Mascherine, Regione Lombardia ci pensa da sola ma poi annulla il 72% delle forniture

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Mascherine, Regione Lombardia ci pensa da sola ma poi annulla il 72% delle forniture

Lorenzo Bodrero
Matteo Civillini

Dall’inizio dell’emergenza coronavirus, Regione Lombardia ha ordinato almeno 315 milioni di mascherine per la protezione individuale. Dispositivi promessi a medici prima e a 10 milioni di abitanti della regione poi. Almeno il 72% degli ordini relativo alle mascherine, però, è stato annullato e ad oggi non è dato sapere quante ne siano state effettivamente consegnate. Sono i risultati dell’analisi di IrpiMedia di circa un centinaio di affidamenti fatti da Aria Spa, la stazione appaltante di Regione Lombardia nata nel luglio del 2019.

Gli ordini sono stati cancellati per i motivi più disparati: dalla mancata idoneità del prodotto a ritardi nella consegna, fino al mancato rispetto di imprecisate clausole contrattuali. Qualche carico è stato addirittura requisito durante gli scali aerei in direzione Italia, quando era ormai chiaro che il contagio stava colpendo anche altri Paesi. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, il documento di annullamento non precisa alcuna ragione. Se fossero arrivate con i tempi previsti, le mascherine – dalle chirurgiche alle Ffp3 – avrebbero protetto l’intera popolazione lombarda fino a maggio, quando si è effettivamente concluso il lockdown.

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La grande corsa è cominciata il 13 marzo, quando l’Assessore al Bilancio regionale Davide Caparini ha lanciato la call internazionale, con affidamento diretto, per reperire il materiale necessario alle strutture sanitarie e socio-sanitarie.

Cos’è la procedura negoziata senza pubblicazione del bando di gara?

Con il decreto legge “Cura Italia”, le pubbliche amministrazioni sono autorizzate ad acquistare beni e servizi mediante procedura negoziata senza pubblicazione di un bando di gara, in deroga al codice dei contratti pubblici. L’affidamento di un appalto, quindi, può essere diretto.

Il dispositivo ha l’obiettivo di accelerare le procedure di affidamento, ma come abbiamo visto espone il fianco ad abusi e frodi. In realtà, l’uso della procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara è già contemplato dal Codice dei contratti pubblici solo in determinati casi, quali ad esempio ragioni di estrema urgenza derivante da eventi imprevedibili, come può essere l’esplosione del Covid.

La centrale degli appalti lombardi, nei primi dieci giorni, ha siglato una trentina di accordi, destinati ad aumentare ulteriormente nei giorni successivi. Ormai, con lo scoppio della pandemia in mezzo mondo, era diventato sempre più complicato trovare fornitori.

In Cina decine di migliaia di fabbriche si erano riconvertite nottetempo alla produzione di dispositivi di protezione individuale (Dpi), spesso senza avere le certificazioni necessarie per esportare nel mercato europeo. In Europa, in mezzo agli operatori del settore, si sono tuffati improvvisati broker che millantano contatti in grado di consegnare prodotti che poi non si materializzano. Alcuni compaiono tra coloro a cui Aria Spa ha alla fine annullato l’ordine.

È il caso, per esempio, di un 22enne di Praga, che figura come intermediario in una fornitura per 20 milioni di mascherine chirurgiche. L’azienda produttrice, come si legge nel contratto da 6 milioni di euro siglato il 23 marzo da Aria Spa, ha sede ad Hong Kong. Nella lettera, Aria specificava che la prima consegna sarebbe dovuta avvenire entro sette giorni dalla firma del documento. Il 9 aprile la maxi-commessa è stata però annullata per mancanza della documentazione tecnica a supporto della qualità dei prodotti.

Due settimane sono trascorse invece tra la stipula e l’annullamento di un’altra gara, questa volta per dieci milioni di mascherine chirurgiche. In questo caso l’accordo era stato raggiunto con l’indiana Gitvin Remedies per la quale, secondo le carte consultate da IrpiMedia, appariva come intermediario una persona di cui è nota solo l’email. Non ha risposto alle nostre richieste di spiegazioni.

L’ordine di Aria è rimasto inevaso anche quando gli intermediari erano noti, come Cristian Ferraris, direttore del Settore organizzazione sviluppo e rapporti associativi di Assolombarda, l’associazione degli industriali che operano nelle province di Milano, Lodi, Monza e Brianza e Pavia. In quelle concitate settimane «ci siamo resi disponibili, come tanti altri soggetti pubblici e privati, ad aiutare nel reperimento di Dpi, mettendo in campo la nostra rete di contatti in Italia e all’estero, soprattutto in Estremo oriente», spiega Ferraris. La società che avrebbe dovuto fornire le mascherine ad Aria Spa era la cinese Liaoning Mec Group. «L’azienda è piaciuta subito», rammenta il manager di Assolombarda. Forse fin troppo: l’acconto anticipato di 740mila euro è stato versato immediatamente, ma dei documenti per la lettera di credito con cui saldare il conto non c’è mai stata traccia. Dopo 18 giorni Aria ha annullato l’ordine per un milione di mascherine ricevendo il rimborso dell’anticipo, secondo Ferraris, pochi giorni dopo.

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Il mercato parallelo dei vaccini

Vero o presunto che sia, è oggetto di indagini in Italia ed Ue. Lo popolano truffatori ed esiste perché il sistema di distribuzione globale, soprattutto verso i Paesi poveri, arranca

Per tre volte, a mettere Aria Spa in contatto con altri potenziali fornitori di mascherine è stata Margareta Florea, 65enne nata in Romania ma residente nell’hinterland milanese dagli anni ‘70. Con la sua azienda, Sano Life Medical, Florea fornisce kit diagnostici per il pap test al collo dell’utero a diverse aziende sanitarie in tutta Italia. Florea è un’imprenditrice con un’ampia rete di conoscenze tra politica e istituzioni, in Italia e all’estero. Dopo la discesa in campo di Silvio Berlusconi nel 1994, fu chiamata a gestire il club “Tricolore” di Forza Italia, tra i più influenti di Milano.

Margareta Florea insieme all’assessore alla sanità della Lombardia, Giulio Gallera – Foto: Facebook Margareta Florea

Oggi, invece, Florea è presidente de “Il bello che avanza siamo noi”, associazione da lei costituita nel 2017 con l’obiettivo di «fare da ponte tra la società civile e il mondo delle istituzioni e della politica». Tra i soci fondatori compare anche il nome di Marco Trivelli, fresco di nomina come direttore generale della Sanità lombarda per volontà del governatore Attilio Fontana. Una lunga carriera come dirigente sanitario cominciata all’epoca di Roberto Formigoni, Trivelli il 10 giugno subentra a Luigi Cajazzo, ex poliziotto della Mobile di Lecco, che ha ricoperto il ruolo di dg da maggio 2018. Resterà in Regione con la carica di vicesegretario.

Oltre a Trivelli, l’associazione di Florea conta tra i soci diversi direttori sanitari e primari, soprattutto lombardi. E un politico: il deputato leghista Luca Toccalini, classe 1990, per diversi mesi anche vicepresidente dell’associazione. Toccalini è membro della Commissione Difesa della Lega alla Camera ed è stato nominato segretario della Lega Giovani da Matteo Salvini.

«Ognuno ha le proprie idee politiche e Toccalini non è nell’associazione in quanto leghista – prende le distanze Florea -. Noi non abbiamo un colore politico». Eppure nel maggio del 2019 Florea si è spesa in prima persona per la campagna alle elezioni europee della Lega: ha organizzato la presentazione di due candidati, Isabella Tovaglieri e Alessandro Panza, a cui hanno partecipato anche i pesi massimi del partito, Giancarlo Giorgetti e Matteo Salvini. «Ho parlato con Luca Toccalini e altre persone che lavorano negli ospedali e mi hanno chiesto: “Visto che tu sei brava potresti fare un evento per questi candidati” – ricorda Florea -. Parlando con loro ho capito che avevano a cuore il bene comune e ho pensato ne valesse la pena».

Florea sostiene sia stata la sua coscienza a spingerla a cercare tra i propri canali istituzionali qualcuno in grado di fornire i Dpi per la Regione. «Senza volerci guadagnare neanche un centesimo», specifica. Ha individuato una prima azienda, la Commerce Leader Service Trading Canada, che il 18 marzo ha stretto un accordo con Aria per 10 milioni di mascherine. Una settimana più tardi, però, l’ordine con l’azienda canadese è saltato. La commessa è passata quindi nelle mani di due aziende cinesi, segnalate da Florea ad Aria. Ancora una volta, però, l’affare si è chiuso con un nulla di fatto. Nella nota, la centrale degli appalti comunica alle aziende cinesi, con Florea in copia, l’annullamento dell’ordine «per la vostra mancata possibilità a garantire la consegna». L’imprenditrice definisce però la sua collaborazione con Aria «di alto profilo»: «Se le forniture sono saltate – conclude Florea – è per colpa dei cinesi che hanno dato ad altri la merce pattuita».

Le mascherine i cui affidamenti non sono stati annullati da Aria spa

Altre commesse mai consegnate per le quali Aria ha elargito comunque importanti anticipi di pagamento sono finite sotto la lente della procura. Come, la maxi-fornitura da quasi 14 milioni di euro per mascherine e camici affidata ad aprile alla Eclettica Srls, azienda di Turbigo specializzata nell’import di cappotti. Eclettica è piccola e ha solo mille euro di capitale sociale, ma Aria le ha anticipato comunque il 70% del pagamento, ossia 10 milioni. Un mese dopo, il suo amministratore Fabrizio Bongiovanni, 44 anni, aveva consegnato ancora solo una parte di quanto ordinato: «Il 4 aprile, dopo l’ok di Aria, avevo comprato tutto. Ma loro hanno cambiato in corsa la tipologia dei dispositivi», si è difeso l’interessato. Oggi è agli arresti domiciliari con l’accusa di frode nelle forniture pubbliche dopo essere stato denunciato dalla Regione e aver subito il sequestro da parte della Guardia di Finanza di Como di 3,3 milioni di euro depositati sui conti della sua società. Bongiovanni ha dichiarato a La Stampa che è stata Aria ad aver voluto anticipargli comunque il denaro, solo con un’autocertificazione senza garanzie.

Altre aziende sono riuscite a completare l’ordine ma hanno messo sul mercato prodotti di dubbia qualità. Un caso riguarda la Fippi, l’azienda di pannolini di Rho che ha riconvertito la produzione su commissione di Regione Lombardia. Aria le ha affidato una commessa da oltre 8 milioni di euro per 18 milioni di pezzi. Il sindacato Adl Cobas Lombardia, in un esposto alla procura di Milano, ha chiesto di chiarire l’idoneità, i costi e l’aggiudicazione della fornitura. I pm meneghini stanno accertando i fatti, ma nel frattempo le “mascherine-pannolino” sono rimaste nei magazzini, sostiene il gruppo consigliare del Movimento 5 Stelle sulla base di un accesso agli atti.

L’inizio della spesa forsennata

Il tema delle forniture è stato al centro delle polemiche, in Lombardia, a partire da inizio marzo, pochi giorni prima della chiusura totale della regione, quando ancora l’ondata di contagi, e morti, era solo all’orizzonte. Giulio Gallera, assessore alla Sanità e al Welfare, aveva accusato la Protezione civile della scarsità di dispositivi di protezione individuale: «Il problema è di chi doveva organizzarsi rispetto a uno scenario di emergenza sanitaria importante, con acquisti straordinari di presidi di protezione individuale, o non l’ha fatto o non l’ha fatto in maniera adeguata». Come ha ricostruito Business Insider Italia, però, proprio Regione Lombardia non ha mai avuto un ‘Piano Emergenze’ che stabilisse in modo chiaro la responsabilità dell’acquisto di dispositivi medici.

Una settimana dopo questa prima gaffe, Gallera ha rincarato comunque la dose contro Roma. Si è presentato alla quotidiana conferenza stampa con una mascherina da lui rinominata “modello Swiffer” e, mentre la sventolava di fronte ai giornalisti, ha detto: «Ci hanno mandato delle mascherine che sono un fazzoletto o un foglio di carta igienica che viene unito. Non vogliamo fare polemica però non sono sufficienti per la sicurezza degli operatori sanitari». La Protezione civile ha ribattuto di aver consegnato ai magazzini della regione oltre mezzo milione di dispositivi di diverso tipo in pochi giorni, ma ormai la strada era tracciata: la Lombardia aveva deciso di rifornirsi da sola, con i risultati che abbiamo visto.

Al 16 marzo, la regione contava già oltre 1200 morti e quasi 15mila persone contagiate. La sede lombarda della Federazione dei medici di famiglia (Fimmg) era sul piede di guerra e puntava il dito dritto verso la Regione. Con una lettera intimava pubblicamente l’amministrazione locale di rifornire al più presto tutto il personale medico e sanitario dei necessari dispositivi di protezione. Già si conoscevano gli ordini impartiti ai medici di non indossare le mascherine in alcune strutture ospedaliere lombarde e già si conosceva quanto alta fosse l’incidenza degli infettati tra il personale sanitario. L’associazione a febbraio aveva suggerito alla giunta regionale e alle Asl di verificare la disponibilità dei Dpi. Per evitare di rimanere sprovvisti.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bodrero
Matteo Civillini

Editing

Lorenzo Bagnoli

Virus nelle Rsa, il diktat sulle mascherine ai sanitari e la delibera regionale

16 Aprile 2020 | di Luca Rinaldi

Andare in guerra senza armi. È questa la metafora che in queste settimane stanno usando molti medici e operatori della sanità per descrivere quei trenta giorni che a cavallo tra febbraio e marzo hanno acceso la miccia dei contagi da Coronavirus. Negli ospedali lombardi, e in particolare nelle residenza sanitarie per l’assistenza degli anziani (Rsa) sono giornate convulse e confuse: chi lavora tutti i giorni gomito a gomito con i pazienti lavora duramente e in emergenza su turni lunghissimi, ma dall’alto le direttive arrivano schizofreniche, tanto da non riuscire a mettere al sicuro né chi lavora nei presidi sanitari né gli stessi pazienti.

Tra queste la delibera di Regione Lombardia dell’8 marzo scorso, che ha individuato anche nelle Rsa la possibilità di accogliere pazienti a bassa intensità Covid-19 per alleggerire il carico sugli ospedali. Alcuni di questi trasferimenti avrebbero anche coinvolto pazienti a cui non era ancora stato effettuato il tampone. Aspetti finiti sotto la lente d’ingrandimento dei magistrati di Milano che hanno aperto varie inchieste per fare luce sulla gestione dell’emergenza in quei primi e decisivi giorni.

Il sesto dipartimento della procura meneghina, guidato dal pm Tiziana Siciliano, con il nucleo locale della Guardia di Finanza e i carabinieri del Nas sta lavorando su più fronti: dalle analisi sulle centinaia di morti per sospetto Covid fino all’assenza di tamponi e di mascherine e alle presunte minacce agli infermieri che le utilizzavano. E ancora le eventuali omissioni nei referti e nelle cure fornite e la presunta “commistione” tra anziani e pazienti dimessi dagli ospedali e infine il ruolo dell’amministrazione regionale nella predisposizione di linee guida e piani pandemici.

Le case di riposo milanesi coinvolte sono il Pio Albergo Trivulzio, il Don Gnocchi, la Sacra Famiglia di Cesano Boscone e in questi giorni è probabile arrivino all’iscrizione nel registro degli indagati anche quelli delle altre Rsa, tra cui quelle nei quartieri milanesi di Affori, Corvetto e Lambrate.

Per comprendere le ragioni di questa indagine occorre riavvolgere il nastro agli ultimi dieci giorni di febbraio, quando iniziano a presentarsi i primi casi riconducibili al contagio da Covid-19, e alla settimana centrale di marzo nel periodo immediatamente successivo alla delibera con cui Regione Lombardia autorizza e chiede alle residenze sanitarie per anziani di farsi carico dei pazienti Covid a bassa intensità e dimessi dagli ospedali.

Non a caso è proprio su queste due direttrici che si sta muovendo l’inchiesta della procura di Milano.

«Non indossate quelle mascherine»

Bastano pochi giorni per mandare in apnea il sistema sanitario. Gli ospedali per primi vedono salire il carico dei pazienti prima nei pronti soccorso e poi nelle terapie intensive, ma all’interno delle residenze per anziani iniziano a circolare polmoniti virulente e il personale è determinato a indossare tutti i dispositivi necessari per proteggere sé stessi, ma prima di tutto i pazienti.

Chiunque è un potenziale veicolo di contagio, e i dati, già allora, confermano che le morti tra gli over 65 sono più frequenti.

Eppure dalle direzioni generali delle Rsa arriva un messaggio «che ancora fatichiamo a spiegarci», dice a IrpiMedia un medico, oggi costretto a casa proprio dal coronavirus, impiegato in una delle strutture per anziani milanesi, che vuole mantenere l’anonimato: «Non indossate le mascherine, altrimenti vi arriva un ordine di servizio, se non di peggio», leggi licenziamento. Il direttore sanitario della residenza in cui lavora il medico risulta al momento iscritto nel registro degli indagati nell’inchiesta della procura di Milano.

«Ci veniva ripetuto – racconta di nuovo il medico a IrpiMedia – di conservare, dopo una iniziale mancanza, le mascherine nella farmacia della struttura, da cui non potevamo rifornirci». Il motivo? «Non creare panico tra i pazienti e i loro famigliari» e «tenere le scorte se fosse esploso il contagio».

Il contagio però era già sotto gli occhi di tutto il personale. Lo stesso medico che accetta di parlare con IrpiMedia ritiene quella scelta «scellerata», accompagnata da continue pressioni nei confronti del personale che le mascherine se le procura all’esterno e le indossa comunque. Alcuni medici non hanno comunque ritenuto di seguire le indicazioni delle direzioni, ma tra il personale infermieristico e di servizio una minaccia di licenziamento rischia di portar via anche quel poco che può offrire un contratto a tempo determinato rinnovato una volta ogni tre mesi. Il risultato? «Che all’8 marzo abbiamo contato il primo medico contagiato. A catena se ne sono ammalati altri col risultato che oggi ci sono 4 medici per 110 pazienti».

Le direzioni delle Rsa si difendono dicendo che i racconti sono infondati, tuttavia questa testimonianza è convergente con altre testimonianze raccolte da IrpiMedia e dalle cronache dei quotidiani in questi giorni. Messaggi come questo sono arrivati proprio dalle direzioni delle Rsa ora sotto inchiesta e che si ritrovano con un personale ridotto all’osso proprio a causa del contagio che ha colpito il personale medico e sanitario.

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Dietro il disastro sanitario lombardo per fronteggiare l’emergenza coronavirus c’è una classe politica che ha lottizzato e privatizzato la sanità

«Atteggiamenti inspiegabili – conclude il medico a IrpiMedia – ai limiti dell’omertà, dato che non ci sono state date spiegazioni ulteriori su queste decisioni». Del resto non è un mistero che le nomine delle direzioni generali siano soprattutto politiche e questo è stato un fattore che probabilmente ha influenzato quelle decisioni: pur di non mettere in imbarazzo i vertici della Regione, si è deciso di assecondare scelte più che discutibili che hanno acceso, per citare l’associazione delle case di riposo lombarde (Uneba) «il cerino nel pagliaio».

La delibera regionale dell’8 marzo

La delibera n. 11/2906 dell’8 marzo 2020 è il cerino nel pagliaio. Dopo settimane di caos e di posti letto carenti all’interno degli ospedali la giunta regionale chiede alle aziende territoriali della sanità (Ats) di individuare anche nelle case di riposo nuovi letti per assistere i pazienti Covid-19 a bassa intensità. Molte strutture non hanno dato seguito alla richiesta della regione, dall’altra parte c’è stato chi lo ha fatto salvo poi pentirsene.

Nelle stesse ore in cui parte il lockdown il sistema sanitario lombardo spalanca le porte al coronavirus. La settimana successiva nelle Rsa partono in alcune strutture i tamponi a tappeto tra il personale medico e sanitario, ma iniziano ad arrivare i nuovi pazienti trasferiti da altri ospedali: tra loro alcuni non hanno fatto il tampone. Un rischio ulteriore per i residenti della casa di riposo e di nuovo per il personale delle strutture.

Le case di riposo che hanno acconsentito a ricevere i pazienti sono le stesse finite nell’inchiesta della procura, che nelle ultime ore comincia a puntare anche la Regione. Lo scorso 15 aprile infatti i militari della Guardia di Finanza, dopo le perquisizioni negli uffici delle Rsa, sono entrati negli uffici di Regione Lombardia, che hanno lasciato poco dopo con una mole di documenti importante.

«Eppure – racconta di nuovo il medico che ha accettato di parlare con IrpiMedia che operava all’interno di una delle Rsa finita sotto inchiesta – ancora alla seconda settimana di marzo, quando arrivano nuove scorte di mascherine e si avvia la distribuzione di camici monouso e guanti, torna di nuovo l’adagio sul non turbare i pazienti. Solo al 21 marzo tutti tra medici e operatori sono stati adeguatamente forniti». Il martedì successivo il medico si ammalerà dopo aver seguito cinque pazienti Covid nel giro di una settimana.

L’incrocio tra gli atti sequestrati alle Rsa, in particolare mail e comunicazione interne, e in Regione sarà fondamentale per fare luce su quelle settimane a cavallo tra febbraio e marzo che hanno poi portato l’Istituto Superiore di Sanità a contare oltre 1.800 decessi dall’inizio dell’epidemia nelle Rsa lombarde.

Il modello Lombardia dalla grandeur sanitaria alla débâcle Covid-19

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Il modello Lombardia dalla grandeur sanitaria alla débâcle Covid-19

Lorenzo Bagnoli
Luca Rinaldi

La Lombardia vanta un sistema sanitario definito, soprattutto dai suoi governanti, «eccellente». Compare sempre nei primi posti dell’Indice di performance sanitaria e nel 2019, secondo il report del think tank Demoskopika, 165 mila persone si sono spostate da altre regioni per farsi curare nei suoi ospedali. Eppure, dietro l’ “eccellenza”, ci sono anche dei problemi gestionali colossali, dovuti a precise scelte politiche. Da un lato, il sistema sanitario “alla lombarda” ha trasformato profondamente la sua rete di presidi sanitari di medicina generale a vantaggio dei grandi ospedali. Dall’altro, ha creato un sistema di accreditamento tra pubblico e privato che in passato ha dimostrato di essere permeabile a fenomeni corruttivi.

Non è possibile stabilire una causalità diretta tra la struttura del sistema sanitario e i numeri dell’emergenza Covid, più alti qui che nel resto d’Italia, ma si possono certamente indicare le responsabilità politiche che hanno prodotto il sistema odierno. Il processo ventennale è stato talmente pervasivo che, nonostante molte indagini e condanne, non è stato possibile scardinarlo. La trasformazione è cominciata nel 1997, quando la regione era governata da Roberto Formigoni, che al Pirellone, il grattacielo allora sede del governo regionale, ci è stato dal 1995 al 2013. Al suo regno è seguito quello della Lega, prima Roberto Maroni e ora Attilio Fontana, che hanno seguito pedissequamente il sentiero tracciato in passato.

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Il piano d’emergenza nel cassetto da dieci anni

Il governo regionale dal 2010, anno dell’esplosione del virus influenzale H1N1, meglio conosciuto come “influenza suina”, dovrebbe avere aggiornato un piano di emergenza per la gestione delle pandemie. Il piano però non è mai stato messo in atto, nonostante il 22 dicembre 2010, quasi dieci anni fa, una delibera regionale avesse indicato quali dovessero essere i suoi contenuti, dopo aver evidenziato tutte le criticità nella tenuta del sistema sanitario regionale durante l’emergenza H1N1.

La delibera aveva già individuato i punti deboli del sistema lombardo di fronte a una crisi, dalle mancate procedure per la gestione delle residenze sanitarie per anziani, che rappresentano una delle più importanti alternative all’ospedale che esistono in Lombardia, fino a stabilire quale dovesse essere il comportamento dei medici di medicina generale in una fase di pandemia acuta.

Tutto il sistema, per altro, non poteva prescindere dal coordinamento e dalla gestione dell’emergenza da parte delle Asl, le Aziende sanitarie locali, che oggi hanno cambiato pelle, diventando, di fatto, sportelli di accettazione e uffici amministrativi, più che presidi medici.

La delibera, infatti, indicava la mancata definizione di un «accordo-quadro con le residenze per anziani (Rsa) per l’aumento di assistenza medica e infermieristica» tra i principali nodi da sciogliere per realizzare un piano di emergenza lombardo. Oggi le Rsa sono i luoghi dove si sono verificati focolai sulle cui responsabilità la procura di Milano ha aperto otto inchieste, di cui la più importante riguarda il Pio Albergo Trivulzio, struttura che ospita circa 1.200 anziani.

Altro buco mai sanato è il capitolo riguardo la “Fase 6”, cioè il protocollo di comportamento da seguire quando ci si trova di fronte a una pandemia dilagata, che letto oggi è drammatico.

Era prevista infatti la definizione di accordi con i medici di medicina generale per «l’ampliamento dell’assistenza in fase 6». Anche qui la verifica è lapidaria: «Non sono stati siglati accordi». Come allora nei decenni successivi gli stessi medici sono rimasti senza linee guida su come trattare a domicilio i pazienti sospetti. Allo stesso modo nel documento si indica, proprio in virtù dell’isolamento dei casi, il necessario incremento dell’assistenza domiciliare. Risultato: «assenza di azioni».

«Il progressivo ridimensionamento del ruolo dei medici di famiglia ha portato a una progressiva perdita di cura del territorio»

Roberto Carlo Rossi

Presidente dell'Ordine dei medici di Milano

«Negli ultimi 15 anni in Lombardia – dice a IrpiMedia il presidente dell’Ordine dei medici di Milano, Roberto Carlo Rossi – si è di fatto depauperato il patrimonio della medicina generale sul territorio. I medici di famiglia hanno rivestito, purtroppo, un ruolo sempre più marginale. La messa al centro degli ospedali in quanto tali e il progressivo ridimensionamento del ruolo dei medici di famiglia – conclude Rossi – ha portato a una progressiva perdita di cura del territorio».

Proprio lo sviluppo della medicina del territorio avrebbe potuto essere uno strumento importante per l’isolamento dei casi e il trattamento a domicilio senza ricovero, come ha sottolineato l’8 aprile su RaiTre, ad Agorà, il dottor Massimo Galli, responsabile del reparto malattie infettive all’Ospedale Sacco di Milano: «C’è stato un clamoroso fallimento, e di questo ne dovremo prendere atto per il futuro, della medicina territoriale, ammettiamolo e riconosciamo questo aspetto».

L’inizio dello smantellamento combacia con la riforma formigoniana del 1997, completata 18 anni dopo con quella voluta dal governo regionale della Lega guidato da Roberto Maroni.

Il regno di Roberto Formigoni

Tra il 1995 e il 2013 Roberto Formigoni è stato presidente regionale e ha tirato le fila del potere in una delle regioni più produttive d’Europa. La sanità è sempre stata uno dei suoi cavalli di battaglia, grazie soprattutto ai legami con organizzazione religiose con la vocazione per la politica e gli affari come Comunione e Liberazione e il suo braccio economico, la Compagnia delle Opere.

Parola chiave: spoils system

Pratica politica secondo cui gli alti dirigenti della pubblica amministrazione cambiano con il cambiare del governo

Formigoni inizia da giovanissimo la sua attività politica nella Democrazia cristiana. Prima di sedere sullo scranno più alto della regione Lombardia passa dall’Europarlamento alle elezioni del 1984, diventando nel 1987 vice presidente del Parlamento europeo. Eletto deputato in Italia nel 1987, otto anni dopo arriva il primo mandato da presidente della regione Lombardia e la militanza nel progetto politico di Silvio Berlusconi.

Lo chiamavano il Celeste, al Pirellone. Rispetto agli “azzurri”, i neomilitanti della rampante Forza Italia, in maggioranza nuovi arrivati nel mondo della politica, Formigoni era un politico navigato, con anni di militanza democristiana. Il suo azzurro, perciò, era meno acceso: celeste, appunto.

È proprio nel corso di questi vent’anni che il sistema della sanità lombardo spinge l’acceleratore sul settore privato, con il contributo decisivo dei grossi gruppi imprenditoriali, che in Lombardia hanno visto un nuovo mercato, e le organizzazione religiose.

La sua riforma del 1997 è una rivoluzione copernicana nel sistema sanitario italiano: equipara sistema pubblico e sistema privato seguendo i modelli di privatizzazione dei Paesi anglosassoni. In un convegno del novembre 1997 diceva che il suo modello avrebbe permesso il «superamento della crisi del welfare, ovvero della solidarietà sociale di matrice statalista».

«E noi – si legge nel resoconto di AdnKronos Salute – crediamo che questo episodio possa contagiare le altre regioni e avviare un confronto che aiuti a trovare risposte adeguate alle grandi questioni dibattute anche in questo convegno». L’ambizione non gli è mai mancata. Non ha contagiato altre regioni, ma ha pervaso nel profondo la Lombardia: la stessa filosofia formigoniana è stata perseguita anche dalla giunta leghista che ha preso il suo posto, con un’ulteriore riforma promossa nel 2015.

L'unicità del sistema sanitario lombardo
Spiega Alberto Ricci, coordinatore dell’Osservatorio OASI dell’università Bocconi, che il servizio sanitario lombardo si differenzia principalmente in due aspetti da quello delle altre regioni italiane: il primo è il ruolo delle Asl, le Aziende sanitarie locali, le cui funzioni in Lombardia sono state attribuite a due diverse tipologie di enti, il secondo riguarda il peso nell’offerta sanitaria del settore privato.

Le Asl, da legge nazionale del 1992, «si occupano della committenza e dell’erogazione delle prestazioni sanitarie», spiega Ricci. In pratica, a seconda dell’esigenza del paziente, possono fornire direttamente un servizio da ambulatorio, prescrivere farmaci, oppure ricoverare il paziente nella struttura idonea per ricevere cure «ad alta intensità», fino a un ricovero; ma allo stesso tempo, le Asl hanno la possibilità di commissionare prestazioni sanitarie ad altre aziende pubbliche (come le aziende ospedaliere) o private accreditate. In Lombardia queste due funzioni sono divise tra Ats, Agenzie di tutela della salute (otto per le undici province lombarde) che «allocano le risorse e decidono le prestazioni sanitarie» e le Asst, Aziende socio sanitarie territoriali, che «hanno sostituito le precedenti aziende ospedaliere e inglobato i poli ambulatoriali» e si occupano di erogare materialmente le prestazioni. Le Asst, in larga parte, hanno sede in strutture ospedaliere. La nomenclatura nuova arriva nel 2015, ma il cambiamento era cominciato con il Celeste, con la riforma del 1997. Mentre in regioni come Emilia Romagna, Toscana e Veneto si investiva in «strutture intermedie» per la medicina generale, dei poliambulatori più attrezzati, in Lombardia non c’è stato grande coordinamento. «Una buona medicina del territorio è quella che è in grado di schermare l’ospedale, di scegliere chi può essere curato a domicilio e chi no. Dove questa rete non c’è, si va tutti al pronto soccorso», aggiunge Ricci. È quanto è successo in Lombardia e qui sta il suo fallimento.

Il forte ruolo delle strutture ospedaliere in Lombardia, aggiunge Ricci, è principalmente dovuta alla conformazione geografica e sociale della Lombardia, tra le regioni più densamente popolate d’Italia. La rilevante presenza del privato, si giustifica invece a partire dalla realtà economica della Lombardia, da sempre contraddistinta da una vivace imprenditoria, e con la seconda specificità del “modello Formigoni”: una visione favorevole all’integrazione tra sistema sanitario pubblico ed erogatori privati. Infatti la Regione spende circa il 30% del budget sanitario per accreditare ospedali e ambulatori privati nel sistema pubblico (contro una media nazionale del 20,3%). In pratica, un utente del servizio sanitario lombardo può ricevere una prestazione pagata in tutto o in parte dal pubblico anche nelle strutture private. Nell’ottica dei promotori del modello, lo scopo è promuovere un’assistenza di altissima qualità e ampliare l’offerta. Secondo i detrattori, invece, il sistema ha sì garantito una qualità alta delle prestazioni sanitaria ma arrivando a “privatizzarsi” nei fatti, mettendo in competizione per la stessa torta di risorse, circa 19 miliardi di euro all’anno, il sistema pubblico e privato. Questo slittamento può essere dannoso perché i sistemi, per quanto integrati sul piano teorico, non hanno sempre lo stesso obiettivo. I privati concentrano la loro offerta su reparti ad altissima specializzazione oppure su residenze assistenziali, perché rappresentano la fetta di mercato dove i margini sono più alti. Restano con maggiore frequenza sulle spalle del pubblico i servizi di base, come i pronto soccorso.

Il privato è un universo composito, dove ci sono diversi interessi: dalle fondazioni religiose, agli enti no profit fino al mondo del profit. a convivenza per essere positiva deve essere coordinata e programmata dal pubblico, sostiene Ricci: «La presenza del privato accreditato nella sanità pubblica ha spesso significato, come accaduto anche in Lombardia, maggiore disponibilità di investimenti e in definitiva di offerta di servizi per l’intero sistema pubblico. A patto che la regia regionale sia efficace nella programmazione e nel monitoraggio, i privati mettono a disposizione del Sistema sanitario nazionale alcune competenze altamente specialistiche: si pensi al ruolo di molti grandi ospedali privati accreditati nella ricerca, ma anche nel corso dell’emergenza Covid19».

Critici più radicali come Maria Elisa Sartor, docente a contratto di Programmazione, organizzazione, controllo nelle aziende sanitarie all’Università degli Studi di Milano, sostengono che la riforma di Formigoni abbia costruito uno spazio che definisce il “quasi-mercato”: le aziende ospedaliere vendono alla Regione dei servizi e competono tra loro, senza però offrire necessariamente quello che serve al sistema sanitario, ma quello che conviene di più all’azienda sanitaria. Se privato e pubblico fossero davvero paritari e complementari questo problema non si porrebbe. Invece, secondo Sartor, le differenze esistono. Lo dimostra, ad esempio, il caso dell’emergenza coronavirus. In un articolo pubblicato su Gli Asini, la professoressa ricorda che le prime strutture ospedaliere intervenute fino al 9 marzo sono state solo pubbliche.

Dopo la deliberazione regionale dell’8 marzo che seguiva il lockdown imposto dal governo nazionale, la Lombardia ha chiesto che i privati liberassero posti letto per l’emergenza. Ora strutture pubbliche e strutture private sono parimenti impegnate nel contrasto al coronavirus, ma il vantaggio “negoziale” delle strutture private ha permesso loro, in molti casi, di organizzarsi e prepararsi meglio, mentre il pubblico è andato immediatamente in affanno, senza possibilità di organizzarsi.

Il tramonto del “Celeste”

La Corte dei conti nel 2011 ha sottolineato come nel settore sanitario «si intrecciano con sorprendente facilità veri e propri episodi di malaffare con aspetti di cattiva gestione, talvolta favoriti dalla carenza dei sistemi di controllo». Casi di questo genere non sono di certo mancati nemmeno nell’eccellenza Lombardia: il colpo decisivo per Formigoni arriva proprio con le indagini sui fondi neri dell’ospedale San Raffaele di Milano e sulla Fondazione Maugeri di Pavia che gestisce l’omonimo ospedale, due aziende sanitarie private.

Gli inquirenti hanno ricostruito come dal 2002 al 2011 siano partiti dai conti del San Raffaele nove milioni di euro diretti all’imprenditore del settore sanitario Pierangelo Daccò, che informalmente curava gli interessi di Regione Lombardia e, all’interno della stessa fondazione, di don Luigi Verzè, il prelato ex vicepresidente della fondazione San Raffaele. Quei nove milioni sono un tesoretto frutto delle sovrafatturazioni imposte dal braccio destro di don Verzè ai fornitori: la “cresta” retrocessa in contanti è servita a corrompere i vertici di Regione Lombardia così da avere provvedimenti favorevoli alla fondazione. Da questo primo tassello l’inchiesta si è allargata fino a sbattere poi contro la Fondazione Maugeri di Pavia.

#Covid-19

Il mercato parallelo dei vaccini

Vero o presunto che sia, è oggetto di indagini in Italia ed Ue. Lo popolano truffatori ed esiste perché il sistema di distribuzione globale, soprattutto verso i Paesi poveri, arranca

Nell’aprile 2012, con l’accusa di aver distratto 56 milioni di euro alla fondazione, sono stati arrestati l’ex assessore Antonio Simone e il direttore amministrativo del polo sanitario Costantino Passerino. Il presidente della Fondazione Umberto Maugeri è finito ai domiciliari. Tra gli indagati compariva anche Pierangelo Daccò, accusato di riciclaggio, appropriazione indebita, associazione per delinquere, frode fiscale e false fatture. E poi c’era Formigoni in persona, indagato per corruzione aggravata transnazionale: per gli inquirenti avrebbe favorito con 15 delibere regionali la Fondazione Maugeri in cambio di alcune utilità, come vacanze pagate e cene in ristoranti di lusso.

Le indagini tra San Raffaele e Maugeri si sono concluse con una sentenza a quattordici anni per i protagonisti della vicenda, tra cui il segretario generale della regione e il direttore generale dell’assessorato alla sanità in Lombardia.

Quattro anni dopo l’accusa ha chiesto altri nove anni di carcere per Formigoni: «È stata una gravissima corruzione sistemica durata dieci anni che ha assunto le forme dell’associazione a delinquere con importi enormi messi in gioco», hanno spiegato in aula i pm. «Questo processo ha dimostrato quanto la corruzione possa essere devastante per il sistema economico: settanta milioni sono usciti dalle casse dello Stato per essere usati in una serie di benefit. Il modo di operare dei componenti dell’associazione a delinquere è stato un cancro».

«Questo processo – hanno sostenuto in aula i pm di Milano – ha dimostrato quanto la corruzione possa essere devastante per il sistema economico: settanta milioni sono usciti dalle casse dello Stato per essere usati in una serie di benefit. Il modo di operare dei componenti dell’associazione a delinquere è stato un cancro»

Il tribunale, alla fine, ha condannato il Celeste a 6 anni per corruzione. La condanna diventa definitiva nel 2019 con una condanna a 5 anni e 10 mesi.

Corruzione, mafia e politica, la sanità lombarda scricchiola anche dopo Formigoni

Già prima del caso San Raffaele e Maugeri la sanità lombarda aveva mostrato segni di malattia. In occasione dell’inchiesta Infinito che nel 2010 scoperchiò il vaso di Pandora sulle cosche della ‘ndrangheta al nord si sono potuti leggere i rapporti perversi tra mafia e sanità in Lombardia.

Agli arresti finì il direttore sanitario dell’azienda sanitaria locale di Pavia Carlo Chiriaco. Condannato in via definitiva a 12 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, è ritenuto uno dei referenti della ‘ndrangheta a Pavia e in Lombardia.

In quegli stessi anni a Pavia accadono tra l’altro due fatti rilevanti: l’arresto di Ciccio Pelle detto Pakistan che da latitante viene ricoverato in una clinica pavese sotto falso nome e con una falsa cartella clinica, mentre una perizia oculistica sempre di un nosocomio pavese certificherà la quasi cecità del boss camorrista Giuseppe Setola, che sarà però in grado di lasciare gli arresti domiciliari e portare a compimento la strage di Castelvolturno.

Pochi giorni prima degli arresti dell’operazione Infinito all’ospedale San Paolo di Milano muore gettandosi dalla tromba delle scale Pasquale Libri, funzionario della divisione appalti dell’ospedale. Libri e lo stesso Chiriaco si conoscevano da tempo e se nel corso dell’inchiesta del 2010 è emersa l’influenza delle cosche sulla sanità, successivamente a venire a galla sarà il sistema di corruzione e tangenti tra la politica lombarda e i suoi colletti bianchi.

Partendo dal suicidio di Libri e dalle carte trovate all’interno del suo ufficio gli investigatori, quattro anni dopo, hanno ricostruito un sistema di nomine, voti e favori che ha determinato l’assegnazione di alcune gare d’appalto relative alle forniture elettromedicali. Il regno di Formigoni è finito ma l’avvicendamento con l’allora uomo forte della Lega Nord, Roberto Maroni, ha cambiato le tessere del puzzle, sempre legate al potere politico, ma non ha fermato il virus della corruzione. La Lega non è stata in grado di immunizzare il sistema dall’intreccio tra sanità, politica e corruzione. 

Lo dimostra una inchiesta della procura di Monza che ha portato in carcere Fabio Rizzi, fedelissimo dello stesso Maroni, che ha patteggiato una pena a 2 anni e 6 mesi per corruzione.

Rizzi è il padre della riforma del 2015 che ha riorganizzato per la seconda volta la sanità in Lombardia. Con Rizzi nei guai era finito un gruppo di imprenditori accusato di aver versato bustarelle ai funzionari ai quali erano affidate una serie di gare di appalto: le operazioni coinvolgevano anche appalti di società private accreditate con il sistema sanitario nazionale, tutte per la gestione esterna di servizi odontoiatrici. Dieci gli episodi di corruzione ricostruiti nel corso delle indagini che hanno permesso di scoprire che da oltre 10 anni numerose aziende ospedaliere avevano esternalizzato il servizio di odontoiatria ricorrendo a gare di appalto per circa 400 milioni. L’ennesimo spreco di denaro pubblico.

Così come è stato inutile – parola dello stesso assessore al Welfare di Regione Lombardia Giulio Gallera – la costruzione dell’ospedale di emergenza alla Fiera di Milano. Lo ha detto in una conferenza stampa via Facebook in cui ha dimostrato ancora una volte le difficoltà del governo regionale a gestire la crisi.

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CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Luca Rinaldi

Editing

Giulio Rubino

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