La mafia dei Nebrodi pascola libera tra i fondi Ue

La mafia dei Nebrodi pascola libera tra i fondi Ue

Edoardo Anziano
Simone Olivelli
Paolo Riva

INebrodi sono una catena montuosa che attraversa le province centro-settentrionali della Sicilia, dove c’è un parco naturale di 86 mila ettari. Quella di Enna vive sostanzialmente di agro-pastorizia, praticata sulle pendici di queste montagne. Secondo l’ultimo rapporto semestrale della Direzione investigativa antimafia (Dia), l’agricoltura nell’ennese «richiama le consorterie mafiose interessate all’indebita percezione di contributi comunitari per il sostegno allo sviluppo rurale». Nella provincia di Messina, invece, le organizzazioni criminali hanno dimostrato la capacità di espandersi «nell’illecito accaparramento di finanziamenti pubblici destinati al settore agro-pastorale», afferma la Dia. La provenienza è diversa, la natura delle organizzazioni criminali è diversa ma l’espressione con cui sono state descritte sui giornali è la stessa: mafia dei Nebrodi.

A dispetto dell’espressione, nella mafia dei Nebrodi non ci sono solo gruppi legati alla criminalità organizzata. A dirlo è la storica sentenza – ancora di primo grado – pronunciata il 31 ottobre scorso dai giudici del tribunale di Patti. I condannati, in tutto, sono stati 90.

Secondo quanto si legge nell’ordinanza di custodia cautelare da cui sono scaturiti gli arresti, la minaccia di intimidazioni in stile mafioso, il più delle volte nemmeno necessarie, e la connivenza tra criminali e pubblici ufficiali che dovrebbero gestire le procedure per l’assegnazione dei terreni hanno permesso ai condannati di aggiudicarsi circa 5,3 milioni di euro di contributi europei per l’agricoltura. Il principale anello debole della catena del controllo pubblico sull’erogazione dei fondi, secondo gli investigatori, sono i Centri di assistenza agricola (Caa). In Italia, rappresentano l’anticamera da cui passare per presentarsi all’Unione europea come legittimi pretendenti di quei contributi che, sulla carta, dovrebbero sostenere gli agricoltori e contrastare l’abbandono delle aree rurali.

Dalle indagini è emerso che diversi responsabili dei Caa hanno aiutato i condannati a individuare le particelle di terreno, sia private che demaniali, per le quali chiedere i sussidi previsti dalla Politica agricola comune (Pac) dell’Unione europea. L’aggressione ai fondi europei è passata dallo sfruttamento di terreni intestati a soggetti deceduti, emigrati all’estero o semplicemente ignari della possibilità di finanziamento, oppure, nel caso di aree pubbliche, puntando sulla disattenzione degli enti gestori.

Per quanto il numero delle percezioni illegittime accertato in sede processuale sia stato particolarmente alto, ci sono elementi che portano a ritenere che il perimetro delle frodi sia ancora più largo. Secondo i dati di FarmSubsidy, database che monitora l’assegnazione dei fondi comunitari per l’agricoltura, dal 2010 al 2021 aziende riconducibili a vario titolo ai condannati, ma non coinvolte nell’indagine, avrebbero ricevuto un totale di oltre un milione e mezzo di euro di fondi comunitari.

La cifra, superiore di circa il 25% rispetto a quella finora intercettata, è frutto di erogazioni risalenti il più delle volte a epoche precedenti alle indagini, ma che dimostrano come il monitoraggio della spesa sia stato insufficiente a evitare che a mettere le mani sulle risorse pubbliche fossero soggetti legati a organizzazioni criminali, sia mafiose che non, o comunque dediti alla commissione di frodi. Al contempo, non mancano indizi che portino a pensare che qualcuno tra gli imputati, a processo già in corso, abbia in qualche modo mostrato la volontà di rimanere nel mondo che ruota attorno alle sovvenzioni destinate ad agricoltura e pascoli. Sono assegnazioni che pongono almeno un problema di opportunità e che mettono in discussione anche le stesse regole del gioco: i requisiti richiesti per accedere ai contributi e i sistemi di controllo sono adeguati a gestire la voce di spesa più importante del bilancio Ue?

Profili di rischio

La cura e il mantenimento di pascoli e coltivazioni sono sostenuti da finanziamenti europei, erogati secondo le strategie definite dalla Pac. Il criterio di assegnazione principale è semplice: l’ammontare del sostegno è proporzionale all’estensione dell’appezzamento. Il processo Nebrodi ha fatto luce su come i soggetti condannati siano riusciti a ottenere anche ciò che, carte alla mano, non sarebbe spettato loro, garantedosi di conseguenza molti più fondi.

Dal 2011 la Commissione europea articola una strategia antifrode complessiva, che per il settore agricolo è disegnata dalla Direzione generale agricoltura (DG Agri). Ad applicarla sono poi le autorità nazionali, in Italia l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (Agea) e le sue diramazioni regionali. Tra gli obiettivi della strategia, ci sono l’individuazione di criteri di rischio per escludere dall’assegnazione le aziende più problematiche e, nel caso in cui ci sia un’elargizione errata, il recupero dei fondi. Umberto Di Maggio, sociologo dell’Università Lumsa di Roma, scrive in un saggio sull’evoluzione della mafia dei Nebrodi, pubblicato nel 2021 dalla Rivista giuridica del Mezzogiorno, che i trasferimenti della Pac «andrebbero valutati ed autorizzati anche rispetto a fattori di rischio di alcuni contesti ove i fenomeni di frode di sviluppano con maggiore rilevanza».

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A conferma di quanto il tema sia caldo, nella Relazione speciale della Corte dei Conti europea, dedicata alle risposte della Commissione alle frodi commesse ai danni della Politica agricola comune, si legge che l’Italia «mira a istituire un modello di profilazione per individuare i Comuni in cui c’è un’elevata probabilità di criminal focus area», utilizzando vari strumenti, tra cui ad esempio il monitoraggio delle foto satellitari. Criminal focus area è l’espressione usata per definire le aree meno sviluppate del Paese considerate a rischio per specifiche attività criminali, dalla creazione di discariche abusive fino all’accaparramento dei terreni. Attraverso un progetto europeo, il ministero dell’Interno ha realizzato il loro primo monitoraggio, a testimonianza di quanto sia delicato il tema della prevenzione.

In tal senso, un episodio descritto dalle indagini rende bene l’idea di quanto le autorità pubbliche dei Nebrodi siano assoggettate alle organizzazioni criminali.

Centuripe, seimila anime in provincia di Enna: è da queste parti che, poco meno di sei anni fa, un uomo conosciuto come Carrittèri, carrettiere in siciliano, riceve una telefonata da un dipendente della Regione. Ufficialmente fa l’imprenditore agricolo, ma per i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Messina è soprattutto un esponente dei Batanesi, pericoloso clan che ha radici nel cuore dei monti Nebrodi. Nel corso della conversazione, il pubblico ufficiale racconta di avere incontrato un allevatore e di avere ricevuto da questi la richiesta di poter pascolare le pecore in una zona demaniale. I terreni formalmente sarebbero di proprietà della Regione, ma chi è del posto sa che nella pratica sono a disposizione della famiglia del Carrittèri. Il dipendente lo chiarisce: «Lo devo sapere, perché i pascoli li avete voi». Dall’altro capo del telefono, chi ascolta è prodigo di rassicurazioni: «Dai, se puoi fare una gentilezza, gliela fai. E diglielo: “Tramite i carusi (i ragazzi, ndr), ti sto facendo questo favore”». Anche per pascolare sui terreni di proprietà pubblica, serve il benestare della famiglia mafiosa.

Come funziona in Italia il sostegno Ue agli agricoltori

La Politica agricola comune, finanziata con le tasse dei contribuenti dell’Unione europea, è stata varata nel 1962. Anche se il suo peso è andato diminuendo nel corso dei decenni, è ancora la voce del bilancio comunitario più rilevante. Nel periodo 2014-2020, la dotazione era di 408 miliardi di euro, mentre in quello attuale, 2021-2027, l’ammontare è sceso a 378 miliardi, che valgono comunque più del 30% del budget complessivo dell’Unione.

In particolare, all’interno del bilancio Ue, la Pac è finanziata tramite due fondi: il Fondo europeo agricolo di garanzia (Feaga) e il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (Feasr). Il primo sostiene il reddito dei contadini con pagamenti diretti, che vanno principalmente a chi ha più ettari di terreno, e misure di sostegno del mercato. Il secondo, invece, promuove la competitività delle aziende, la tutela dell’ambiente e una migliore qualità della vita nelle zone rurali.

I pagamenti sono gestiti a livello nazionale da ciascun paese dell’Ue. Per l’Italia se ne occupa l’Agea (Agenzia per le erogazioni in agricoltura), istituita nel 1999 per lo svolgimento delle funzioni di organismo di coordinamento e di organismo pagatore. I pagamenti diretti sono di gran lunga la componente più consistente dell’intera Pac. Per ottenerli, gli agricoltori italiani devono presentare una domanda all’organismo pagatore attraverso i sistemi informatici o recandosi in un Centro di assistenza agricola

Il maxi-processo Nebrodi

A quasi tre anni dagli arresti scaturiti dall’indagine Nebrodi, coordinata dal procuratore aggiunto della Dda di Messina, il tribunale di Patti ha inflitto condanne per un totale di sei secoli per reati inerenti soprattutto alla sottrazione di risorse pubbliche. Alla sbarra c’erano soprattutto soggetti ritenuti a vario titolo legati a due gruppi criminali attivi da decenni a Tortorici, una cittadina in provincia di Messina immersa tra i boschi di noccioleti. Qui, tra 2015 e 2021, sono stati assegnati oltre 22 milioni di euro di fondi Ue per l’agricoltura, distribuiti a 610 beneficiari. Sono numeri notevoli, considerato che il paese ha circa seimila abitanti e 70 chilometri quadrati di superficie.

Per fare un paragone, Cerignola, uno dei centri agrari più estesi d’Italia, ha circa 56 mila abitanti e una superficie di oltre 595 chilometri quadrati: nello stesso periodo, ha ottenuto 78 milioni di euro di contributi europei. Oppure, per restare in Sicilia, Noto, con i suoi 24 mila abitanti e 554 chilometri quadrati di superficie, ha preso 23 milioni di euro, soltanto uno in più del Comune dei Nebrodi.

In attesa di conoscere le motivazioni della sentenza, previste per giugno, l’ordinanza firmata a dicembre del 2019 dal gip Salvatore Mastroeni rappresenta la bussola con cui orientarsi in una delle più grandi frodi ai fondi agricoli Ue mai avvenute. Gli inquirenti sono convinti di avere avuto a che fare con organizzazioni strutturate e facenti riferimento direttamente alle cosche Bontempo Scavo e Batanesi. In passato i due gruppi a Tortorici si sono fatti la guerra e invece da tempo vivrebbero nel pieno di una pax mafiosa utile ad accumulare ricchezza non più soltanto con droga ed estorsioni, ma anche e soprattutto tramite le sovvenzioni pubbliche europee.

Per quanto la sentenza abbia riconosciuto soltanto nel caso dei Batanesi l’esistenza dell’aggravante mafiosa, ciò che appare accertato è l’esistenza di un sistema che, a tavolino, avrebbe deciso come spartire i terreni su cui lucrare.

«Il centro del procedimento è questo: non agricoltura e pastorizia e qualche leggero aiuto per avere finanziamenti, ma criminalità che, magari con origini in quel campo, non costruisce ricchezza per il territorio, ma fa ditte di “carta”, ingurgita profitti milionari che come tutti i profitti di mafia spariscono e niente lasciano alla gente, al territorio», si legge nell’ordinanza.

Per ottenere i contributi europei, le due associazioni criminali hanno dichiarato la «titolarità fittizia» di terreni, sia privati che demaniali. Hanno utilizzato allo scopo società create ad arte, presenti sui registri ufficiali ma sprovviste di beni aziendali, e una serie di relazioni con gli impiegati dei Centri di assistenza agricola, chiamati materialmente a presentare le richieste all’Agea (sono circa una decina i dipendenti dei Caa condannati). Gli inquirenti hanno parlato di spartizione virtuale dei terreni.

I responsabili dei Caa, mediante l’accesso a un portale informatico impiegato da Agea, «sono in grado di rilevare la presenza di particelle mai valorizzate dai legittimi proprietari ai fini della richiesta di una sovvenzione – hanno scritto i magistrati -. Tale informazione è di primaria importanza per i sodalizi mafiosi, in grado in tal modo di effettuare un’appropriazione indebita “virtuale” di tali terreni […] ad insaputa dei reali proprietari e con un rischio minimo di “duplicazione”». La necessità di evitare che la stessa particella finisse oggetto di più domande di finanziamento sarebbe stata fondamentale per evitare che i sistemi automatici in uso all’agenzia dipendente dal ministero dell’Agricoltura facessero scattare alert per possibili operazioni sospette.

Questa evenienza, nonostante la mole di domande esaminate nel corso delle indagini, non si sarebbe mai verificata, consentendo così ai gruppi criminali di mettere le mani su un fiume di soldi.

Gli affari rimasti fuori dai radar

A fronte delle circa 150 imprese agricole finite sotto la lente degli investigatori, il tribunale di Patti, in concomitanza con le condanne per gli imputati, ha disposto alla fine la confisca di poco meno di una ventina di società. La riduzione non cambia la portata della frode e, più in generale, delle dinamiche illecite che condizionano la distribuzione dei fondi comunitari. I dati di FarmSubsidy analizzati da IrpiMedia consentono inoltre di stabilire che, a partire dal 2010, i novanta condannati – sia imprenditori sia soggetti finiti alla sbarra nelle vesti di operatori dei centri di assistenza agricola – hanno percepito altri fondi pubblici per circa 1,5 milioni di euro, tramite aziende a loro collegate e rimaste fuori dall’inchiesta Nebrodi.

I dati che non tornano
La ditta individuale Coci Sebastiano ha sede a Tortorici. Dalla visura camerale risulta avere come titolare il 62enne coinvolto nell’inchiesta Nebrodi e successivamente condannato a quattro anni e quattro mesi per alcune truffe, senza il riconoscimento dell’aggravante mafiosa, e assolto perché il fatto non sussiste dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Dal portale dell’Agea, fonte primaria di FarmSubsidy, emerge che la ditta ha beneficiato di otto pagamenti spalmati su sei diverse annualità, l’ultima delle quali nel 2021: in totale quasi 400 mila euro. Il percepimento della somma, tuttavia, è smentito dall’avvocato di Coci, Giuseppe Strano Tagliareni: «Ha chiuso la ditta già diversi anni fa e comunque non ha mai ricevuto erogazioni per quelle cifre. Semmai per un decimo. Ma soprattutto a titolo esclusivamente personale come da sentenza e lavorando in prima persona quale allevatore in pochi ettari di terreno di origine familiare».

In effetti, dalla visura camerale, emerge che la ditta individuale è stata cancellata dal registro delle imprese a fine 2017. È però difficile pensare a un caso di omonimia tra aziende: dai registri delle Camere di commercio, risultano altre due ditte individuali omonime, ma solo quella riferibile al condannato del processo Nebrodi ha avuto sede legale a Tortorici.

Un esempio è il caso di Sebastiano Armeli, 55enne originario di Tortorici, condannato a sette anni e quattro mesi per il ruolo avuto nell’aggirare l’Agea in due circostanze. Da FarmSubsidy risulta che Armeli, tra 2015 e 2016, ha beneficiato di oltre 111 mila euro, tramite La Gemma Srl, società agricola non interessata dalle indagini. Nel caso del 51enne Sebastiano Bontempo Scavo – condannato a sei anni e mezzo per una serie di frodi commesse anche nell’interesse del clan Batanesi – emerge che ha ricevuto quasi 82 mila euro tramite un’omonima ditta individuale di cui l’uomo è stato titolare fino al 2018, ovvero uno dei due anni – l’altro è il 2017 – in cui il database FarmSubsidy ha registrato il contributo.

Cifre quasi quattro volte superiori sono andate invece a Salvatore Calà Lesina. Con una pena a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa, Calà Lesina ha ricevuto più di 300 mila euro sui conti di una società agricola che ha sede a Belpasso, alle pendici dell’Etna. Ammonta a poco più della metà – quasi 155 mila euro – la cifra erogata a Maria Chiara Calabrese, titolare a partire dal 2017 di una ditta individuale non finita nel processo in cui la donna è stata condannata a quattro anni per il riciclaggio dei proventi di una truffa in cui è stata coinvolta la madre. Tra gli operatori infedeli dei Caa che sono stati condannati, c’è anche Antonio Caputo: l’uomo, a cui è stata comminata una pena a quattro anni, ha un passato da sindaco nel centro nebroideo di Cesarò. Caputo risulta beneficiario di sovvenzioni per quasi 50 mila euro tramite una ditta individuale.

Tortorici (ME) e la pioggia di fondi

I condannati del processo Nebrodi hanno ricevuto 5,3 milioni di fondi europei. Per dare un termine di paragone, si tratta di un quarto di tutti i fondi PAC ricevuti nel comune di Tortorici fra il 2014 e il 2020. L’analisi di IrpiMedia mostra, inoltre, come ulteriori 1,5 milioni di euro siano finiti ad aziende legate ai condannati stessi.

Un altro caso di azienda riconducibile agli imputati ma non direttamente coinvolta nell’indagine riguarda la Rando Zootecnica, società che ha ricevuto dalla Ue più di 132 mila euro. Ad amministrarla e a possederne circa un terzo, sin dalla sua costituzione nel 2017, è Valentina Foti, che lo scorso autunno ha preso una condanna a due anni perché ritenuta responsabile di ricettazione nell’ambito di una frode a cui ha preso parte anche la madre. «Foti non ha affatto percepito alcuna somma oggetto di interesse nel procedimento penale a suo carico, tantomeno – dichiara a IrpiMedia l’avvocata Maria Cinzia Panebianco – quella pari a 132.609,99 di euro da voi indicata, relativa ai fondi Pac in qualità di socia amministratrice dell’azienda Rando Zootecnica Società Semplice Agricola. Nella sentenza – prosegue la legale – non vi è la benché minima traccia di una condanna in capo a Foti per aver percepito indebitamente fondi Pac e quindi per il reato a tale fattispecie ricollegabile». In merito alle erogazioni in favore della Rando Zootecnica, la legale specifica che la società «né nel processo (Nebrodi, ndr) né tantomeno in altri è stata mai protagonista di illecite percezioni da parte di Agea».

Tra i condannati nel maxi-processo c’è chi, in una fase successiva al blitz, ha deciso comunque di aprire nuove ditte. Come per esempio Katia Crascì, condannata a quattro anni e quattro mesi di reclusione per due frodi compiute attraverso altrettante società. Dal registro imprese, risulta avere aperto, a novembre 2021 (meno di un anno prima della sentenza) ditta individuale con sede a Capri Leone, nel messinese, e oggetto sociale l’allevamento di bovini e bufalini. «La mia assistita unitamente al marito Faranda Gaetano (anche lui condannato, ndr) svolgono l’attività di allevatori», dichiara a IrpiMedia l’avvocato Alessandro Pruiti Ciarello. «L’attività – aggiunge il legale – quantunque gli stessi siano indagati, viene esercitata per il sostentamento della famiglia». Il difensore di Crascì, poi, esclude che la nuova ditta sia servita a chiedere nuovi contributi all’Ue: «La mia assistita non ha presentato, né può farlo, domande per contributi pubblici nazionali o comunitari, perché imputata nel procedimento penale e fintantoché resterà tale».

Chi si è opposto alla mafia dei Nebrodi

Nel 2018, c’è stata una seconda operazione contro i medesimi sistemi predatori della mafia dei Nebrodi: Nebros II. L’inchiesta, che conta 14 indagati, riguarda una gara per l’affidamento di terreni demaniali indetta, nel 2015, dall’Azienda silvo-pastorale di Troina, Comune dei monti Nebrodi in provincia di Enna il cui sindaco, dal 2013, è Fabio Venezia, da qualche mese anche deputato regionale in quota Pd. È stato tra i primi ad avere preso posizione contro lo sfruttamento illecito dei terreni, insieme all’ex presidente del Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci, fautore del protocollo di legalità – poi diventato legge dello Stato – che ha stretto i controlli sulle istanze di finanziamento.

Per approfondire

Gli ultraricchi dell’agricoltura europea

I dati di FarmSubsidy.org indicano che i fondi pubblici per l’agricoltura sono concentrati nelle mani di pochi. La PAC però è fondamentale anche per i piccoli contadini. E nel 2023 entrerà in vigore la sua riforma

«Il fenomeno della mafia dei pascoli è stato scoperto a Troina nel 2014 – racconta Venezia -. Fino ad allora i reati venivano interpretati quasi sempre sotto il profilo esclusivo delle frodi pubbliche. Noi ci siamo accorti dell’esistenza di consorterie mafiose che gestivano i terreni demaniali e pressavano i privati affinché cedessero i terreni di proprietà». Pur essendo un piccolo centro, Troina gestisce – tramite una partecipata – un’ampia fetta di terreni demaniali ricadenti nel Parco dei Nebrodi. «Subito dopo essere diventato sindaco ho deciso di fare chiarezza su chi avesse in locazione i terreni e il risultato è stato allarmante: nel 2015, la prefettura ha emesso alcune interdittive antimafia che hanno interessato 14 dei 15 terreni assegnati dalla nostra Azienda silvo-pastorale».

A quella svolta, poco dopo, sono seguite le indagini della procura e l’ulteriore conferma che qualcosa da tempo non andasse. «Abbiamo licenziato il direttore dell’Azienda dopo avere scoperto che anziché fare gli interessi della collettività faceva quelli di chi voleva lucrare illecitamente», prosegue Venezia. Per questo impegno, il primo cittadino è andato incontro a intimidazioni che hanno portato il ministero degli Interni ad assegnargli la scorta. «Arrivarono un giorno in ufficio, chiedendomi di sistemare i contratti, altrimenti non sarebbe finita bene».

L’assoggettamento delle autorità pubbliche all’interesse privato della mafia dei Nebrodi è un tema che appare anche nell’ordinanza del processo Nebrodi scritta dal gip Salvatore Mastroeni: «I finanziamenti non chiesti, non saputi chiedere o non avuti dagli aventi diritto sono l’espressione di un fallimento grave. Quando infatti la mafia si incunea, altera il mercato, depreda risorse», si legge. Mentre Venezia ha saputo opporsi, altri non controllano a sufficienza: «Fa ovviamente impressione che Agea, Comunità europea, organi di controllo – ha sottolineato il giudice – si “bevano” (termine adeguato per i truffati) istanze con fascicoli solo virtuali, con terreni collocati in zone distanti e improbabili rispetto alla residenza dell’istante, con evidenti falsi sui titoli, giro disinvolto di titoli, conti bancari all’estero». «Oltre le determinanti e gravi complicità interne, quel che dimostra l’indagine – conclude Mastroeni – è che l’intero meccanismo dei contributi dovrebbe essere rivisitato».

Un grido d’allarme, certamente parziale, ma che dal tribunale di Patti si rivolge sia a Roma sia a Bruxelles.

Tra feudi brulli e montagne ingrate, la mafia veste colletti bianchi

«Lassù dove feudi brulli e montagne ingrate segnano il confine tra le province di Messina e Palermo», i monti Nebrodi «delimitano una sorta di zona franca in cui la mafia ha potuto continuare a prosperare indisturbata». Siamo nel 1968 e L’Unità descriveva così la mafia dei Nebrodi. Una mafia violenta, che in questo territorio montuoso ha sempre mirato al controllo dei pascoli tanto quanto, nelle aree interne della Sicilia, ha mirato al controllo dei latifondi per la coltivazione del grano. Come ha scritto Mario Ovizza nel saggio Il caso Battaglia, è intorno ai pascoli che «si svolge il complesso delle più clamorose e insidiose interrelazioni mafiose». I pascoli, con l’andare dei decenni, restano una fonte di reddito anche per famiglie mafiose storicamente arroccate a Tortorici, i Galati Giordano e i Bontempo Scavo, che intanto fiutano l’affare del racket ai danni dei commercianti della costiera Capo d’Orlando.

Negli anni Novanta, a Tortorici, vengono dichiarate 40 mila pecore. Un numero enorme, che, in realtà, non supera i 7.000 ovini. Gonfiare il numero serve a percepire maggiori fondi comunitari. La Comunità economica europea, antesignana dell’Ue, prevedeva già all’epoca un contributo di 30 mila lire a pecora. I rari controlli, racconta un reportage di Saverio Lodato su L’Unità, vengono aggirati spostando le greggi per far quadrare i conti. Quando nel 1992 il boss latitante Antonino Bontempo Scavo viene arrestato, sta pascolando le sue pecore a bordo di una Mercedes. Era stato condannato dal Tribunale di Patti per le estorsioni a Capo D’Orlando.

Ancora oggi, fra gli uomini di fiducia arrestati insieme al boss, c’è chi percepisce i fondi agricoli dell’Unione europea. Col passare degli anni cambiano le modalità, ma le truffe sui fondi comunitari rimangono una costante della mafia dei Nebrodi. Nel 2002, con l’operazione Vitello d’oro, i carabinieri di Sant’Agata di Militello, mezz’ora di macchina da Tortorici, denunciano 200 persone per una truffa all’Unione europea da 800 mila euro. Questa volta vengono utilizzati finti certificati di nascita e macellazione delle mucche per presentare domanda di rimborso all’ente pagatore italiano.

L’operazione Nebrodi, andata a sentenza nel 2022, conferma la specializzazione della criminalità organizzata messinese nel campo delle frodi sui fondi comunitari.

Proprio grazie ai guadagni illeciti derivanti dai contributi per agricoltura e allevamento, la criminalità mafiosa a Tortorici si è radicata. Nell’ordinanza di custodia cautelare, il giudice per le indagini preliminari Salvatore Mastroeni parla di una «evidente inestirpabilità» della mafia tortoriciana. Nonostante le molte indagini, a Tortorici la mafia opera «quasi pacificamente, sottotraccia, dismettendo la veste violenta e mafiosa apparente, indossando guanti ma anche vestiti e colletti “bianchi”».

Bruxelles, abbiamo un problema

A Bruxelles, le istituzioni Ue sanno che le frodi con i fondi della Politica agricola comune sono un problema. Basta un dato a farlo capire. Da quando nel giugno 2021 la Procura europea è operativa, ha aperto 1.117 indagini. Ben 231 riguardano la Pac e, di queste, 83 riguardano l’Italia, primo paese in Ue per questo genere di frodi, seguito a debita distanza da Romania, Francia e Spagna (24, 18, 11).

Non solo. A finire sotto la lente degli enti di controllo dell’Unione europea sono stati proprio i pascoli siciliani. Nella relazione speciale della Corte dei conti Ue dedicata alla risposta della Commissione alle frodi nella politica agricola comune e pubblicata nel 2022, viene citata proprio l’operazione che ha portato al maxi-processo Nebrodi. Il caso è preso come esempio delle frodi relative a «pagamenti diretti e “accaparramento dei terreni” (land grabbing, nel documento originale in inglese, ndr)», anche se è la stessa corte a definire l’espressione «controversa».

La relazione spiega che «dalle indagini condotte dall’Ufficio europeo per la lotta antifrode (Olaf) e dalle autorità nazionali è emerso che le superfici agricole maggiormente esposte a questo tipo di attività fraudolenta sono i terreni demaniali o i terreni privati con assetto proprietario poco chiaro» e che i «frodatori che dichiarano terreni in modo illegittimo per beneficiare del sostegno tramite pagamenti diretti potrebbero presentare documenti falsi e utilizzare pratiche criminali, come l’estorsione o la collusione con dipendenti pubblici». «La conclusione generale della Corte – prosegue la relazione – è che la Commissione ha risposto ai casi di frode nella spesa della Pac, ma non è stata sufficientemente proattiva nell’affrontare l’impatto del rischio dell’accaparramento illegale dei terreni sui pagamenti della Pac, nel monitorare le misure antifrode degli Stati membri e nello sfruttare il potenziale delle nuove tecnologie».

Un’accusa netta, che però l’esecutivo Ue ha cercato di schivare: «Il land grabbing (accaparramento della terra, ndr) non rappresenta un problema inerente all’abuso di specifiche debolezze della legislazione sulla Pac», ha scritto la DG Agri della Commissione europea nella sua risposta alla Corte dei conti. «Questi fenomeni sono piuttosto legati a possibili carenze dei sistemi giuridici, della supervisione e della tutela dei diritti individuali negli Stati membri e devono quindi essere affrontati da questi ultimi nell’ambito di un approccio generale allo stato di diritto, a seconda dei casi», ha aggiunto la direzione generale, addossando sostanzialmente la responsabilità ai singoli paesi Ue e, quindi, nel caso italiano, all’Agea e al ministero dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, di cui l’agenzia è un ente collegato. Interpellata da IrpiMedia, però, Agea non ha risposto alle nostre domande.

«La prevenzione dovrebbe spettare agli organi amministrativi che purtroppo sono spesso inefficienti. E quando non lo sono, si avvalgono di controlli che non consentono una reale attività preventiva». A parlare a IrpiMedia è una fonte vicina agli investigatori che si occupano di reati commessi in danno all’Unione europea. «Ogni anno soltanto in Italia – continua – vengono prodotte centinaia di migliaia di domande per contributi agricoli. Obiettivamente di fronte a questi numeri diventa complesso il controllo a monte, non si può pensare che l’argine alle frodi si basi sull’attività del singolo impiegato».

La portata del fenomeno delle frodi è ampia non solo per gli importi percepiti da chi non avrebbe i requisiti. L’ordinanza Nebrodi contiene, per esempio, intercettazioni in cui alcuni indagati fanno riferimenti a possibili affari da chiudere nell’Est Europa. Nonostante si tratti di fatti rimasti fuori dal processo, sono emblematici di come il problema sia esteso anche geograficamente. Stando a quanto appreso da IrpiMedia, negli ultimi mesi l’attenzione di più procure sarebbe rivolta al Centro Italia. «La scelta del luogo dove compiere la truffa non dipende tanto da contatti criminali ma – conclude la fonte vicina agli investigatori – dalla presenza di un aggancio, di un impiegato compiacente nel centro di assistenza agricola. Sono loro a sapere quali sono i terreni scoperti da richieste di contributo e da sfruttare per compiere le frodi».

CREDITI

Autori

Edoardo Anziano
Simone Olivelli
Paolo Riva

Editing

Lorenzo Bagnoli

In partnership con

FarmSubsidy
FragDenStaat

Infografiche

Edoardo Anziano
Lorenzo Bodrero

Foto di copertina

Un campo agricolo ai piedi del Monte Zimmara, sui Nebrodi
(DeAgostini/Getty)

Corruzione, porfido e sfruttamento: ecco come la ‘ndrangheta si è presa il Trentino

Corruzione, porfido e sfruttamento: ecco come la ‘ndrangheta si è presa il Trentino

Cecilia Anesi
Margherita Bettoni

Sono le 18.18 del due dicembre 2014. L’operaio cinese Hu Xupai entra nel cantiere della “Balkan Porfidi e Costruzioni Srl” a Lona Lases, un piccolo comune montano della Val di Cembra, 12 chilometri a Nord di Trento. Gli ha dato appuntamento lì il suo datore di lavoro, il macedone Durmishi Bardul: Xupai insisteva nel riscattare ciò che gli spettava di diritto, 34.843,04 euro di stipendi arretrati. Non trovando nessuno, Xupai ha un moto di rabbia. Inizia a danneggiare un macchinario, pensando di essere stato nuovamente preso in giro, ma la realtà è ben peggiore. Ad attenderlo nascosti ci sono Hasani Selman e Mustafa Arafat, titolari di un’altra ditta che opera sul cantiere. Spuntano fuori di colpo, minacciandolo con una pistola a tamburo. Non può scappare. Viene colpito al volto con una torcia, più e più volte, fino a svenire. Poi calci, morsi. E una punta metallica che gli trafigge una gamba. Una secchiata d’acqua lo riporta nell’incubo: è legato e adesso di fronte a sé c’è il suo capo, Durmishi, che inizia a picchiarlo selvaggiamente.

Dopo un’ora di violenze, i macedoni se ne vanno, ma prima avvisano i carabinieri che rinverranno Xupai ancora legato. Questa però, non è una storia di litigi tra operaio e caporale: i macedoni agiscono su ordine di una locale di ‘ndrangheta radicata in Val di Cembra, il cui business principale è proprio l’estrazione e la lavorazione del porfido. É questo ciò che sostiene l’indagine “Perfido” dei Carabinieri del Ros di Trento, guidati dal maggiore Alexander Platzgummer e coordinati dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Trento. Il porfido è un settore chiave per l’economia trentina, reso ancora più redditizio dallo sfruttamento del lavoro e della manodopera dei dipendenti che venivano vessati e tenuti alla fame in modo assolutamente deliberato. E quando osavano ribellarsi, come Hu Xupai, si dava l’esempio con una inaudita violenza. Perché era bene che anche in Val di Cembra si sapesse che a mettersi contro la ‘ndrangheta si finiva male.

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A pochi mesi dall’operazione “Freeland” che aveva ipotizzato il radicamento della ‘ndrangheta di Platì a Bolzano, il 15 ottobre scorso la Direzione distrettuale antimafia di Trento ha lanciato l’operazione “Perfido” che rivela come il Trentino sia da trent’anni terra di conquista per la mafia calabrese. Rispetto a Bolzano però, stando alle indagini, la ‘ndrangheta in Val di Cembra si veste da imprenditrice del porfido e si mischia, in modo sinergico, all’imprenditoria locale e alla politica, entrando in modo sotterraneo ma costante nella pubblica amministrazione. Le segnalazioni di cittadini onesti si susseguono negli anni. Il sospetto che il settore sia una zona grigia, dove non si rispettano diritti e in cui entrano capitali sporchi, non c’è solo tra i lavoratori delle cave, ma anche tra giornalisti locali e comitati civici.

Solo adesso arriva la conferma, con un’indagine che mette nero su bianco ciò che prima si poteva solo bisbigliare. Vige la presunzione d’innocenza, e solo il processo potrà definire realmente le responsabilità penali, ma l’immagine è quella di un territorio assoggettato, che ha perso la propria libertà e la propria innocenza. Dove i giudici vanno a cena con gli emissari dei clan, sindaci si fanno sudditi per la sete di potere e imprenditori concorrenti si piegano di fronte alla forza dell’intimidazione.

A pochi mesi dall’operazione “Freeland” che aveva ipotizzato il radicamento della ‘ndrangheta di Platì a Bolzano, il 15 ottobre scorso la Direzione distrettuale antimafia di Trento ha lanciato l’operazione “Perfido” che rivela come il Trentino sia da trent’anni terra di conquista per la mafia calabrese

Le denunce inascoltate

A novembre 2019 i due trentini Marco Galvagni e Vigilio Valentini compaiono davanti alla Commissione parlamentare antimafia per parlare delle infiltrazioni della criminalità organizzata e delle anomalie del mondo del porfido trentino. Galvagni ai tempi è segretario comunale e responsabile per la prevenzione della corruzione del Comune di Lona Lases.

Ai membri della Commissione Galvagni racconta di come già al suo ingresso in Comune nel 2001 tutti i fascicoli riguardanti le cave avessero dei sigilli perchè sequestrati dalla Guardia di Finanza. Galvagni parla di un settore «il cui controllo economico sfugge totalmente e i lavoratori sono sfruttati.»

Valentini, che è stato sindaco di Lona-Lases a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90, compare invece davanti alla Commissione in veste di membro del Coordinamento lavoro porfido. Racconta di un clima di omertà e della «paura di amministratori comunali in conflitto di interessi, collusi con personaggi in odore di mafia.» Si sofferma anche sulle minacce ed intimidazioni vissute dalla sua Amministrazione a fine degli anni ‘80 dopo che erano stati raddoppiati i canoni delle cave: ad aprile del 1986 venne dato fuoco alla macchina dell’assessore alle cave durante una seduta della giunta comunale, un mese dopo vennero fatti esplodere 12 chilogrammi di tritolo a 100 metri dalla sua abitazione.

Già nel piano anticorruzione del Comune di Lona Lases del 2014, Galvagni aveva sottolineato i rischi nel settore del porfido. Nel 2017 aveva poi redatto una relazione dove denunciava infiltrazioni della ‘ndrangheta. L’anno prima, il Coordinamento Lavoro Porfido aveva presentato due esposti in Procura. Nel 2019 il mensile Questotrentino pubblica una serie di inchieste, tra cui “Infiltrazioni mafiose in Trentino”.

A capo della locale di Lona Lases – tratteggiano i carabinieri – siede Innocenzio Macheda, esponente della cosca Serraino. Viene da Cardeto, un paesino dell’Aspromonte, e in Val di Cembra fa da padrone: vestito da imprenditore in realtà non si fa problemi ad uscire armato di bastoni per intimidire direttamente i lavoratori e percuoterli «come i Santi di Reggio». Il suo braccio destro è Domenico Morello, che cura i rapporti con i clan in Calabria, interessati alle attività del porfido in Trentino che vedono come occasione per il reinvestimento di capitali sporchi.

Alleati e concittadini di Macheda, sono i fratelli Giuseppe e Pietro Battaglia, importanti imprenditori del porfido in Val di Cembra. Negli anni ‘80 si trasferiscono in Trentino e acquistano le prime imprese e, non molti anni dopo, anche la prima cava. Con che soldi? La Procura di Trento ipotizza che «le costosissime acquisizioni di imprese siano avvenute con il riciclaggio di denaro della ‘ndrangheta». D’altronde è la stessa madre di Macheda a dirlo in un’intercettazione: quando Macheda si è trasferito in Trentino per aprire una ditta di porfido lei a Battaglia ha inviato «tantissimo denaro, nell’ordine di milioni».

Eppure in Trentino, il cui capoluogo viene definito nelle intercettazioni una «città bianca senza malizia», tutto tace. Perchè, come scrive la Procura, «peculiarità dell’infiltrazione trentina è quella di esser stata inizialmente cautamente silente». I fratelli Battaglia si inseriscono poco alla volta in un mondo, quello delle cave di porfido, già caratterizzato da diverse anomalie, andando ad individuare un settore molto redditizio, poco controllato e, dunque, attaccabile.

I Battaglia sono i precursori, li seguirà Macheda (e i suoi milioni) e, piano piano, uomini più giovani con contatti strategici tanto con le cosche che con le istituzioni. La strategia fondamentale è una: non dare nell’occhio. Si inizia con l’acquistare le cave, con il fare girare soldi puliti, ed è in questa fase che Battaglia si sposa con una trentina, Giovanna Casagranda. Questo lo rende a tutti gli effetti inserito nella società della Val di Cembra, e infatti nel 2001 diventa consigliere comunale mentre dal 2005 al 2010 è assessore alle cave del comune di Lona Lases. Il fratello Pietro da gennaio 2011 è divenuto consigliere del demanio civico di Lases, strategico per il rilascio delle concessioni necessarie alla estrazione e lavorazione del porfido.

«La Provincia di Trento è una sorta di principato e non può abbandonare un piccolo comune nella gestione dei rapporti con i grandi concessionari».

Filippo Degasperi

Consigliere provinciale della Provincia di Trento

L’oro rosso e il mondo di mezzo

I circa 10 chilometri quadrati che includono parte del territorio dei comuni cembrani di Albiano, Lona Lases, Fornace e Baselga di Pinè sono noti come il “quadrilatero del porfido”. In questo fazzoletto di terra caratterizzato da piccoli comuni a bassa densità abitativa nel 2016 erano attive circa 85 cave e 300 ditte. In Val di Cembra “l’oro rosso”, come viene chiamato il porfido, viene estratto già a partire dal periodo tra le due guerre mondiali. È un settore di primaria importanza economica per il Trentino, ma non immune da problematiche.

Il consigliere provinciale Filippo Degasperi, che nel 2016 aveva presentato degli esposti in Procura su questa realtà, lo definisce «un Far West, dove i prepotenti e i delinquenti vanno ad occupare uno spazio poco presidiato». Le aziende ottengono concessioni pubbliche, affidate da almeno cinquant’anni alle stesse famiglie. I veri padroni sono dunque i concessionari.

«La Provincia di Trento è una sorta di principato e non può abbandonare un piccolo comune nella gestione dei rapporti con i grandi concessionari», dice Degasperi, che sottolinea come si tratti di un rapporto impari, che ha fatto sì che i controlli siano stati «pochi ed inefficaci, talvolta anche comunicati prima per salvaguardare le imprese».

Walter Ferrari, ex-cavatore dalla barba lunga e i modi gentili, è il portavoce del Coordinamento Lavoro Porfido, un comitato di cittadini e lavoratori del porfido che si è formato nel 2014 per tutelare i lavoratori e gli interessi delle comunità locali.

Per Ferrari l’anomalia principale è l’esternalizzazione della forza lavoro. Negli anni ‘90 una vertenza cambia radicalmente uno degli aspetti del mondo del porfido. La magistratura sequestra le trance con maglio a caduta, ritenute fuori norma in materia di sicurezza del lavoro. Anche per questo, racconta Ferrari, una parte delle imprese operanti nel settore del porfido adottò un escamotage: fare pressione sui lavoratori, molti dei quali all’epoca stranieri, affinché aprissero partita iva. Figurando artigiani, i lavoratori potevano continuare a lavorare sulle vecchie trance e i padroni non erano costretti a sostituirle. Quando più tardi la legge 626 sulla sicurezza del lavoro costringe alla definitiva sostituzione dei macchinari, si cerca un altro espediente: l’esternalizzazione della forza lavoro a piccole aziende artigiane. Si forma così quello che il Coordinamento Lavoro Porfido chiama “mondo di mezzo”.

È a questo mondo di mezzo che appartengono i tre macedoni che hanno picchiato l’operaio Hu Xupai. È un sistema, racconta Ferrari, che non si accontenta più di sfruttare manodopera in nero non pagando contributi assicurativi o premi Inail, ma che finisce per privare i lavoratori addirittura dei soldi effettivamente guadagnati durante il lavoro in nero. Il mancato rispetto contrattuale dal punto di vista della regolarità retributiva e contributiva, sottolinea Ferrari, non sarebbe stato adottato solo dai calabresi ma anche in altre aziende gestite da concessionari locali.

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È in questa zona grigia che si inseriscono i fratelli Battaglia. Ferrari ricorda a posteriori l’arrivo a Lona-Lases di Pietro e Giuseppe Battaglia come qualcosa di anomalo: «Quei ragazzi calabresi arrivati a metà degli anni ottanta ci sembravano gli ultimi di un’ondata di migrazione lavorativa in realtà già esaurita.» Negli anni sessanta le cave avevano attirato molti lavoratori, tanti dei quali meridionali, che nel corso degli anni settanta avevano però iniziato a lasciare la Valle.

Ferrari ricorda di aver conosciuto i Battaglia presso la sede del PCI locale, in quanto Giuseppe Battaglia frequentava la figlia del segretario della sezione locale, quella stessa Giovanna Casagranda che sarebbe poi diventata sua moglie. Battaglia e gli altri giovani calabresi arrivati in Val di Cembra a metà degli anni ottanta, racconta Ferrari, non sembravano persone disperate alla ricerca di un lavoro: «ricordo che uno di loro raccontava di avere un posto di lavoro nella forestale al sud, ma diceva di voler girare il mondo».

Il salto di qualità dei fratelli Battaglia nel mondo del porfido locale avviene a cavallo tra gli anni 1999 e 2000, con l’acquisto della grande cava di Camparta, oggi il più grande sito estrattivo di porfido del mondo. Per l’acquisto, scrive il Gip nelle carte dell’operazione “Perfido”, i Battaglia fanno un’offerta pari a 12 miliardi delle vecchie lire. Un’offerta che stride con l’effettivo valore della cava, che si aggirava sui sei miliardi di lire, tanto che all’epoca l’affare finì nel mirino della Guardia di Finanza. Alcuni dei dialoghi intercettati dai carabinieri del Ros sollevano dubbi sui soldi utilizzati dai Battaglia per l’acquisto della cava. Pietro Battaglia, riferendosi all’acquisto della cava, parla di una persona non meglio specificata che «arrivò con una valigetta piena di soldi», mettendoli sul tavolo e invitando i presenti a contarli.

I fratelli Battaglia sarebbero quindi inseriti sia nel mondo dei grandi concessionari – attraverso la partecipazione, diretta o occulta ad aziende come la Anesi Srl e la Cava Porfidi Saltori srl – che nel cosiddetto mondo di mezzo, arrivando di fatto a creare quello che gli investigatori definiscono «un cartello monopolistico nel campo del porfido».

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Vista aerea di una cava di porfido – Foto: Carabinieri Trento

L’accusa sostiene che per trarne massimo profitto, i coniugi Giuseppe Battaglia e Giovanna Casagranda sfruttavano i dipendenti, in gran parte stranieri. Ma non basta. Stando agli inquirenti i Battaglia avevano una gestione finanziaria allegra, che prevedeva vendere porfido in nero e falsificare fatture.

Una pratica che avrebbe toccato anche la Marmirolo Porfidi Srl, di cui Battaglia è socio di minoranza. Secondo la nota indagine “Aemilia” sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta di Cutro in Emilia Romagna, Antonio Muto, socio di maggioranza della Marmirolo, – azienda che operava nelle cave della Val di Cembra – è intraneo alla ‘ndrangheta cutrese e colpevole di bancarotta fraudolenta della Marmirolo. Battaglia non viene indagato e per qualche anno di Muto, ormai in carcere, non si sentirà più parlare.

Poi alle 3:20 di mattina del 29 agosto 2018 la Nissan Navara di Innocenzio Macheda viene incendiata. Un segnale forte, contro l’uomo ritenuto alla guida della ‘ndrina della Val di Cembra. Il sospetto è che l’atto incendiario sia un messaggio per il suo socio Battaglia, il quale, all’epoca di “Aemilia”, non avrebbe fornito le fatture false per scagionare Muto.

un sistema, racconta Ferrari, che non si accontenta più di sfruttare manodopera in nero non pagando contributi assicurativi o premi Inail, ma che finisce per privare i lavoratori addirittura dei soldi effettivamente guadagnati durante il lavoro in nero

La politica è cosa loro

Il quadro che emerge dalle intercettazioni è anche quello di una politica locale asservita agli imprenditori calabresi delle cave. Pietro Battaglia viene descritto come «fautore» dell’elezione a sindaco di Lases di Roberto Dalmonego avvenuta il 27 maggio 2018, in cui Battaglia diventa consigliere rimanendo sullo scranno fino alle elezioni del 21 settembre scorso. È lo stesso Battaglia in un’intercettazione a chiarire come lo scopo del sostegno politico al candidato sindaco sia solo un modo per curare i propri interessi. Per questo si prodiga facendo campagna elettorale casa per casa.

Nel 2015, nell’ambito di una diversa indagine di polizia, era già emerso l’impegno della ‘ndrina della Val di Cembra nel cercare di influenzare e indirizzare le votazioni per l’unificazione dei Comuni di Albiano e Lona Lases. Il tutto solo per mantenere immutate le concessioni delle cave di porfido nei due comuni.

L’appoggio alla politica locale, stando agli inquirenti, passava anche dall’associazione “Magna Grecia”, registrata a Trento da Giuseppe Paviglianiti che sosteneva la candidatura di un esponente del centro sinistra a Trento per le elezioni politiche alla Camera dei Deputati.

È febbraio 2018 e Paviglianiti invita Morello, il braccio destro del capo locale Macheda, ad un aperitivo per la candidata del PD Franzoi. «Una mano ve la diamo, però vedi che noi, siamo tutti persone che hanno delle aziende, che possono avere delle necessità. Vedi che se poi, quando noi bussiamo, voi ci voltate le spalle, vedi che non va bene», chiarisce però Morello.

É un do ut des. Le intercettazioni documentano un altro incontro di sostegno elettorale in cui Macheda incontra Mauro Ottobre, ex deputato del Basso Sarca trentino, che si rivolge a lui per avere il sostegno elettorale alle elezioni provinciali del 2018. Parlando con la stampa locale Mauro Ottobre si è detto “tranquillo” e disposto a chiarire con i magistrati le accuse che gli sono contestate. Anche Paviglianiti, comparso davanti al gip, si è difeso spiegando che l’associazione Magna Grecia ha un semplice ruolo di promozione di cultura e tradizioni calabresi. Paviglianiti ha inoltre sottolineato di essere persona incensurata e ha respinto le accuse, dichiarandosi assolutamente estraneo alla ‘ndrangheta.

Sanpietrini e lavatrici

Per la locale di ‘ndrangheta della Val di Cembra, agganciarsi all’imprenditoria e alle istituzioni che contano è fondamentale, ben oltre il Trentino. Così Morello – il braccio destro del presunto boss Macheda – si attiva per espandersi fino a Roma, sfruttando i legami che ha nella Capitale con un commercialista, Fabrizio Cipolloni, un carabiniere, Fabrizio De Santis, e un imprenditore, Alessandro Schina. Sarà Schina a connetterli tanto alla politica quanto alla malavita capitolina, tramite Marco Vecchioni, pluripregiudicato romano in contatto col noto Massimo Carminati. Vecchioni presenterà loro Fortunato Mangiola, politico romano di origini calabresi, con cui riusciranno a presentare al Presidente della Regione Lazio, Zingaretti, un non meglio specificato progetto. «Un incontro dove c’era la politica, c’era la malavita e c’era l’imprenditore» – lo descriverà Schina.

Le indagini dei carabinieri fanno emergere anche altri progetti tra Morello e il commercialista Cipollini, tra i quali l’organizzazione di un canale di import-export con la Cina che avrebbe dovuto coinvolgere la GLS di Trento e il porto di Gioia Tauro, grazie all’alleanza con le locali cosche di ‘ndrangheta.

D’altronde i contatti con le cosche in Calabria non si interrompono mai, come testimoniano vari episodi monitorati dai carabinieri. Il più significativo è sicuramente l’incontro del 13 aprile 2018 a Roma: Morello viene invitato dagli ‘ndranghetisti Antonino Paviglianiti e Giuseppe Crea al bar “Sole e Luna” sulla Nomentana (accanto al quartiere San Basilio, fortemente infiltrato dalla ‘ndrangheta della Locride). Crea e Paviglianiti gli propongono di diventare il terminale di un’operazione di riciclaggio, serve che certi capitali spariscano verso Nord, là in Trentino dove si sospetta e controlla meno.

Morello però alla fine dell’incontro è preoccupato: si è accorto che i carabinieri erano appostati nelle vicinanze. Il guardaspalle di Morello conferma, «se ne sarebbe accorto pure un bambino che stavamo facendo cose losche…». Ma è soprattutto l’origine dei soldi a preoccuparli. Morello si sfoga: «Hanno soldi da pulire e hanno bisogno di chi li tira fuori puliti…non vogliono la banca che li controlla». E svela così anche qualcosa sull’origine del denaro: «Ha detto servizi segreti… Quelli di Gheddafi… glieli hanno dati in mano a loro… poi, tra un anno, che cosa succede, succede che poi loro ti chiedono i soldi.. dove sono?»

Le indagini non appurano se Morello si sia poi prestato a questa operazione di riciclaggio o meno, ma solo tre giorni dopo a Trento incontra il commercialista Cipolloni per una diversa proposta di riciclaggio. Questa volta si parla di riciclare per conto di un cliente di Napoli che vende la benzina per tutto il nord italia. Morello risponde che lui ci sta a fare l’operazione, ma deve dire all’interlocutore che vuole un milione di euro in anticipo.

La corte della ‘ndrangheta a Trento

«Come ogni associazione di stampo mafioso, quella calabro-trentina provvede a darsi anche una facciata di rispettabilità», scrive la Procura nella misura. E questa facciata passerebbe tanto dall’Associazione Magna Grecia a Trento quanto da un «faccendiere, in grado, anche per livello professionale e culturale, di attrarre nella sua ragnatela personaggi di spicco, che possono tornare utili ai bisogni dell’associazione.» Giulio Carini, classe ’48, è nato a Reggio Calabria ma è in Trentino che opera nel settore dell’edilizia. Ed è sempre qui che ha importanti contatti con soggetti delle istituzioni, tra i quali – stando alle evidenze dell’indagine del Ros – un ex prefetto di Trento, un vicequestore della Polizia, un Capitano dei Carabinieri, giudici del Tribunale di Trento, personalità della politica, un primario dell’ospedale Santa Chiara.

Oggi Carini deve rispondere di associazione mafiosa per avere favorito la locale di ‘ndrangheta guidata da Macheda e avere aiutato nella risoluzione di vari problemi grazie appunto alle sue conoscenze sul territorio trentino. Per Carini è stata scelta la misura dell’obbligo di firma. Comparso davanti al gip, raccontano i quotidiani locali, Carini si è difeso rifiutando la contestazione di appartenere alla ‘ndrangheta, depositando una memoria che spiega l’incompatibilità con un’organizzazione criminale. Ha respinto anche l’accusa di essere un “faccendiere”, dicendo di poter fornire una spiegazione a tutte le intercettazioni.

Il 12 dicembre 2019 veniva erroneamente notificato un avviso di proroga delle indagini preliminari relative al reato di associazione mafiosa (ex art. 416 bis) ad alcuni degli indagati.

Il 7 febbraio di quest’anno parlando con l’avvocato Claudio Tezzele, Giulio Carini fa riferimento ad un invito indirizzato ai magistrati del Tribunale di Trento: «Carini Giulio dice che l’altra sera ha sentito il capo (il presidente del Tribunale Guglielmo Avolio, secondo i carabinieri del Ros) in quanto lo invita a cena, dice che se vengono quelli che lui gli ha detto, che saranno in cinque sei …». In effetti alcuni giorni dopo, l’11 febbraio, Carini – assieme al suo avvocato – ha cenato con il giudice Guglielmo Avolio, il giudice della Procura Generale Giuseppe De Benedetto, un ex ufficiale giudiziario e Michele Dalla Piccola, consigliere provinciale. In quell’occasione, monitorata dal Ros, Carini fa allusioni ad un suo possibile arresto dicendo che se dovesse finire dentro vuole reclusione notturna e isolamento diurno.

Domenico Morello, dal canto suo, ha richieste più forti da fare alla magistratura. Morello incontra il generale valsuganotto Dario Buffa il 19 dicembre 2019 e «esprime chiaramente che avranno bisogno del giudice Avolio Guglielmo del Tribunale di Trento», si legge nell’ incartamento dell’indagine. Descritto come «quello che beve tanta birra», Buffa mostra di comprendere perfettamente a chi Morello si stia riferendo, «va bene ok, sono in contatto, mi manda ogni giorno le sue cazzate Willy Guglielmo». Già l’anno prima Morello parlava di Avolio come se fosse al suo servizio, spiegando ad un sodale che presto sarebbe stato a cena col presidente del Tribunale e gli avrebbe intimato di porre fine alla sua vicenda giudiziaria in quanto si è «rotto i coglioni», altrimenti loro finiranno per parlare di altro.

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CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Margherita Bettoni

Editing

Giulio Rubino

Foto

Valle di Cembra/lorenza62/Shutterstock

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#inEnglish

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Come i clan usano gli e-wallet per riciclare denaro sporco

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Matteo Civillini

Il manuale del riciclaggio di capitale mafioso italiano via gioco d’azzardo prevede, secondo quanto emerso in anni di indagini, tre passaggi. Primo: aprire una società in un Paese che non fa troppe domande durante la procedura per richiedere la licenza per il gioco online. Secondo: creare una rete di centri scommesse in Italia dove i giocatori possono venire a conoscenza del marchio e fare le loro puntate direttamente. Il controllo del territorio esercitato dai clan facilita il lavoro alle aziende mafiose. Terzo step, il più difficile: trovare un metodo di pagamento per far transitare i soldi tra le agenzie italiane e la case madre all’estero.

Data l’origine illecita – sono infatti proventi di attività dell’organizzazione criminale – devono passare il più inosservati possibile. Dalle casse delle piattaforme di gioco passano però fino a diverse centinaia di migliaia di euro al giorno: la possibilità di controlli delle autorità finanziarie e antiriciclaggio è molto alta. Le banche tradizionali sono obbligate a segnalare possibili operazioni sospette, tra cui vengono inquadrate anche quelle che hanno un ammontare particolarmente rilevante. A chi rivolgersi, quindi?

La risposta, secondo le indagini, sono alcuni istituti di moneta elettronica, operatori finanziari meno noti al grande pubblico, che si sono ricavati una nicchia di affari servendo clienti ad alto rischio, in gran parte nel mondo del gioco online. Il vantaggio: consentono spostamenti di denaro pressoché immediati che secondo gli investigatori «sfuggono ai sistemi di tracciabilità in Italia».

La moneta elettronica è l’equivalente digitale del denaro contante, memorizzato su un dispositivo elettronico o su un server remoto. Gli istituti di e-money non hanno filiali fisiche ma forniscono ai clienti account online dove caricare e gestire la valuta elettronica.

#Gambling

Come i clan usano gli e-wallet per riciclare denaro sporco

Veloci e meno tracciabili dei conti correnti tradizionali, i servizi di portafoglio elettronico sono la frontiera più tecnologica del riciclaggio: come girano i proventi del gioco d’azzardo infiltrato dalle mafie

Dopo il caso Wirecard

Wirecard, l’ex gioiellino tedesco della fintech finito in bancarotta nell’ambito della più importante inchiesta internazionale mai fatta finora sul settore della tecnofinanza, è stata tra le società che hanno gestito pagamenti digitali e trasferito fondi illeciti di siti di scommesse infiltrati dalla mafia. Ma non è l’unica. Anzi, stando alle carte di diverse indagini antimafia, altri due tra i più importanti servizi di moneta elettronica sono coinvolti: Skrill e Neteller. Il primo è Global Payment Partner del Milan da maggio 2020; il secondo nel mondo del calcio sponsorizza il Crystal Palace, una delle squadre di Londra in Premier League, e sovvenziona l’Italian Poker Tour dal 2013.

Un tempo rivali, oggi Skrill e Neteller fanno parte dello stesso gruppo: il colosso dei pagamenti digitali Paysafe. Sede sull’Isola di Man e proprietà in mano a due tra i più grandi fondi di private equity al mondo, Blackstone Group e CVC Capital Partners. Per avere un’idea della potenza di fuoco, Blackstone in Italia è il fondo che si è comprato il 20% di Versace e la storica sede del Corriere della Sera, mentre CVC è in trattativa da maggio per acquistare il 20% della Serie A di Calcio.

Il loro prodotto di punta sono gli e-wallet, salvadanai virtuali collegati a un indirizzo email, dove gli utenti possono depositare o prelevare denaro, e inviarne ad altri dal proprio conto.

Wirecard, l’ex gioiellino tedesco della fintech finito in bancarotta nell’ambito della più importante inchiesta internazionale mai fatta finora sul settore della tecnofinanza, è stata tra le società che hanno gestito pagamenti digitali e trasferito fondi illeciti di siti di scommesse infiltrati dalla mafia. Ma non è l’unica

È possibile che Skrill, Neteller e la capogruppo Paysafe non fossero a conoscenza dei legami degli operatori di gambling con la criminalità organizzata. Ma, in quanto organismi finanziari regolamentati, devono aderire ai più alti standard anti-riciclaggio e segnalare ogni operazione sospetta.

Paysafe, raggiunta da IrpiMedia dice di disporre di «meccanismi di compliance onnicomprensivi affinché venga scongiurato l’utilizzo irregolare dei servizi». «Una traccia elettronica delle transazioni completate da un cliente è sempre disponibile – specificano da Paysafe – e se identifichiamo un comportamento sospetto, blocchiamo immediatamente gli account e, se appropriato, segnaliamo tale attività alle autorità responsabili».

Paysafe ha segnato ricavi per 525 milioni di dollari nel 2019. Un successo frutto di un’astuta mossa commerciale: servire una di quelle nicchie di mercato in rapida crescita ma che le banche tradizionali non vogliono toccare, il gioco d’azzardo online. Nel 2017, ultimo anno in cui Paysafe ha divulgato dati dettagliati, il settore rappresentava il 45% dei ricavi totali di Paysafe. Fino a qualche anno prima il gambling pesava fino al 95%, a detta dei vertici dell’azienda.

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È possibile che Skrill, Neteller e la capogruppo Paysafe non fossero a conoscenza dei legami degli operatori di gambling con la criminalità organizzata. Ma, in quanto organismi finanziari regolamentati, devono aderire ai più alti standard anti-riciclaggio e segnalare ogni operazione sospetta

«L’esempio perfetto del perché un consumatore possa voler usare una Paysafecard è la situazione in cui non possiede una carta di credito. Vuole utilizzare il denaro contante. E forse vuole rimanere anonimo»

Top manager PaySafe agli azionisti

Perché il mercato europeo

L’inarrestabile ascesa di Skrill e Neteller affonda le radici nel boom dei siti di scommesse e casinò virtuali dei primi anni Duemila. Fondata nel 2001 a Londra, Skrill è diventato il primo istituto di moneta elettronica a ricevere la licenza dalla Financial Conduct Authority, l’autorità di vigilanza dei mercati finanziari britannica. Nato due anni prima Neteller dalle menti di due canadesi, Stephen Lawrence e John David Lefebvre, Neteller nel 2004 si è trasferito nel Regno Unito per quotarsi su un listino della borsa di Londra, raccogliendo 70 milioni di dollari.

La strada del successo sembrava segnata, ma nel gennaio 2007 i due fondatori sono stati arrestati dall’FBI con l’accusa di aver gestito transazioni illecite per 10 miliardi di dollari favorendo l’accesso di clienti americani ai siti di scommesse offshore. Negli Usa il solo fatto di giocare d’azzardo online è illegale. Costretta a chiudere battenti negli Stati Uniti e pagare una multa da 136 milioni di dollari, da allora Neteller si è concentrata sul mercato europeo.

Tra i benefici a lungo termine degli e-wallet, scriveva Neteller nel rapporto annuale del 2009, ci sono «l’anonimato, la sicurezza e la flessibilità nel gestire soldi online».

Un concetto ripetuto nel 2015, quando il colosso dei pagamenti elettronici ha lanciato la PaysafeCard, una sorta di buono che arriva fino a 100 euro che si può acquistare in supermercati, benzinai o edicole e poi utilizzare online, inserendo un codice pin. «L’esempio perfetto del perché un consumatore possa voler usare una Paysafecard è la situazione in cui non possiede una carta di credito. Vuole utilizzare il denaro contante. E forse vuole rimanere anonimo», spiegava anni fa un top manager agli azionisti

I soldi di Centurionbet

Tra i clienti dei sistemi di pagamento di Paysafe c’è stata fino al 2017 Centurionbet, società maltese di gambling controllata dai Martiradonna, famiglia vicina alla criminalità organizzata barese. Centurionbet gestiva il marchio Bet1128, che all’apice del successo vantava diverse decine di centri scommesse in Italia, Spagna e Sudamerica, e un fatturato annuale stimato in oltre 100 milioni di euro. Secondo le indagini che hanno portato alla stop dell’attività nel maggio 2017, Francesco Martiradonna, burattinaio occulto di Centurionbet, aveva stretto rapporti con diverse famiglia di ‘ndrangheta e cosa nostra per la diffusione del brand. Francesco Martiradonna è stato condannato dal Tribunale di Catanzaro a 11 anni e 4 mesi in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa.

Secondo gli investigatori, la quasi totalità dei soldi in entrata e uscita su Bet1128 passavano da Skrill, Neteller e PaysafeCard. Dall’analisi dei documenti contabili della società emerge come in una sola giornata gli introiti accumulati sulle tre piattaforme superassero i 220mila euro.

Un passaggio di una delle inchieste su Centurionbet/IrpiMedia

Dentro Centurionbet, i conti Skrill e Neteller servivano anche per gestire alcuni passaggi delicati. Come il pagamento dei centri scommesse, che accettavano giocate e liquidavano vincite in contanti, violando la legge sul gioco d’azzardo. O ancora per il pagamento in nero delle provvigioni dei cosiddetti “master”, gli agenti di zona che facevano da raccordo tra i centri scommesse e la casa madre. Il motivo lo spiega un manager di Bet1128 intercettato dagli inquirenti durante una conversazione con un aspirante “master”.

Quest’ultimo gli chiede come poter incassare migliaia di euro senza un giustificativo lecito: il manager risponde di non preoccuparsi perché utilizzando i circuiti delle carte di Skrill e Neteller non avrebbe avuto problemi. Infatti non è possibile risalire al proprietario della carta e un domani, in caso di controlli, avrebbe potuto giustificare il denaro come semplice vincita da poker.

Anche i vertici di Centurionbet avrebbero fatto affidamento su Skrill e Neteller per custodire parte del proprio patrimonio. È lì infatti che, secondo le indagini, i fratelli Martiradonna hanno trasferito i depositi bancari dell’associazione criminale, dopo aver sospettato dell’esecuzione di sequestri da parte della Guardia di Finanza. Una fonte vicina all’indagine riferisce a IrpiMedia che non è stato possibile approfondire questo aspetto finanziario per mancanza di collaborazione da parte degli istituti di pagamento.

Dentro Centurionbet, i conti Skrill e Neteller servivano anche per gestire alcuni passaggi delicati. Come il pagamento dei centri scommesse, che accettavano giocate e liquidavano vincite in contanti, violando la legge sul gioco d’azzardo

Finanziatori di latitanti a Castelvetrano

Non sarebbe successo solo a loro. Anche gli agenti della DIA di Trapani si sono trovati la strada sbarrata quando sono andati a bussare alla porta di Skrill. Indagavano sugli affari di Carlo Cattaneo, giovane imprenditore di Castelvetrano, in provincia di Trapani, a capo di decine di centri scommesse sparsi per la Sicilia Occidentale. Un business da centinaia di migliaia di euro alla settimana che, secondo gli investigatori, avrebbe anche finanziato la latitanza di Matteo Messina Denaro, ultimo capo dei capi di cosa nostra.

Grazie alle intercettazioni gli inquirenti erano riusciti a scoprire i numeri di alcune carte Skrill che l’organizzazione criminale aveva utilizzato per spostare i proventi del gioco illegale. Una pista promettente per ricostruire il flusso di denaro. Ma, «alla richiesta di fornire indicazioni sull’identità dei titolari delle carte – si legge sull’ordinanza cautelare – la società britannica ha risposto che non è possibile fornire alcuna indicazione in merito».

Paysafe spiega ancora a IrpiMedia che, in quanto istituto finanziario regolamentato, «si attiene ai suoi obblighi in modo estremamente serio». «La nostra policy – spiega un portavoce della società – è sempre dare priorità a qualsiasi richiesta di assistenza che riceviamo dalle autorità».

Nelle agenzie di Cattaneo si scommetteva con Bet17Nero, un sito con dominio “.com” non autorizzato in Italia. Una di quelle che in gergo vengono chiamate skin, ovvero piattaforme di gioco con un’interfaccia grafica distinta ma che si appoggiano su un unico sistema di gioco. A programmarle, e poi venderle ai distributori come Cattaneo, sono società di informatica, spesso localizzate all’estero.

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Le mille vesti di LB Group

Dietro Bet17Nero, per esempio, c’era LB Group, azienda maltese di proprietà di Sergio Moltisanti. Ragusano ma ben inserito negli ambienti che contano sull’isola, tanto da guadagnarsi l’ammissione nell’ordine dei Cavalieri di Malta. Il mercato principale di LB Group era però sempre l’Italia, dove è finita spesso invischiata in indagini antimafia. Il caso Cattaneo, innanzitutto. Ma anche John Calogero Luppino, punto di riferimento di LB Group nel trapanese, nel febbraio 2019, quando è stato arrestato con le accuse di associazione mafiosa ed estorsione. Legami pericolosi che hanno fatto perdere all’azienda attiva nel settore del gioco d’azzardo la licenza in precedenza concessa dall’autorità del gioco maltese.

Da allora LB Group formalmente non opera più nel mercato del gioco online. Ma, come IrpiMedia ha potuto ricostruire, numerose skin gestite dalla società maltese non sono mai sparite. Come scommettisports.com, deabet.eu, o betxgo.com, per citarne solo alcune. Accettano ancora oggi le puntate dei giocatori, mantenendo stesso nome e stessa grafica. Con un’unica, importante, modifica: ogni riferimento alla LB Group è stato rimpiazzato con un’altra società maltese, Blue Sky Ltd.

A guidare l’azienda un altro ragusano, che curiosamente ha altri affari comuni con Moltisanti, capo di LB Group. Persa la licenza maltese, i loro siti di scommesse fanno oggi affidamento su una concessione ottenuta a Curaçao, nelle Antille Olandesi. Ma, per far sì che la macchina funzioni a perfezione ci vuole ovviamente un sistema di pagamento che permetta ai giocatori di caricare i soldi e incassare le vincite. I siti indicano come metodi di pagamento i nomi di Skrill e PaysafeCard, gli istituti di moneta elettronica preferiti dal mondo del gambling. Tutto cambia perché nulla cambi.

Paysafe ha inoltre dichiarato a IrpiMedia di fare affidamento su «solidi processi di controllo e verifica» prima di processare pagamenti per un esercente. «Siamo consapevoli dell’esistenza di operatori che affermano falsamente di offrire i nostri servizi con lo scopo di aumentare la loro credibilità», ha concluso la società.

CREDITI

Autori

Matteo Civillini

Editing

Lorenzo Bagnoli

Come la mafia ha usato Wirecard per i portali del gioco d’azzardo

Come la mafia ha usato Wirecard per i portali del gioco d’azzardo
Matteo Civillini Gianluca Paolucci

Betuniq era una società di scommesse che utilizzava un modo ingegnoso per aggirare la normativa italiana sul gioco d’azzardo e riciclare montagne di denaro. Il sistema si reggeva su due elementi: l’appoggio della ‘ndrangheta e i servizi di Wirecard, l’ex colosso tedesco del fintech, franato nel giugno scorso con un buco di due miliardi e una storia opaca ancora in gran parte da scrivere. BetUniq funzionava così: una fitta rete di agenzie camuffate da internet point dove, in teoria, i clienti avrebbero dovuto creare un proprio profilo online e scommettere senza l’intermediazione del centro.

I 3,9 milioni di euro passati da Wirecard

In realtà, le agenzie accettavano scommesse in contanti che venivano poi caricate su un unico conto alimentato da un fido concesso da Uniq Group. Società maltese a capo di Betuniq, Uniq Group disponeva di un conto corrente aperto presso Wirecard che veniva utilizzato per il trasferimento di soldi dai centri scommesse in Italia alla casa madre. Nel 2014 erano transitati su questo conto circa 3,9 milioni di euro, che secondo gli investigatori della Dda di Reggio Calabria rappresentavano una parte degli incassi illeciti derivanti dalla raccolta fisica delle scommesse.

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Betuniq non esiste più dal luglio 2015, spazzata via dall’operazione “Gambling” della Dda reggina. Il processo d’Appello per 22 imputati si è chiuso un anno fa con sedici condanne e sei assoluzioni. Tra i reati contestati l’intestazione fittizia di beni, l’associazione per delinquere e l’associazione mafiosa. A controllare il gruppo era Mario Gennaro, ai tempi espressione delle più importanti cosche reggine della ‘ndrangheta e oggi pentito. Proprio a una serie di famiglie di ‘ndrangheta facevano riferimento le agenzie di BetUniq messa in piedi da Gennaro. È possibile che Wirecard non fosse a conoscenza dei legami degli operatori di gambling con la criminalità organizzata. Ma, in quanto organismo finanziario regolamentato, l’azienda tedesca deve aderire ai più alti standard anti-riciclaggio e segnalare ogni operazione sospetta.

Tra le tante ombre del caso, oltre alla incapacità di regolatori e controllori di intervenire malgrado i numerosi allarmi, anche la disinvoltura con la quale Wirecard si è prestata a regolare transazioni di clienti ai limiti del legale – dal porno estremo al trading di prodotti finanziari ad alto rischio.

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I casi Centurionbet e Sks365

Fino alle organizzazioni criminali vere e proprie. Perché quello di Betuniq non è un caso isolato e le cosche reggine non sono le sole, tra le organizzazioni criminali, ad aver testato l’efficienza di Wirecard per raccogliere e trasferire denaro derivante da attività illecite. Tra i suoi clienti c’era anche Centurionbet, società di gambling controllata dalla famiglia Martiradonna, vicina alla criminalità organizzata barese. Wirecard processava i pagamenti degli scommettitori sul sito Bet1128. Marchio che all’apice della propria espansione commerciale vantava diverse decine di centri scommesse in tutt’Italia e un fatturato stimato di oltre 100 milioni di euro.

Il rapporto tra Wirecard e Centurionbet sarebbe proseguito fino al maggio 2017, quando l’azienda maltese ha chiuso i battenti in seguito a un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Schermata dietro una serie di scatole vuote a Panama e alle Isole Vergini Britanniche, la proprietà di Centurionbet era nelle mani di Francesco Martiradonna. Condannato l’anno scorso a 11 anni e 4 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa per aver fatto affari nel gioco d’azzardo con il clan Arena di Crotone.

Del legame tra Wirecard e Centurionbet ha scritto nei giorni scorsi il Financial Times. Un ex dipendente dell’azienda tedesca ha riferito al quotidiano britannico che Wirecard avrebbe svolto una revisione interna su Centurionbet dopo che erano emerse infiltrazioni mafiose in un altro operatore maltese. L’analisi di compliance avrebbe avuto esito positivo sulla base di garanzie fornite dall’azienda.

Il rapporto tra Wirecard e Centurionbet sarebbe proseguito fino al maggio 2017, quando l’azienda maltese ha chiuso i battenti in seguito a un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro

Ad affidare i propri soldi a Wirecard è stata in passato anche SKS365, un’altra azienda nota alle cronache giudiziarie. Nel novembre 2018 le procure di Reggio Calabria, Bari e Catania hanno accusato l’azienda di aver stretto alleanze, almeno fino al 2017, con clan di Cosa Nostra, Sacra Corona Unita e ‘ndrangheta. Ponendo così le basi per costruirsi una solida posizione nel mercato.

Oggi la gestione di SKS365 è passata a un nuovo management estraneo ai fatti incriminati. Ma all’epoca la proprietà era nelle mani di manager poi arrestati per associazione mafiosa, riciclaggio e truffa aggravata. Dalle carte dell’indagine emerge che tra numerosi conti correnti in mezza Europa, SKS365 ne aveva anche due con Wirecard, nei quali alle fine del 2015 erano custoditi oltre un milione e mezzo di euro.

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Matteo Civillini Gianluca Paolucci

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Luca Rinaldi