo scorso maggio. Proposto da Jens Geier, un membro tedesco del gruppo dei Socialisti e Democratici, il documento riguarda la strategia europea per l’idrogeno e considera sia l’idrogeno verde – prodotto da energie rinnovabili – sia l’idrogeno “a basse emissioni” – prodotto da biogas – come “idrogeno pulito”.

In termini di settori rilevanti, il rapporto afferma che l’idrogeno può essere utilizzato «nei processi industriali e chimici; nel trasporto aereo, marittimo e stradale pesante; e nelle applicazioni di riscaldamento». Per ora, questo documento non è legalmente vincolante, ma è l’ennesimo atto politico che rappresenta una buona notizia per i progetti di idrogeno blu, perché avalla l’idea che l’idrogeno proveniente da fonti inquinanti sia anche pulito e quindi finanziabile.

Per approfondire

I volti della transizione energetica

La transizione verso quella che viene definita “economia verde” è una delle sfide del nostro tempo che dovrà contemperare gli interessi economici, sociali e politici con le necessità ambientali del pianeta

Il rapporto ha ricevuto 411 voti a favore, 135 contrari e 149 astenuti. Tra i contrari i Verdi, che continuano a chiedere alla Commissione di stimare «quanto idrogeno a basse emissioni di carbonio sarà necessario ai fini della decarbonizzazione fino a quando l’idrogeno rinnovabile non potrà svolgere questo ruolo da solo, in quali casi e per quanto tempo». Chiedono inoltre alle istituzioni, agli Stati membri e all’industria «di aumentare la capacità aggiuntiva di elettricità rinnovabile al fine di evitare una concorrenza controproducente tra gli elettrolizzatori per la produzione di idrogeno e altri usi diretti di elettricità rinnovabile».

L’idea di utilizzare l’idrogeno blu come strumento necessario per la transizione energetica non è quindi stata ancora abbandonata dall’Europa, che mentre prova a stilare la lista delle attività verdi si ritrova ad appoggiare progetti che già hanno dimostrato i loro limiti in tema di sostenibilità, ma che sono fortemente sostenuti dalle industrie del gas e dagli Stati membri che hanno un’economia basata sulle fonti fossili.

Un futuro energetico basato sull’idrogeno blu e quindi dipendente ancora dai combustibili fossili è prospettato anche dalla Nuova Strategia Industriale, progettata da marzo 2020 e aggiornata il 5 maggio 2021. Dei due allegati di aggiornamento, il più interessante riguarda la produzione di acciaio verde. Secondo la Commissione, infatti, il continuo bisogno di acciaio vergine rende necessario il passaggio a processi tecnologici completamenti nuovi come la riduzione diretta di idrogeno e i processi di siderurgia con Carbon Capture Utilization and Storage (CCUS).

Un punto fondamentale del documento sull’acciaio verde riguarda l’Innovation Fund e l’Emission Trading System (ETS), il primo mercato internazionale dei permessi di emissione di carbonio. Il sistema ETS, si rivolge ai settori industriali caratterizzati da elevate emissioni e fissa un tetto massimo alle emissioni, stabilito a livello europeo, per i soggetti che fanno parte del sistema. In questo modo i partecipanti possono acquistare o vendere sul mercato le loro quote di emissione di CO2, tramite un’asta. Il Fondo per l’innovazione, istituito a marzo 2018 con una direttiva europea è uno dei programmi di finanziamento più grandi al mondo, rivolto alle industrie ad alta intensità energetica, come le acciaierie, che vogliono sviluppare tecnologie innovative a basse emissioni.

Nell’aggiornamento del piano si legge che l’Innovation Fund fornirà 18 miliardi di euro da investire tra il 2021-2030 per lo sviluppo di tecnologie innovative a bassa emissione di carbonio, comprese Carbon Capture and Storage (CCS) e CCUS, con l’obiettivo di portare sul mercato soluzioni industriali per decarbonizzare l’Europa e sostenere la sua transizione verso la neutralità climatica.

Vale la pena sottolineare che non siano solo le associazioni ambientaliste a ritenere la CCS pericolosa e inefficiente ma che la stessa Corte dei conti europea abbia certificato il fallimento di questa tecnologia dopo aver esaminato i risultati ottenuti con il programma European Energy Program for recovery (EEPR).

Le approvazioni di questi ultimi documenti potrebbero confermare le ipotesi di quanti temono che la tassonomia verrà bloccata dal Parlamento, perché sottoposta a continue modifiche da parte di lobby politiche ed economiche. Il Parlamento ha ammesso che la discrepanza tra le diverse definizioni di idrogeno pulito all’interno delle discussioni tra vari attori politici come la Commissione e l’Alleanza per l’idrogeno pulito genera confusione e dovrebbe essere evitato. Ma forse è proprio quella confusione che consente di approvare decisioni che continuano a favorire l’industria del gas.

Editing: Giulio Rubino | Foto: un gasdotto in costruzione in Bulgaria – Deyana Stefanova Robova/Shutterstock

Share via