Così i narcos albanesi fanno affari con le organizzazioni criminali che dominano Roma

Così i narcos albanesi fanno affari con le organizzazioni criminali che dominano Roma

Maurizio Franco
Youssef Hassan Holgado
Filippo Poltronieri

Con un braccialetto elettronico Dorian Petoku, uno dei narcotrafficanti albanesi più noti della Capitale, sta scontando la sua pena in una piccola comunità di recupero. Dopo quasi tre anni di detenzione – di cui due scontati nelle prigioni della madre patria – Petoku, il cui nome è scritto nero su bianco in tre inchieste della Procura di Roma, è uscito dal carcere dopo una perizia medica che lo dichiara tossicodipendente.

È il risultato dell’analisi di un suo capello, condotta da dottori albanesi e confermata da quelli italiani. Le rimostranze della Procura di Roma sulla sua pericolosità non sono servite. Così come non sono stati ascoltati i dubbi degli inquirenti su una tossicodipendenza mai riscontrata in narcotrafficanti albanesi di questo calibro, non avvezzi al consumo delle droghe che trattano. Inoltre, in molti si chiedono come sia possibile che il suo esame tossicologico riveli livelli così alti di stupefacenti e come abbia fatto a procurarsi la sostanza.
Quando era libero, però, nessuno si sarebbe posto questa domanda. Perché la cocaina, l’eroina e la marijuana sono le merci che i narcos albanesi trattano quotidianamente in tutto il mondo. E Dorian Petoku, a Roma, si è dato da fare abbastanza, secondo gli investigatori.

A seguito di un processo di estradizione durato due anni e pieno di ostacoli, è stato condannato a 12 anni nell’ambito dell’operazione Grande raccordo criminale per traffico di sostanze stupefacenti. Ha iniziato a scontare la pena nella comunità di recupero la Linea Punto Verde a Morlupo, un paese a pochi chilometri a nord di Roma. Dopo la chiusura della struttura, a ottobre 2022, il narcos albanese è stato trasferito in un’altra comunità, vicino a Mondragone, in provincia di Caserta. La mancata reclusione in carcere e le resistenze opposte dalle autorità albanesi all’estradizione collocherebbero Petoku in un olimpo criminale dove siedono personaggi noti della malavita romana.

Sono tanti i volti della criminalità che, dopo un breve periodo di detenzione, sono finiti in un centro di recupero. Tra questi c’era anche il capo ultrà degli Irriducibili Lazio, Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik: colui che, prima di essere ucciso a sangue freddo il 7 agosto del 2019 nel parco degli Acquedotti di Roma, aveva contribuito a rendere Dorian Petoku un criminale di spessore, in grado di tessere relazioni e affari con le più potenti organizzazioni presenti sul territorio romano.

Anche Michele Senese era finito in comunità: emissario della camorra all’interno dei confini del Grande raccordo anulare, è soprannominato O’pazzo proprio per le numerose (e discusse) perizie psichiatriche, con cui ha evitato a lungo il carcere. La detenzione in un centro di recupero non è l’unico comune denominatore tra Petoku, Piscitelli e Senese. I tre ras della criminalità romana si conoscevano e hanno lavorato insieme con un obiettivo comune: inondare di droga le piazze di spaccio della Capitale.

La tossicodipendenza come espediente

Sulle perizie mediche e la conseguente detenzione in comunità di diversi boss di mafia, la Procura di Roma ha voluto approfondire. Una lunga indagine ha portato nel 2019 all’acquisizione delle cartelle cliniche di 56 detenuti di Rebibbia, che negli ultimi anni avevano ottenuto un “certificato” di tossicodipendenza grazie al quale avevano lasciato la prigione. Sotto la lente degli investigatori ci sono referenti di camorra e ‘ndrangheta, trasferiti in comunità per seguire programmi di recupero, broker internazionali in affari con i Bellocco di Rosarno (famiglia, come vedremo, tra le prime a voler entrare in contatto con gli albanesi) e altri legati ai Giorgi di San Luca. Non mancano neanche membri legati a organizzazioni criminali attive in quartieri della periferia romana come Tor Bella Monaca, Tufello e San Basilio.

Dal Paese delle aquile a Roma

Arben Zogu, Dorian Petoku, Elvis Demce, Kolaj Orial, Bardhi Petrit e Yuri Shelever sono i nomi più noti della criminalità albanese a Roma. Tutti hanno fatto parte di quella che ormai gli investigatori chiamano “banda Diabolik”, nota alle cronache come la “batteria di Ponte Milvio”. All’ombra di Fabrizio Piscitelli gli albanesi si erano creati una vasta rete di contatti che ha permesso loro di “sopravvivere” anche dopo la morte del leader. Per conto di Diabolik facevano da “picchiatori”, recuperando i crediti delle estorsioni, smerciavano droga per le strade e fornivano protezione al capo. Ma la batteria era – come scrivono gli inquirenti – anche «al servizio dei “napoletani”, insediatisi a Roma Nord, tra cui i fratelli Esposito, Salvatore e Genny, facenti capo a Michele Senese».

All’epoca, era Arben Zogu, detto Riccardino, a coordinare la violenza schipetara in città. Ad Acilia, epicentro della comunità albanese romana e laziale, Zogu è riuscito a fare affari con il clan autoctono dei Guarnera, prima di conquistare Roma Nord. In quella parte di territorio ai margini della metropoli, i Guarnera insieme ai campani Iovine – contigui al clan dei Casalesi – hanno imposto agli esercizi commerciali le loro slot machines. Zogu, però, matura i contatti più importanti nel mondo della criminalità organizzata durante la sua permanenza in carcere nel 2013.

I calabresi

Tra le mura della casa circondariale di Avellino, Zogu fa amicizia con Rocco Bellocco, rampollo dell’omonima famiglia di Rosarno, attiva anche nel basso Lazio, con una storica roccaforte nei territori di Anzio e Nettuno (Comuni recentemente sciolti per mafia). Lo rivelano una serie di colloqui, avvenuti in carcere tra il 2013 e il 2014, con il cugino Petoku, convinto che, parlando in albanese, gli investigatori non potessero risalire al contenuto delle loro conversazioni.

Zogu sostiene di aver instaurato rapporti con “napoletani” e “calabresi”. Contatti che possono tornare utili al cugino al quale racconta: «Sono andato a mangiare con loro e c’è il vecchio e finché non diceva lui buona digestione non ci si può alzare dal tavolo… sono tutti così i calabresi… ma io sto solo con loro». La cosca è rinomata e Petoku ne è consapevole. E risponde: «Digli di venirmi a incontrare a questi… che già li conosco».

A Roma i Bellocco fanno affari per la distribuzione di droga con membri del clan Senese e con Fabrizio Piscitelli mentre per gli approvvigionamenti di stupefacente si rivolgono agli albanesi con regolarità. Anche dopo il trasferimento dal carcere di Avellino a quello di Rebibbia, Zogu riesce a mantenere le relazioni con esponenti di ‘ndrangheta, grazie al lasciapassare dei Bellocco «presso altri detenuti calabresi ristretti nel medesimo carcere», si legge nelle carte degli inquirenti. Ma i rapporti delle gang albanesi sono fluidi e vanno oltre le amicizie di Riccardino.

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Anche Bardhi Petrit, il pugile soprannominato Titi – già componente della banda Diabolik e “battitore libero” al servizio di altri gruppi criminali albanesi attivi su Roma – vanta conoscenze importanti nella cosca dei Pelle di San Luca. Petrit, in un’intercettazione, dice di aver fornito a un calabrese un rifugio in Albania, per quattro anni, a casa di un suo famigliare. Non è certo la prima volta che accade. Storicamente vari esponenti della Sacra corona unita e della ‘ndrangheta hanno cercato rifugio nelle montagne al di là dell’Adriatico.

«Io c’avevo pure un calabrese… per quattr’anni… da mio zio…», dice Petrit al suo interlocutore di cui gli inquirenti ignorano l’identità. «Quattro anni, poi si è venuto a consegnare da solo… perché in Cassazione è scesa (la pena, ndr) a sei anni». Il latitante calabrese, anche lui sconosciuto agli investigatori italiani, provava a mantenere un profilo basso. «Non voleva il casino… ma io lì al paese ho tutti i miei cugini… lo sapevano che lo avevo mandato io là e doveva stare lì, punto! A capo della zona lì», racconta Petrit.

Petrit è stato arrestato l’ultima volta nel marzo del 2022 per la collaborazione con il sodalizio capeggiato da Arindi Boci (detto Rindi) e Glend Burhanaj, attivo nell’organizzare e gestire il traffico di droghe nelle aree di Acilia e Primavalle. Secondo gli inquirenti, Petrit avrebbe «fornito i contatti degli acquirenti di sostanza stupefacente facendo valere la sua caratura e le sue conoscenze con soggetti di spicco della criminalità romana». In totale sono finite agli arresti 14 persone: otto albanesi e sei italiane. Una dimostrazione chiara della varietà demografica dei gruppi, che presentano al loro interno diverse nazionalità: uomini e donne fedeli al capo clan, uniti però nel perseguire un comune profitto.

Agli arresti eseguiti dalla Dda di Roma ci è finita anche Elsa Lila, accusata di aver svolto il ruolo di contabile per l’organizzazione. Di origini albanesi, Lila è stata per due volte concorrente al festival di Sanremo (2003 e 2007) sotto i riflettori del teatro Ariston. Nelle intercettazioni suggeriva al boss Arindi Boci di avvicinare uomini di Stato per oliare gli affari. «Io non ho soldi dello Stato ed a me non mi viene nessuno dallo Stato a controllarmi… mi conoscono…», diceva l’ex cantante facendo riferimento ad alcune relazioni che aveva con uomini legati alle forze dell’ordine. «Lo so tesoro che non ti fidi…ma un amico-aggancio dello Stato serve… come in Albania lo sai… l’amico-l’aggancio dello Stato è bene perché ti salva, qualsiasi sia il governo, bisogna avere uno anche lì, cosicché anche qui bisogna trovare il modo perché anche qui c’è molta gente venduta».

Il successore e le relazioni con i Casamonica

Con Zogu in carcere, a prendere le redini del potere e ad allargare la pletora delle collaborazioni, è proprio il cugino. Dorian Petoku aveva poco più di 24 anni quando ha ereditato, nel 2013, lo scettro criminale. E istantaneamente ha sfruttato la rete intelaiata da Piscitelli nella Capitale per espandere il cordone del narcotraffico albanese anche al di fuori del Grande raccordo anulare.

L’operazione Brasil Low Cost, condotta dalla Guardia di finanza, grazie a un infiltrato e ad alcuni agenti della Dea americana, non solo è degna delle migliori trame di film d’azione, ma mostra anche la capacità di Dorian Petoku di agire come broker internazionale: insieme al serbo Tomas Pavlovic e a Salvatore Casamonica, esponente dell’omonima famiglia condannata per mafia anche in appello, intendeva far arrivare dal Brasile sette tonnellate di cocaina a Roma. Un carico di polvere bianca, spropositato per la città, per un guadagno milionario.

Il progetto ha cementificato la triade: «Qua noi si lavora come squadra, ognuno fa l’interesse dell’altro…», dice infatti Salvatore Casamonica all’infiltrato riferendosi anche a Petoku. Secondo gli inquirenti, Petoku aveva la disponibilità della sostanza stupefacente, Pavlovic si occupava del trasporto fino in Europa e Salvatore Casamonica doveva farlo arrivare a Roma, dove poi sarebbe stato venduto dal clan.

Fare affari con i Casamonica non è da tutti. La famiglia, che per anni ha terrorizzato gli esercenti di Roma attraverso estorsioni e spedizioni punitive, è nota per essere molto chiusa ai gruppi esterni, indipendentemente che siano stranieri o meno. Nelle carte dell’operazione Gramigna, che ha portato all’arresto di 37 membri della famiglia, c’è solo il nome di un albanese che è riuscito a essere considerato come “intraneo” al clan. Si chiama Besim Skarra, classe 1978, legato a Luciano e Simone Casamonica. Per conto loro recuperava con la violenza i “crediti” di usura ed estorsioni in giro per Roma.

Dal Sudamerica all’Europa

«Se aprono questi telefoni, a Roma devono costruire un carcere nuovo», dice Bardhi Petrit, intercettato dagli inquirenti. «Costa mille euro sto’ telefono sà…!», gli risponde il suo interlocutore. «Mille cinque, ogni sei mesi devi far contratto…!», ribatte il pugile. La conversazione risale all’ottobre del 2018 e all’epoca l’esponente della batteria di Ponte Milvio è convinto che basti un cellulare criptato di ultima generazione per stare al sicuro da orecchie indiscrete.

Le indagini recenti hanno dimostrato il contrario. A quattro anni di distanza i database di quei cellulari da oltre 1.500 euro sono stati violati e gli inquirenti hanno delineato un quadro più chiaro del modus operandi e delle relazioni internazionali che i gruppi criminali albanesi avevano costruito. Ci sono riusciti anche grazie al lavoro dell’Europol, che ha avuto accesso ai server criptati di Sky ECC ed Encrochat, entrando nelle utenze di quasi 200 mila persone in tutto il continente.

Per approfondire

Estradato il narcotrafficante albanese che faceva affari con i clan romani

La presenza dei clan albanesi nel sottobosco della Capitale è un tema ancora poco noto. Grazie all’estradizione di Dorian Petoku, fornitore di cocaina per diverse gang romane, gli inquirenti puntano ad approfondire le indagini

Per quanto riguarda Roma, con questa operazione internazionale, sono state sgominate la banda di Elvis Demce e quella del suo ex collega in affari, diventato poi il suo principale nemico, Ermal Arapaj – per i quali sono stati chiesti 20 anni di reclusione. In una storia di reciproci tentativi di omicidio e violenza inaudita, Demce e Arapaj non sono né i primi né gli ultimi a sfruttare i contatti diretti con i grandi broker, connazionali, che controllano le tratte che portano la cocaina dal Sud America ai porti del Nord Europa.

Gli albanesi arrestati, così come gli ‘ndranghetisti di spessore, difficilmente parlano. Ma quando lo fanno rivelano informazioni preziose agli inquirenti, come quelle rilasciate dal narcotrafficante Erti Kjalliku che ha deciso di collaborare con la giustizia. Secondo quanto si legge nell’ultimo rapporto Mafie nel Lazio, le sue dichiarazioni sono state fondamentali per portare a termine le operazioni Aquila nera 1 e 2.

La Dda di Roma ha così smantellato l’organizzazione capeggiata da Daiu Lulzim, un narcotrafficante albanese che dal Sudamerica, passando per l’Olanda, era in grado di portare quintali di cocaina nelle piazze della periferia romana, già controllate da gruppi organizzati, come quelle dei quartieri di San Basilio e Tor Bella Monaca. Lulzim muoveva i carichi nei doppifondi di furgoni e automobili. Veicoli costruiti appositamente da un colombiano a Madrid. Ad aiutarli negli affari c’erano anche cittadini italiani, proprio come nel caso del gruppo di Boci. Tra gli arrestati anche Fabrizio Fabietti, braccio destro, all’epoca, di Diabolik.

Le organizzazioni albanesi di alto livello, disseminate in Europa, possono contare su broker e corrieri presso i principali cartelli di cocaina sudamericani, grazie a emissari in Ecuador e a relazioni strutturate con il Clan del Golfo in Colombia. I gruppi in Europa si servono poi di bande di connazionali, sparse sul territorio italiano, per fare arrivare e piazzare la cocaina nelle principali città d’Italia. I canali di approvvigionamento dei vari gruppi, spesso, sono gli stessi. Le gang sparse sul territorio, però, non sempre comunicano tra di loro. I singoli nuclei hanno legami stretti, spesso familiari, ma non sempre c’è una rete che li collega e sia gli “operai” che i “quadri” hanno un alto tasso di intercambiabilità.

In modo simile, ma su scala più ampia, agiva il cartello chiamato Kompania Bello, una capillare organizzazione criminale albanese, con tanto di timbro distintivo sulle confezioni di stupefacente, in grado di trasportare tonnellate di cocaina dall’Ecuador all’Olanda. L’organizzazione, coordinata dal carcere di Quito dal narcotrafficante albanese Dritan Rexhepi e che comunicava, anche questa, grazie a sofisticati sistemi di criptazione, riusciva a smistare la sostanza in dieci nazioni differenti.

A Roma, e in altre città italiane, Rexhepi faceva arrivare lo stupefacente grazie a una rete di corrieri. L’uomo aveva dato ordine a tre suoi sodali di attivare un nuovo punto di distribuzione della droga nella Capitale nel 2017. Un ulteriore tentacolo del narcotraffico di marchio albanese a Roma, mozzato sul nascere dagli 84 arresti eseguiti nel settembre 2020 con la maxi operazione internazionale Los Blancos. Per ora Kompania Bello è l’organizzazione albanese più simile a una mafia che sia mai stata scovata, ma gli inquirenti, anche se non ne hanno prove al momento, non escludono che ci siano casi simili.

La capitale del narcotraffico

Roma è un unicum a livello nazionale. Il mercato della droga è infatti estremamente vasto, e nella metropoli c’è spazio per tutti, come testimoniano le ultime relazioni antimafia e le indagini delle forze dell’ordine. Inoltre il rapporto tra le organizzazioni criminali è orizzontale e non gerarchico. Ogni gruppo ha una zona di competenza dove imporre il proprio predominio. Il dialogo è stato uno strumento indispensabile per preservare la cosiddetta pax romana.

Lo “sgarro”, però, è punito con il piombo delle pistole. I criminali albanesi sono entrati silenziosamente a Roma. E nell’indifferenza hanno compiuto la loro scalata. Lo hanno fatto cercando di non pestare i piedi a chi c’era prima di loro sul territorio che i vari gruppi riescono a rifornire con diversi canali di approvvigionamento. C’è chi proviene da famiglie con notevoli trascorsi criminali in Albania e ci sono, invece, organizzazioni gestite da narcotrafficanti giovani: parlano in romanesco, sono cresciuti in Italia e hanno consolidato legami con i clan autoctoni.

Sempre più albanesi hanno a disposizione contatti in Sudamerica e nel Nord Europa in grado di garantire loro la materia prima. La vendita di cocaina avviene sempre di più utilizzando la tecnica del “cotto e mangiato”, come la definiscono gli investigatori. Significa che il carico è già stato venduto alle organizzazioni che lo spacciano nelle piazze ancora prima di arrivare a Roma. Appena ricevuti, in poche ore, i panetti di cocaina sono quasi tutti consegnati e il denaro viene incassato rapidamente. Soldi che in parte gli albanesi reinvestono per comprare altra cocaina e in parte, fino a qualche anno fa, finivano nel giro del riciclaggio composto da club, bar, ristoranti e pompe di benzina.

Oggi i clan albanesi difficilmente lasciano traccia dei proventi delle attività criminali: un fenomeno che gli inquirenti vedono con sempre più frequenza a Roma. I guadagni milionari vengono fatti entrare in patria dove molti dei broker e narcotrafficanti hanno costruito interi villaggi e resort di lusso. Beni molto più complicati da raggiungere con ordini di confisca di natura internazionale.

L’ultimo degli albanesi

Uno degli ultimi membri della banda di Diabolik è Elvis Demce, un pluripregiudicato che aveva già scontato un periodo in carcere con una condanna all’ergastolo in primo grado – poi assolto dalla Corte d’Assise di Roma – perché ritenuto il killer di Federico Di Meo.

Federichetto – questo il nomignolo di Di Meo – è di origini calabresi. Nel 2013, a Velletri, cinque colpi di pistola lo colpiscono al torace e alla testa. Un omicidio per la conquista dell’egemonia del traffico di stupefacenti nel piccolo comune dei Castelli romani. Demce, accusato inizialmente come mandante dall’esecutore materiale dell’assassinio, viene poi scarcerato perché il fatto non sussiste.

La sua attitudine alla violenza però è cosa nota agli inquirenti. Durante un pestaggio per un’intimidazione ha cavato un occhio alla vittima già agonizzante sull’asfalto. Il suo temperamento, molto apprezzato all’interno della banda Piscitelli, lo ha portato a fare affari con tutta la malavita romana dopo la morte del capo ultrà della Lazio, non solo nella parte Est della capitale.

Quando esce dal carcere decide di fare ritorno tra le rocche dei Castelli romani. Nel frattempo, però, il gruppo criminale capeggiato da Ermal Arapaj, un tempo compagno, adesso nemico di Demce, lo aveva soppiantato. La batteria Arapaj era ben organizzata – con legami in tutta Europa – e capace di importare in Italia chili e chili di cocaina. Arapaj si riforniva da alcuni connazionali presenti a Porto S. Elpidio ma aveva anche uomini in Germania e Olanda e tramite una broker colombiana di nome Fajardo Tellez Maribel aveva anche l’opportunità di far arrivare la cocaina a Roma direttamente dalla Colombia. Avrebbe «dovuto acquistare 50 pacchi (ragionevolmente 50 kg) di stupefacente su una fornitura complessiva, destinata anche ad un altro gruppo, di 150 pacchi», si legge nelle carte degli inquirenti.

L’ascesa criminale di Arapaj si scontra con il ritorno di Demce che vuole riprendersi il posto. A ogni costo. Uscito dal carcere Demce chiede a due suoi uomini (di origine italiana) di inviare un eloquente messaggio ad Arapaj: «Gli dici…è uscito il padrone di casa…è uscito l’isis…mo’ andatevi a chiudere tutti quanti».

I due gruppi arrivano subito allo scontro. Per risolvere i conti Demce pianifica una serie di attentati che non hanno successo. Il 9 luglio del 2020 sei dei suoi uomini attaccano Arapaj che si salva sparando a raffica contro gli aggressori. Qualche mese più tardi, il 5 settembre del 2020 Demce ci riprova: i suoi danno fuoco alla villa di Arapaj e alla sua automobile ma il nemico giurato fugge in Spagna, in cerca di rifugio. Dalla penisola iberica inizia a pianificare il suo contro-attentato, ma il piano viene vanificato dall’intervento delle forze dell’ordine.

Mitomane, egocentrico e con deliri di onnipotenza, Demce aveva anche intenzione di progettare un attentato insieme ad Alessandro Corvesi – pluripregiudicato che da lui acquistava ingenti quantità di stupefacente e lo distribuiva al dettaglio ai rispettivi clienti – contro il pm Cascini.

«Quando me parte a ciavatta co questo vado a sparare a Cascini fori a piazzale Clodio», dice il narcotrafficante in un’intercettazione. Francesco Cascini fa parte del pool antimafia del tribunale di Roma, mentre suo fratello Giuseppe è attualmente membro del Consiglio superiore della magistratura, considerato responsabile della condanna in primo grado di Demce per l’omicidio di Federichetto.

Non solo violenza nei confronti dei magistrati ma anche intimidazioni e ricatti attraverso la minaccia di diffusione di video compromettenti (da realizzare): «Queste tipo Nency (riferimento a escort, ndr) ce potrebbero da na mano – dice Demce in un’intercettazione – A questi per faje più male che sparaje, faje qualche video o avè qualche cosa per ricattarli e tenerli per le palle. Sarebbe il top». Ora sia Arapaj che Demce sono in carcere in attesa che si concluda il loro processo.

La scia di sangue

I procuratori non hanno subito ripercussioni ma la scia di sangue non si è fermata e un altro delitto di spessore ha fatto seguito all’assassinio di Piscitelli. A Torvajanica, sul litorale romano, presso lo stabilimento Bora bora, un sicario ha ucciso, il 20 settembre del 2020, Selavdi Shehaj con un colpo di pistola alla nuca. Un’altra mano esperta capace di uccidere a sangue freddo in pieno giorno, proprio come accaduto con Piscitelli l’estate precedente.

Shehaj aveva 38 anni quando è stato ucciso. Era legato al mondo del narcotraffico ma, a differenza di altri suoi connazionali, non era un nome di spicco della criminalità romana. Secondo gli investigatori sarebbe stato ucciso dallo stesso sicario di Diabolik. Stessa arma, movente differente.

A oltre tre anni dall’omicidio di Piscitelli, eluso il rischio di una guerra più cruenta su Roma, i vertici della banda di Diabolik si trovano ora in carcere. Ognuno di loro da luogotenente è diventato capo, sostituendo il proprio predecessore, finito agli arresti. È solo questione di tempo prima che il vuoto da loro lasciato venga colmato dal prossimo gruppo. La rete internazionale criminale e i suoi gangli sono sempre attivi e periodicamente nuovi personaggi e clan prendono il sopravvento, ereditando la ben oliata macchina che garantisce alla Capitale un flusso di droga costante.

Dal momento degli arresti dei gruppi che facevano capo a Demce e Arapaj, gli investigatori hanno notato un crescente attivismo di criminali albanesi presenti sul territorio laziale che compaiono, a vario titolo, in nuove operazioni portate a termine nei quartieri della Capitale. Nel momento in cui un sodalizio criminale finisce in carcere, c’è pronta una nuova cellula completa che dal corriere arriva fino al vertice. D’altronde è sempre stato così. Morto un re, a Roma, se ne fa un altro. Anche quando si tratta di albanesi.

CREDITI

Autori

Maurizio Franco
Youssef Hassan Holgado
Filippo Poltronieri

Editing

Giulio Rubino

Illustrazioni

Come la mafia albanese ha conquistato il mercato della cocaina nel Regno Unito

Come la mafia albanese ha conquistato il mercato della cocaina nel Regno Unito

Maurizio Franco
Youssef Hassan Holgado
Filippo Poltronieri

Per quindici anni hanno cercato di imparare dai loro maestri. Da abili contrabbandieri sono diventati indispensabili fornitori di sostanze stupefacenti. Alla violenza hanno preferito tessere una rete di alleanze. È il modus operandi delle organizzazioni criminali albanesi che, secondo la National crime agency (Nca), l’agenzia di sicurezza britannica, gestiscono una grande fetta di mercato della cocaina nel Paese, il cui totale ammonta a circa sei miliardi di sterline secondo il ministero dell’Interno inglese.

Secondo la Nca i gruppi criminali albanesi avrebbero anche favorito la creazione delle cosiddette “county line”, una rete capillare dello spaccio che percorre tutto il Regno Unito portando le sostanze stupefacenti dalle grandi città alle province costiere e dell’entroterra. Linee commerciali battute non soltanto da gang albanesi ma anche da quelle autoctone e di altre nazionalità. Solo nel mese di ottobre 2021 la polizia ha effettuato una serie di retate che hanno portato all’arresto di 1.468 persone in tutto il territorio, a sequestri di droga e contanti per un valore che supera i 2 milioni di sterline, oltre che alla requisizione di un arsenale composto da 49 pistole.

Secondo i dati del governo, il crimine organizzato ha un costo per l’economia nazionale di 37 miliardi di sterline ogni anno. Ma parlare di “danno” per l’economia restituisce un’immagine molto parziale del fenomeno, poiché il dato non tiene conto dei soldi ripuliti che vengono poi immessi all’interno dell’economia legale attraverso la compravendita di beni immobili e mobili.

Ma come è riuscita la mafia albanese a ritagliarsi un posto di primo piano nel Regno Unito? La storia del loro insediamento inizia negli anni Novanta e subisce un’accelerazione con la guerra del Kosovo: un conflitto che tra il 1998 e il 1999 ha portato a oltre 1 milione di sfollati. Centinaia di migliaia sono i kosovari che hanno lasciato il Paese e cercato rifugio tra gli stati limitrofi ed europei (una grande maggioranza si è stanziata a Tirana). Ma secondo gli investigatori britannici, molti di quelli che si sono presentati alla frontiera erano cittadini albanesi che si identificavano come kosovari per cercare una via preferenziale di accoglienza.

Un dato univoco sul numero dei cittadini albanesi residenti in Regno Unito non c’è. Nel 2019 l’ufficio nazionale di statistica ha rilasciato una stima approssimativa: sono circa 47 mila gli albanesi residenti nel Paese mentre sarebbero 29 mila i kosovari. Secondo i database del governo britannico soltanto nell’anno della pandemia, 3.071 cittadini di origine albanese avrebbero richiesto l’asilo politico.

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«Quello che hanno fatto è creare una comunità satellite di lingua albanese nel Regno Unito, parallela a quella insediatasi in altri Stati vicini, come nei Paesi scandinavi, dopo la crisi del Kosovo», dice a IrpiMedia Tony Saggers, ex capo della sezione antidroga della National crime agency. Ed è da questa comunità satellite che i gruppi criminali originari o provenienti dal Paese delle aquile hanno cercato nuove reclute facendo gioco sull’emarginazione sociale e la povertà di chi arriva nel Regno Unito e si trova a essere sfruttato come manodopera a basso costo nel settore agricolo, edile o industriale. Cocaina, prostituzione e traffico di esseri umani sono i business illeciti con i quali i boss di Tirana hanno fatto fortuna.

La strategia al ribasso per la cocaina

«I gruppi criminali albanesi si sono arricchiti con pazienza. Un tipico trafficante di droga britannico vuole fare soldi il più velocemente possibile e a ogni costo», spiega Tony Saggers. «Loro hanno invece imparato che i margini di profitto sono abbastanza alti da permettergli di dimezzare i prezzi della sostanza alla vendita, senza diminuire la qualità».

Il mercato della droga del Regno Unito è uno dei più fiorenti in Europa. Prima della pandemia generava profitti per circa 30 miliardi di euro. Una torta enorme su cui tutti vogliono mettere le mani, anche il crimine albanese. Dieci anni fa, un chilo di cocaina veniva venduto intorno ai 40 mila euro, mentre nel periodo precedente al Covid-19 il prezzo era sceso anche sotto i 30 mila euro. Le organizzazioni albanesi hanno costretto i loro competitors ad adattarsi ai nuovi tariffari per non perdere terreno nel mercato. Ma i guadagni per loro sono aumentati nel momento in cui hanno iniziato a guardare verso l’America Latina dove, nonostante lo storico dominio dei broker della ‘ndrangheta, hanno trovato contatti e opportunità.

Gli albanesi al vertice della catena criminale sono riusciti a stanziarsi in Colombia, Ecuador, Perù e Panama. Canali di accesso preferenziali guadagnati sul campo. Chi è in grado di comprare la cocaina a quattromila dollari al chilo in Sudamerica la rivende a 30 mila euro una volta sbarcata nei porti europei. Operazioni garantite da una fitta rete di funzionari e operatori portuali corrotti presenti nei più importanti snodi commerciali marittimi di Europa.

Vista dall’alto della città di Liverpool attraversata dal fiume Mersey che sfocia nel Mare d’Irlanda – Foto: Youssef Hassan Holgado

Rotterdam, Anversa, Algeciras: qui la mafia albanese è stata in grado di inserire i suoi uomini in posizioni chiave dentro i porti, che permettono di aggirare con facilità i controlli di sicurezza. Non sempre, però, va tutto per il verso giusto. Ad aprile la polizia belga è riuscita a intercettare e sequestrare un carico di 27 tonnellate di cocaina proveniente dal Sudamerica che, venduta a una media di 30 mila euro al chilo, avrebbe fruttato un giro di affari di oltre ottocento milioni di euro. Si tratta dell’operazione più importante eseguita nella storia del Paese contro il narcotraffico. Da aprile gli investigatori stanno cercando di arrestare i boss che hanno organizzato questa partita di droga e le indagini si stanno focalizzando anche su alcune famiglie albanesi, come riportano i media locali.

Il trasporto della droga

Tony Saggers ha assistito a varie indagini durante la sua carriera investigativa e ha visto metodi ingegnosi di occultamento della droga. «Di solito gli albanesi trasportano la cocaina nascosta in prodotti come banane, ananas e frutta secca, ma anche in oggetti di metallo o di legno. La sostanza è un prodotto malleabile, facile da estrarre, pulire e stoccare una volta giunta in Europa», spiega.

Kompania Bello, il cartello della droga albanese finito sotto la lente degli inquirenti con l’operazione Los Blancos del settembre 2020, e attivo in diversi Paesi europei, usava due metodi specifici per il trasporto della droga: il “sistema” e “l’asciutta”, li definiscono gli inquirenti.

Nel primo caso era necessario un container frigo e un piano di carico che potesse essere alzato e saldato nuovamente dopo aver nascosto la cocaina. La merce veniva poi raccolta una volta che la ditta destinataria del container scaricava il materiale presente al suo interno (generalmente frutta o pesce). Nel secondo caso, invece, era necessario un container semplice in cui inserire al suo interno le borse con la cocaina, decisamente più veloce. In entrambi i casi, il carico veniva recuperato dopo lo sdoganamento, fuori dal porto, e le ditte coinvolte (sia quella che spediva sia quella che riceveva) dovevano essere in qualche modo controllate dai narcos, o quantomeno questi ultimi devono avere un accesso sicuro ai magazzini dove il container viene caricato e scaricato.

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Ma c’è un altro metodo utilizzato, quello del cosiddetto Rip-off: i panetti di cocaina vengono caricati all’interno di valigie o borsoni e riposti dietro le porte del container. La merce viene poi ritirata o durante il viaggio in mare o durante la sosta nel porto, ma in questo caso è fondamentale avere persone fidate all’interno sia dei porti in uscita che di quelli in entrata che riescano a eludere i controlli. Questo sistema non necessita della complicità delle ditte coinvolte nella spedizione ma presenta maggiori rischi di essere intercettato da scanner o altri sistemi di controllo.

Chi importa cocaina nel Regno Unito di solito invia il carico nei porti olandesi o tedeschi, ma capita che venga spedito direttamente in Gran Bretagna. «Negli anni abbiamo visto l’utilizzo degli yacht che attraccano durante la stagione estiva, soprattutto nei porti della costa sud del Paese. Accade spesso che un gruppo decida di consegnare due tonnellate di cocaina a Rotterdam e cinquecento chili nei porti inglesi dove la sostanza arriva anche nascosta nelle autovetture», spiega Saggers.

Una metodologia usata non solo dagli albanesi ma anche dai gruppi autoctoni. Il 27 agosto del 2019 due cittadini britannici di Liverpool, Gary Swift (53 anni) e Scott Kilgour (41 anni), sono stati intercettati a mezzo miglio dalla costa del Galles dalla polizia di frontiera con un carico di cocaina che avrebbe fruttato 60 milioni di sterline. Nel 2020 sono stati condannati rispettivamente a 19 anni e mezzo e a 13 anni e mezzo dal tribunale di Swansea, con l’accusa di aver importato circa 750 chili di cocaina di prima qualità dal Sudamerica verso il Regno Unito. La droga era a bordo del Sy Atrevido, uno yacht comprato a Maiorca, in Spagna, nel 2018, per 50 mila sterline. L’operazione ha toccato anche altre quattro persone tra Liverpool e Loughborough.

Scontro generazionale

«Ho monitorato il traffico di stupefacenti nel Regno Unito per oltre venti anni e mi sarei aspettato un conflitto, una guerra tra le varie organizzazioni criminali con l’arrivo degli albanesi. Ma non c’è stata. Loro sono arrivati con carisma e un messaggio chiaro: vogliamo essere i vostri fornitori di cocaina ma voi non dovete scherzare con noi. C’è sempre un tono amichevole e un sottotono minaccioso nei loro discorsi», dice Saggers.

A gestire il business in Gran Bretagna, di solito, sono i luogotenenti dei boss presenti nell’Europa continentale. Negli ultimi anni però c’è una nuova generazione di gang albanesi che sta cercando di imporre il suo dominio nella capitale inglese. Si fanno chiamare Hellbanianz, e il loro potere economico è evidente nei loro profili social dove esibiscono, nascosti dai passamontagna, auto sportive, rolex, bottiglie costose di spumante e mazzette di banconote.

Il loro centro operativo è a Barking, nell’est di Londra. Nel 2016 tre di loro sono stati condannati a 42 anni di carcere. Uno dei capi della gang, Tristen Asslani, ha ricevuto una condanna a 25 anni per diversi reati, tra cui traffico di sostanze stupefacenti e possesso d’arma da fuoco.

«Le vecchie generazioni del crimine albanese hanno un profilo basso, non amano attirare quel livello di attenzione nel Regno Unito», dice Saggers. Secondo gli inquirenti britannici questi cambiamenti potrebbero creare attriti e conflitti tra la vecchia generazione che agisce in silenzio e le nuove leve a cui piace apparire sui social network, ostentando il loro potere. «Probabilmente vedremo una nuova generazione criminale di albanesi capace anche di usare armi da fuoco lungo le nostre strade», è la triste conclusione di Saggers.

I Docks del porto di Liverpool, luogo artistico e altamente frequentato anche dai più giovani – Foto: Youssef Hassan Holgado

La Liverpool mancata

Per circa trent’anni le gang di Liverpool hanno dominato il mercato illegale della droga nella contea del Merseyside, situata nella regione inglese del North West, rifornendo anche alcune piazze europee. Non a caso i clan albanesi sono riusciti a penetrare nell’entroterra inglese e in grandi città come Manchester e Londra, ma non a Liverpool. Secondo Tony Saggers c’è una ragione specifica: «Gli albanesi sono molto selettivi nel scegliere i luoghi dove possono competere e a Liverpool hanno trovato gang autoctone che si sono stabilite in città da tempo. Un’eventuale entrata degli albanesi in quel mercato avrebbe dato vita a violenza e rischiato di spargere sangue per le strade». Insomma, si è deciso di non prendere le armi perché alla fine il mercato è abbastanza grande per tutti ed è meglio non fare la guerra contro personaggi come i fratelli Fitzgibbon (Jason e Ian) soprannominati i “sopranos di Merseyside”. Hanno gettato le basi del loro potere criminali attraverso i furti, la violenza e il racket, prima di cominciare a importare grossi quantitativi di eroina dalla Turchia, cocaina dal Sudamerica e ecstasy dall’Olanda.

I due fratelli avevano il loro quartier generale in una casa inglese di un piccolo sobborgo di Liverpool. Per tre anni sono stati intercettati dalla Serious Organized Crime Agency britannica, diventando uno dei loro obiettivi principali. Nel 2013 sono stati condannati a 32 anni di carcere. I Fitzgibbon erano riusciti tramite un’altra donna interna alla famiglia a riciclare i loro proventi acquistando anche una villa in Spagna.

Non erano gli unici: l’operazione Blenheim ha intercettato una catena di rifornimento di droga tra Liverpool e Glasgow dal valore di 100 milioni di sterline. In totale sono stati inflitti 293 anni di prigione per 31 arrestati. Christopher Welsh Jnr era considerato uno dei capi dell’organizzazione e si serviva di una batteria di esperti corrieri per il trasporto della droga che dalla città portuale arrivava anche nelle città più a nord. La caratura della criminalità autoctona di Liverpool è stata evidenziata anche dalla più grande operazione contro il crimine organizzato condotta a Londra. L’hanno chiamata Operation Venetic, una delle azioni della polizia inglese che rimarranno nella storia per aver portato all’arresto di 746 persone, facenti parte di diverse organizzazioni criminali accomunate dallo stesso sistema di comunicazione: usavano cellulari criptati Encrochat. Le notizie di cronaca sono ancora in aggiornamento, ma riguardano anche diversi personaggi criminali di Liverpool e della contea di Merseyside.

Secondo Fatjona Mejdini, coordinatrice della sezione albanese della Global Initiative Against Transnational Organized Crime, «gli albanesi sono presenti nel mercato della coca nel Regno Unito, ma è esagerato dire che lo stanno dominando. Ci sono anche organizzazioni italiane, olandesi, nigeriane e tante altre. Sicuramente c’è anche della verità nella crescita delle gang albanesi, ma alcuni tabloid hanno creato un clima di stigmatizzazione verso l’intera comunità. La popolazione carceraria albanese nel Regno Unito non supera il 10%». Unacifra confermata anche dai dati del ministero della giustizia: sono circa 1.500 i carcerati di nazionalità albanese nelle prigioni inglesi e gallesi, la popolazione straniera maggiormente rappresentata. Proprio per questo il governo ha firmato a fine luglio 2021 un accordo con l’omologo albanese per trasferire alcuni prigionieri nel Paese delle aquile e concludere lì la loro pena.

Il riciclo di denaro

Il portafoglio criminale della mafia albanese è vario e presuppone anche diversi metodi di riciclo di denaro. Risalire ai loro beni è molto complicato. «Li tengono ben nascosti ai nostri occhi», dice Saggers. Secondo gli inquirenti inglesi il metodo classico utilizzato è l’esportazione di contanti all’estero, soprattutto in patria. Per farlo, si servono di servizi di trasferimento di denaro comuni come Moneygram o Western Union grazie ai quali è facile inviare denaro senza rilasciare informazioni sensibili.

«Spesso vengono corrotti i lavoratori che gestiscono il servizio di trasferimento di denaro e si possono convertire centinaia di migliaia di sterline in piccoli volumi di euro che poi vengono contrabbandati fuori dal Regno Unito», spiega Saggers. Ma per investire i soldi in Sudamerica in beni immobiliari o altre attività, il crimine organizzato si serve di diversi professionisti in grado di occultare le loro tracce.

Anche in questo caso, l’organizzazione di Dritan Rexhepi ha fatto scuola. Per trasferire il denaro in Sudamerica si serviva, tra le altre, di associazioni criminali cinesi (una prassi già osservata dallo stesso Saggers) lo stesso metodo usato anche dai più importanti narcos della nuova generazione della ‘ndrangheta, fra cui lo stesso Giuseppe “Maluferru” Romeo. I soldi in contanti per pagare la cocaina venivano consegnati in Europa, principalmente in Inghilterra e Olanda, a un referente di queste organizzazioni cinesi, e poi la stessa somma veniva consegnata in Sudamerica ai trafficanti dai referenti sul posto della stessa organizzazione, dietro uno specifico compenso. Il pagamento, quindi, avviene senza un trasferimento né fisico né elettronico del denaro tra i due continenti e risalire agli scambi è quasi impossibile. Non c’è traccia finanziaria. La somma non parte da nessun conto corrente. è un sistema basato interamente sulla fiducia, su una rete di contatti che si estende in tutto il mondo.

Camden Town, punto turistico e di ritrovo della movida londinese ricco di locali – Foto: Youssef Hassan Holgado

Recenti inchieste condotte negli Stati Uniti hanno individuato un sistema simile utilizzato però dai narcos messicani che avevano intenzione di riciclare i soldi guadagnati con la vendita della cocaina in America del Nord.

Il funzionamento è semplice ed è spiegato in un articolo di Reuters: il cartello individua il broker finanziario cinese residente in Messico. Quest’ultimo consegna ai narcotrafficanti una parola in codice, un numero di telefono da chiamare e il numero di serie unico di una banconota da 1 dollaro autentica. Il cartello poi consegna i dati al suo emissario negli Stati Uniti che contatta il numero di telefono e gli riferisce la parola segreta. I due si incontrano. Il corriere riceve i soldi e l’uomo del cartello la banconota da un dollaro come “scontrino”. I soldi ora sono in mano al corriere cinese che li consegna a un commerciante della stessa nazionalità con sede negli Stati Uniti ma che ha un conto in Cina. Quest’ultimo si tiene i soldi ma invia un bonifico equivalente a un numero bancario fornito dal corriere stesso.

Ora si ci sono due opzioni per portare i soldi in Messico. La prima prevede il pagamento a un uomo d’affari che risiede nel Paese sudamericano che poi li cambierà in pesos e li consegnerà all’intermediario del cartello. La seconda, invece, prevede l’acquisto di prodotti da consumo che poi vengono esportati e venduti in Messico. Il ricavato finale, va a finire nelle tasche del cartello.

La copertura perfetta

Per le strade londinesi e nell’entroterra britannico è facile imbattersi in autolavaggi semi vuoti. Secondo gli ultimi dati che Saggers aveva a disposizione prima di lasciare la guida dell’antidroga alla Nca, le organizzazioni criminali albanesi ne possiedono a centinaia. «Spesso abbiamo trovato sei, sette persone che lavoravano in stazioni di servizio semi abbandonate. Si tratta di una copertura per riciclare denaro ma anche di un punto di reclutamento per accogliere nuovi adepti», spiega l’ex investigatore. «Se ogni giorno paghi qualcuno al di sotto del salario minimo per lavorare in un autolavaggio e poi gli offri 500 sterline per fare il corriere di un carico di cocaina, rischi di farlo cadere in tentazione».

Uomini fedeli, grandi risorse economiche, violenza e spietatezza quando serve, contatti diretti con i produttori sudamericani: le organizzazioni criminali albanesi hanno le giuste capacità per imporsi nella geopolitica del crimine organizzato alla pari di gruppi storici. Ma fino a dove possono spingersi? Secondo Tony Saggers dipenderà anche dagli effetti dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. «Se la Brexit costringe a un cambio delle rotte commerciali e i gruppi criminali albanesi importano direttamente nel Regno Unito senza passare per gli altri snodi europei, potremmo vedere corruzione e violenza nei nostri porti marittimi come accaduto in quelli di Belgio e Olanda, dove ci sono stati negli ultimi anni omicidi e sparatorie per le vie di Amsterdam, Rotterdam e Anversa».

CREDITI

Autori

Maurizio Franco
Youssef Hassan Holgado
Filippo Poltronieri

In collaborazione con

Centro di Giornalismo Permanente

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

Camden Town, punto turistico e di ritrovo della movida londinese ricco di locali.
Youssef Hassan Holgado

La rete globale della criminalità albanese per il traffico delle droghe

La rete globale della criminalità albanese per il traffico delle droghe

Maurizio Franco
Youssef Hassan Holgado
Filippo Poltronieri

Nei vicoli di Amsterdam e Bruxelles è facile imbattersi in pusher di tutte le nazionalità. Primi avamposti sulla via della droga, le due capitali europee scontano la vicinanza ai porti di Rotterdam e Anversa, porte di accesso privilegiate per le sostanze stupefacenti che approdano nel continente. In questa babele dello spaccio però, gli albanesi sembrano scomparsi dalle strade. Per chi investiga si tratta di un segnale chiaro. I clan originari del Paese delle aquile hanno fatto un salto di qualità.

«Si tratta di uomini d’affari dall’aspetto insospettabile», spiega a IrpiMedia Fatjona Mejdini, coordinatrice della sezione albanese della Global Initiative Against Transnational Organized Crime, echeggiando quanto anni fa già si diceva del crimine organizzato italiano. Seduta dietro una scrivania in un piccolo appartamento, adattato a sede locale dell’organizzazione, nel centro di Tirana, ripercorre i passaggi dell’ascesa degli albanesi nel pantheon della criminalità. «Hanno cominciato come autisti dei trafficanti italiani, lavoravano come manovalanza nei porti di Amsterdam e Rotterdam per recuperare i carichi in arrivo, altri portavano la cocaina in giro per l’Europa. Poi sono cambiate delle cose e hanno capito che potevano coprire da soli l’intera filiera, accreditandosi direttamente presso i fornitori sudamericani».

In pochi anni sono riusciti a mettere in piedi un sistema che non ha niente da invidiare a quelli delle organizzazioni storicamente più strutturate, stando a quanto emerso dalle più recenti indagini, come quella denominata Los Blancos, coordinata dalla procura di Firenze e condotta insieme a Europol e ad altre procure internazionali.

Una gita in Svizzera

Un’utilitaria guidata da un uomo sui 50 anni viene fermata per un controllo di polizia alle porte di Firenze. Sul sedile di fianco al guidatore una donna anziana. Gli uomini della Squadra mobile vanno a colpo sicuro. Sanno che la strana coppia nasconde qualcosa, che quel viaggio in Svizzera, il 18 maggio 2015, non è una semplice vacanza. Dopo una breve perquisizione gli agenti trovano ciò che cercano: 9 kg di eroina nascosti dentro dei borselli. Poco dopo fermano un’altra macchina con a bordo due trafficanti albanesi, per conto dei quali i due corrieri italiani stavano trasportando l’eroina.

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I due corrieri della droga sono due insospettabili fiorentini, incensurati. Per 2.500 euro a testa, pochi mesi prima, avevano portato un chilo di cocaina dalla cittadina tedesca di Düsseldorf a Firenze, ingaggiati dal trafficante albanese Florenc Ceni. «Un chilo di banane da portare oltre frontiera» diceva “la vecchia” – soprannominata così dai criminali albanesi – già intercettata all’epoca dalle forze di polizia italiane. Oltre che dall’insolita squadra di corrieri e dalla reiterazione del reato, l’attenzione degli investigatori veniva attirata dalla facilità dei clan albanesi di spostare ingenti quantitativi di stupefacente grazie a contatti diretti con connazionali residenti in Olanda e Belgio. A questo punto delle indagini però, mai avrebbero immaginato di essere vicini a sgominare la più grande organizzazione criminale, tutta albanese, mai conosciuta prima d’ora.

La Grande Moschea di Tirana, destinata a diventare la più grande dei Balcani, ancora in costruzione – Foto: Filippo Poltronieri

Kompania Bello

Kompania Bello ha rifornito per anni l’Europa di tonnellate di cocaina. Una piovra con 14 tentacoli, tanti quante sono le cellule del cartello identificate, estesi in dieci Paesi, dagli Emirati Arabi Uniti all’Ecuador, passando per l’Italia e l’Albania. Un originale sindacato internazionale dello spaccio sul quale è stata parzialmente fatta luce nel settembre 2020 con la maxioperazione Los Blancos, conclusa con trenta ordinanze di custodia cautelare e 84 trafficanti arrestati. A partire da Firenze le indagini hanno portato a scoprire un coordinamento militarmente organizzato, capace di importare quintali di polvere bianca e di raggiungere piazze come Torino, Roma, Rimini, Padova, Verona e altre province italiane.

I clan albanesi gestivano autonomamente la distribuzione al dettaglio ma erano altresì capaci di rifornire gruppi autonomi e storicamente presenti sulle piazze, come i clan mafiosi della Madonnella di Bari, che acquistavano esclusivamente dal gruppo albanese Memia – afferente all’organizzazione di Kompania Bello – o il clan di camorra dei Contini, il cui principale canale di approvvigionamento era quello dei fratelli Memetaj – anch’essi associati al cartello transnazionale. A capo dell’intero sodalizio una vecchia conoscenza delle procure di mezza Europa, assurta nel 2011 alle cronache nazionali italiane per una rocambolesca fuga dal carcere di Voghera: il narcotrafficante albanese Dritan Rexhepi, detenuto in Ecuador dal 2014.

Rexhepi muove i primi passi nel mondo criminale come assassino su commissione. Nel 2013, quando era già latitante, viene infatti condannato per due omicidi compiuti nel 1998 in Albania, quando aveva appena 18 anni. Iscritto alla facoltà di legge, lascia il Paese poco dopo i 20 anni per darsi alla latitanza e alle rapine a mano armata, in Belgio. Incastrato nel 2008 da un tribunale italiano per traffico di cocaina, è evaso nel 2011. Negli anni successivi, fino all’arresto del 2014, in un’operazione che portò al sequestro di 278 chili di cocaina, Rexhepi ha conosciuto e stretto stabili rapporti con narcotrafficanti dei cartelli più influenti, ponendo le basi per la gestione di Kompania Bello.

Da dietro le sbarre, l’uomo è riuscito infatti a dirigere le operazioni, grazie alla corruzione del personale penitenziario. Dall’acquisto di ingenti quantità di stupefacente in Sud America al trasporto via mare con approdo nei porti di Rotterdam e Anversa, Rexhepi ha esercitato un enorme potere. In Sud America riusciva a comprare la cocaina più pura per 4.400 dollari al chilo. Appena arrivava nei porti europei – dove sbarcava agevolmente grazie ai contatti con trafficanti connazionali come il già noto Denis Matoshi – la polvere bianca era quotata oltre 20 mila dollari al chilo. I fornitori sudamericani avevano una tale fiducia in Rexhepi da adottare il sistema di spedizione 50 e 50: la metà del carico era a nome del trafficante albanese, con il timbro “Bello” o “RS6” – timbri di riconoscimento dell’organizzazione – l’altra metà era di proprietà dei latini.

Non solo. Parte della cocaina, riconducibile a Rexhepi o ai suoi sodali albanesi, era spesso ottenuta a credito. Inoltre una percentuale della droga nominalmente dei sudamericani veniva affidata al clan albanese per la distribuzione in Europa, a dimostrazione della capillarità ed efficienza dell’organizzazione messa in piedi dalle cellule albanesi operanti nel Vecchio Continente.

Dritan Rexhepi

Dritan Rexhepi

Dritan Rexhepi è in sostanza il contatto principale per l’importazione di cocaina per alcune organizzazioni, tutte di lingua albanese, che hanno diramazioni dirette in Olanda. Una di queste farebbe capo a un soggetto non identificato, chiamato Reti, responsabile di gran parte dei traffici verso l’Italia, per portare a termine i quali aveva un ruolo determinante il narcotrafficante Eljon Beqiri, grazie al quale la cocaina raggiungeva la Toscana, il Veneto, l’Umbria e la Liguria. Un’altra associazione a servirsi della professionalità di Rexhepi sarebbe stata quella dei fratelli Edmond e Gerti Marku, dai quali si rifornivano anche il gruppo di Ilirijan Memia e dunque la famiglia Di Cosimo, afferente al clan “Rafaschieri-Di Cosimo” della Madonnella di Bari. Altro narcotrafficante non identificato, con un gruppo attivo in Olanda, è un uomo che in tutte le intercettazioni viene identificato come Gimi. Per parlare con lui i narcotrafficanti usano un sistema di criptazione differente.

Infine, tra le organizzazioni emerse nel corso delle indagini, sono da segnalare quella di Dritan Rrapaj, che per l’export di cocaina aveva messo a disposizione la sua ditta di spedizioni di frutta esotica, la Rrapo Company, e quella di Denis Matoshi, narcotrafficante specializzato nella fuoriuscita di sostanze stupefacenti nei porti europei, a capo di una propria organizzazione con capacità autonome di distribuzione.

Kompania Bello lavorava come una federazione del crimine, basata su una precisa suddivisione di compiti e proventi, coadiuvata da un sofisticato sistema di comunicazione criptata (tramite BlackBerry) e coordinata da Rexhepi. Da una parte i grossisti della sostanza, individuati dagli investigatori nel Cartel del Norte del Valle colombiano, alleato del Cartel de Sinaloa messicano. I contatti erano garantiti da un gruppo di narcotrafficanti ecuadoregni capeggiati da Cesar Emilio Montenegro Castillo, più amichevolmente Don Monti, e da tale Antrax, di nome Diomar, non individuato dagli inquirenti.

I carichi, anche superiori alla tonnellata per spedizione, partivano da Guayaquil e arrivavano in Europa dove, ad attenderli, c’era l’altra parte dell’organizzazione, la ben rodata filiera della distribuzione. Gli importatori, a capo di proprie organizzazioni, si erano comunque dotati di una rete di servizi in comune e relazioni di mutuo soccorso e informazione. La filiera comprendeva aiuti economici per le famiglie dei carcerati e assistenza per la riscossione crediti. Ognuno si occupava poi della distribuzione di una percentuale della droga giunta in Europa grazie alla collaborazione di cellule sparse per tutto il continente. L’esistenza di un simile consorzio, operante tra le due sponde dell’Atlantico, ha certamente contribuito ad accendere i riflettori sul crimine organizzato di origine albanese. Ma il crescente protagonismo dei broker albanesi nel mercato mondiale, agli occhi degli investigatori, non è una novità.

Negli ultimi dieci anni una scia di sangue ha macchiato le strade di Quito e di altre città dell’Ecuador, una serie di omicidi le cui tracce portano direttamente a Tirana. Dall’assassinio del giornalista investigativo Fausto Valdiviezo, per il quale i sospetti degli inquirenti si sono concentrati sul narcotrafficante albanese Adriatik Tresa, all’omicidio di Tresa stesso, prelevato da un gruppo di finti poliziotti e trovato senza vita nel novembre 2020, i fatti di sangue che coinvolgono cittadini di nazionalità albanese si sono moltiplicati negli ultimi anni nel Paese sudamericano. Il crescente protagonismo delle gang albanesi nei traffici transatlantici di cocaina trova conferma anche nel Vecchio Continente. Tra il 2018 e il 2020, secondo dati dell’Europol, 266 arrestati in Europa per traffico di cocaina erano albanesi, la nazionalità più rappresentata davanti ai 257 brasiliani e ai 168 colombiani.

Una volante della polizia costeggia l’ambasciata slovena di Tirana – Foto: Filippo Poltronieri

La crescente influenza albanese sulle rotte della cocaina supera insomma i confini dell’Ecuador. «Gli albanesi si sono dimostrati affidabili nella catena della distribuzione, poi si sono affrancati e sono diventati broker», spiega Fabian Zhilla, senior adviser di Global Initiative e assistente delle istituzioni investigative albanesi. Nel 2016 ha contribuito a un report di mappatura delle gang albanesi operanti in Albania e nel continente europeo. «Hanno iniziato le loro attività nel Regno Unito, dove la presenza della ‘ndrangheta è meno forte rispetto ad altri Paesi, e ora si stanno allargando altrove. Tuttavia, sono molte le organizzazioni che si stanno muovendo in questo mercato che offre opportunità un po’ per tutti».

Nel 2020 i sequestri di cocaina nei porti di Rotterdam ed Anversa hanno fatto registrare un record, 65,5 tonnellate – la punta dell’iceberg secondo gli inquirenti. E il trend non sembra subire inversione, visto che a febbraio 2021 le autorità doganali hanno bloccato un cargo con 27 tonnellate di polvere bianca. In Italia i sequestri sono quadruplicati (13,4 tonnellate nel 2020), rispetto al 2018. I traffici non risentono dunque né della pandemia né del lockdown e la maxioperazione che a ottobre 2021 ha portato a oltre cento perquisizioni nelle città di Bruxelles, Liegi e Anversa ha mostrato ancora una volta come clan albanesi, ‘ndrangheta e narcos colombiani riescano a collaborare in sinergia, lavorando la sostanza appena scaricata in laboratori localizzati nei pressi della capitale belga.

La multinazionale del crimine

«Kompania Bello è un caso unico per ora», sostiene Fabian Zhilla, «possiamo presumere che esistano altre realtà come questa, ma non si tratta di strutture organizzate con un obiettivo finale omogeneo, ma di una convergenza di interessi, il cui collante è basato sulla provenienza dalle stesse città e sulla comunanza di lingua». «La struttura tipica delle gang albanesi si basa sui cerchi concentrici», spiega Fatjona Mejdini. «Nel primo cerchio troviamo due, tre persone, spesso unite da un legame di sangue: fratelli, cugini, cognati. Al secondo troviamo persone provenienti dalla stessa città o area geografica del Paese, al terzo albanesi di altre città o comunque persone che parlano la lingua». Una miriade di piccole organizzazioni che collaborano a livello internazionale e regolano i conti nei patrii confini, per evitare di rischiare qualcosa nei paesi europei dove conducono i propri affari. «La madrepatria viene usata dai gruppi che operano all’estero come bacino di reclutamento e come luogo di risoluzione delle dispute».

Le oltre 40 organizzazioni censite nel sopracitato report del 2016 hanno cambiato affari, si sono ristrutturate ma sono ancora attive.

Specializzazioni e business spesso dipendono da ragioni storiche e geografiche. Elbasan, al confine con la Macedonia, è stata storicamente interessata dal traffico di eroina proveniente dalla Turchia e negli ultimi mesi è saltata spesso agli onori delle cronache per una serie di omicidi commessi in pubblica piazza. Scutari, al confine con il Montenegro, ha una lunga tradizione di famiglie criminali coinvolte nel contrabbando e nel traffico di esseri umani alla frontiera. Negli ultimi anni l’area è diventata una delle principali zone di produzione di marijuana, dopo la chiusura delle coltivazioni a cielo aperto di Lazarat nel 2014.

Valona sconta invece la vicinanza con l’Italia ed è la città da cui, storicamente, partono i carichi di marjuana diretti in Puglia. Dopo la dismissione di Lazarat, i clan hanno spostato gran parte della produzione di cannabis direttamente nella provincia di Valona, in modo da dover percorrere un minor tragitto per imbarcare la sostanza. Anche Durazzo ha un valore strategico per il suo porto, il principale dell’Albania, ed è luogo di investimenti e riciclaggio di denaro in infrastrutture turistiche e alberghiere. Altri gruppi poi sono attivi a Fier, piccolo centro sulla strada che da Valona conduce a Tirana e, ovviamente, a Tirana stessa.

Welcome to Tirana

La capitale dell’Albania, oggi, è un cantiere a cielo aperto. Nuove costruzioni dal design avveniristico sorgono in ogni spazio della città, i bordi delle strade sono tappezzati di cartelli della Tirana che sarà. «Un boom edilizio frutto di un afflusso di denaro senza precedenti favorito dalle regole del Paese», commenta Zef Preci, direttore dell’Albanian Center for Economic Research (ACER), «ma i prezzi degli immobili – dai 1.000 ai 3.000 euro al metro quadro – non corrispondono al potere di acquisto reale dei cittadini albanesi». In effetti negli ultimi anni il governo di Tirana ha fatto in modo che gli investimenti nel Paese risultassero sempre più interessanti: tasse a zero per le aziende con utili fino a 130 mila euro, fino al 15% per chi guadagnasse qualcosa (o tantissimo) in più. Inoltre, IVA allo 0% per fatturati inferiori agli 80 mila euro, tasse zero nel settore turistico alberghiero per gli hotel a 4 e 5 stelle, per chi opera nell’agroalimentare e nell’information technology.

Il tutto con una manodopera qualificata e con i costi più bassi di tutta l’Europa orientale. Lo stipendio medio in Albania, infatti, è di poco superiore ai 313 euro al mese. Una sperequazione che fa sì che negli ultimi 5 anni ancora quasi il 10% dei cittadini albanesi abbia optato per l’emigrazione. Una stima del riciclaggio dei proventi di traffici illeciti in Albania è pressoché impossibile. Ma alcuni indicatori mostrano chiaramente quali siano le tendenze in atto.

«La moneta albanese è sovrastimata, per mantenere questa stabilità nel tasso di cambio con l’euro l’economia dovrebbe crescere del 12% all’anno», spiega ancora Preci. «Questi sono gli effetti dell’afflusso di capitali criminali, soprattutto nel settore delle costruzioni, favoriti dalle politiche di attrazione degli investimenti del Governo e dall’ampliamento dei poteri in materia in favore dei sindaci: adesso ci sono molti meno passaggi per ottenere un permesso per edificare».

Secondo dati in possesso della Guardia di Finanza italiana il volume di trasferimenti non tracciati dall’Albania all’Italia sarebbe raddoppiato lo scorso anno. «Vero anche che in Italia ci sono 50 mila aziende con titolare albanese, che possono aver aumentato il ritmo delle rimesse, in un periodo di forte crisi economica», commenta Preci. «Però anche in una nostra indagine simile, realizzata sul volume di trasferimenti dal Regno Unito all’Albania, attraverso canali legali come Western Union, emergeva come il flusso fosse triplicato in un solo anno. Il problema reale, qua in Albania, non è l’assenza di regole ma la loro concreta implementazione. Ci sono troppe vie di fuga, se non colpiamo le mafie nel potere economico non riusciremo mai a sconfiggerle».

Il Ring Center di Tirana, un centro commerciale multipiano nel centro della città – Foto: Filippo Poltronieri

La commistione di interessi tra politica e organizzazioni criminali è tema di dibattito quotidiano in Albania. L’ex ministro dell’Interno (2013-2017) del governo socialista di Edi Rama, Saimir Tahiri, è stato processato per traffico internazionale di stupefacenti, sospettato dalla polizia italiana di far parte di un consorzio criminale operante tra le due coste del mar Adriatico.

Condannato “solo” per abuso di ufficio dalla Procura albanese per i reati gravi, Tahiri è stato inizialmente estromesso dal partito e interdetto dai pubblici uffici, ma la corte suprema di Tirana ha disposto un riesame del suo caso a causa di alcuni errori procedurali nel processo di due anni fa.
Il nome del sindaco di Tirana, Erion Veliaj, compare invece nelle carte dell’operazione della Procura di Catanzaro Basso Profilo. Nell’ambito di un’indagine che ha smantellato gli interessi di un clan di ‘ndrangheta interessato a investire in Albania, la municipalità di Tirana risulta un interlocutore amico, almeno stando alle intercettazioni che riguardano Saverio e Tommaso Brutto, entrambi ex consiglieri comunali in Calabria finiti ai domiciliari a inizio anno prima che una sentenza della Cassazione annullasse l’ordinanza di custodia cautelare.

Le influenze del mondo criminale sulla politica hanno spinto l’Albania a una profonda riforma che dovrebbe garantire maggiore autonomia e operatività giudiziaria. Su spinta dell’Unione europea – Il Paese nutre l’ambizione di entrare a farne parte – e degli Stati Uniti, lo sforzo riformistico ha prodotto nel 2019 una nuova procura speciale anticorruzione, chiamata SPAK, Struktura e Posaçme Anti-Korrupsion. I giudici e investigatori della SPAK sono dovuti passare attraverso le forche caudine del “vetting”, un processo di rivalutazione della carriera di ogni singolo giudice sulla base di titoli, proprietà e relazioni intrattenute in passato.

Il vetting è stato ideato nel 2016 per porre un freno alla corruzione dilagante nel sistema giudiziario albanese e vi sono stati sottoposti tutti gli 800 magistrati in servizio all’epoca. Questi esami hanno provocato un terremoto nella procure del piccolo Stato adriatico paralizzando il sistema giudiziario. La Corte di Cassazione è rimasta infatti per due anni con un solo giudice mentre quella Costituzionale ha subito un prolungato periodo di stop, sempre a causa di carenza di organico.

Tra gli illustri caduti al processo di riesame anche il presidente della Corte Suprema, Xhezair Zaganjori. «La SPAK è diventata realmente operativa nel settembre 2021, dopo un processo di valutazione molto approfondito», spiega Zhilla, «adesso è un organismo completamente indipendente che riporta solo al parlamento. I primi segnali sono positivi, dei primi casi mandati alla Corte il 99% ha avuto un seguito giudiziario». Un primo passo per arginare il potere di organizzazioni criminali che hanno ampiamente varcato i confini nazionali.

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Autori

Maurizio Franco
Youssef Hassan Holgado
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Centro di Giornalismo Permanente

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Giulio Rubino

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Lorenzo Bodrero

Foto di copertina

Il Ring Center di Tirana, un centro commerciale multipiano nel centro della città.
Filippo Poltronieri