La “nobilità” venezuelana che scava il mondo

#OpenLux

La “nobilità” venezuelana che scava il mondo

Cecilia Anesi
Raffaele Angius

In Lussemburgo, quando i commercialisti fanno una “denuncia di domicilio” piantano una bandierina che significa una sola cosa. Prendono le distanze dal cliente, dall’azienda o dall’imprenditore che è registrato presso il loro studio commerciale, dichiarando una “preoccupazione rispetto alle attività dell’azienda”. Insomma, non la de-registrano, ma si dissociano rispetto a qualsiasi irregolarità dovessero riscontrare le autorità.

L’azienda, in breve, rimane aperta ma non è più domiciliata presso quella fiduciaria. Con questa azione, si accende un riflettore su possibili reati, ed è una misura che per il Lussemburgo, opaco paradiso fiscale utilizzato da imprenditori spregiudicati e criminali di mezzo mondo come raccontato dal progetto internazionale OpenLux, è già molto.

Una “denuncia di domicilio” è quella che ha interessato un’azienda lussemburghese, Petrolia Sarl, posseduta da uno dei maggior imprenditori minerari al mondo: Jose Francisco Arata. Era novembre 2019 quando la fiduciaria Amicorp ha dichiarato concluso l’accordo di domiciliazione: da allora, Petrolia Sarl avrebbe dovuto trovare un’altra sede ma così non è stato. Petrolia è “in terra di nessuno”, senza sede e senza indirizzo.

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Ritratto recentemente in posa accanto alla bellissima moglie colombiana (un’attrice famosa), l’italo-venezuelano Arata vive oggi nei Caraibi, si occupa di turismo di lusso e della casa di moda lanciata dalla consorte.

Arata è stato uno dei manager di imprese minerarie più pagato al mondo, e l’eco della sua ricchezza arriva fino all’Italia

Ma non è sempre stato così. Arata è stato uno dei manager di imprese minerarie più pagato al mondo, e l’eco della sua ricchezza arriva fino all’Italia. Passando da devastazioni ambientali in Sardegna, borghi medievali abbandonati in Toscana e complicate galassie di aziende che servono per nascondere il bottino.

Nato a Caracas, ma con origini italiane, Arata ha studiato geologia a Torino – trampolino di lancio per una serie di progetti minerari che ne hanno dettato tanto le fortune quanto le disgrazie. Dalla Toscana alla Sardegna, dal Venezuela alla Colombia, il suo nome è associato ad aziende come la la Pacific Rubiales e la Gran Colombia Corp, che hanno sottratto risorse e schiacciato le popolazioni locali. In pochi lo hanno conosciuto dal vivo, e Armando.info, IrpiMedia e Indip sono dovuti andare scarponi e binocolo a cercarne le tracce.

Per approfondire

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L’imprenditore italo-venezuelano Josè Francisco Arata

Dopo gli studi a Torino, si è laureato in ingegneria geologica all’Università Centrale del Venezuela, trovando poi un impiego prestigioso nell’azienda pubblica di esplorazione e estrazione di petrolio Maraven, filiale della Petróleos de Venezuela. Salito al potere Hugo Chávez, le cose cambiano per Arata che assieme ad altri avrebbe voluto privatizzare Maraven. Ma Chavez li blocca, chiude Maraven e unisce le attività di petrolio e gas nell’azienda pubblica dell’energia PDVSA, buttando fuori Arata nel 2002. L’imprenditore si trova così senza impiego e, in contatto con altri ex-dirigenti Maraven, decide di andare in Colombia per convincere il governo confinante a investire nel petrolio e su di loro.

I suoi sforzi vengono premiati. Nel 2004 infatti, fonda Pacific Rubiales, che diventerà la seconda azienda petrolifera della Colombia, ma registrata in Canada. Guadagnerà moltissimo, fino a 11 milioni di dollari all’anno di salario, diventando uno dei manager più pagati al mondo. Nel frattempo, investe nell’immobiliare, nel turismo, nei casinò.

Da allora in poi i suoi soci d’affari tanto in America Latina quanto in Italia sono sempre altri due petrolieri venezuelani, Serafino Iacono e Miguel de la Campa.

Petrolio, violenza e i soldi dei Clinton

Per molti anni Arata è stato uno dei dirigenti di Pacific Rubiales, azienda mineraria canadese che ha operato per lo più in Colombia. Con gli altri dirigenti di Pacific, è finito nella prestigiosa lista dei “100 CEO più pagati” in Canada.

Quando Arata resta senza impiego, Ronald Pantin, suo ex collega in Pdvsa, lo coinvolge in una impresa epica: andare a conquistare i migliori giacimenti di petrolio della Colombia.
«Siamo andati a visitare i siti petroliferi di Campo Rubiales e abbiamo capito di avere di fronte una grande opportunità, potevamo superare i 500.000 barili al giorno. È il campo più grande della Colombia, e in Venezuela non ce n’è di simili», ha detto Pantin alla rivista Semana.

Per molti anni Arata è stato uno dei dirigenti di Pacific Rubiales, azienda mineraria canadese che ha operato per lo più in Colombia. Con gli altri dirigenti di Pacific, è finito nella prestigiosa lista dei “100 CEO più pagati” in Canada

A Bogotà fanno squadra con un altro venezuelano, Miguel Ángel de la Campa, esperto di finanziamento e sviluppo del petrolio e delle miniere. Ai tre è da subito chiaro che la Colombia ha i campi petroliferi perfetti, ma impianti obsoleti. Serve un finanziamento, e così contattano l’economista venezuelano Serafino Iacono, esperto di capitalismo petrolifero. Da allora, Arata, De la Campa e Iacono diventeranno un trio inseparabile.

Iacono sa che la borsa di Toronto, in Canada, è leader mondiale nelle transazioni nel settore minerario, del petrolio e del gas. Il posto giusto dove trovare investitori. E così, il gruppo di venezuelani si reca lì dove entra in contatto con l’uomo d’affari Frank Giustra, noto imprenditore minerario internazionale connesso all’ex presidente degli Usa, Bill Clinton da business in comune. Grazie all’intermediazione di Giustra, arriva un supporto di 440 milioni di dollari da parte della Clinton Global Foundation per iniziare le ricerche petrolifere in Colombia. In cambio, Giustra finanzierà la campagna elettorale di Hillary Clinton.

Un rapporto stretto, quello tra Giustra e i Clinton, che negli anni ha coinvolto anche Arata, ritratto a giocare a golf con l’ex Presidente Usa. Relazioni che ai Clinton hanno causato numerose critiche, considerate le conseguenze sociali e ambientali dei progetti minerari dei venezuelani in Colombia.

Infatti Pacific, lanciata grazie ai soldi dei Clinton alla conquista dell’oro nero colombiano, in soli cinque anni diventa il secondo produttore di petrolio del Paese. Ha una squadra manageriale – quella dei venezuelani – con eccezionali conoscenze minerarie e di idrocarburi, nonché abile nel muoversi in scenari internazionali, paradisi fiscali e di giocare con la borsa.

Il suo apice nel 2016 è però anche l’inizio del suo declino: in pochi anni l’azienda passa da un ciclo di crescita e conglomerazione a sovraindebitamento e insolvenza. Produce la maggior parte di gas e petrolio in Colombia, anche se investe in molti altri paesi dell’America Latina, ma quando decide di allargarsi comprando molte altre aziende petrolifere o minerarie minori, inizia a indebitarsi finendo poi in bancarotta.

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Baby-milionari in Lussemburgo

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I siti principali di estrazione di Pacific Rubiales sono i campi Rubiales e Quifa nel dipartimento del Meta. Qui non solo ha estratto e raffinato petrolio, ha anche usato le acque reflue della lavorazione petrolifera per coltivare palma da idrocarburo. Un “circolo virtuoso” dall’altissimo impatto ambientale e sociale, soprattutto in termini di accaparramento di terre.

Il governo di Álvaro Uribe Vélez li ha però trattati come eroi regalandogli la cittadinanza colombiana e “prestando” ai consigli d’amministrazione delle loro aziende alcuni ministri, come quello delle miniere, quello della cultura, quello degli affari esteri.

Un rapporto stretto, quello tra Giustra e i Clinton, che negli anni ha coinvolto anche Arata, ritratto a giocare a golf con l’ex Presidente Usa. Relazioni che ai Clinton hanno causato numerose critiche, considerate le conseguenze sociali e ambientali dei progetti minerari dei venezuelani in Colombia

Con la piena approvazione del governo, Pacific si è mossa con agilità in un territorio in cui le popolazioni indigene vengono schiacciate dalla sovrapotenza del capitalismo, e dalla violenza dei paramilitari e delle guerriglie.

Una situazione simile si è riscontra anche in un’altra zona della Colombia, sempre con un’azienda guidata da Arata, la Gran Colombia Corp, di cui i media canadesi hanno scritto a lungo mettendo in luce gli accordi che aveva fatto con il gruppo armato di narcotrafficanti chiamato Urabenos.

Nel dipartimento del Meta la situazione per la popolazione è disastrosa. Si produce solo petrolio o olio di palma, l’agricoltura è relegata alla sussistenza e la gente vive in uno stato di assoluta povertà, con scarso accesso alle risorse primarie. Nonostante qui si estragga la risorsa più preziosa della Colombia, il guadagno non ricade in nessun modo sulla popolazione locale. Anzi, gli indigeni hanno perso le loro terre a causa di espropri forzati e violenze.

Secondo gli analisti delle organizzazioni per i diritti civili Somo e Indepaz, i dirigenti di Pacific avrebbero stretto la mano ai paramilitari per avere sicurezza presso le strutture ed evitare – tramite una “tassa” – ritorsioni e rapimenti dei tecnici che lavorano nei campi petroliferi. Questo ha però avuto ripercussioni dirette sulla popolazione di campesinos e di lavoratori. Le forze paramilitari hanno minacciato ambientalisti che denunciavano i danni derivanti dalle attività estrattive, ma anche leader indigeni, contadini e sindacalisti. Una pratica che è poi finita fuori controllo, arrivando fino all’uccisione di alcuni sindacalisti.

Pacific ha continuato a crescere, arrivando a contare oltre 100 aziende registrate in più di 20 giurisdizioni, tra cui Panama, Isole Vergini Britanniche, Lussemburgo, Svizzera e altri paradisi fiscali. Viene quotata, oltre che a Toronto, anche sulla borsa colombiana, brasiliana e del Lussemburgo.

Eppure dal 2014 inizia la crisi nera. Un pò per i prezzi del greggio in rapido calo, un pò per scellerate scelte dell’amministrazione. La holding infatti spende e spande acquistando aziende minerarie in giro per il mondo, mentre investe in infrastrutture – porti e zone franche – in Colombia e nei Caraibi. Così, ad aprile 2016, finisce in bancarotta.

La bomba ecologica di Santu Miali

Gli eccessi e lo stile da grand viveur di Arata colpiscono. Chi l’ha conosciuto ne parla come di un amante del lusso, a cui piace dare l’impressione di poter comprare qualsiasi cosa. Auto sportive, yacht, una miniera in Sardegna.

Come quella di Santu Miali, a quaranta minuti di macchina da Cagliari, di cui Arata e Serafino Iacono diventano comproprietari grazie all’investimento nella Sardinia Gold Mining (Sgm) – partecipata al 10% dalla stessa Regione Autonoma Sardegna attraverso la società pubblica Progemisa – di cui vengono anche nominati amministratori. Ma la miniera – più che altro una cava a cielo aperto – non ricorda quelle dei film dove qualche pioniere armato di piccozza va a scavare alla ricerca del prezioso metallo. Si tratta piuttosto di un’ampia area di 530 ettari, a ridosso dei comuni di Furtei, Serrenti, Segariu e Guasila, dove l’oro è disperso nella roccia e la sua estrazione richiede il ricorso a sostanze altamente inquinanti come il cianuro, con la conseguente realizzazione di buchi, bacini di acque acide e sbancamenti.

Ed è così che si mostra all’occhio di chi la visita ancora oggi. Definito per la prima volta ufficialmente “un disastro ambientale” da una sentenza del tribunale di Cagliari del 2020, oggi l’intero sito richiede una bonifica che costerà alle casse della Regione 65 milioni di euro. Dei responsabili a cui chieder conto però non c’è traccia. Non quelli dell’ultima società che ha posseduto la miniera, né del duo Arata-Iacono, che hanno venduto giusto in tempo per non doversi accollare anche il ripristino del sito.
È sufficiente fare due passi tra le pareti di roccia sventrata e graffiata dall’esplosivo per farsi un’idea di cosa sia rimasto dell’”Eldorado sardo”. Gli specchi d’acqua acida sono tenuti sotto controllo affinché non tracimino per effetto delle piogge e ovunque è un ripetersi di strade chiuse, cancelli basculanti e cartelli arrugginiti: “Zona mineraria”, “Pericolo”, “Rifiuti tossici”, “Vietato l’ingresso ai non addetti ai lavori”.

Ma è dall’alto che la miniera di Santu Miali – più comunemente, la miniera di Furtei – offre la veduta più suggestiva. IrpiMedia ha potuto visitarla grazie all’utilizzo di un drone che ha raccolto la testimonianza di questo paesaggio lunare dall’alto. Dal cielo non è possibile ignorare i molteplici segni dell’attività umana. Uno su tutti è il “bacino sterili”: una vasca della grandezza di undici ettari che contiene tra gli 800mila e il milione di metri quadrati di liquido refluo risultato della lavorazione dell’impianto di separazione di oro, argento e rame.

L’area degli scavi nella miniera d’oro di Santu Miali in Sardegna – Foto: IrpiMedia

Non può non averlo notato nemmeno José Francisco Arata che, riportano diversi testimoni, preferiva visitare la miniera in elicottero, dall’alto, talvolta senza nemmeno scendere per non perdere la possibilità di tornare presto a Cagliari e poi via dalla Sardegna. «Perché su quella parte dell’isola non c’erano alberghi sufficientemente raffinati», riporta un testimone che all’epoca dei fatti lavorava con la Sgm.

Sorta sulle spoglie di una vecchia miniera di caolino, materiale impiegato nell’edilizia, quella di Furtei non è una miniera facile da lavorare. Le sue rocce offrono una quantità limitata di oro – intorno agli 8 grammi per ogni tonnellata di terra sbancata – a fronte di una lavorazione particolarmente impegnativa in termini ambientali ed economici. Già negli anni ‘80 furono i ricercatori di Progemisa – interamente controllata dalla Regione – e Agip miniere i primi a ricercare il prezioso materiale sul suolo sardo. Individuarono tre siti: Monte Ollasteddu, Osilo e Furtei.

Sorta sulle spoglie di una vecchia miniera di caolino, materiale impiegato nell’edilizia, quella di Furtei non è una miniera facile da lavorare

Venuto a mancare l’interesse di Agip miniere, l’Ente minerario sardo e in particolare il suo presidente, Giampiero Pinna, coinvolgono alcuni partner australiani con i quali proseguire la ricerca dell’oro sardo.

Così nel ‘93 nasce la Sardinia Gold Mining (Sgm), joint venture tra Progemisa e la Gold Mines of Sardinia (Gms), società di proprietà di un gruppo di investitori australiani che, spalleggiati da banche d’investimento come Rothschild, creano due società per gestire la miniera: la Euromining e la Mediterranean Gold Mines. Progemisa mette le concessioni, Gold Mines of Sardinia i fondi e le competenze in materia di estrazione mineraria. Il primo lingotto verrà prodotto nel 1997.

«Gli australiani sono i principali autori del danno, dello sconquasso ambientale», spiegano a IrpiMedia due fonti informate sui fatti. E d’altronde le cronache parlano di una montagna di circa un milione e mezzo di metri cubi sbancata al punto di abbassarne la sommità di quaranta metri. «Quando si “scava” con l’esplosivo in quel modo, si creano delle voragini piene di cianuro e altre sostanze tossiche causate dalla reazione chimica del portare così rapidamente in superficie materiali che stanno sottoterra. Quindi man mano che si scava così, bisogna richiudere le voragini con materiali inerti. Altrimenti poi i costi di bonificare dei “laghi” di acqua e materiali tossici sono esorbitanti, e i danni ambientali incalcolabili».

Nei pressi del sito estrattivo di Furtei / Foto: IrpiMedia – Scorri le immagini

La febbre dell’oro tuttavia passa rapidamente: intorno al 2003 il prezzo dell’oro crolla. Da Furtei ne sono state scavate 135,000 once – poco più di tre tonnellate e mezzo – a fronte dello smottamento di milioni di metri cubi di terra e rocce. Gli australiani vendono, segnando l’inizio del valzer di società e imprenditori che, negli anni successivi, cercano di mettere le mani sulla miniera. Da un lato si conta su una futura ripresa del prezzo dell’oro mentre, dall’altra, entrare in società con la concessionaria, Progemisa, potrebbe facilitare l’accesso alle altre miniere – Osilo e Monte Ollasteddu.

Così, nel 2003, un gruppo di investitori canadesi acquista la Gold Mines of Sardinia, diventando titolare del 90% del progetto della miniera. Questi sono in contatto con Arata, Iacono e De la Campa che all’epoca stavano avviando i loro progetti in Colombia con Pacific Rubiales, e decidono di nominarli come direttori poiché ritengono che abbiano le carte giuste per ottenere accordi politici e trovare investitori.

Ma la scalata del trio venezuelano nella miniera di Furtei non si ferma qui. Grazie a un accordo con i canadesi aprono la Medoro Resources utilizzando una società già in loro possesso, la Bolivar Gold. La Medoro diventerà proprietaria dell’intero pacchetto sardo, sempre in società con Progemisa, a inizio 2004. In questo modo i venezuelani diventano gestori del progetto di Furtei ed eredi delle concessioni esplorative di Osilo e Monte Ollasteddu.

L’uomo in Italia dei venezuelani è Giuseppe Pozzo, consigliere della regione Piemonte in quota Forza Italia in quegli anni e, contemporaneamente, chiamato a dirigere la filiale italiana della Medoro.

Politico di lungo corso e appassionato rallysta – oggi residente in Colombia – Pozzo non è il primo uomo di Forza Italia a prendere la porta girevole dalla politica alla gestione della miniera sarda e viceversa. Dal 2000 al 2003 il presidente della Sardinia Gold Mining è stato Ugo Cappellacci, che diventerà poi presidente della Regione Sardegna sempre nel partito di Silvio Berlusconi.

A marzo 2004 un’altra società canadese, Sargold, entra nell’investimento ma coesisterà con Medoro fino al 2006, quando diventa unica proprietaria della miniera (sempre con Progemisa). Nel 2007 passa nuovamente di mano, ceduta ai canadesi della Buffalo Gold, ancora convinti di poter scavare Monte Ollasteddu.
Il sogno è di mettere le mani sull’oro di Osilo e Monte Ollasteddu, necessario per ripianare i debiti di Furtei, dove sarebbe stato lavorato nell’impianto esistente. Ma il primo sito vede la revoca dei permessi esplorativi da parte del Consiglio Comunale, che vota all’unanimità dopo che una precedente esplorazione aveva colpito una falda causando la perdita di pressione a un’azienda che imbottiglia acqua. Il secondo sorge invece a ridosso del confine di Perdasdefogu, area militare nella quale l’esercito non gradisce ci si metta il naso.

Il “bacino sterili” dove sono stati sversati i rifiuti minerari e dove dovrebbero venire stoccati i rifiuti derivanti dalla bonifica – Foto: IrpiMedia
Con la crisi finanziaria del 2008 la Sardinia Gold Mining cessa definitivamente le attività ed entra in fallimento. A restare con il cerino in mano sono gli ultimi manager, sui quali la procura di Cagliari apre un’indagine per disastro ambientale. La sentenza ottenuta da IrpiMedia/Indip, finora mai raccontata, accerta “il disastro ambientale” della miniera, ed evidenzia il rischio che alcuni bacini possano «tracimare per troppo pieno, riversando le acque acide a valle verso il rio Monte Miali e poi verso il Flumini Mannu, e quindi verso il sottostante bacino di raccolta utilizzato per la distribuzione di acqua destinata a usi civili».

Ma alla luce dei numerosi cambi di mano, di proprietà e di quote, alla sbarra vanno solo tre imputati: gli ultimi amministratori della Sardinia Gold Mining James Grant Stewart e Brian Roy McEwan e l’amministratore delegato della società, Monty Reed. Stando alle carte della procura quest’ultimo è “irreperibile”, mentre Stewart muore prima che si celebri il processo. Solo McEwan verrà giudicato – e assolto per non aver commesso il fatto – dopo aver dimostrato che lui nella miniera, a differenza di quanti lo hanno preceduto, a malapena ci aveva messo piede.

«Buffalo Gold è stata attratta dall’investimento per l’opportunità di sviluppare una miniera sotto terra, tuttavia abbiamo operato esclusivamente a cielo aperto per un anno: sapevamo di dover fare i conti con il disastro lasciato dalle precedenti gestioni, che abbiamo provato a bonificare»

Roy McEwan

Ex amministratore Sardinia Gold Mining

«Buffalo Gold è stata attratta dall’investimento per l’opportunità di sviluppare una miniera sotto terra, tuttavia abbiamo operato esclusivamente a cielo aperto per un anno: sapevamo di dover fare i conti con il disastro lasciato dalle precedenti gestioni, che abbiamo provato a bonificare», spiega McEwen, contattato da IrpiMedia: «A nessuno interessava veramente sistemare le cose, ma trovare solo un capro espiatorio che sono stato io».

Responsabile di fatto, oggi, è la Regione Autonoma Sardegna, che nel 2017 ha approvato un piano di ripristino dell’area per il quale ha stanziato 65 milioni di euro.

Il mio castello in Toscana

La miniera in Sardegna, però, non era un posto sufficientemente elegante per le riunioni del consiglio d’amministrazione. Ed è per questo che Arata, almeno in un paio di occasioni, ha ospitato gli incontri a Montingegnoli, un’antica fortezza medievale nel mezzo di una delle più belle delle terre toscane: poco distante dalle famose terre di Siena e a due passi dall’abbazia di San Galgano.

Un complesso di 15mila metri quadri e 683 ettari di terreno costituito da borgo, castello e poderi nel comune di Radicondoli, posseduto dall’azienda agricola Montingegnoli srl. Il 25 luglio 2002 José Francisco Arata subentra a un nobile fiorentino nella guida della Montingegnoli srl. Nel frattempo l’azienda viene ceduta alla European Real Estate ApS, azienda immobiliare danese che da allora ne sarà proprietaria.

Il borgo e il castello di Montingegnoli nel 1995. Foto d’archivio ottenuta grazie ad una richiesta di accesso agli presso il comune di Radicondoli
La European Real Estate ApS che controlla la Montingegnoli è a sua volta controllata dalla Toscana Holdings ApS, un’altra azienda danese che appartiene a due imprenditori italo-venezuelani, Juan Francisco Clérico e Fedele Clérico Bertola – tra i principali costruttori del venezuela e anche loro dalle origini piemontesi – e all’argentino Valentín Bagarella Gleim.

Al contempo però, Montingegnoli srl non esiste più sotto questo nome poichè è stata incorporata dalla Turismo & Energia srl di Torino, posseduta dalla Muraseni Investments di Panama. Ricomponendo il complesso puzzle che ne offusca il reale proprietario, dietro quest’ultima società c’è Josè Francisco Arata, il nostro petroliere italo-venezuelano.

Quindi a possedere il borgo e castello di Montingegnoli sono i Clerico, Bagarella e Arata. D’altronde, dicono testimoni che hanno incontrato Arata lontano dalle terre senesi, l’imprenditore si è sempre vantato di avere «un castello in Toscana».

Dal 2002 ad oggi però, il borgo è stato lasciato in balia delle intemperie. L’accesso alla piazza chiuso con delle tavole di legno, i passaggi voltati del borgo impediti da cancelli arrugginiti e puntellati da ferri ormai incerti. Scricchiola, Montingegnoli, mentre ti guarda. E si domanda il perchè, di tale incuria. Solo il prato, verdissimo, è tagliato.

D’altronde deve fare una buona impressione questa proprietà privata, oggi in vendita presso l’agenzia di lusso Romolini Immobiliare di Arezzo. Nella brochure dell’agenzia, si pubblicizza la struttura di un tempo, con gli affreschi ancora intatti, la torre merlata sporgente che sorveglia piazza e giardini, nonché le cento camere e bagni. Il luogo perfetto per costruire un boutique hotel a cinque stelle, almeno su carta.

Per capire meglio cosa è successo a Montingegnoli, e perché il borgo, il castello e i dieci poderi siano stati abbandonati dai ricchi proprietari venezuelani, Arata e Clerico, IrpiMedia ha verificato di persona negli archivi dell’ufficio tecnico di Radicondoli, grazie a una richiesta di accesso agli atti.

L’ingresso chiuso del borgo di Montingegnoli oggi – Foto: IrpiMedia

Qua c’è solo una pratica edilizia risalente al 1995 e consegnata dai nobili fiorentini: è un progetto di ristrutturazione per fare mini appartamenti per residenza e turismo. Nella valutazione di impatto ambientale, viene descritta anche la volontà di sfruttare una risorsa termale ai fini del turismo e una risorsa geotermica presente nel sottosuolo ai fini civili.

Il territorio – conosciuto come la zona delle Colline Metallifere per la grande presenza di risorse minerarie – è fortemente a vocazione geotermica, tanto che il geologo che redige la VIA nel 1995 scrive “dal punto di vista economico la zona è universalmente individuata nella geotermia”. Oggi proprio per via della geotermia e delle compensazioni, Radicondoli e gli altri comuni della zona sono tra i più ricchi d’Italia. Ma non è tutto oro ciò che luccica, perchè sia le amministrazioni comunali che la Soprintendenza ai beni culturali si sono opposti a nuovi progetti di ricerca geotermica nella zona, anelati invece da Regione Toscana.

Che sia per questo che Arata si sia interessato al “complesso Montingegnoli” e non per vantarsi nel mondo di avere un castello? Infondo, questa non è certo la zona del Chianti bensì un territorio selvaggio, per lo più abbandonato, e lasciato completamente in mano all’industria estrattiva.

Sia le amministrazioni comunali sia la Soprintendenza ai beni culturali si sono opposti a nuovi progetti di ricerca geotermica nella zona, anelati invece da Regione Toscana

Una domanda a cui, a Radicondoli, non si riesce a trovare risposta. Ci sono al momento tre progetti pilota per ricerca geotermica proprio nella zona, e che passerebbero a poche centinaia di metri dal borgo. A presentare i progetti sono tre cordate di piccole aziende, con strutture societarie opache a scatola cinese, ma di Arata nemmeno l’ombra.

«L’Amministrazione oggi è contraria a nuovi progetti geotermici, non vogliamo un’altra centrale sotto al nostro naso», ci spiegano dal Comune di Radicondoli. La porta accanto dell’Ufficio Tecnico però è la sede del Cosvig, ovvero il coordinamento per le centrali geotermiche.

È in questi corridoi che è passato nel 2012 anche Arata, consegnando un nuovo progetto per Montingegnoli, questa volta agricolo. O meglio, si chiede il permesso di rinnovare la vigna, costruire da zero una cantina del vino con punto degustazione, e deruralizzare alcuni dei poderi.

Una delibera di giunta gli dà l’ok, specificando che però l’ordine delle cose debba prevedere la ristrutturazione della cubatura esistente, prima di procedere con qualsiasi altra costruzione.

A dire, avete un patrimonio esistente, sfruttatelo. D’altronde, ci spiegano sottovoce, «quando i venezuelani sono venuti a parlare, avevamo belle speranze. Qui in passato c’erano grandi progetti per la tenuta di Montingegnoli e ci auguravamo volessero davvero investirci». D’altronde, nel piano strutturale di Radicondoli, Montingegnoli è descritta come la punta di diamante per rilanciare il turismo nella zona. E la Soprintendenza ha recentemente apposto un vincolo paesaggistico a tutto il territorio di Radicondoli.

Anche se, a guardare la valle del castello, non si vedono altro che fumate bianche. Le tante centrali geotermiche che puntellano la zona.

La buena vida

Lasciata Pacific Rubiales, Arata ha deciso di stabilirsi nei Caraibi – nell’esclusiva zona di Punta Cana in Repubblica Dominicana – dove vive tutt’ora con la sua seconda moglie, Ana María Trujillo, una attrice ed ex reginetta di bellezza che ha lanciato la linea di couture “Arata”.

Da lì gestisce un’altra compagnia energetica interessata ai giacimenti petroliferi ecuadoriani oltre ad essere nel consiglio d’amministrazione di cinque aziende canadesi del settore energetico, che investono in miniere in diverse parti delle Americhe.

Non che la buonuscita da Pacific Rubiales lo avesse lasciato sul lastrico, considerati gli otto milioni di dollari di liquidazione, più i diritti sulle azioni per un altro milione e tre.

Dai Caraibi Arata gestisce un’altra compagnia energetica interessata ai giacimenti petroliferi ecuadoriani oltre ad essere nel consiglio d’amministrazione di cinque aziende canadesi del settore energetico, che investono in miniere in diverse parti delle Americhe

Ad Arata però piace tenersi occupato. Infatti, dalla villa di 5mila metri quadri, Arata dirige una miriade di investimenti nel settore turistico e immobiliare sia nei Caraibi che in Colombia.

La sua vita di lusso viene descritta da Armando.info anche nella serie di inchieste dei #FinCENFiles, ma restano molte ombre sulla sua ricchezza.

L’ultima suggestione viene da una denuncia dell’anno scorso. Il socio di maggioranza dell’azienda canadese Coalcorp ha denunciato gli ex-manager dell’azienda Arata, Iacono e Miguel de la Campa assieme ad altri accusandoli di avere volutamente sottratto risorse all’azienda per arricchimento personale. In soldoni, avrebbero acquistato a prezzi bassissimi assets minerari con un’azienda offshore, registrata nelle isole vergini britanniche, per poi rivenderli a prezzi calmierati alla stessa azienda canadese che dirigevano. Come svelato dai Panama Papers, i pagamenti sarebbero passati tramite un’agenzia irlandese controllata da una lussemburghese e gestita dalla fiduciaria panamense Mossack&Fonseca.

È probabilmente questo ciò che ha acceso il campanello d’allarme in Lussemburgo, causando nel 2019 la “denuncia di domicilio” da parte del commercialista di un’altra società di Arata, la Petrolia, che deve aver preferito non avere a che fare con movimenti finanziari per nulla trasparenti. Anche perchè l’accusa presso il Tribunale canadese è quella di avere sottratto indebitamente milioni di dollari spesi poi in yacht, opere d’arte e lavori di ristrutturazione. Sicuramente, per ora, né a Montingegnoli né a Furtei.

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Raffaele Angius

In partnership con

Editing

Giulio Rubino

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La miniera di Furtei/IrpiMedia

I segreti delle “lettere informative” fiscali

2 Luglio 2021 | di Giulio Rubino

Nessun Paese vuole vedersi cucito addosso lo status di paradiso fiscale. Nonostante alle orecchie delle multinazionali possa essere un termine quasi allettante, evocativo di sicurezza e segretezza per il capitale privato all’ombra delle palme su spiagge bianchissime, negli ultimi anni sono pochi i Paesi che possono continuare a mantenere questa condizione senza danni tanto alla propria reputazione quanto agli affari. Dopo che moltissime inchieste giornalistiche hanno rivelato come migliaia e migliaia di miliardi di dollari, una porzione significativa di tutta la ricchezza globale, scompaia ogni anno dentro questi paradisi, libera da tasse, responsabilità sociali, o anche solo di un proprietario chiaramente identificato, anche le organizzazioni internazionali, Unione europea in primis, hanno cominciato a discutere di limiti e regolamentazioni per evitare che i grandi contribuenti di tutto il mondo potessero continuare a giocare sporco.

La classifica dei paradisi fiscali

Secondo il Tax Justice Network, nell’edizione 2021 del loro Corporate Tax Haven Index, cioè una sorta di classifica dei paradisi fiscali, i Paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) conquistano i primi sei posti della classifica dei Paesi che favoriscono l’abuso fiscale. Il Corporate Tax Haven Index mette in fila ogni giurisdizione in base a quanto il sistema fiscale e finanziario permette alle multinazionali di spostare i profitti fuori dal Paese in cui fanno affari, e dove quindi pagano meno tasse di quello che dovrebbero. L’indice valuta ogni sistema legale e tributario con un “haven score” da 0 a 100 in base alla possibilità di abuso fiscale per le aziende. Il punteggio viene combinato con il volume dell’attività finanziaria condotta nel paese dalle multinazionali (Global Scale Weight) per calcolare quanto abuso fiscale viene facilitato dal paese (CTHI Value) e in che percentuale ne sono responsabili a livello mondiale (CTHI Share).

Uno dei più importanti – e più indagati – paradisi fiscali d’Europa è sicuramente il Lussemburgo, che prima ancora dell’inchiesta OpenLux (pubblicata a febbraio 2021 da IrpiMedia insieme a un consorzio di testate internazionali guidate da Le Monde e Occrp), era già finito al centro del dibattito internazionale con la pubblicazione dell’inchiesta LuxLeaks.

Sembrava che dopo lo scandalo il Paese si fosse “convertito” a una maggiore trasparenza fiscale, soprattutto rispetto allo scambio di informazioni con gli altri Paesi europei. In fondo c’è tutto un sistema previsto dalle ultime direttive europee in materia fiscale che spinge i Paesi a una maggiore collaborazione nell’ottica di prevenire forme di “concorrenza sleale” sul fisco. Eppure anche questo sistema può essere aggirato attraverso il meccanismo delle “lettere informative”.

Partiamo però dall’inizio, il 2014, quando il Lussemburgo è diventato agli occhi dell’opinione pubblica uno degli epicentri dell’evasione fiscale in Europa.

Le segnalazioni di infrazione ricevute dall’autorità antiriciclaggio del Lussemburgo

LuxLeaks, cosa è cambiato per davvero

Luxleaks, inchiesta nata dalle rivelazioni del whistleblower Antonine Deltour, ex dipendente di PricewaterhouseCoopers (PwC), nel 2014 aveva rivelato come i cosiddetti tax ruling, accordi privati fra grandi corporazioni e autorità fiscali, nel Granducato riuscissero ad abbattere fin quasi a zero le tasse pagate da grandi aziende multinazionali.

Dopo la pubblicazione dell’inchiesta, il Lussemburgo si era attirato molte critiche da parte del resto dei Paesi europei, e in particolare il dibattito aveva portato a una importante decisione da parte della Commissione Europea: i tax ruling non potevano più essere segreti. La decisione è diventata legge anche in Lussemburgo nel 2016.

La definizione: Tax ruling

Sono accordi che gli Stati stringono con le multinazionali allo scopo dichiarato di rendere più certo il meccanismo di tassazione di chi lavora e fattura in tutto il mondo. Dovrebbero su carta evitare i meccanismi di elusione fiscale attraverso cui le grosse aziende cercano di ridurre la base del loro imponibile. Il sistema, però, funziona solo se c’è la completa trasparenza nelle comunicazioni tra autorità fiscali.

In realtà, la situazione attuale non sembra essere però troppo lontana da quella del 2014. Secondo le ricerche di IrpiMedia, in collaborazione con il Süddeutscher Zeitung, Le Monde, El Mundo e Woxx, con il supporto di Tax Justice Network e The Signals Network, sembrerebbe che esistano ancora metodi per aggirare le nuove regolamentazioni, metodi noti e avallati dalle stesse autorità lussemburghesi.

L’arma fiscale

Il diritto tributario internazionale è forse una delle materie più complesse al mondo, e gli stessi apparati governativi raramente hanno a disposizione le competenze che invece si prestano agli interessi privati. Non è raro infatti che gli stessi studi di tributaristi che fanno consulenza ai governi per definire le regole del gioco, si offrano a prezzi ben più alti alle multinazionali per aiutare ad aggirarle.

Come si potevano portare a zero o quasi le tasse effettive pagate dalle grandi aziende nel Granducato?

Un tax ruling, in generale, è un accordo fra un contribuente e l’autorità fiscale, che permette di sapere in anticipo quanto si pagherà di tasse in base alla “struttura fiscale” presentata. Detto nel più banale dei modi, nella sua accezione positiva consiste in una richiesta, da parte di un contribuente, di avere chiarezza su come il fisco applicherà le leggi su di lui. Ma siccome ogni Paese tassa o meno diversi tipi di flussi di denaro, interessi, derivati o altro, nella prassi il tax ruling è diventato uno dei più efficaci strumenti di elusione fiscale a disposizione delle grandi aziende.

Di fatto le aziende studiano nel dettaglio le differenze fra i sistemi fiscali dei vari Paesi, e spostano tipi diversi di profitti nei Paesi dove questi non sono tassati o sono tassati pochissimo. Per esempio, le succursali A e B di una multinazionale possono decidere di creare una società di comodo C, un’azienda di facciata che funge solo da schermo, in un paradiso fiscale. Questa azienda C chiede un tax ruling al Paese che la ospita per assicurarsi, ad esempio, che i profitti da royalties non siano tassati, o che un certo tipo di interessi vengano considerati come aumenti di capitale e quindi anch’essi esentati da tasse.

A questo punto, facendo in modo di trasferire all’azienda C tutti i tipi di profitti che ci si è assicurati in anticipo non saranno tassati, si può contemporaneamente abbattere l’imponibile nei Paesi dove sono residenti le aziende A e B, e mantenere le proprie imposte nel Paese C a un livello minimo.

Essendo questi accordi, fino a poco tempo fa, segreti, non c’è neanche modo per i Paesi A e B di rendersi conto che stanno subendo un danno fiscale, orchestrato legalmente con la complicità di un altro Stato. Utilizzando i tax ruling in questo modo, il Lussemburgo ha potuto tenersi fuori dalle liste nere e grigie dei paradisi fiscali. Di fatto, l’aliquota d’imposta legale in Lussemburgo è al 26%, ben più alta dei livelli che le aziende finivano effettivamente per pagare.

Anche quando identificati con chiarezza, spesso i problemi sono legati alla limitata giurisdizione di ciascun Paese, circostanza che impedisce di mettere in piedi soluzioni efficaci a meno che non siano largamente condivise a livello globale.

Il fisco, in fondo, è un’altra arma nel gioco delle supremazie globali e viene usato apertamente dagli Stati per ottenere vantaggi sui loro competitor: ogni Paese cerca di attirare più investimenti possibili negoziando vantaggi con i potenziali investitori. Affinché però il sistema sia giusto, le regole del gioco devono essere uguali per tutti. Al contrario, il tema della concorrenza sleale è emerso in modo deciso anche a livello europeo, specialmente rispetto all’Olanda e al suo regime fiscale vantaggioso che ha attirato moltissime aziende, comprese alcune pubbliche o partecipate come Eni ed Enel.

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Contando sulla sempre maggiore libertà dei capitali rispetto agli esseri umani, oggi i nuovi paradisi fiscali continuano a usare la fiscalità come una specie di campagna di marketing turistico per aziende, ma se prima questo gioco avveniva più apertamente, oggi i veri richiami si fanno per passaparola fra soggetti interessati. Come in uno speakeasy, il negozio di alcolici vietati da un Paese proibizionista, tutti gli interessati sanno benissimo dove trovare quello di cui necessitano senza rischi, ma il resto della popolazione raramente si rende conto del perché avvengano certi movimenti.

Come aggirare i tax ruling: le “lettere informative”

Da quando la direttiva europea DAC 3 (Directive Administrative Cooperation, ndr) che obbliga i Paesi a scambiare in modo automatico le informazioni sui tax ruling che effettuano sotto la propria giurisdizione entrata in vigore nel 2016, il numero di “accordi privati” in Lussemburgo è crollato vertiginosamente. Dalle centinaia che se ne facevano nel 2014, agli appena 44 del 2020.

Chi difende i tax ruling si appella alla “certezza fiscale”. Sarebbe cioè un gran sollievo per le aziende poter sapere con certezza e in anticipo quante tasse saranno richieste dallo Stato in cui sono residenti. Ma se davvero questa fosse la ratio dietro il grande interesse verso i tax ruling, e non il potenziale di abuso che contengono, non si spiegherebbe questo netto calo del numero di accordi di questo tipo effettuati nel Granducato da quanto è entrata in vigore la direttiva che obbliga a scambiare le informazioni che contengono.

Non è semplice misurare gli effetti della nuova direttiva in ambito internazionale. Di certo prima dell’introduzione della DAC 3 gli scambi di informazioni fra Stati membri riguardo i tax ruling erano quasi inesistenti: solo 11 nel 2014, contro i 13.182 del 2017. L’Italia dal 2016 ha ricevuto oltre mille comunicazioni riguardo tax ruling stipulati da altri Stati con una potenziale ricaduta sul nostro fisco, di cui l’84% viene da Olanda, Lussemburgo e Belgio. Ancora non ci sono dati però di quante tasse eluse si siano recuperate grazie a questa nuova legge.

Il numero dei nuovi tax ruling accordati ogni anno dal Lussemburgo

Sono escluse le “lettere informative”, i cui dati sono segreti

Lo scambio di informazioni tra Stati membri dell’Unione europea

I dati sono in base all’esistenza di “accordi privati”, i tax ruling

Secondo diverse fonti, tutti attuali o ex impiegati di aziende di consulenza fiscale basate in Lussemburgo, la nuova direttiva rischia di risultare obsoleta prima ancora di entrare pienamente in funzione. Infatti invece di ricorrere a un tax ruling, che è ufficiale e vincolante per le parti, si sarebbe diffusa una via informale per ottenere lo stesso risultato tramite quelle che vengono chiamate information letter. Il termine è generico e rischia anche di essere fuorviante. Parliamo qui di un tipo specifico di “lettera informativa”, in cui l’azienda comunica all’autorità fiscale del Lussemburgo la propria pianificazione fiscale e come intende ridurre la propria base imponibile.

I meccanismi effettivi, i trasferimenti di profitti, le complesse strutture di sussidiarie una dentro l’altra restano le stesse.

Secondo le fonti ascoltate, a seguito di queste lettere a volte si arriva anche a dei colloqui di persona fra i consulenti fiscali che aiutano le aziende a scrivere tali lettere e il fisco del Granducato. Alle lettere e ai colloqui, però, segue un tacito accordo informale: se l’Agenzia delle Entrate non esprime esplicitamente un dissenso alla struttura fiscale presentata nell’information letter, l’azienda può tirare un sospiro di sollievo e considerare l’accordo concluso.

«Queste lettere vengono usate per evitare i tax ruling e soprattutto lo scambio di informazioni obbligatorio che ne consegue», spiega una fonte che conosce il sistema dall’interno. Le sue affermazioni sono state confermate da altre fonti interrogate dai giornalisti di questa collaborazione, che hanno chiesto di restare anonime per timore di ripercussioni.

In teoria, almeno su carta, gli “intermediari” stessi (come gli studi di commercialisti) avrebbero dal luglio 2020 lo stesso obbligo introdotto dal DAC 3. Nel 2018 infatti la direttiva è stata aggiornata ancora e la DAC 6 introduce anche per i fornitori di consulenza finanziaria l’obbligo di informare «le autorità fiscali in merito ad alcuni meccanismi transfrontalieri potenzialmente utilizzabili a fini di pianificazione fiscale aggressiva», si legge negli atti parlamentari di approvazione della legge in Italia.

Peccato però che in molti Paesi, compreso il Lussemburgo, gli avvocati siano stati esentati da questo obbligo, rendendo forse il primo fascicolo ricevuto dalla nostra Agenzia delle Entrate in merito molto più scarno di quanto non dovrebbe essere.

Le repliche

La natura informale di questo tipo di accordo naturalmente lo rende meno affidabile per le aziende rispetto ai tax ruling veri e propri e il Ministero delle Finanze del Lussemburgo nel rispondere alle nostre domande insiste molto su questo punto: «Le lettere inviate dai contribuenti all’amministrazione fiscale non possono essere considerate tax ruling perché tali lettere non sono emesse dall’autorità fiscale e non hanno alcun effetto su di essa». Eppure, secondo le ricerche di questo consorzio, non risultano casi in cui questi accordi silenziosi non siano poi stati onorati dalle autorità lussemburghesi.

Quanto alla condivisione di queste lettere con gli altri Paesi europei, il Ministero del Granducato conferma che resterebbero riservate: «La definizione di tax ruling data dalla direttiva DAC 3 non comprende la corrispondenza fra i contribuenti e l’autorità fiscale».

In realtà, almeno su carta, la Commissione Europea si esprime in modo diverso e la DAC 3 del 2015 dovrebbe coprire ogni tipo di accordo fiscale, «indipendentemente dal carattere vincolante o non vincolante e dalle modalità di emanazione», dice il testo della direttiva. La ragione dell’obbligo di condivisione di queste informazioni non è solo formale. Esiste per permettere agli Stati che vengono defraudati degli introiti fiscali tramite questi accordi di rivalersi e pretendere il pagamento delle tasse eluse.

Le grandi aziende di consulenza fiscale del Lussemburgo non parlano volentieri di questo tema, eppure diversi impiegati di queste stesse aziende dichiarano su Linkedin di avere esperienza specifica nella scrittura delle information letters.

Ma alle domande dirette dei giornalisti le “big 4”, le grandi aziende di consulenza fiscale, si trincerano dietro il silenzio e la confidenzialità del rapporto con i loro clienti: PricewaterhouseCoopers (PwC) e Ernst & Young non hanno risposto, KPMG dichiara che «alla luce degli obblighi di segretezza con i clienti, non possiamo commentare sui servizi offerti o meno» e Deloitte, altrettanto laconicamente, spiega che è «vincolata dal segreto professionale»

LuxLetters è un consorzio di giornalisti che indaga sulle “lettere informative” del Lussemburgo. Ne fanno parte le organizzazioni internazionali Tax Justice Network (che si occupa di giustizia fiscale) e The Signals Network (che protegge gli whistleblower). IrpiMedia è partner insieme a Die Süddeutsche Zeitung (Germania), Le Monde (Francia), El Mundo (Spagna), Woxx (Lussemburgo).

In partnership con: Tax Justice Network, The Signals Network, Die Süddeutsche Zeitung (Germania), Le Monde (Francia), El Mundo (Spagna), Woxx (Lussemburgo) | Infografiche: Lorenzo Bodrero | Editing: Lorenzo Bagnoli | Foto: GukHwa Jang/Unsplash

I “furbetti” di Lussemburgo

#OpenLux

I “furbetti” di Lussemburgo

Lorenzo Bagnoli
Matteo Civillini

C’è una palazzina a nord-ovest della città di Lussemburgo, capitale del Granducato, che unisce varie stagioni e uomini noti del capitalismo d’assalto all’italiana. Dalle scalate dei “furbetti del quartierino”, alle squadre di calcio usate come matrioske per altri affari, passando per finanzieri, consulenti, investitori immobiliari, faccendieri e fiduciari. Nomi, schermati dietro complessi sistemi societari, che si rincorrono da almeno vent’anni tra economie arrembanti e inchieste giudiziarie. Da Roma a Milano, Cagliari, Brescia, La Spezia e Leeds. Comun denominatore: il Granducato.

A stringere ulteriormente il legame tra queste vicende è il nome di un fiduciario poco noto in Italia, ma molto conosciuto in Lussemburgo, Gianluca Ninno, e una serie di società i cui soci sono migrati dallo studio Mossack Fonseca di Panama al Granducato, in coincidenza con i Panama Papers.

La perquisizione negli uffici del Brescia Calcio

Alla vigilia della partita con la Cremonese, il 19 febbraio scorso, la Guardia di Finanza è entrata negli uffici del Brescia Calcio per una perquisizione. La procura bresciana ipotizza i reati di omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi, evasione fiscale, sottrazione di beni al pagamento delle imposte e autoriciclaggio. Gli accertamenti giudiziari «sono riferiti alla mia persona e non alla Società Sportiva», ha scritto il presidente Massimo Cellino per tranquillizzare i tifosi. Una settimana più tardi la procura ha chiesto perfino gli arresti domiciliari per Cellino, la moglie e tre collaboratori del Brescia. Una richiesta per ora rigettata dal gip del Tribunale di Brescia, che ha spinto i pm a presentare ricorso al Riesame.

Ci sono due motivi per cui Massimo Cellino è conosciuto. Il primo è l’amore per il calcio: dal 1992 siede al vertice di una società, prima il Cagliari (città dove è nato), poi il Leeds United in Inghilterra e ora il Brescia. Poi è noto per le vicende giudiziarie che riguardano i suoi rapporti con il fisco. Secondo l’ultima inchiesta, riporta il Giornale di Brescia, Massimo Cellino avrebbe sottratto all’Erario due milioni di euro solo nel corso dell’anno 2020. Gli accertamenti riguardano operazioni cominciate nel 2015. Avrebbe nascosto gli utili delle sue società italiane dentro scatole all’estero, in regimi fiscali agevolati. Il reato si chiama esterovestizione e ha lo scopo di evadere il fisco. La madre delle sue società, rintracciabile grazie al database di OpenLux, ha sede in Lussemburgo. Soci, amministratori e fiduciarie, riconducono di frequente a banchieri e immobiliaristi che nel 2005 sono stati protagonisti della scalata ad Antonveneta. Relazioni che non invecchiano mai, nonostante siano passati 15 anni.

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#OpenLux

#OpenLux è un’inchiesta collaborativa, di cui IrpiMedia è partner, che parte da un database raccolto da Le Monde, reso ricercabile da Occrp sulle 124 mila società che popolano il registro delle imprese lussemburghese. Ha permesso di analizzare i nomi dei proprietari delle società registrate nel Granducato, finora schermati da prestanome e professionisti.

Da rue Schneider al parco di Torbole Casaglia

Limpertsberg è un distretto residenziale a nord-ovest della città di Lussemburgo, capitale del Granducato. Al civico 12 di rue Guillaume Schneider, dentro una palazzina color sabbia, ha sede la prima delle matrioske del sistema Cellino: la Iland Holding sarl. È una Soparfi, ossia una società finanziaria: il suo scopo è amministrare quote di altre società.

Tra queste c’è la Eleonora Immobiliare Spa che a sua volta detiene le quote di una società inglese, Eleonora Sport Limited, proprietaria della Brescia Holding Spa, società a sua volta proprietaria della Brescia Calcio Spa, ossia la squadra. È la matrioska più piccola, l’ultima in fondo alla catena. Arrivato a Brescia con grandi promesse, Cellino ha immediatamente cercato di dare alla squadra una casa degna di un club di serie A, dove il presidente ambisce a tornare (per quanto i risultati, per ora, siano più che deludenti) dopo la retrocessione della stagione 2019-2020. La scelta è ricaduta su un terreno di Torbole Casaglia, paese di 6.500 anime nella bassa bresciana. Solo che il terreno inizialmente doveva essere dedicato a verde pubblico e a un centro sportivo comunale.

Il 30 ottobre 2017 al Comune è pervenuta una manifestazione d’interesse firmata da Massimo Cellino a nome del Brescia Calcio per l’acquisizione dell’area: 86 mila metri quadrati – 75 dei quali del parco – al prezzo di 800 mila euro. Marco Mosca e Antonio Terna, membri del Comitato cittadino No vendita Area 467, spiegano: «Per quanto non attrezzato, lo spazio verde è sempre stato frequentato sia dalle vicine scuole, sia dai cittadini. È un corridoio naturale che collega per altro le due frazioni del paese, Torbole e Casaglia, un tempo staccate». Un bene da tutelare, quindi, dal loro punto di vista. Per impedirne la vendita hanno raccolto 900 firme dei loro concittadini. Non è stato sufficiente: la manifestazione d’interesse è stata accolta dall’amministrazione comunale (eletta a novembre dell’anno precedente) con l’inserimento di una variante nel piano di gestione del territorio.

#OpenLux

Baby-milionari in Lussemburgo

Nonostante siano minorenni, compaiono come titolari effettivi di ricche società. Sono figli di uomini d’affari che hanno conti in sospeso con la giustizia e cercano di nascondersi

Da lì è cominciata una guerra di ricorsi tra Comune e comitato cittadino – insieme a Legambiente – in merito alle procedure di alienazione del parco e ai permessi di costruzione. Battaglia che si è spostata al Consiglio di Stato dopo che, a giugno 2020, il Tar ha contestato una procedura con cui il Comune ha concesso il permesso di costruire, ma ha respinto, in sostanza, le altre richieste del comitato. La sindaca Roberta Sisti è iscritta nel registro degli indagati insieme ad altri membri della giunta. Al Corriere di Brescia ha dichiarato di sentirsi «sorpresa e amareggiata», puntando il dito contro i ricorsi del comitato: «Dal primo giorno in cui la giunta si è insediata, qualcuno ha cercato di gettare fango su di noi. Per mesi siamo stati costretti a difendere la nostra onorabilità da attacchi politici, sfociati in ben sei ricorsi avanti al Tar».

Il bando di vendita del terreno è stato pubblicato a marzo 2018, quando secondo il comitato la variante del piano di gestione del territorio ancora non era stata approvata. Le perizie del comitato dei cittadini avevano valutato il terreno a un prezzo minimo di 2 milioni di euro, ma alla fine la gara è partita da 1,35 milioni di euro. Cellino, unico partecipante, è riuscito ad aggiudicarsi il lotto con un rialzo di 135 euro. Il proprietario del Brescia ha affidato i lavori alla sua Eleonora Immobiliare, la quale a dicembre 2018 è diventata anche la proprietaria di 75 mila degli 86 mila metri quadri terreno.

In pratica, quindi, la controllata Brescia Holding spa ha venduto alla sua controllante Eleonora Immobiliare Spa il terreno. A un prezzo maggiorato, per giunta: 2,5 milioni di euro, quasi il doppio di quanto Cellino non abbia versato al Comune di Torbole Casaglia. Il motivo dell’operazione si legge nell’atto di compravendita: «Svolti i primi investimenti, (Brescia Holding, ndr) ha rappresentato di non essere in grado di portare avanti il Progetto e ha offerto alla nostra Società (Eleonora Immobiliare, ndr) nuovamente l’opportunità di acquisirlo (riferendosi al terreno, ndr) e di portare avanti Essa direttamente il Progetto».

Il salvadanaio finale è sempre lo stesso, la Iland holding lussemburghese, che ha in pancia sia Eleonora Immobiliare – e attraverso di essa – Brescia Holding. Fino al 2018 il nome di Cellino è stato schermato dietro un’ulteriore fiduciaria romana, la Melior Trust srl, che nel 2005 veniva utilizzata anche dal faccendiere Luigi Bisignani.

Lo schermo Melior Trust

Melior Trust Spa di mestiere gestisce aziende in conto terzi. Nel 2005, oltre Cellino, aveva tra i suoi clienti anche il faccendiere Luigi Bisignani. L’esistenza di un mandato a suo nome è nota grazie all’inchiesta P4 (2010) per la quale Bisignani ha patteggiato un anno e sette mesi di reclusione per dieci capi di imputazione, tra cui associazione per delinquere, favoreggiamento, rivelazione di segreto e corruzione. L’organizzazione, sotto la guida di Bisignani e dell’ex parlamentare Alfonso Papa (quota Popolo delle Libertà, con Berlusconi), stava cercando di infiltrare la macchina della pubblica amministrazione allo scopo principale di gestire appalti e nomine.

Proprietario al 50% dell’azienda è Giampiero Tasco, anche lui protagonista degli anni dei furbetti del quartierino e commercialista di fiducia del costruttore romano Francesco Gaetano Caltagirone. L’avvocato Tasco è colui che ha raccolto immobiliaristi intorno a Ricucci e Caltagirone – insieme al politico Vito Bonsignore, quota Silvio Berlusconi, e altri – in quello che all’epoca era stato definito il «contropatto», cioè una cordata di investitori rivali al Banco Bilbao Vizcaya Argentaria (Bbva), Generali e la Dorint di Diego Della Valle che per primi avevano cercato di acquistare la maggioranza della Banca nazionale del lavoro.

I segreti di Daedalus e Bright Global

Iland holding esiste dal 2005. L’anno di nascita non sembra un caso: quell’estate le cronache giudiziarie dei giornali italiani si sono riempite delle vicende legate ai gruppi di interesse che hanno cercato di mettere le mani su Antonveneta e Banca nazionale del lavoro. È la storia dei “furbetti del quartierino”, dal nome che uno dei protagonisti, l’immobiliarista Stefano Ricucci, aveva dato alla compagine degli investitori.

Due tra le società veicolo che ricorrono nell’indagine Antonveneta sono state proprietarie della Iland Holding sarl in Lussemburgo. Ancora oggi non si conosce il beneficiario ultimo delle due casseforti, Bright Global Sa (Isole Vergini Britanniche) e Daedalus Overseas Inc (Panama). All’epoca erano gestite dal noto studio legale Mossack Fonseca, poi travolto dallo scandalo Panama Papers.

Nel 2017, un anno dopo l’uscita dell’inchiesta, al posto di Daedalus e Bright Global sono apparsi Cellino e la moglie in qualità di azionisti. A dicembre 2019 Cellino si è nuovamente inabissato lasciando al suo The Mc Family Trust 1, gestito dalla fiduciaria Hawksford dell’isola di Jersey. Dal registro dei beneficiari ultimi, tuttavia, risultano ancora i nomi di Massimo Cellino, della moglie Francesca Boero e dei figli Eleonora, Ercole ed Edoardo.

Lo scandalo Bancopoli

Tra il 2004 e il 2005 c’è stato molto fermento nel mondo bancario italiano, con gruppi che stavano per passare di mano a istituti di credito estero. In questo clima, un gruppo di immobiliaristi e banchieri italiani ha cercato di ottenere il controllo di Antonveneta e Banca nazionale del lavoro. La procura di Milano ha indagato su queste operazioni finanziarie e sul ruolo avuto da Banca d’Italia, istituzione preposta alla vigilanza del mondo bancario.

Le indagini sulla scalata di Antonveneta della procura di Milano hanno indicato Bright Global e Daedalus come azioniste – ciascuna al 50% – delle quote di White Fairy Holding Sa, società nata nel 2002 per investire nel settore turistico. Dai tempi della fondazione, la società lussemburghese è riconducibile a Gabriele Volpi, il quale fino al febbraio 2021 è stato collega di Cellino in qualità di presidente dello Spezia Calcio. Volpi è un imprenditore che in Nigeria ha fatto una fortuna gestendo i terminal petroliferi e che in Italia mantiene interessi nel settore immobiliare, logistico e della ristorazione.

L’attuale amministratore del Brescia Calcio, Luigi Micheli, ha lavorato allo Spezia e per il gruppo Volpi fino a maggio 2020. Proprio in qualità di ad della squadra spezzina, Micheli è stato rinviato a giudizio nel processo per presunto favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di baby calciatori nigeriani. Tra il 2013 e il 2018 arrivavano in Italia dalla scuola calcio nigeriana di Volpi con la promessa di studi e un programma di inserimento, quando in realtà – secondo quanto ipotizza la procura – lo scopo era evitare che li tesserassero altri, in modo poi da rivenderli già a prezzi milionari.

Secondo quanto scrive la Squadra mobile di La Spezia, l’affare dei calciatori nigeriani ha garantito profitti allo Spezia 6 milioni di euro. A febbraio 2019 Micheli è stato sanzionato dalla Lega Calcio con una sospensione temporanea di otto mesi dai suoi incarichi, notificata a novembre 2019. A luglio di quell’anno lascia la squadra per lavorare con il gruppo Volpi, fino a quando non parte definitivamente per Brescia.

Il tuttofare di Volpi è da anni Gianpiero Fiorani, il Giampy dei “furbetti del quartierino”, il banchiere del Banco Popolare di Lodi che è uno dei perni dell’intera vicenda giudiziaria, grazie all’amicizia con l’allora numero uno di Banca d’Italia, Antonio Fazio (condannato per Antonveneta, assolto invece per Bnl). Fiorani ha patteggiato una pena a tre anni e tre mesi di carcere per associazione a delinquere, truffa all’erario e appropriazione indebita nel 2008. Per l’altro capo d’imputazione, aggiotaggio, ha ricevuto una pena di un anno in appello, nel 2012. Nel caso Antonveneta, White Fairy Holding è stata identificata quale controllante di una società di costruzioni coinvolta nell’indagine e usata da Fiorani per spostare denaro di cui si era appropriato indebitamente.

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Nel 2011 la solita cordata di imprenditori legati a Volpi e Fiorani (insieme all’ex Bankitalia Luigi Grillo, all’epoca esponente del Popolo della Libertà, assolto nell’inchiesta su Antonveneta) ha dato avvio ad un’operazione immobiliare al porto di Santa Margherita ligure, dove oggi il gruppo partecipato da Volpi ha due ristoranti. Proprietaria della società incaricata dei lavori era la Recina Invest Sa, società lussemburghese figlia delle solite Daedalus e Bright Global. Il sistema a matrioska sembra quindi ripetersi.

L’elenco di operazioni dai contorni oscuri in cui finiscono Daedalus e Bright Global, però, va oltre. In alcuni casi, le vicende giudiziarie che le riguardano si sono chiuse con la piena assoluzione dei protagonisti. In altri però le ombre rispetto al loro utilizzo restano.

Alcune vicende giudiziarie che coinvolgono la Daedalus e la Bright Global si sono chiuse con la piena assoluzione dei protagonisti, ma in altre permangono molte ombre

Dicembre 2006: al solito modo “50 e 50” Daedalus e Bright Global hanno creato in Lussemburgo la società Allbest sa. La prima operazione compiuta dal veicolo è stata l’acquisizione del 2,95% dell’Ilva di Taranto, all’epoca saldamente nelle mani della famiglia Riva. La quota era appartenuta in precedenza alla famiglia Amenduni, in netto contrasto con gli azionisti di maggioranza in quella fase della storia. L’acquisto è stato reso possibile dalle Assicurazioni Generali che avevano sottoscritto un bond con Allbest da 180 milioni di euro per la quota azionaria. Del bond si continua ad avere traccia anche nell’ultimo bilancio disponibile, quello del 2019. I nomi dei beneficiari, però, restano avvolti nel mistero ancora oggi. Anche questa vicenda, per altro, ha innescato un’inchiesta giudiziaria sulle Generali.

In solitaria, Daedalus è finita anche nel procedimento che riguarda alcuni veicoli lussemburghesi gestiti dall’ereditiera romana Angiola Armellini, ex compagna di Bruno Tabacci, appena nominato sottosegretario alla presidenza del Consiglio dal governo di Mario Draghi. Daedalus ne era la controllante. Nelle cronache dei giornali – siamo nel 2014 – Armellini era “Lady 1.200 case”, per il numero di immobili su cui non avrebbe pagato le tasse (2 miliardi di euro) secondo la Finanza. La vicenda si è poi chiusa con un accordo con il Fisco per 50 milioni.

L’amministratore Gianluca Ninno

Se i nomi degli azionisti restano un segreto fino al 2017, l’identità degli amministratori di Iland Holding sa è chiara fin dall’inizio. Si tratta di fiduciari italiani di nascita trapiantati da decenni in Lussemburgo.

Il più importante è Gianluca Ninno, numero uno della FGS Consulting, una fiduciaria con sede sia in Lussemburgo (sarl) sia a Las Vegas (llc) di discreto successo. Diverse decine di italiani si sono rivolti a loro per aprire società con sede nel Granducato, la cui unica attività è quella di holding di aziende che operano in Italia. Da qualche anno sembra meno presente: anche alla Iland Holding il suo posto è stato preso dalla sorella Angela Ninno, con la quale ha diverse società in Lussemburgo. Secondo Angela, Gianluca Ninno non fa nemmeno più il fiduciario. Rintracciarlo è difficile: «Penso che in molti abbiano problemi con lui, ormai», commenta da Lussemburgo la dipendente di una vecchia società contabile con la quale ha una causa in corso. «Era lui a tenere i rapporti», spiega un altro ex socio, che ha tagliato i ponti nel 2013, senza voler più sapere nulla di Ninno.

Per un lungo periodo, però, Ninno sembrava godere di fiducia quasi incondizionata. Nell’aprile 2016, il fiduciario di Cellino è stato indicato come beneficiario ultimo della Eleonora Sports Ltd, veicolo che ha controllato prima il Leeds United e ora controlla il Brescia Calcio. È sempre stata la matrioska di mezzo tra il club calcistico e la Eleonora Immobiliare in Italia.

Dall’Eni alla Lega, le società di Michele Scillieri, la fiduciaria con Gianluca Di Nardo

Da Ninno passa poi un’altra società lussemburghese che collega scandali del passato – e il mondo di Danilo Coppola – con scandali del presente. Si tratta della Européenne d’Investissement, amministrata dai fiduciari italiani dal 2010 e il cui beneficiario ultimo risulta essere Silvia Necci, ex compagna di Coppola.

I bilanci riportano come la società avesse debiti per diversi milioni di euro nei confronti di aziende del Gruppo Coppola, mentre vantava crediti nei confronti di Dacop, Sunrise 14, Seasi, Taurus Prima, 68 Galtier Prima. In Seasi e Dacop, a partire dal 16 gennaio 2018, l’amministratore è Michele Scillieri, il commercialista coinvolto nell’affare Lombardia Film Commission. È tra le piste al vaglio degli inquirenti che cercano i soldi della Lega in Lussemburgo.

Uno dei suoi soci storici è Natale Capula, altro italiano da lungo tempo trasferitosi in Lussemburgo. «Non ho più rapporti con lui da quando mi ha licenziato, nel 2015», ricorda. Non lo sente più da allora. Eppure, nelle visure camerali lussemburghesi il suo nome compare nella galassia gestita da Ninno fino al 2017. Nel 2016, inoltre, è nominato direttore di Foxworth Finance, fiduciaria nota alla procura di Milano. Prima dell’arrivo di Capula, infatti, è stata coinvolta nella presunta maxitangente di Eni e Shell in Nigeria, il caso Opl 245 su cui il Tribunale di Milano dovrà esprimersi in una prossima sentenza. «Non la ricordo», confessa sempre Capula.

Proprietario della società è Gianluca Di Nardo, condannato in primo grado in rito abbreviato quale presunto intermediario della corruzione nigeriana, insieme al nigeriano Emeka Obi, per qualche tempo negoziatore anche per Eni nella trattativa per la licenza petrolifera. Le conversazioni tra Di Nardo e l’amico e sponsor Luigi Bisignani sono intercettate già nel corso dell’inchiesta P4. A ulteriore chiusura del cerchio, secondo gli interrogatori dell’accusatore e imputato Vincenzo Armanna, nell’estate del 2010 Luigi Bisignani gli aveva raccontato di voler andare in Nigeria per fare affari proprio con Gabriele Volpi.

Il momento storico in cui Ninno è diventato – sulla carta – socio di maggioranza della Eleonora Sports non è casuale. Cellino era infatti alle prese con la Federcalcio inglese. A dicembre 2016 l’imprenditore è stato squalificato per 18 mesi – con sanzione da 250 mila euro – per aver violato le normative sugli agenti durante il trasferimento di un calciatore. Il provvedimento è stato solo l’ultimo di una serie di contrasti cominciati con l’acquisto della squadra.

Alla fine, a maggio 2017, Cellino ha ceduto la proprietà del Leeds United ad Andrea Radrizzani – dominus dei diritti TV e attuale patron del club – e poi ha acquistato il Brescia Calcio, tornando in Italia dopo tre anni all’estero. A rilevare le quote delle Rondinelle è stata sempre la Eleonora Sports Ltd, il cui beneficiario ultimo risulta in quel momento essere ancora Gianluca Ninno. Solamente tre mesi più tardi il nome del fiduciario di stanza in Lussemburgo viene cancellato dal registro imprese britannico, senza essere rimpiazzato.

Oltre che per Cellino, Gianluca Ninno ha ricoperto il ruolo di fiduciario anche per Danilo Coppola, immobiliarista caduto in disgrazia che ci riporta nel bel mezzo dell’indagine dei “furbetti del quartierino”. Anche lui protagonista delle tentate scalate ad Antonveneta e BNL e all’epoca lautamente finanziato, senza che gli venisse chiesta alcuna garanzia in cambio, dal Banco popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani. Alla fine, la Porta Vittoria spa è finita in bancarotta e Coppola è stato condannato a sette anni di carcere in appello poco più di un anno fa. L’imprenditore avrebbe dovuto riqualificare l’omonimo quartiere milanese, ma nel 2016 ha fatto un buco di 400 milioni di euro nel bilancio. Soldi che – secondo gli inquirenti – sarebbero stati distratti dal Gruppo Coppola per poi venire dirottati in una fitta rete di società in Lussemburgo.

In molte di esse compare il nome di Gianluca Ninno. Era il fiduciario lucano, infatti, ad amministrare Porta Vittoria Spa al momento del crack attraverso un veicolo lussemburghese, Estrella 27, costituito nel 2014 insieme alla ex moglie di Coppola, Silvia Necci. Un ultimo (fallito) tentativo di ripianare i debiti dell’impresa immobiliare con l’iniezione di nuovo capitale. Ancora prima era sempre stato Ninno a tenere le redini della Tikal Prima, altra holding lussemburghese che nel 2011 aveva assorbito gli affari dell’immobiliarista romano dopo la liquidazione della precedente capogruppo. Un continuo passaggio di proprietà, da una mano all’altra dello stesso soggetto, che alla fine non ha frenato il dissesto finanziario.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Matteo Civillini

In collaborazione con

Editing

Luca Rinaldi

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Come la ‘ndrangheta è arrivata in Lussemburgo

#OpenLux

Come la ‘ndrangheta è arrivata in Lussemburgo

Cecilia Anesi
Giulio Rubino
Jérémie Baruch
Luc Caregari

Quando lo hanno arrestato il 9 agosto del 2019 in un bistrot nel cuore di Differdange, nel sud-ovest del Lussemburgo, Santo Rumbo deve essere rimasto sorpreso. Giovane promessa della ‘ndrangheta, il trentaduenne originario di Siderno si comportava come un piccolo ristoratore qualsiasi, mantenendo un basso profilo. Non sembrava immaginare che la polizia lo avrebbe arrestato proprio nel Granducato. Lì, credeva di passare inosservato – protetto dalla massiccia presenza di emigrati italiani e dalla discrezione tipica del Lussemburgo.

Ma si sbagliava. La Squadra mobile di Reggio Calabria, coordinata dal Servizio centrale operativo e dalla Direzione distrettuale antimafia, non lo perdeva d’occhio da quando, rientrato dal Canada in Calabria si era poi stabilito in Lussemburgo.

«Sapevamo che stesse vivendo in Lussemburgo grazie ad una serie di prove diverse – ha spiegato a IrpiMedia un inquirente che ha guidato l’operazione “Canadian Connection 2” contro la ‘ndrangheta di Siderno in Canada. «Alcuni indagati che stavamo intercettando ne parlavano, svelando che era in Lussemburgo, ma non abbiamo mai avuto occasione di indagare cosa stesse facendo lì».

«Stavamo analizzando la struttura canadese del Siderno Group of Crime – spiega un’altra fonte investigativa -, ed è in quel contesto che è emerso Rumbo, non solo in quanto figlio di Riccardo Rumbo (oggi al 41-bis) ma come giovane boss, con una dote molto alta nella gerarchia mafiosa».

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Il Siderno Group of Crime

La ‘ndrangheta di Siderno da oltre trent’anni ha costruito una roccaforte in Canada, dove la chiamano Siderno Group of Crime. Così una piccola cittadina della costa ionica si è trasformata in una capitale internazionale del crimine, da cui dipendono locali (unità territoriali della ‘ndrangheta) in mezzo mondo e da cui partono costantemente delegazioni per coordinare, in un unica regia, lo sforzo espansivo e commerciale della potente cosca Commisso che ne siede alla guida. E che ne tira le fila riguardo la principale attività: il narcotraffico.

È infatti grazie ai soldi della cocaina che i sidernesi sono diventati tanto ricchi e potenti. Nel 2015, l’indagine Acero Krupy aveva scoperto una strategica base per il narcotraffico internazionale gestita dalla cosca Commisso in Olanda, all’interno del mercato dei fiori. La scusa perfetta per importare tonnellate cocaina (e rose) dalla Colombia.

Ma mentre il processo per abbreviato si è concluso a giugno 2020 con 27 condanne ridimensionate e 10 assoluzioni, i poliziotti della Squadra Mobile non hanno mai smesso di indagare in questi anni. Scoprendo così che in Canada il clan era più attivo che mai, addirittura in grado di iniziare a doti di altissimo livello rampolli di Siderno. Un’evidenza che suggerisce come, nell’adattarsi dopo gli arresti di Acero Krupy, alcune delle più delicate operazioni di ‘ndrangheta fossero state spostate all’estero per tenerle “protette”.

Infatti, come emerge da un’intercettazione, in Canada Santo Rumbo sarebbe stato investito di una dote appena sopra a quella del “Vangelo”, quindi la dote del “Trequartino”, al di sopra della quale ci sono solo altre due doti, il “Quartino” e “Padrino”.

Se confermata, questa informazione significherebbe che Santo Rumbo, nonostante la giovane età, siederebbe tra le più alte sfere del potere ‘ndranghetista, lo stesso gruppo di persone che governano la “Provincia”, ovvero l’istituzione che guida l’intera ‘ndrangheta. Il processo è appena iniziato. Santo Rumbo, assieme ad altri 19 imputati, ha ottenuto il giudizio abbreviato. Per il momento, fa sapere il suo legale, Giuseppe Calderazzo del foro di Locri, non è detenuto in carcere poiché «il Tribunale della libertà di Reggio Calabria ha annullato l’ordine di carcerazione per mancanza di indizi di colpevolezza».

Dall’indagine “Canadian Connection” emerge però come Santo Rumbo sia percepito dalla ‘ndrangheta di Siderno, incluso il gruppo canadese, come espressione del padre Riccardo – condannato in via definitiva per mafia – e rappresentante quindi della ‘ndrina Rumbo-Galea-Figliomeni.

#OpenLux

#OpenLux è un’inchiesta collaborativa, di cui IrpiMedia è partner, che parte da un database raccolto da Le Monde, reso ricercabile da Occrp sulle 124 mila società che popolano il registro delle imprese lussemburghese. Ha permesso di analizzare i nomi dei proprietari delle società registrate nel Granducato, finora schermati da prestanome e professionisti.

Rumbo si era già dimostrato un’abile spalla per il padre in passato, quando aveva gestito un’attività illecita di prestiti finanziari a Siderno. Assolto dall’accusa di mafia, è però stato condannato per attività creditizia illecita nel 2016.

È per la sua intraprendenza, che gli inquirenti ritengono preoccupante il suo stabilirsi in Lussemburgo, uno dei “buchi neri” della finanza mondiale. «Come cittadino europeo – risponde il legale di Rumbo – ha il diritto di stabilire la propria residenza in qualunque paese della comunità senza avere necessità di ragioni specifiche. In realtà – conclude Calderazzo – ha scelto il Lussemburgo per allontanarsi dalla terra che tanta sofferenza e problemi gli ha arrecato in ragione di quelli che fin qui si sono dimostrati tutti pregiudizi infondati».

La ‘ndrangheta in Lussemburgo

Quando si tratta di allertare le controparti straniere rispetto alla minaccia posta dalla silenziosa infiltrazione della ‘ndrangheta, le procure calabresi sostengono di trovarsi spesso in difficoltà, specialmente con Paesi che da un lato non conoscono il danno sociale della criminalità organizzata, e da un’altra hanno una tradizione di forte protezione del capitale privato, come l’intera zona del Benelux.

#OpenLux

Baby-milionari in Lussemburgo

Nonostante siano minorenni, compaiono come titolari effettivi di ricche società. Sono figli di uomini d’affari che hanno conti in sospeso con la giustizia e cercano di nascondersi

«La ‘ndrangheta – spiega il procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo – guarda al Lussemburgo con interesse per investire e riciclare capitali proprio per la presenza, in quello Stato, di sistemi finanziari e “casseforti” discrete molto appetibili per chi ha necessità di occultare provviste illecite e fondi neri».

«In Lussemburgo – conclude Lombardo – è stata riscontrata l’operatività di soggetti di ‘ndrangheta non catalogabili in modo agevole, proprio per la presenza di rapporti molto risalenti nel tempo. In altre occasioni sono emersi riferimenti a persone legate da vincoli di parentela con soggetti che avevano operato in quei territori in periodi in cui l’attenzione investigativa non era particolarmente alta, soprattutto in tema di analisi dei flussi finanziari, o non era stata ancora avviata l’azione investigativa orientata a ricostruire tutte le proiezioni estere della ‘ndrangheta».

La migrazione di cittadini calabresi in Lussemburgo è iniziata infatti già nel diciannovesimo secolo, quando la zona sud-ovest chiamata Minett – e in particolare la città di Differdange – divenne un polo fondamentale per l’industria dell’acciaio. Come molti altri Paesi nel boom dell’industrializzazione, Germania, Stati Uniti, Canada, Australia, anche il Lussemburgo ha attratto una massiccia migrazione di lavoratori dalle zone più rurali del Sud Italia.

Federico Varese, professore di criminologia all’università di Oxford, spiega come la ‘ndrangheta si muova seguendo una migrazione a catena, lasciando che prima si instaurino in un luogo un numero di membri della famiglia, per poi farli raggiungere da altri. Questo, secondo Varese, è una delle chiavi del successo per questa mafia. «La ‘ndrangheta – spiega Varese – riesce a essere molto più presente a livello internazionale rispetto alle altre mafie italiane anche grazie al fatto che tra loro gli affiliati sono tutti parenti».

«Il Lussemburgo non è tipicamente al centro di indagini antimafia, ma da indagini sui Paesi confinanti (Germania, Belgio e Olanda) emerge come territorio di transito sia per gli individui mafiosi in sé, sia per le loro attività e soldi», spiega a IrpiMedia Anna Sergi, professoressa e ricercatrice all’università di Essex e una dei maggiori esperti del fenomeno di internazionalizzazione della ‘ndrangheta.

L’alleanza tra Mammola e Siderno nel Minett

L’analisi della rete di persone che circondano Santo Rumbo in Minett sembra confermare l’importanza del Lussemburgo non solo come paese di transito, ma come vera e propria base per gli affari della ‘ndrangheta moderna – non certo quella coppola e lupara dei sequestri, ma quella in giacca e cravatta che parla francese e inglese fluentemente. Capace di sedersi tanto al tavolo delle trattative per i container di cocaina a Rotterdam, quanto al cospetto di una rispettabile istituzione bancaria o presente agli eventi delle ambasciate. Una ‘ndrangheta camaleontica, invisibile, strategicamente posizionata sulla triplice frontiera tra Belgio, Francia e Lussemburgo.

È infatti dalle cittadine di Differdange e Niederkorn che la ‘ndrangheta di Siderno può gestire indisturbata le sue operazioni nel cuore d’Europa, appoggiandosi ai primi arrivati fra i loro alleati in Lussemburgo, i clan di Mammola.

«Storicamente – spiega Sergi – mentre il Siderno Group of Crime stava sfruttando le opportunità date dalla loro presenza in Canada e in Australia, i clan di Mammola avevano le entrature giuste per colonizzare il Benelux grazie a relazioni personali e familiari già presenti nell’area.

E, come hanno svelato indagini come la nota “Crimine”, i clan di Mammola sono sempre stati parte della ‘ndrangheta di Siderno, dalle cui gerarchie hanno preso ordini e direzioni.

Analizzando i beneficiari effettivi delle società lussemburghesi, il progetto #OpenLux ha notato come una fetta di queste siano state aperte da persone del sidernese, principalmente da una rete di giovani imprenditori di Mammola – un paese di 2mila abitanti arroccato ai piedi dell’Aspromonte con lo sguardo al Mar Jonio.

Giovani imprenditori

Tra questi, spicca un gruppo di venticinquenni che hanno registrato due aziende di ristorazione poi passate nelle mani di due figli di boss, uno di Mammola e uno di Siderno. Nel caso di Rumbo, l’azienda in questione si chiama I Bronzi Sarl, aperta da due fratelli mammolesi nel 2014 con 12.500 euro di capitale sociale.

La prima attività de I Bronzi è una yogurteria, Happy Yogo, nel centro storico di Differdange. Una vetrina su una delle vie principali, tra storici palazzi nel tipico stile architettonico di quelle zone, tra mattoni rossi e cornicioni grigi a disegnarne le ombre. Ma la yogurteria ha avuto vita breve e l’azienda è stata dichiarata “dormiente”, cioè senza nessun movimento finanziario, nel 2015. Poi, a gennaio 2019 è stata rilevata da un giovane sidernese che ha nominato Santo Rumbo e un venticinquenne di Siderno amministratori.

I ristoranti Happy Yogo e Diff K’Fé nella città di Differdange in Lussemburgo – Foto: Facebook

A marzo 2019 i tre hanno inaugurato la nuova gestione di un bar sport a quattro minuti di auto dal centro, il Diff K’Fé Bar, trasferendoci anche la sede sociale de I Bronzi.

I bilanci depositati da quest’ultima danno solo informazioni sullo stato patrimoniale della società, evitando per altro di spiegare la ragione delle perdite (88.000 euro nel 2019), e non danno un quadro del conto economico. Il Lussemburgo infatti, come accade in generale nei regimi forfettari, non richiede che un’azienda di questa taglia dichiari i profitti o si sottoponga ad un auditing regolare. Non vi è, in breve, l’obbligo di avere un professionista che controlli i bilanci.

È quindi impossibile sapere quanti soldi ha realmente gestito l’azienda in questi anni. Stando alle dichiarazioni però, dal 2015 l’azienda è “dormiente” e il flusso economico si è completamente fermato nel 2017 e nel 2018, per ripartire nel 2019. Anno in cui Santo Rumbo ne ha preso le redini come amministratore per gestire il Diff K’Fé Bar. OpenLux ha chiesto lumi all’avvocato di Santo Rumbo in merito: «Rumbo – spiega il legale – è un mero dipendente e pertanto non aveva nè titolo nè ragioni di compartecipazione alle vicende economiche dell’azienda». Strano che un amministratore di un’azienda non abbia idea delle vicende economiche che la riguardano.

Una gestione ancora più anomala si incontra nel caso di un’altra azienda, la SAA Sarl, aperta dall’ex amministratore e proprietario mammolese dei I Bronzi con 1.000 euro di capitale sociale. Registrata nel giugno del 2019 la SAA avvia un ristorante il “Romeo & Giulietta” posizionato proprio alle spalle della ex yogurteria de I Bronzi. L’attività ha però vita breve e ad agosto 2020 abbassa le serrande.

Balletti societari

Ma la gestione a lungo termine di queste attività di ristorazione non sembra essere l’obiettivo principale di questi imprenditori. Infatti come nel caso de I Bronzi, anche stavolta il giovane mammolese apre la società (questa volta con altri tre coetanei) SAA SARL-S, proprietaria appunto del ristorante “Romeo & Giulietta”, per uscirne solo dieci mesi dopo. Resta come unico socio e amministratore un altro soggetto cresciuto in un contesto di ‘ndrangheta: Salvatore Scali.

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Salvatore è figlio di Rodolfo Scali, ritenuto capo locale di Mammola e per questo condannato nel processo scaturito dall’inchiesta Crimine del 2010. Secondo l’indagine Minotauro della Dda di Torino, Rodolfo Scali non solo è il capo-locale di Mammola ma anche responsabile per l’assegnazione delle doti nella locale (cellula strutturata di ‘ndrangheta) di Cuorgnè, in Piemonte. Scali, in libertà dal 2016, è stato tratteggiato nell’inchiesta Crimine come un boss di peso, uno dei pochi in cui aveva fiducia Giuseppe Commisso alias U Mastru, capo dell’omonima ‘ndrina di Siderno e dell’intera Provincia all’epoca. Diverse fonti di polizia concordano sul fatto che Rodolfo Scali continui ad essere il capo locale a Mammola, e che risponda alla ‘ndrangheta di Siderno.

Nell’ambito di recenti indagini antidroga, gli inquirenti hanno notato diversi viaggi che Rodolfo Scali e suo figlio Salvatore avrebbero fatto dalla Calabria a Charleroi, città del Belgio vicino a Bruxelles, e dove avrebbero incontrato due fratelli di Mammola da tempo espatriati e titolari di attività di commercializzazione e import-export di cibo italiano. Sarebbero lo stesso nucleo che nel 2005 avrebbe facilitato in quella zona la latitanza dei due omonimi cugini Bruno Giorgi, di San Luca, ricercati per narcotraffico internazionale, i quali lavoravano con un altro trafficante arrestato in Belgio, Sebastiano Signati.

Mentre Scali jr non è mai stato indagato per mafia, gli inquirenti non ritengono sorprendente la sua presenza in Lussemburgo, in un circuito di persone appartenenti a famiglie mammolesi alleate degli Scali e in contatto con Rumbo.

È evidente dalla lettura dei documenti depositati presso la camera di Commercio del Lussemburgo, che sia Rumbo sia Scali si siano appoggiati allo stesso giro di giovani mammolesi per avere accesso ad aziende con cui aprire ristoranti. Nel caso di Rumbo, le redini sono state condivise con due giovani sidernesi, come dimostrano le carte ma anche le foto dell’inaugurazione del Diff K’Fé Bar pubblicate su Facebook.

A stappare una bottiglia di spumante con Rumbo, ci sono i due soci. Non direttamente connessi alla ‘ndrangheta, ma comunque con un profilo notevole.

Per approfondire

Perché i criminali scelgono il Lussemburgo

Il Granducato è la casa di tutti: attori, cantanti, miliardari, sportivi, politici, multinazionali. Anche i criminali però, tra segretezza e fiscalità favorevole, lo hanno scelto

Uno di loro è il diretto nipote di Tito Figliomeni, alleato di Riccardo Rumbo (padre di Santo) come ha dimostrato l’indagine Recupero-Bene Comune del 2010 che ha portato alla condanna per mafia di entrambi. Tito riuscì a scappare in Canada dove aveva potuto sfruttare la parentela con i Figliomeni canadesi. Viene arrestato ed estradato nel 2018.

L’altro è noto all’intelligence europea come narcotrafficante attivo in Nord Europa. Il 24 febbraio 2006 era stato arrestato in Francia, a Saint Melaine, con un carico di anfetamine.

La comunità migrante italiana nel mirino delle cosche

Nascere in un contesto criminale non significa necessariamente crescere criminali. Anna Sergi sottolinea come la comunità mammolese presente nel sud-ovest del Lussemburgo rischi però di diventare essa stessa un obiettivo della criminalità organizzata. «Mammola – spiega Sergi – è un paese minuscolo che non offre molte opportunità ai giovani, e perciò diventa fin troppo facile che i ragazzi vengano illusi dall’allettante possibilità di trasferirsi all’estero e aprire attività commerciali per e grazie alla ‘ndrangheta e ai suoi soldi e contatti».

I ristoranti e i bar che OpenLux ha identificato a Differdange sembrano cadere esattamente all’interno di questo contesto. Giovani che non sono necessariamente parte della criminalità organizzata caduti vittima della fascinazione di una vita facile dando la disponibilità a colonizzare nuovi territori con attività che sono, di fatto, una copertura per altro.

Analizzando il registro dei beneficiari effettivi OpenLux ha identificato una rete di 17 famiglie di Mammola – per lo più tutti ristoratori nel Minette. Molti di loro hanno ristoranti vicini, sono residenti nelle stesse vie e sono tutti in tutti “amici” sui social network. Alcuni di questi ristoranti presentano dei chiari riferimenti folkloristici alla mafia: tra grembiuli con il Padrino e poster di Scarface sui muri.

Una stranezza che accomuna buona parte di queste attività dalla vita breve. Ristoranti che, a giudicare dalle fotografie delle inaugurazioni, erano stati aperti con investimenti significativi e con cura minuziosa chiudono dopo pochi anni, a volte dopo pochi mesi, eppure i soggetti che li avevano aperti trovano prontamente i capitali per aprirne di nuovi.

Secondo gli inquirenti che hanno arrestato Rumbo, la stranezza di vedere società con una prima iniezione di capitale derivante dalla Calabria, che aprono un ristorante, e poi poco tempo dopo lo chiudono e ne aprono un altro, potrebbe essere sintomo di una precisa strategia che la ‘ndrangheta ha utilizzato in altri contesti – per esempio nella vicina Germania – per riciclare fondi illeciti.

Il progetto OpenLux sta mettendo molta pressione sulle autorità del Granducato. In una conferenza dei giorni scorsi il governo ha ribadito che il Paese è «sotto attacco da parte di un gruppo di giornalisti guidati dalla gelosia causata dalle economie dei loro Paesi».

Per confermarlo però, servirebbero indagini approfondite, difficili da portare avanti in rogatoria con un Paese, il Lussemburgo, che della segretezza bancaria e fiscale ha fatto la sua caratteristica principale.

Secondo il Financial Secrecy Index (indice di segretezza finanziaria) elaborato da Tax Justice Network, tra i vari problemi del Lussemburgo dal punto della trasparenza fiscale vi è anche l’assenza di dialogo tra le banche private e la locale Camera di Commercio. Nelle opache banche private del Paese ci sono oltre 350 miliardi di euro, e l’accessibilità a questo sistema bancario è la vera attrattiva del Granducato. Non è quindi il ristorante in sé il vero obiettivo per i clan, quanto invece la possibilità, tramite la costituzione di una piccola società di ristorazione in Lussemburgo, di aprire un conto bancario nel Paese.

L’analisi dei documenti ottenuti da OpenLux e la presenza di alcuni soggetti legati alla ‘ndrangheta nel Minett rappresenta solo un primo passo all’interno di un’enorme nuova frontiera investigativa. Emerge dai dati analizzati come sia almeno dal 1996 che soggetti legati a famiglie di Siderno e Mammola registrano imprese in Lussemburgo, mentre sono oltre vent’anni che le procure antimafia perdono traccia di capitali, attività e interi rami di famiglie mafiose nel momento in cui approdano nel Granducato.

Nel caso specifico della ‘ndrina Rumbo-Figliomeni, il progetto OpenLux ha riscontrato la presenza di un soggetto sospettato di gestire imprese immobiliari per la ‘ndrina tra gli anni 2002 e 2009 e che proprio nel 2008 ha aperto anche nel Granducato una immobiliare assieme a due ristoratori di Mammola oggi famosi nel Minett.

Il progetto OpenLux sta mettendo molta pressione sulle autorità del Granducato. In una conferenza dei giorni scorsi il governo ha ribadito che il Paese è «sotto attacco da parte di un gruppo di giornalisti guidati dalla gelosia causata dalle economie dei loro Paesi». Al contrario l’auspicio di OpenLux è quello di portare verso una mappatura reale della penetrazione criminale nel Lussemburgo, sollecitando alla collaborazione gli organismi investigativi dei rispettivi Paesi.

Processo “Canadian 'ndrangheta”, i primi verdetti

Nel filone con rito abbreviato nell’ambito del processo scaturito dagli arresti dell’operazione “Canadian ‘ndrangheta” sono stati condannati lo scorso 3 marzo otto imputati. É stato invece assolto «perché il fatto non sussiste» Santo Rumbo, difeso dall’avvocato Giuseppe Calderazzo, e arrestato in Lussemburgo nell’agosto del 2019. La sentenza verrà depositata in novanta giorni. Allora la procura deciderà se fare ricorso contro l’assoluzione di Rumbo.

Ultimo aggiornamento 4 marzo 2021

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Giulio Rubino
Jérémie Baruch (Le Monde)
Luc Caregari (WOXX)

In partnership con

Le Monde
WOXX

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Lorenzo Bodrero

Editing

Giulio Rubino

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La rete dei “prestanome di Stato” russi che investe in Italia via Lussemburgo

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La rete dei “prestanome di Stato” russi che investe in Italia via Lussemburgo

Lorenzo Bagnoli

Forum economico di San Pietroburgo, 24 maggio 2014. Sotto lo sguardo di Vladimir Putin, l’amministratore delegato di Pirelli Marco Tronchetti Provera e il numero uno di Rosneft (compagnia petrolifera russa controllata in maggioranza dal governo) Igor Sechin siglano dei contratti di collaborazione commerciale. A latere Rosneft, attraverso una sua società, acquista una quota che corrisponde alla fine al 13% delle azioni della multinazionale italiana. Costo dell’operazione: 552,7 milioni di euro. Sechin entra come amministratore indipendente nel consiglio di amministrazione di Pirelli (dove resterà fino al 2016). Per quanto l’operazione sia stata portata a termine attraverso un veicolo d’investimento controllato dal fondo pensione della stessa Rosneft (ai tempi Neftegarant, oggi Evolution), quell’operazione segna l’ingresso della compagnia petrolifera di Stato russa dentro Pirelli.

Accordi come questo, quando coinvolgono le aziende di Stato russe, non hanno mai una natura solo economica. Si portano sempre dietro una componente politica. Avvengono sempre nel contesto del più importante meeting dell’economia russa, appuntamento durante il quale il governo di Mosca pianifica la sua strategia economica. Anche la collaborazione con Pirelli e l’ingresso nella compagine azionaria, quindi, non è solo una questione di potenziali profitti.

Di anno in anno il sistema di controllo delle quote riconducibile agli investitori russi in Pirelli è diventato sempre più articolato. Eppure la compagnia petrolifera di Stato c’è sempre. La rappresenta una rete di “prestanome di Stato”, uomini e donne legate a Igor Sechin, il più potente tra i manager di Stato russi, da sempre stretto alleato del presidente Vladimir Putin. Una rete che IrpiMedia ha potuto ricostruire grazie ai documenti di #OpenLux.

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#OpenLux è un’inchiesta collaborativa, di cui IrpiMedia è partner, che parte da un database raccolto da Le Monde, reso ricercabile da Occrp sulle 124 mila società che popolano il registro delle imprese lussemburghese. Ha permesso di analizzare i nomi dei proprietari delle società registrate nel Granducato, finora schermati da prestanome e professionisti.

Come cambia l’assetto societario di Pirelli

Il periodo in cui l’operazione viene portata a termine rappresenta un momento storico particolare: siamo nel maggio del 2014 e due mesi prima il Cremlino ha dato il via all’occupazione della Crimea. Così a soli trenta giorni di distanza dall’accordo con Pirelli arrivano le sanzioni statunitensi ed europee che colpiscono anche Rosneft.

Per Pirelli non è però un problema: secondo la società le sanzioni non porteranno ad alcuna conseguenza, nè per l’ingresso di Rosneft, nè per il piano di espansione della stessa Pirelli in Russia. Sta di fatto che l’ingresso della società petrolifera in Pirelli non è passato dalla Russia ma da una società lussemburghese scelta dal colosso petrolifero: Long Term Investments Luxembourg.

Commercialisti e fiduciari sono due italiani e lo scopo della società si esaurisce nella detenzione delle quote di Pirelli che d’altra in quel momento sta vivendo una fase complessa della sua storia. Pesa la rottura fra Tronchetti Provera e la famiglia Malacalza, che avevano affiancato solo pochi anni prima l’imprenditore nel controllo del gruppo. Nel 2015 poi l’assetto azionario troverà una nuova stabilità con l’ingresso dei cinesi di ChemChina.

Ad ogni modo che la partecipazione della compagnia petrolifera sia opaca lo conferma il fatto che Rosneft sostenga di non aver mai acquisito le azioni di Pirelli e di essere solo partner commerciale nella vendita al dettaglio dei pneumatici. Così ha scritto in una nota in risposta a Forbes Russia, che chiedeva conto delle relazioni con Pirelli.

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Nonostante siano minorenni, compaiono come titolari effettivi di ricche società. Sono figli di uomini d’affari che hanno conti in sospeso con la giustizia e cercano di nascondersi

Negli ultimi sette anni gli equilibri nel portafoglio azionario di Pirelli sono cambiati molto. I soci stranieri di maggior rilievo, oggi, sono i cinesi di ChemChina, entrati appena un anno dopo Rosneft. La quota riconducibile agli investitori russi è scesa al 6.2%, di cui solo l’1.82% direttamente in mano alla ex Long Term Investments Luxembourg, che nel frattempo ha cambiato nome in Tacticum Investments Sa. Il restante 4,3% è investito sul mercato, con l’impegno di riacquisto da parte di Tacticum Investments Sa.

Sudarikov, il manager di Stato di stanza a Verona

Long Term Investment in origine nasce a Mosca, lo stesso anno dell’accordo Pirelli-Rosneft. La proprietaria è un’insegnante di danza della capitale russa, Aya Belova, che non ha alcun precedente nel settore finanziario. La Long Term Investments moscovita otto giorni prima della sigla dell’accordo con Marco Tronchetti Provera costituisce in Lussemburgo la società omonima che poi acquisterà le quote di Pirelli. È una Soparfi, ossia una società di partecipazione finanziaria di diritto lussemburghese. In pratica il suo oggetto sociale è custodire quote di società terze. È la forma di società più diffusa nel Granducato.

Belova non è finita in Long Term Investments per una coincidenza. Suo padre Sergey Belov è stato tra i membri del consiglio di amministrazione di Region, società che gestisce Evolution, il fondo pensioni di Rosneft.

Amministratore delegato del Gruppo Region è Sergey Nikolaevich Sudarikov, classe 1971, tra i top-1000 manager di Russia nel 2016 e blogger sull’edizione russa di Forbes dal 2020. Tutta la sua carriera si svolge all’interno della galassia di Region, a partire dal 1995, anno della creazione del gruppo. Risulta proprietario di oltre 70 società, tra Cipro, Russia e Lussemburgo e tra il 2014 e il dicembre 2019, in varie vesti, è la vera persona fisica dietro Long Term Investments in Lussemburgo.

La società lussemburghese, da quando Sudarikov è uscito nel dicembre 2019, è stata ribattezzata Tacticum. Quest’ultima in seguito è stata scorporata in due entità dirette sempre dalle solite persone: Tacticum Investment (che detiene le quote di Pirelli) e Tacticum Capital (che è di controllata dal fondo pensione di Rosneft, Evolution). Dal 2017 Long Term Investments in Lussemburgo è anche un fondo private equity. Ad aprire e gestire il fondo è una Taktikum Capital di Mosca, controllata da una finanziaria le cui entrate nel 2019 hanno superato i 163 miliardi di rubli (1,8 miliardi di euro).

Di anno in anno il sistema di controllo delle quote riconducibile agli investitori russi in Pirelli è diventato sempre più articolato. Eppure la compagnia petrolifera di Stato c’è sempre

Sergey Sudarikov

Igor Sechin, amministratore delegato di Rosneft

Sergey Sudarikov, negli anni in cui è stato rappresentante legale di Long Term Investments, ha consolidato la presenza di Region nel mercato russo. Ha stretto nuove partnership con Credit Bank of Moscow, la banca privata regionale più grossa del Paese, e con i suoi azionisti. Il principale, il magnate dell’immobiliare Roman Avdeev, è entrato anche in Pirelli prima con una quota dell’1,4% scesa a gennaio 2021 allo 0.4%. La società attraverso cui detiene le quote è Sova Capital Ltd. Quest’ultima detiene quelle che erano le proprietà di Otkritie, banca russa il cui co-fondatore è Boris Mints, oligarca ritenuto molto vicino a Putin fino al 2018. In seguito è stato accusato di appropriazione indebita e successivamente condannato nel 2020. Nel 2018 aveva appena venduto la sua società immobiliare a uomini vicini a Sechin, che alla fine si sono presi anche parte della banca.

Il gruppo degli uomini di Sechin e Sudarikov, in Italia, non si muove solo in Pirelli. In precedenza, nel mirino c’è stata Tiscali. Il gruppo di Avdeev è stato azionista dal 2018. Il 26 gennaio 2021 la Consob ha multato Avdeev, Sudarikov e altri azionisti legati a Region e Credit Bank of Moscow per 60 mila euro per aver comunicato tardivamente le oscillazioni del loro pacchetto azionario nel 2019. Quale sia l’intento di questo piano di investimenti e disinvestimenti repentini – sia in Tiscali, sia in Pirelli – non è chiaro.

Per approfondire

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Dal canto suo la stessa Pirelli fa sapere a IrpiMedia che «le informazioni riguardanti la catena di Long Term Investments sono state sempre rese pubbliche tramite le comunicazioni previste per legge». «Oggi – prosegue la società con quartier generale a Milano – LTI è un azionista di una società quotata non legata da alcun patto con altri azionisti. Non disponiamo – conclude Pirelli – di altri elementi e pertanto non possiamo commentare ricostruzioni giornalistiche di temi sui quali non abbiamo alcuna visibilità». A garantire appoggi e conoscenze al gruppo degli investitori russi in Italia è Sergey Sudarikov, che a Verona è vicepresidente di Conoscere Eurasia, l’associazione che ogni anno organizza i principali meeting tra il gotha delle imprese russe e quelle italiane. Antonio Fallico, il presidente, è il numero uno di Banca Intesa in Russia e amico di lunghissima data di Igor Sechin. La stessa Intesa, tra l’altro, nel corso del riassetto azionario di Pirelli che ha visto l’ingresso di Rosneft, era in cordata con Unicredit. Contattato tramite Conoscere Eurasia, Sudarikov non ha risposto ad alcune richieste di chiarimento sulla sua relazione con Rosneft.
Le salsicce di Sechin, l’ex ministro in carcere e la misteriosa immobiliare

Tra gli ex dipendenti di Region, ce n’è uno che ritorna nelle operazioni che coinvolgono Rosneft e Region. Valery Mikhailov è stato coinvolto in un caso di estorsione che ha portato alla condanna dell’allora ministro dello Sviluppo economico russo Alexei Ulyukayev. A incastrare il ministro è stato lo stesso Sechin, racconta la BBC, utilizzato dai Servizi di sicurezza generale (Fsb), i servizi segreti russi, in un’operazione sotto copertura. Condannato nel 2017 a otto anni di carcere e a una multa da 2.2 milioni di dollari, Ulyukayev secondo il giudice «ha usato la sua posizione per avere una tangente dal capo di Rosneft, Igor Sechin», in cambio dell’approvazione all’acquisto di Bashneft, altra azienda di Stato russa. L’ex ministro era fermamente contrario all’acqusizione.

Secondo il quotidiano finanziario russo Vedemosti, la tangente sarebbe stata consegnata da Sechin insieme a un «cestino di salsicce», un simbolo di amicizia che il numero uno della società petrolifera è solito consegnare agli amici. Durante il processo, Sechin non è stato ascoltato come testimone ma a parlare al suo posto è stato Oleg Feoktistov, generale in pensione che ha guidato l’Fsb e lavorato in Rosneft. L’ex ministro Ulyukayev ha sempre sostenuto di essere stato incastrato. 

Sempre secondo la testimonianza di Feoktisov, i soldi della tangente non erano di Rosneft né di Sechin ma di un «investitore privato», di cui inizialmente è stata tenuta segreta l’identità. Quando il processo si è chiuso, il generale ha riportato personalmente le mazzette al Tribunale moscovita del distretto di Zamoskvoretsky. Solo a quel punto è filtrata la trascrizione dell’interrogatorio in cui l’ex generale ha rivelato l’identità dell’uomo d’affari che ha prestato i soldi a Rosneft: Valery Aleksandrovich Mikhailov, l’ex dipendente di Region. Mikhailov non ha mai risposto alle domande dei giornalisti che negli anni gli hanno chiesto conto di quel denaro. 

Dal 2014, Mikhailov è anche uno dei due beneficiari ultimi della società cipriota che rappresenta «uno dei più misteriosi attori del mercato immobiliare», secondo Forbes Russia. Si chiama Riverstretch Trading & Investments: ogni volta che una società le cede delle proprietà, poco dopo entra in difficoltà economiche. È difficile sapere quale possa essere il motivo ma sta di fatto che, nel 2018 è successo anche a Boris Mints, lo stesso che poi ha dovuto lasciare agli uomini del giro di Sechin anche parte del patrimonio della banca Otkritie. 

Anche quello che è stato il quartier generale della Yukos Oil Company, a inizi anni 2000 la principale compagnia petrolifera russa – è oggi nel portafoglio della Riverstretch. Il vecchio proprietario di Yukos, Mikhail Khodorkovsky, ha scontato dal 2005 al 2013 il carcere per frode e oggi vive in esilio a Londra dalla sua scarcerazione. Nel momento dell’arresto era il principale leader dell’opposizione a Russia Unita, il partito di Putin. Khodorkovsky ha sempre accusato Igor Sechin di avere orchestrato la cattura sua e di altri magnati del settore petrolifero. Secondo Khodorkovsky Sechin voleva ripulire il campo da possibili avversari per l’acquisto di Bashneft, compagnia il cui nome è affiorato anche del caso dell’arresto dell’ex ministro Ulyukayev. Gli immobili di Yukos sono stati poi suddivisi tra Valery Mikahilov, Rosneft e altri uomini del circolo di Sechin.

Manager in carriera

Regionfinanceresource Management Company (RMC), società del Gruppo Region con un fatturato di oltre 15 milioni di euro, ha amministrato Long Term Investments Luxembourg dal 2015 fino al subentro due anni dopo di una società cipriota di Sudarikov. Chi «esercita in ultima istanza il potere decisionale quale socio unico della stessa» – si legge nel patto parasociale dell’ottobre 2015 di Pirelli – è Natalia Bogdanova, un’altra manager che prima delle quote di Pirelli non ha mai amministrato nulla di rilevante, ma in precedenza ha lavorato per il Gruppo Region. Indirizzo e numero di telefono di Regionfinanceresource corrispondono a quelli di RN Trust, società russa successivamente denominata Region Trust. Il fondo fa parte del Gruppo Region e inizialmente, tra il 2004 e il 2009, ha avuto Petr Lazarev come proprietario ultimo. Top manager di Rosneft e frequentatore del circolo di Conoscere Eurasia compare insieme alla sua compagna e alla famiglia Sudarikov in una segnalazione dell’Unità d’informazione finanziaria della Banca d’Italia per attività sospette di riciclaggio avvenute tra il 2016 e il 2018. Il documento è allegato al fascicolo milanese sui presunti affari della Lega in Russia, scoppiato a seguito dell’affaire Metropol.
L’ultimo boiardo di Igor Sechin che ha fatto una breve apparizione tra il 2019 e il gennaio 2021 nell’azionariato di Pirelli è Arkady Mutavchi. Fino al 2008 è stato vice direttore del dipartimento dell’agenzia federale incaricata della fornitura dei prodotti per i vari corpi dello Stato, un’ente che risponde direttamente all’Ufficio di presidenza russo. La sua carriera non sembrava destinata all’imprenditoria privata o alla finanza. Nel 2015, però, ha ricevuto da Sergey Sudarikov una società della galassia del Gruppo Region con un patrimonio da oltre due miliardi di rubli, 22 milioni di euro. Da allora è stato protagonista di una serie di importanti investimenti con Region. Così lo schermo lussemburghese è entrato in gioco nell’azionariato di uno dei primari gruppi industriali italiani. Un ingresso figlio di un momento complesso della compagine azionaria di Pirelli in cui ha pesato la rottura tra due big del capitalismo nostrano come Tronchetti Provera e Malacalza. Una fase di passaggio vista come un’opportunità da parte degli investitori cinesi e russi. Un’opportunità che il gruppo Sudarikov ha colto al volo, mettendo in moto la struttura del Granducato.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli

In partnership con

IStories La Stampa

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi
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