Corruzione, porfido e sfruttamento: ecco come la ‘ndrangheta si è presa il Trentino

Corruzione, porfido e sfruttamento: ecco come la ‘ndrangheta si è presa il Trentino

Cecilia Anesi
Margherita Bettoni

Sono le 18.18 del due dicembre 2014. L’operaio cinese Hu Xupai entra nel cantiere della “Balkan Porfidi e Costruzioni Srl” a Lona Lases, un piccolo comune montano della Val di Cembra, 12 chilometri a Nord di Trento. Gli ha dato appuntamento lì il suo datore di lavoro, il macedone Durmishi Bardul: Xupai insisteva nel riscattare ciò che gli spettava di diritto, 34.843,04 euro di stipendi arretrati. Non trovando nessuno, Xupai ha un moto di rabbia. Inizia a danneggiare un macchinario, pensando di essere stato nuovamente preso in giro, ma la realtà è ben peggiore. Ad attenderlo nascosti ci sono Hasani Selman e Mustafa Arafat, titolari di un’altra ditta che opera sul cantiere. Spuntano fuori di colpo, minacciandolo con una pistola a tamburo. Non può scappare. Viene colpito al volto con una torcia, più e più volte, fino a svenire. Poi calci, morsi. E una punta metallica che gli trafigge una gamba. Una secchiata d’acqua lo riporta nell’incubo: è legato e adesso di fronte a sé c’è il suo capo, Durmishi, che inizia a picchiarlo selvaggiamente.

Dopo un’ora di violenze, i macedoni se ne vanno, ma prima avvisano i carabinieri che rinverranno Xupai ancora legato. Questa però, non è una storia di litigi tra operaio e caporale: i macedoni agiscono su ordine di una locale di ‘ndrangheta radicata in Val di Cembra, il cui business principale è proprio l’estrazione e la lavorazione del porfido. É questo ciò che sostiene l’indagine “Perfido” dei Carabinieri del Ros di Trento, guidati dal maggiore Alexander Platzgummer e coordinati dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Trento. Il porfido è un settore chiave per l’economia trentina, reso ancora più redditizio dallo sfruttamento del lavoro e della manodopera dei dipendenti che venivano vessati e tenuti alla fame in modo assolutamente deliberato. E quando osavano ribellarsi, come Hu Xupai, si dava l’esempio con una inaudita violenza. Perché era bene che anche in Val di Cembra si sapesse che a mettersi contro la ‘ndrangheta si finiva male.

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A pochi mesi dall’operazione “Freeland” che aveva ipotizzato il radicamento della ‘ndrangheta di Platì a Bolzano, il 15 ottobre scorso la Direzione distrettuale antimafia di Trento ha lanciato l’operazione “Perfido” che rivela come il Trentino sia da trent’anni terra di conquista per la mafia calabrese. Rispetto a Bolzano però, stando alle indagini, la ‘ndrangheta in Val di Cembra si veste da imprenditrice del porfido e si mischia, in modo sinergico, all’imprenditoria locale e alla politica, entrando in modo sotterraneo ma costante nella pubblica amministrazione. Le segnalazioni di cittadini onesti si susseguono negli anni. Il sospetto che il settore sia una zona grigia, dove non si rispettano diritti e in cui entrano capitali sporchi, non c’è solo tra i lavoratori delle cave, ma anche tra giornalisti locali e comitati civici.

Solo adesso arriva la conferma, con un’indagine che mette nero su bianco ciò che prima si poteva solo bisbigliare. Vige la presunzione d’innocenza, e solo il processo potrà definire realmente le responsabilità penali, ma l’immagine è quella di un territorio assoggettato, che ha perso la propria libertà e la propria innocenza. Dove i giudici vanno a cena con gli emissari dei clan, sindaci si fanno sudditi per la sete di potere e imprenditori concorrenti si piegano di fronte alla forza dell’intimidazione.

A pochi mesi dall’operazione “Freeland” che aveva ipotizzato il radicamento della ‘ndrangheta di Platì a Bolzano, il 15 ottobre scorso la Direzione distrettuale antimafia di Trento ha lanciato l’operazione “Perfido” che rivela come il Trentino sia da trent’anni terra di conquista per la mafia calabrese

Le denunce inascoltate

A novembre 2019 i due trentini Marco Galvagni e Vigilio Valentini compaiono davanti alla Commissione parlamentare antimafia per parlare delle infiltrazioni della criminalità organizzata e delle anomalie del mondo del porfido trentino. Galvagni ai tempi è segretario comunale e responsabile per la prevenzione della corruzione del Comune di Lona Lases.

Ai membri della Commissione Galvagni racconta di come già al suo ingresso in Comune nel 2001 tutti i fascicoli riguardanti le cave avessero dei sigilli perchè sequestrati dalla Guardia di Finanza. Galvagni parla di un settore «il cui controllo economico sfugge totalmente e i lavoratori sono sfruttati.»

Valentini, che è stato sindaco di Lona-Lases a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90, compare invece davanti alla Commissione in veste di membro del Coordinamento lavoro porfido. Racconta di un clima di omertà e della «paura di amministratori comunali in conflitto di interessi, collusi con personaggi in odore di mafia.» Si sofferma anche sulle minacce ed intimidazioni vissute dalla sua Amministrazione a fine degli anni ‘80 dopo che erano stati raddoppiati i canoni delle cave: ad aprile del 1986 venne dato fuoco alla macchina dell’assessore alle cave durante una seduta della giunta comunale, un mese dopo vennero fatti esplodere 12 chilogrammi di tritolo a 100 metri dalla sua abitazione.

Già nel piano anticorruzione del Comune di Lona Lases del 2014, Galvagni aveva sottolineato i rischi nel settore del porfido. Nel 2017 aveva poi redatto una relazione dove denunciava infiltrazioni della ‘ndrangheta. L’anno prima, il Coordinamento Lavoro Porfido aveva presentato due esposti in Procura. Nel 2019 il mensile Questotrentino pubblica una serie di inchieste, tra cui “Infiltrazioni mafiose in Trentino”.

A capo della locale di Lona Lases – tratteggiano i carabinieri – siede Innocenzio Macheda, esponente della cosca Serraino. Viene da Cardeto, un paesino dell’Aspromonte, e in Val di Cembra fa da padrone: vestito da imprenditore in realtà non si fa problemi ad uscire armato di bastoni per intimidire direttamente i lavoratori e percuoterli «come i Santi di Reggio». Il suo braccio destro è Domenico Morello, che cura i rapporti con i clan in Calabria, interessati alle attività del porfido in Trentino che vedono come occasione per il reinvestimento di capitali sporchi.

Alleati e concittadini di Macheda, sono i fratelli Giuseppe e Pietro Battaglia, importanti imprenditori del porfido in Val di Cembra. Negli anni ‘80 si trasferiscono in Trentino e acquistano le prime imprese e, non molti anni dopo, anche la prima cava. Con che soldi? La Procura di Trento ipotizza che «le costosissime acquisizioni di imprese siano avvenute con il riciclaggio di denaro della ‘ndrangheta». D’altronde è la stessa madre di Macheda a dirlo in un’intercettazione: quando Macheda si è trasferito in Trentino per aprire una ditta di porfido lei a Battaglia ha inviato «tantissimo denaro, nell’ordine di milioni».

Eppure in Trentino, il cui capoluogo viene definito nelle intercettazioni una «città bianca senza malizia», tutto tace. Perchè, come scrive la Procura, «peculiarità dell’infiltrazione trentina è quella di esser stata inizialmente cautamente silente». I fratelli Battaglia si inseriscono poco alla volta in un mondo, quello delle cave di porfido, già caratterizzato da diverse anomalie, andando ad individuare un settore molto redditizio, poco controllato e, dunque, attaccabile.

I Battaglia sono i precursori, li seguirà Macheda (e i suoi milioni) e, piano piano, uomini più giovani con contatti strategici tanto con le cosche che con le istituzioni. La strategia fondamentale è una: non dare nell’occhio. Si inizia con l’acquistare le cave, con il fare girare soldi puliti, ed è in questa fase che Battaglia si sposa con una trentina, Giovanna Casagranda. Questo lo rende a tutti gli effetti inserito nella società della Val di Cembra, e infatti nel 2001 diventa consigliere comunale mentre dal 2005 al 2010 è assessore alle cave del comune di Lona Lases. Il fratello Pietro da gennaio 2011 è divenuto consigliere del demanio civico di Lases, strategico per il rilascio delle concessioni necessarie alla estrazione e lavorazione del porfido.

«La Provincia di Trento è una sorta di principato e non può abbandonare un piccolo comune nella gestione dei rapporti con i grandi concessionari».

Filippo Degasperi

Consigliere provinciale della Provincia di Trento

L’oro rosso e il mondo di mezzo

I circa 10 chilometri quadrati che includono parte del territorio dei comuni cembrani di Albiano, Lona Lases, Fornace e Baselga di Pinè sono noti come il “quadrilatero del porfido”. In questo fazzoletto di terra caratterizzato da piccoli comuni a bassa densità abitativa nel 2016 erano attive circa 85 cave e 300 ditte. In Val di Cembra “l’oro rosso”, come viene chiamato il porfido, viene estratto già a partire dal periodo tra le due guerre mondiali. È un settore di primaria importanza economica per il Trentino, ma non immune da problematiche.

Il consigliere provinciale Filippo Degasperi, che nel 2016 aveva presentato degli esposti in Procura su questa realtà, lo definisce «un Far West, dove i prepotenti e i delinquenti vanno ad occupare uno spazio poco presidiato». Le aziende ottengono concessioni pubbliche, affidate da almeno cinquant’anni alle stesse famiglie. I veri padroni sono dunque i concessionari.

«La Provincia di Trento è una sorta di principato e non può abbandonare un piccolo comune nella gestione dei rapporti con i grandi concessionari», dice Degasperi, che sottolinea come si tratti di un rapporto impari, che ha fatto sì che i controlli siano stati «pochi ed inefficaci, talvolta anche comunicati prima per salvaguardare le imprese».

Walter Ferrari, ex-cavatore dalla barba lunga e i modi gentili, è il portavoce del Coordinamento Lavoro Porfido, un comitato di cittadini e lavoratori del porfido che si è formato nel 2014 per tutelare i lavoratori e gli interessi delle comunità locali.

Per Ferrari l’anomalia principale è l’esternalizzazione della forza lavoro. Negli anni ‘90 una vertenza cambia radicalmente uno degli aspetti del mondo del porfido. La magistratura sequestra le trance con maglio a caduta, ritenute fuori norma in materia di sicurezza del lavoro. Anche per questo, racconta Ferrari, una parte delle imprese operanti nel settore del porfido adottò un escamotage: fare pressione sui lavoratori, molti dei quali all’epoca stranieri, affinché aprissero partita iva. Figurando artigiani, i lavoratori potevano continuare a lavorare sulle vecchie trance e i padroni non erano costretti a sostituirle. Quando più tardi la legge 626 sulla sicurezza del lavoro costringe alla definitiva sostituzione dei macchinari, si cerca un altro espediente: l’esternalizzazione della forza lavoro a piccole aziende artigiane. Si forma così quello che il Coordinamento Lavoro Porfido chiama “mondo di mezzo”.

È a questo mondo di mezzo che appartengono i tre macedoni che hanno picchiato l’operaio Hu Xupai. È un sistema, racconta Ferrari, che non si accontenta più di sfruttare manodopera in nero non pagando contributi assicurativi o premi Inail, ma che finisce per privare i lavoratori addirittura dei soldi effettivamente guadagnati durante il lavoro in nero. Il mancato rispetto contrattuale dal punto di vista della regolarità retributiva e contributiva, sottolinea Ferrari, non sarebbe stato adottato solo dai calabresi ma anche in altre aziende gestite da concessionari locali.

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È in questa zona grigia che si inseriscono i fratelli Battaglia. Ferrari ricorda a posteriori l’arrivo a Lona-Lases di Pietro e Giuseppe Battaglia come qualcosa di anomalo: «Quei ragazzi calabresi arrivati a metà degli anni ottanta ci sembravano gli ultimi di un’ondata di migrazione lavorativa in realtà già esaurita.» Negli anni sessanta le cave avevano attirato molti lavoratori, tanti dei quali meridionali, che nel corso degli anni settanta avevano però iniziato a lasciare la Valle.

Ferrari ricorda di aver conosciuto i Battaglia presso la sede del PCI locale, in quanto Giuseppe Battaglia frequentava la figlia del segretario della sezione locale, quella stessa Giovanna Casagranda che sarebbe poi diventata sua moglie. Battaglia e gli altri giovani calabresi arrivati in Val di Cembra a metà degli anni ottanta, racconta Ferrari, non sembravano persone disperate alla ricerca di un lavoro: «ricordo che uno di loro raccontava di avere un posto di lavoro nella forestale al sud, ma diceva di voler girare il mondo».

Il salto di qualità dei fratelli Battaglia nel mondo del porfido locale avviene a cavallo tra gli anni 1999 e 2000, con l’acquisto della grande cava di Camparta, oggi il più grande sito estrattivo di porfido del mondo. Per l’acquisto, scrive il Gip nelle carte dell’operazione “Perfido”, i Battaglia fanno un’offerta pari a 12 miliardi delle vecchie lire. Un’offerta che stride con l’effettivo valore della cava, che si aggirava sui sei miliardi di lire, tanto che all’epoca l’affare finì nel mirino della Guardia di Finanza. Alcuni dei dialoghi intercettati dai carabinieri del Ros sollevano dubbi sui soldi utilizzati dai Battaglia per l’acquisto della cava. Pietro Battaglia, riferendosi all’acquisto della cava, parla di una persona non meglio specificata che «arrivò con una valigetta piena di soldi», mettendoli sul tavolo e invitando i presenti a contarli.

I fratelli Battaglia sarebbero quindi inseriti sia nel mondo dei grandi concessionari – attraverso la partecipazione, diretta o occulta ad aziende come la Anesi Srl e la Cava Porfidi Saltori srl – che nel cosiddetto mondo di mezzo, arrivando di fatto a creare quello che gli investigatori definiscono «un cartello monopolistico nel campo del porfido».

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Vista aerea di una cava di porfido – Foto: Carabinieri Trento

L’accusa sostiene che per trarne massimo profitto, i coniugi Giuseppe Battaglia e Giovanna Casagranda sfruttavano i dipendenti, in gran parte stranieri. Ma non basta. Stando agli inquirenti i Battaglia avevano una gestione finanziaria allegra, che prevedeva vendere porfido in nero e falsificare fatture.

Una pratica che avrebbe toccato anche la Marmirolo Porfidi Srl, di cui Battaglia è socio di minoranza. Secondo la nota indagine “Aemilia” sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta di Cutro in Emilia Romagna, Antonio Muto, socio di maggioranza della Marmirolo, – azienda che operava nelle cave della Val di Cembra – è intraneo alla ‘ndrangheta cutrese e colpevole di bancarotta fraudolenta della Marmirolo. Battaglia non viene indagato e per qualche anno di Muto, ormai in carcere, non si sentirà più parlare.

Poi alle 3:20 di mattina del 29 agosto 2018 la Nissan Navara di Innocenzio Macheda viene incendiata. Un segnale forte, contro l’uomo ritenuto alla guida della ‘ndrina della Val di Cembra. Il sospetto è che l’atto incendiario sia un messaggio per il suo socio Battaglia, il quale, all’epoca di “Aemilia”, non avrebbe fornito le fatture false per scagionare Muto.

un sistema, racconta Ferrari, che non si accontenta più di sfruttare manodopera in nero non pagando contributi assicurativi o premi Inail, ma che finisce per privare i lavoratori addirittura dei soldi effettivamente guadagnati durante il lavoro in nero

La politica è cosa loro

Il quadro che emerge dalle intercettazioni è anche quello di una politica locale asservita agli imprenditori calabresi delle cave. Pietro Battaglia viene descritto come «fautore» dell’elezione a sindaco di Lases di Roberto Dalmonego avvenuta il 27 maggio 2018, in cui Battaglia diventa consigliere rimanendo sullo scranno fino alle elezioni del 21 settembre scorso. È lo stesso Battaglia in un’intercettazione a chiarire come lo scopo del sostegno politico al candidato sindaco sia solo un modo per curare i propri interessi. Per questo si prodiga facendo campagna elettorale casa per casa.

Nel 2015, nell’ambito di una diversa indagine di polizia, era già emerso l’impegno della ‘ndrina della Val di Cembra nel cercare di influenzare e indirizzare le votazioni per l’unificazione dei Comuni di Albiano e Lona Lases. Il tutto solo per mantenere immutate le concessioni delle cave di porfido nei due comuni.

L’appoggio alla politica locale, stando agli inquirenti, passava anche dall’associazione “Magna Grecia”, registrata a Trento da Giuseppe Paviglianiti che sosteneva la candidatura di un esponente del centro sinistra a Trento per le elezioni politiche alla Camera dei Deputati.

È febbraio 2018 e Paviglianiti invita Morello, il braccio destro del capo locale Macheda, ad un aperitivo per la candidata del PD Franzoi. «Una mano ve la diamo, però vedi che noi, siamo tutti persone che hanno delle aziende, che possono avere delle necessità. Vedi che se poi, quando noi bussiamo, voi ci voltate le spalle, vedi che non va bene», chiarisce però Morello.

É un do ut des. Le intercettazioni documentano un altro incontro di sostegno elettorale in cui Macheda incontra Mauro Ottobre, ex deputato del Basso Sarca trentino, che si rivolge a lui per avere il sostegno elettorale alle elezioni provinciali del 2018. Parlando con la stampa locale Mauro Ottobre si è detto “tranquillo” e disposto a chiarire con i magistrati le accuse che gli sono contestate. Anche Paviglianiti, comparso davanti al gip, si è difeso spiegando che l’associazione Magna Grecia ha un semplice ruolo di promozione di cultura e tradizioni calabresi. Paviglianiti ha inoltre sottolineato di essere persona incensurata e ha respinto le accuse, dichiarandosi assolutamente estraneo alla ‘ndrangheta.

Sanpietrini e lavatrici

Per la locale di ‘ndrangheta della Val di Cembra, agganciarsi all’imprenditoria e alle istituzioni che contano è fondamentale, ben oltre il Trentino. Così Morello – il braccio destro del presunto boss Macheda – si attiva per espandersi fino a Roma, sfruttando i legami che ha nella Capitale con un commercialista, Fabrizio Cipolloni, un carabiniere, Fabrizio De Santis, e un imprenditore, Alessandro Schina. Sarà Schina a connetterli tanto alla politica quanto alla malavita capitolina, tramite Marco Vecchioni, pluripregiudicato romano in contatto col noto Massimo Carminati. Vecchioni presenterà loro Fortunato Mangiola, politico romano di origini calabresi, con cui riusciranno a presentare al Presidente della Regione Lazio, Zingaretti, un non meglio specificato progetto. «Un incontro dove c’era la politica, c’era la malavita e c’era l’imprenditore» – lo descriverà Schina.

Le indagini dei carabinieri fanno emergere anche altri progetti tra Morello e il commercialista Cipollini, tra i quali l’organizzazione di un canale di import-export con la Cina che avrebbe dovuto coinvolgere la GLS di Trento e il porto di Gioia Tauro, grazie all’alleanza con le locali cosche di ‘ndrangheta.

D’altronde i contatti con le cosche in Calabria non si interrompono mai, come testimoniano vari episodi monitorati dai carabinieri. Il più significativo è sicuramente l’incontro del 13 aprile 2018 a Roma: Morello viene invitato dagli ‘ndranghetisti Antonino Paviglianiti e Giuseppe Crea al bar “Sole e Luna” sulla Nomentana (accanto al quartiere San Basilio, fortemente infiltrato dalla ‘ndrangheta della Locride). Crea e Paviglianiti gli propongono di diventare il terminale di un’operazione di riciclaggio, serve che certi capitali spariscano verso Nord, là in Trentino dove si sospetta e controlla meno.

Morello però alla fine dell’incontro è preoccupato: si è accorto che i carabinieri erano appostati nelle vicinanze. Il guardaspalle di Morello conferma, «se ne sarebbe accorto pure un bambino che stavamo facendo cose losche…». Ma è soprattutto l’origine dei soldi a preoccuparli. Morello si sfoga: «Hanno soldi da pulire e hanno bisogno di chi li tira fuori puliti…non vogliono la banca che li controlla». E svela così anche qualcosa sull’origine del denaro: «Ha detto servizi segreti… Quelli di Gheddafi… glieli hanno dati in mano a loro… poi, tra un anno, che cosa succede, succede che poi loro ti chiedono i soldi.. dove sono?»

Le indagini non appurano se Morello si sia poi prestato a questa operazione di riciclaggio o meno, ma solo tre giorni dopo a Trento incontra il commercialista Cipolloni per una diversa proposta di riciclaggio. Questa volta si parla di riciclare per conto di un cliente di Napoli che vende la benzina per tutto il nord italia. Morello risponde che lui ci sta a fare l’operazione, ma deve dire all’interlocutore che vuole un milione di euro in anticipo.

La corte della ‘ndrangheta a Trento

«Come ogni associazione di stampo mafioso, quella calabro-trentina provvede a darsi anche una facciata di rispettabilità», scrive la Procura nella misura. E questa facciata passerebbe tanto dall’Associazione Magna Grecia a Trento quanto da un «faccendiere, in grado, anche per livello professionale e culturale, di attrarre nella sua ragnatela personaggi di spicco, che possono tornare utili ai bisogni dell’associazione.» Giulio Carini, classe ’48, è nato a Reggio Calabria ma è in Trentino che opera nel settore dell’edilizia. Ed è sempre qui che ha importanti contatti con soggetti delle istituzioni, tra i quali – stando alle evidenze dell’indagine del Ros – un ex prefetto di Trento, un vicequestore della Polizia, un Capitano dei Carabinieri, giudici del Tribunale di Trento, personalità della politica, un primario dell’ospedale Santa Chiara.

Oggi Carini deve rispondere di associazione mafiosa per avere favorito la locale di ‘ndrangheta guidata da Macheda e avere aiutato nella risoluzione di vari problemi grazie appunto alle sue conoscenze sul territorio trentino. Per Carini è stata scelta la misura dell’obbligo di firma. Comparso davanti al gip, raccontano i quotidiani locali, Carini si è difeso rifiutando la contestazione di appartenere alla ‘ndrangheta, depositando una memoria che spiega l’incompatibilità con un’organizzazione criminale. Ha respinto anche l’accusa di essere un “faccendiere”, dicendo di poter fornire una spiegazione a tutte le intercettazioni.

Il 12 dicembre 2019 veniva erroneamente notificato un avviso di proroga delle indagini preliminari relative al reato di associazione mafiosa (ex art. 416 bis) ad alcuni degli indagati.

Il 7 febbraio di quest’anno parlando con l’avvocato Claudio Tezzele, Giulio Carini fa riferimento ad un invito indirizzato ai magistrati del Tribunale di Trento: «Carini Giulio dice che l’altra sera ha sentito il capo (il presidente del Tribunale Guglielmo Avolio, secondo i carabinieri del Ros) in quanto lo invita a cena, dice che se vengono quelli che lui gli ha detto, che saranno in cinque sei …». In effetti alcuni giorni dopo, l’11 febbraio, Carini – assieme al suo avvocato – ha cenato con il giudice Guglielmo Avolio, il giudice della Procura Generale Giuseppe De Benedetto, un ex ufficiale giudiziario e Michele Dalla Piccola, consigliere provinciale. In quell’occasione, monitorata dal Ros, Carini fa allusioni ad un suo possibile arresto dicendo che se dovesse finire dentro vuole reclusione notturna e isolamento diurno.

Domenico Morello, dal canto suo, ha richieste più forti da fare alla magistratura. Morello incontra il generale valsuganotto Dario Buffa il 19 dicembre 2019 e «esprime chiaramente che avranno bisogno del giudice Avolio Guglielmo del Tribunale di Trento», si legge nell’ incartamento dell’indagine. Descritto come «quello che beve tanta birra», Buffa mostra di comprendere perfettamente a chi Morello si stia riferendo, «va bene ok, sono in contatto, mi manda ogni giorno le sue cazzate Willy Guglielmo». Già l’anno prima Morello parlava di Avolio come se fosse al suo servizio, spiegando ad un sodale che presto sarebbe stato a cena col presidente del Tribunale e gli avrebbe intimato di porre fine alla sua vicenda giudiziaria in quanto si è «rotto i coglioni», altrimenti loro finiranno per parlare di altro.

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Cecilia Anesi
Margherita Bettoni

Editing

Giulio Rubino

Foto

Valle di Cembra/lorenza62/Shutterstock

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Come i clan usano gli e-wallet per riciclare denaro sporco

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Matteo Civillini

Il manuale del riciclaggio di capitale mafioso italiano via gioco d’azzardo prevede, secondo quanto emerso in anni di indagini, tre passaggi. Primo: aprire una società in un Paese che non fa troppe domande durante la procedura per richiedere la licenza per il gioco online. Secondo: creare una rete di centri scommesse in Italia dove i giocatori possono venire a conoscenza del marchio e fare le loro puntate direttamente. Il controllo del territorio esercitato dai clan facilita il lavoro alle aziende mafiose. Terzo step, il più difficile: trovare un metodo di pagamento per far transitare i soldi tra le agenzie italiane e la case madre all’estero.

Data l’origine illecita – sono infatti proventi di attività dell’organizzazione criminale – devono passare il più inosservati possibile. Dalle casse delle piattaforme di gioco passano però fino a diverse centinaia di migliaia di euro al giorno: la possibilità di controlli delle autorità finanziarie e antiriciclaggio è molto alta. Le banche tradizionali sono obbligate a segnalare possibili operazioni sospette, tra cui vengono inquadrate anche quelle che hanno un ammontare particolarmente rilevante. A chi rivolgersi, quindi?

La risposta, secondo le indagini, sono alcuni istituti di moneta elettronica, operatori finanziari meno noti al grande pubblico, che si sono ricavati una nicchia di affari servendo clienti ad alto rischio, in gran parte nel mondo del gioco online. Il vantaggio: consentono spostamenti di denaro pressoché immediati che secondo gli investigatori «sfuggono ai sistemi di tracciabilità in Italia».

La moneta elettronica è l’equivalente digitale del denaro contante, memorizzato su un dispositivo elettronico o su un server remoto. Gli istituti di e-money non hanno filiali fisiche ma forniscono ai clienti account online dove caricare e gestire la valuta elettronica.

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Veloci e meno tracciabili dei conti correnti tradizionali, i servizi di portafoglio elettronico sono la frontiera più tecnologica del riciclaggio: come girano i proventi del gioco d’azzardo infiltrato dalle mafie

Dopo il caso Wirecard

Wirecard, l’ex gioiellino tedesco della fintech finito in bancarotta nell’ambito della più importante inchiesta internazionale mai fatta finora sul settore della tecnofinanza, è stata tra le società che hanno gestito pagamenti digitali e trasferito fondi illeciti di siti di scommesse infiltrati dalla mafia. Ma non è l’unica. Anzi, stando alle carte di diverse indagini antimafia, altri due tra i più importanti servizi di moneta elettronica sono coinvolti: Skrill e Neteller. Il primo è Global Payment Partner del Milan da maggio 2020; il secondo nel mondo del calcio sponsorizza il Crystal Palace, una delle squadre di Londra in Premier League, e sovvenziona l’Italian Poker Tour dal 2013.

Un tempo rivali, oggi Skrill e Neteller fanno parte dello stesso gruppo: il colosso dei pagamenti digitali Paysafe. Sede sull’Isola di Man e proprietà in mano a due tra i più grandi fondi di private equity al mondo, Blackstone Group e CVC Capital Partners. Per avere un’idea della potenza di fuoco, Blackstone in Italia è il fondo che si è comprato il 20% di Versace e la storica sede del Corriere della Sera, mentre CVC è in trattativa da maggio per acquistare il 20% della Serie A di Calcio.

Il loro prodotto di punta sono gli e-wallet, salvadanai virtuali collegati a un indirizzo email, dove gli utenti possono depositare o prelevare denaro, e inviarne ad altri dal proprio conto.

Wirecard, l’ex gioiellino tedesco della fintech finito in bancarotta nell’ambito della più importante inchiesta internazionale mai fatta finora sul settore della tecnofinanza, è stata tra le società che hanno gestito pagamenti digitali e trasferito fondi illeciti di siti di scommesse infiltrati dalla mafia. Ma non è l’unica

È possibile che Skrill, Neteller e la capogruppo Paysafe non fossero a conoscenza dei legami degli operatori di gambling con la criminalità organizzata. Ma, in quanto organismi finanziari regolamentati, devono aderire ai più alti standard anti-riciclaggio e segnalare ogni operazione sospetta.

Paysafe, raggiunta da IrpiMedia dice di disporre di «meccanismi di compliance onnicomprensivi affinché venga scongiurato l’utilizzo irregolare dei servizi». «Una traccia elettronica delle transazioni completate da un cliente è sempre disponibile – specificano da Paysafe – e se identifichiamo un comportamento sospetto, blocchiamo immediatamente gli account e, se appropriato, segnaliamo tale attività alle autorità responsabili».

Paysafe ha segnato ricavi per 525 milioni di dollari nel 2019. Un successo frutto di un’astuta mossa commerciale: servire una di quelle nicchie di mercato in rapida crescita ma che le banche tradizionali non vogliono toccare, il gioco d’azzardo online. Nel 2017, ultimo anno in cui Paysafe ha divulgato dati dettagliati, il settore rappresentava il 45% dei ricavi totali di Paysafe. Fino a qualche anno prima il gambling pesava fino al 95%, a detta dei vertici dell’azienda.

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È possibile che Skrill, Neteller e la capogruppo Paysafe non fossero a conoscenza dei legami degli operatori di gambling con la criminalità organizzata. Ma, in quanto organismi finanziari regolamentati, devono aderire ai più alti standard anti-riciclaggio e segnalare ogni operazione sospetta

«L’esempio perfetto del perché un consumatore possa voler usare una Paysafecard è la situazione in cui non possiede una carta di credito. Vuole utilizzare il denaro contante. E forse vuole rimanere anonimo»

Top manager PaySafe agli azionisti

Perché il mercato europeo

L’inarrestabile ascesa di Skrill e Neteller affonda le radici nel boom dei siti di scommesse e casinò virtuali dei primi anni Duemila. Fondata nel 2001 a Londra, Skrill è diventato il primo istituto di moneta elettronica a ricevere la licenza dalla Financial Conduct Authority, l’autorità di vigilanza dei mercati finanziari britannica. Nato due anni prima Neteller dalle menti di due canadesi, Stephen Lawrence e John David Lefebvre, Neteller nel 2004 si è trasferito nel Regno Unito per quotarsi su un listino della borsa di Londra, raccogliendo 70 milioni di dollari.

La strada del successo sembrava segnata, ma nel gennaio 2007 i due fondatori sono stati arrestati dall’FBI con l’accusa di aver gestito transazioni illecite per 10 miliardi di dollari favorendo l’accesso di clienti americani ai siti di scommesse offshore. Negli Usa il solo fatto di giocare d’azzardo online è illegale. Costretta a chiudere battenti negli Stati Uniti e pagare una multa da 136 milioni di dollari, da allora Neteller si è concentrata sul mercato europeo.

Tra i benefici a lungo termine degli e-wallet, scriveva Neteller nel rapporto annuale del 2009, ci sono «l’anonimato, la sicurezza e la flessibilità nel gestire soldi online».

Un concetto ripetuto nel 2015, quando il colosso dei pagamenti elettronici ha lanciato la PaysafeCard, una sorta di buono che arriva fino a 100 euro che si può acquistare in supermercati, benzinai o edicole e poi utilizzare online, inserendo un codice pin. «L’esempio perfetto del perché un consumatore possa voler usare una Paysafecard è la situazione in cui non possiede una carta di credito. Vuole utilizzare il denaro contante. E forse vuole rimanere anonimo», spiegava anni fa un top manager agli azionisti

I soldi di Centurionbet

Tra i clienti dei sistemi di pagamento di Paysafe c’è stata fino al 2017 Centurionbet, società maltese di gambling controllata dai Martiradonna, famiglia vicina alla criminalità organizzata barese. Centurionbet gestiva il marchio Bet1128, che all’apice del successo vantava diverse decine di centri scommesse in Italia, Spagna e Sudamerica, e un fatturato annuale stimato in oltre 100 milioni di euro. Secondo le indagini che hanno portato alla stop dell’attività nel maggio 2017, Francesco Martiradonna, burattinaio occulto di Centurionbet, aveva stretto rapporti con diverse famiglia di ‘ndrangheta e cosa nostra per la diffusione del brand. Francesco Martiradonna è stato condannato dal Tribunale di Catanzaro a 11 anni e 4 mesi in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa.

Secondo gli investigatori, la quasi totalità dei soldi in entrata e uscita su Bet1128 passavano da Skrill, Neteller e PaysafeCard. Dall’analisi dei documenti contabili della società emerge come in una sola giornata gli introiti accumulati sulle tre piattaforme superassero i 220mila euro.

Un passaggio di una delle inchieste su Centurionbet/IrpiMedia

Dentro Centurionbet, i conti Skrill e Neteller servivano anche per gestire alcuni passaggi delicati. Come il pagamento dei centri scommesse, che accettavano giocate e liquidavano vincite in contanti, violando la legge sul gioco d’azzardo. O ancora per il pagamento in nero delle provvigioni dei cosiddetti “master”, gli agenti di zona che facevano da raccordo tra i centri scommesse e la casa madre. Il motivo lo spiega un manager di Bet1128 intercettato dagli inquirenti durante una conversazione con un aspirante “master”.

Quest’ultimo gli chiede come poter incassare migliaia di euro senza un giustificativo lecito: il manager risponde di non preoccuparsi perché utilizzando i circuiti delle carte di Skrill e Neteller non avrebbe avuto problemi. Infatti non è possibile risalire al proprietario della carta e un domani, in caso di controlli, avrebbe potuto giustificare il denaro come semplice vincita da poker.

Anche i vertici di Centurionbet avrebbero fatto affidamento su Skrill e Neteller per custodire parte del proprio patrimonio. È lì infatti che, secondo le indagini, i fratelli Martiradonna hanno trasferito i depositi bancari dell’associazione criminale, dopo aver sospettato dell’esecuzione di sequestri da parte della Guardia di Finanza. Una fonte vicina all’indagine riferisce a IrpiMedia che non è stato possibile approfondire questo aspetto finanziario per mancanza di collaborazione da parte degli istituti di pagamento.

Dentro Centurionbet, i conti Skrill e Neteller servivano anche per gestire alcuni passaggi delicati. Come il pagamento dei centri scommesse, che accettavano giocate e liquidavano vincite in contanti, violando la legge sul gioco d’azzardo

Finanziatori di latitanti a Castelvetrano

Non sarebbe successo solo a loro. Anche gli agenti della DIA di Trapani si sono trovati la strada sbarrata quando sono andati a bussare alla porta di Skrill. Indagavano sugli affari di Carlo Cattaneo, giovane imprenditore di Castelvetrano, in provincia di Trapani, a capo di decine di centri scommesse sparsi per la Sicilia Occidentale. Un business da centinaia di migliaia di euro alla settimana che, secondo gli investigatori, avrebbe anche finanziato la latitanza di Matteo Messina Denaro, ultimo capo dei capi di cosa nostra.

Grazie alle intercettazioni gli inquirenti erano riusciti a scoprire i numeri di alcune carte Skrill che l’organizzazione criminale aveva utilizzato per spostare i proventi del gioco illegale. Una pista promettente per ricostruire il flusso di denaro. Ma, «alla richiesta di fornire indicazioni sull’identità dei titolari delle carte – si legge sull’ordinanza cautelare – la società britannica ha risposto che non è possibile fornire alcuna indicazione in merito».

Paysafe spiega ancora a IrpiMedia che, in quanto istituto finanziario regolamentato, «si attiene ai suoi obblighi in modo estremamente serio». «La nostra policy – spiega un portavoce della società – è sempre dare priorità a qualsiasi richiesta di assistenza che riceviamo dalle autorità».

Nelle agenzie di Cattaneo si scommetteva con Bet17Nero, un sito con dominio “.com” non autorizzato in Italia. Una di quelle che in gergo vengono chiamate skin, ovvero piattaforme di gioco con un’interfaccia grafica distinta ma che si appoggiano su un unico sistema di gioco. A programmarle, e poi venderle ai distributori come Cattaneo, sono società di informatica, spesso localizzate all’estero.

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Le mille vesti di LB Group

Dietro Bet17Nero, per esempio, c’era LB Group, azienda maltese di proprietà di Sergio Moltisanti. Ragusano ma ben inserito negli ambienti che contano sull’isola, tanto da guadagnarsi l’ammissione nell’ordine dei Cavalieri di Malta. Il mercato principale di LB Group era però sempre l’Italia, dove è finita spesso invischiata in indagini antimafia. Il caso Cattaneo, innanzitutto. Ma anche John Calogero Luppino, punto di riferimento di LB Group nel trapanese, nel febbraio 2019, quando è stato arrestato con le accuse di associazione mafiosa ed estorsione. Legami pericolosi che hanno fatto perdere all’azienda attiva nel settore del gioco d’azzardo la licenza in precedenza concessa dall’autorità del gioco maltese.

Da allora LB Group formalmente non opera più nel mercato del gioco online. Ma, come IrpiMedia ha potuto ricostruire, numerose skin gestite dalla società maltese non sono mai sparite. Come scommettisports.com, deabet.eu, o betxgo.com, per citarne solo alcune. Accettano ancora oggi le puntate dei giocatori, mantenendo stesso nome e stessa grafica. Con un’unica, importante, modifica: ogni riferimento alla LB Group è stato rimpiazzato con un’altra società maltese, Blue Sky Ltd.

A guidare l’azienda un altro ragusano, che curiosamente ha altri affari comuni con Moltisanti, capo di LB Group. Persa la licenza maltese, i loro siti di scommesse fanno oggi affidamento su una concessione ottenuta a Curaçao, nelle Antille Olandesi. Ma, per far sì che la macchina funzioni a perfezione ci vuole ovviamente un sistema di pagamento che permetta ai giocatori di caricare i soldi e incassare le vincite. I siti indicano come metodi di pagamento i nomi di Skrill e PaysafeCard, gli istituti di moneta elettronica preferiti dal mondo del gambling. Tutto cambia perché nulla cambi.

Paysafe ha inoltre dichiarato a IrpiMedia di fare affidamento su «solidi processi di controllo e verifica» prima di processare pagamenti per un esercente. «Siamo consapevoli dell’esistenza di operatori che affermano falsamente di offrire i nostri servizi con lo scopo di aumentare la loro credibilità», ha concluso la società.

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Autori

Matteo Civillini

Editing

Lorenzo Bagnoli

Come la mafia ha usato Wirecard per i portali del gioco d’azzardo

Come la mafia ha usato Wirecard per i portali del gioco d’azzardo
Matteo Civillini Gianluca Paolucci

Betuniq era una società di scommesse che utilizzava un modo ingegnoso per aggirare la normativa italiana sul gioco d’azzardo e riciclare montagne di denaro. Il sistema si reggeva su due elementi: l’appoggio della ‘ndrangheta e i servizi di Wirecard, l’ex colosso tedesco del fintech, franato nel giugno scorso con un buco di due miliardi e una storia opaca ancora in gran parte da scrivere. BetUniq funzionava così: una fitta rete di agenzie camuffate da internet point dove, in teoria, i clienti avrebbero dovuto creare un proprio profilo online e scommettere senza l’intermediazione del centro.

I 3,9 milioni di euro passati da Wirecard

In realtà, le agenzie accettavano scommesse in contanti che venivano poi caricate su un unico conto alimentato da un fido concesso da Uniq Group. Società maltese a capo di Betuniq, Uniq Group disponeva di un conto corrente aperto presso Wirecard che veniva utilizzato per il trasferimento di soldi dai centri scommesse in Italia alla casa madre. Nel 2014 erano transitati su questo conto circa 3,9 milioni di euro, che secondo gli investigatori della Dda di Reggio Calabria rappresentavano una parte degli incassi illeciti derivanti dalla raccolta fisica delle scommesse.

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Betuniq non esiste più dal luglio 2015, spazzata via dall’operazione “Gambling” della Dda reggina. Il processo d’Appello per 22 imputati si è chiuso un anno fa con sedici condanne e sei assoluzioni. Tra i reati contestati l’intestazione fittizia di beni, l’associazione per delinquere e l’associazione mafiosa. A controllare il gruppo era Mario Gennaro, ai tempi espressione delle più importanti cosche reggine della ‘ndrangheta e oggi pentito. Proprio a una serie di famiglie di ‘ndrangheta facevano riferimento le agenzie di BetUniq messa in piedi da Gennaro. È possibile che Wirecard non fosse a conoscenza dei legami degli operatori di gambling con la criminalità organizzata. Ma, in quanto organismo finanziario regolamentato, l’azienda tedesca deve aderire ai più alti standard anti-riciclaggio e segnalare ogni operazione sospetta.

Tra le tante ombre del caso, oltre alla incapacità di regolatori e controllori di intervenire malgrado i numerosi allarmi, anche la disinvoltura con la quale Wirecard si è prestata a regolare transazioni di clienti ai limiti del legale – dal porno estremo al trading di prodotti finanziari ad alto rischio.

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I casi Centurionbet e Sks365

Fino alle organizzazioni criminali vere e proprie. Perché quello di Betuniq non è un caso isolato e le cosche reggine non sono le sole, tra le organizzazioni criminali, ad aver testato l’efficienza di Wirecard per raccogliere e trasferire denaro derivante da attività illecite. Tra i suoi clienti c’era anche Centurionbet, società di gambling controllata dalla famiglia Martiradonna, vicina alla criminalità organizzata barese. Wirecard processava i pagamenti degli scommettitori sul sito Bet1128. Marchio che all’apice della propria espansione commerciale vantava diverse decine di centri scommesse in tutt’Italia e un fatturato stimato di oltre 100 milioni di euro.

Il rapporto tra Wirecard e Centurionbet sarebbe proseguito fino al maggio 2017, quando l’azienda maltese ha chiuso i battenti in seguito a un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Schermata dietro una serie di scatole vuote a Panama e alle Isole Vergini Britanniche, la proprietà di Centurionbet era nelle mani di Francesco Martiradonna. Condannato l’anno scorso a 11 anni e 4 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa per aver fatto affari nel gioco d’azzardo con il clan Arena di Crotone.

Del legame tra Wirecard e Centurionbet ha scritto nei giorni scorsi il Financial Times. Un ex dipendente dell’azienda tedesca ha riferito al quotidiano britannico che Wirecard avrebbe svolto una revisione interna su Centurionbet dopo che erano emerse infiltrazioni mafiose in un altro operatore maltese. L’analisi di compliance avrebbe avuto esito positivo sulla base di garanzie fornite dall’azienda.

Il rapporto tra Wirecard e Centurionbet sarebbe proseguito fino al maggio 2017, quando l’azienda maltese ha chiuso i battenti in seguito a un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro

Ad affidare i propri soldi a Wirecard è stata in passato anche SKS365, un’altra azienda nota alle cronache giudiziarie. Nel novembre 2018 le procure di Reggio Calabria, Bari e Catania hanno accusato l’azienda di aver stretto alleanze, almeno fino al 2017, con clan di Cosa Nostra, Sacra Corona Unita e ‘ndrangheta. Ponendo così le basi per costruirsi una solida posizione nel mercato.

Oggi la gestione di SKS365 è passata a un nuovo management estraneo ai fatti incriminati. Ma all’epoca la proprietà era nelle mani di manager poi arrestati per associazione mafiosa, riciclaggio e truffa aggravata. Dalle carte dell’indagine emerge che tra numerosi conti correnti in mezza Europa, SKS365 ne aveva anche due con Wirecard, nei quali alle fine del 2015 erano custoditi oltre un milione e mezzo di euro.

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Matteo Civillini Gianluca Paolucci

In partnership con

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Luca Rinaldi

I ladri in legge, da criminali “romantici” a mafia internazionale

#ArchiviCriminali

I ladri in legge, da criminali “romantici” a mafia internazionale

Lorenzo Bodrero

Dostoyevsky li descriveva come «vanitosi, amanti del gioco delle carte e spacconi». Ma quelli che a prima vista possono sembrare un pugno di banditi disorganizzati e poco propensi al crimine rappresentano invece un network criminale tra i più antichi, con membri affiliati e attività criminali che vanno dall’Italia alla Germania, da Cipro alla Repubblica Ceca passando per gli Emirati Arabi e l’Australia e la cui origine è da ricercarsi nel vasto territorio dell’ex Unione Sovietica. Sono i vory-v-zakone, i “ladri in legge”. Un fenomeno sulla cui origine esiste un acceso dibattito tra accademici ed esperti del settore. Ma tutti su una cosa sembrano essere d’accordo: i vory oggi sono una mafia e hanno trovato terreno fertile anche nel nostro Paese.

Furti in appartamenti, estorsione, riciclaggio, produzione di documenti falsi. Sono tra le principali attività dei ladri in legge. Si tratta però dell’ultimo stato evolutivo dei vory i quali nascono oltre un secolo fa come gruppo auto-organizzato di detenuti regolati da un preciso codice etico. Un codice che proibiva l’accumulo di ricchezze, prediligeva la salvaguardia del gruppo a quella del singolo, consentiva l’uso della violenza solo in rare occasioni, imponeva il totale distacco da qualsiasi forma di autorità e regolava una cassa comune, la obshchak, da utilizzare per finanziare le attività del gruppo, corrompere i funzionari e supportare le famiglie dei detenuti.

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Caratteristiche che per molto tempo hanno contribuito a circondare i vory di un’aurea romantica, quasi eroica, ma che i ladri in legge di oggi hanno abbandonato in favore di un approccio capitalistico al crimine. «Una volta si eleggeva un nuovo vor ogni due anni circa e adesso sono sparsi in giro come semi di girasole. Oggi se rubi un pollo puoi diventare un vor!», ha dichiarato nel 2009 un ex detenuto georgiano a Gavin Slade, professore all’Università Nazarbayev. Una deriva, come direbbero molti vecchi vory, definitivamente sancita con la dissoluzione dell’Unione Sovietica.

Le carceri sovietiche, dove tutto ebbe inizio

La tesi più accreditata è che una forma di ladri in legge esistesse già prima della rivoluzione del 1917. A cavallo degli anni ‘20 l’Armata Rossa era impegnata su tutti i fronti nel reprimere sia moti rivoluzionari interni sia ingerenze straniere. E tra i più accesi oppositori alla transizione da impero a repubblica socialista vi era la Georgia con la conseguenza che, alle soglie degli anni ‘30, il numero di detenuti georgiani nei campi di prigionia era ben maggiore di quelli da altre zone dell’impero. È questo un fattore che, secondo molti studiosi, ha in parte facilitato la capillare diffusione dei vory di origine georgiana lungo tutto il territorio dell’Unione Sovietica.

I tatuaggi – Una stella indicava il grado di un ladro in legge in base al punto del corpo su cui veniva tatuata.

I vory-v-zakone emersero quale alternativa al potere statale, utilizzando le parole di Patricia Rawlinson, «come un’efficace struttura in contrapposizione al regime totalitario e volta all’auto-preservazione di un preciso gruppo di detenuti». E funzionava a meraviglia. Tra gli anni ‘20 e ‘50 il mondo carcerario sovietico ha vissuto il periodo di massima coesione interna, dove le differenze etniche e culturali erano inglobate sotto l’egida del codice vory.

Nessuna distinzione di razza né di ceto sociale. O eri un ladro in legge o non lo eri. Se ne avevi l’onore, le regole erano rigide, i contrasti regolati da un tribunale interno, le punizioni indiscutibili e neanche il trasferimento da un campo di prigionia all’altro metteva al riparo dalla sentenza. Paradossalmente, l’ampia rete su cui erano distribuiti i gulag sovietici fu una condizione essenziale per la diffusione e il perdurare della cultura dei vory-v-zakone fino ai giorni nostri. Con circa tre milioni di detenuti trasferiti da un campo all’altro nel solo periodo tra il 1934 e il 1947, il mezzo di comunicazione più efficace erano i detenuti stessi. E così, un tradimento in un carcere di Mosca era punito a Vladivostok, o l’incoronazione di un nuovo vor a San Pietroburgo veniva prima approvata in un carcere nel Caucaso.

I tatuaggi – Una chiesa ortodossa. Il numero di cupole solitamente indicava il numero di sentenze subite.

Arrivò la Seconda Guerra Mondiale a stravolgere non solo le sorti del mondo ma anche quelle dei ladri in legge. Con l’avanzare delle truppe naziste in territorio sovietico l’Armata Rossa reclutò circa un milione di soldati tra i suoi carcerati. Tra loro anche i vory. Un oltraggio gravissimo per un ladro in legge quello di indossare una divisa, il cui codice proibiva tassativamente qualsiasi forma di rapporto con il potere, fosse questo uno Stato, un partito, un dittatore, un lavoro come amministratore pubblico o l’accettare un barattolo di fagioli da una guardia carceraria.

I tatuaggi e l’inviolabilità del codice

Ma qual è la “legge” a cui fa riferimento il termine vory-v-zakone? La loro, naturalmente. Il codice d’onore, la legge dei vory, antica quanto i vory stessi, è giunto fino ai giorni nostri intatto, formato delle medesime regole che regolavano la vita dei detenuti nelle carceri imperiali prima e sovietiche poi. Ciò che è mutato drasticamente è l’atteggiamento del vor verso il codice.

Il corpo di un vory è costellato di tatuaggi. Figure iconografiche sono spesso accompagnate da frasi dal forte senso religioso: angeli in preghiera, crocifissi, cuori trafitti da coltelli e riferimenti alla devozione verso Dio. Il tatuaggio era un modo per distinguere il vor dagli altri detenuti e per comprenderne il rango o l’anzianità all’interno della fraternita. Nel caso di un trasferimento in un altro campo di lavoro, spesso distante migliaia di chilometri, un vor veniva riconosciuto immediatamente. La pena per chi indossava un tatuaggio senza possederne il titolo era la morte. Inoltre, i ladri in legge comunicavano in una lingua tutta loro. Una sorta di dialetto dalla struttura grammaticale russa ma con un vocabolario diverso. Questo permetteva loro di dialogare in tutta tranquillità, senza che le guardie carcerarie potessero intromettersi.

«Come giovane uomo, mi appresto ora a intraprendere la via dei ladri. Giuro solennemente di fronte ai ladri presenti a questa riunione di essere un ladro meritevole e di non incappare negli inganni degli sbirri»

Era questo il giuramento che il nuovo affiliato doveva recitare durante l’assemblea dei vory, la skhodka. L’assemblea era l’occasione per “incoronare” i nuovi affiliati, regolare le dispute interne e mettere in atto le punizioni. Ma le incoronazioni erano l’eccezione piuttosto che la regola, riservata solo ai più meritevoli. La richiesta di una nuova affiliazione doveva essere “sponsorizzata” da almeno due vory anziani i quali facevano da garanti per il nuovo adepto. Inoltre, una condizione essenziale era costituita dall’aver trascorso diversi anni in prigione. La reclusione in campi di lavoro o nei penitenziari costituiva un “percorso di formazione” essenziale senza il quale la candidatura non veniva neanche presa in considerazione.

Era inoltre proibito punire un vor senza il beneplacito della skhodka. Le sanzioni potevano essere uno schiaffo ricevuto in pubblico davanti agli altri membri, la revoca del titolo di ladro in legge e dunque l’espulsione dalla fraternita e, in casi estremi, la morte. La skhodka era un vero e proprio tribunale, le decisioni erano inappugnabili e raggiungevano l’interessato anche a migliaia di chilometri di distanza.

Il rispetto verso gli altri vory e in particolare verso il codice d’onore doveva essere totale, pena l’espulsione. Inoltre, il ladro in legge doveva contribuire mensilmente al mantenimento di una cassa comune, la obshchak, che veniva utilizzata per il bene della fraternita, per corrompere i poliziotti e per supportare le famiglie dei carcerati. La obshchak veniva finanziata tramite attività estorsive, o con i proventi del gioco delle carte, e dal contributo dei vory liberi. Coloro che operavano all’esterno raccoglievano denaro e piccoli beni materiali che venivano poi consegnati ai “fratelli” in carcere. Una volta libero, il ladro in legge doveva guadagnarsi da vivere unicamente attraverso attività illegali, niente infatti doveva contribuire al benessere della società e dello Stato.

«Fu allora che nacque il mito dei vory, gli affascinanti eroi del mondo criminale che preferivano morire piuttosto che tradire i loro ideali»

Federico Varese

Università di Oxford

Ladri ma non assassini. L’uso della violenza era rigidamente regolato dal codice d’onore e nel compiere i suoi crimini il vor doveva evitare ogni spargimento di sangue. La morte era considerata accettabile solo nel momento in cui era necessaria a difendere l’onore di un fratello ma anche così colui che causava la morte di qualcuno doveva giustificarne il gesto di fronte a tutta la società.

La Seconda guerra mondiale: l’inizio della fine

A cavallo del secondo conflitto mondiale, i ladri in legge erano ormai un network criminale di livello nazionale, all’interno del territorio più vasto del pianeta. Ma negli anni ’50 i vory-v-zakone cambiarono per sempre. Al termine della guerra i ladri “traditori” furono rispediti nei campi e privati del titolo di vor da coloro che si erano rifiutati di impugnare il fucile. Un gran numero di voenshchina (truppe) abitavano ora i gulag, insieme a un numero imprecisato di cittadini comuni, contadini e criminali. Nel 1953 la popolazione carceraria raggiunse i 2,5 milioni di detenuti e la maggior parte di loro aveva servito il proprio Paese in guerra. Questa nuova generazione di reclusi rappresentava ora una grave minaccia al codice dei vory-v-zakone. Le nuove leve incoraggiavano l’uso della violenza, consentivano i rapporti con le guardie, chiudevano un occhio sull’accumulo di beni e rigettavano l’autorità degli “anziani”: tutte pratiche vietate dalla legge dei vory.

Ebbe così inizio la “Guerra delle puttane” che alla fine degli anni ’50 spazzò via quasi interamente i ladri in legge, spesso fomentata – come da testimonianze dirette – dalle stesse autorità carcerarie. A molti fu concesso di scegliere tra l’abbandonare il vecchio codice a favore del nuovo e la morte. Molti preferirono salvarsi, aggregandosi alle nuove generazioni di detenuti. Tra morti violente e “abdicazioni” volontarie, alla fine degli anni ’50 di ladri in legge non ne rimanevano che poche dozzine in tutta l’Unione Sovietica. «Fu allora che nacque il mito dei vory, gli affascinanti eroi del mondo criminale che preferivano morire piuttosto che tradire i loro ideali», scrive Federico Varese, autore e professore di criminologia all’università di Oxford.

Tra tutte le repubbliche ex sovietiche, la Georgia è il Paese che più di altri ha sviluppato un peculiare rapporto con i vory. Per il piccolo Stato caucasico rappresentano una contrapposizione morale verso il potere, una «cultura alternativa particolarmente seducente in un Paese i cui cittadini non sentono alcuna lealtà nei confronti dell’autorità», scriveva Slade. Una tale ostilità era particolarmente pronunciata durante la dittatura sovietica e in gran parte si è protratta ben oltre l’indipendenza.

Il rapporto che lega i vory-v-zakone al paese caucasico acquisisce una marcata peculiarità a cavallo degli anni ’80 e ’90 quando un noto ladro in legge, Jaba Ioseliani, diventa uno degli uomini di Stato più influenti della Georgia.

La sua carriera di vor comincia già da adolescente e nell’arco della sua vita trascorrerà ben 25 anni in carcere. Il rispetto e l’autorità acquisita dietro le sbarre si riveleranno cruciali per i suoi successi politici. Le tensioni interne all’Unione Sovietica e in Georgia in particolare sul finire degli anni ’80 lo indussero a creare un gruppo paramilitare, i Mkhedrioni. Uomo istruito e abile politico, Ioseliani “si trovava a proprio agio sia in mimetica sia in abito elegante”, scrisse il Los Angeles Times. Con il suo piccolo esercito, che riuscì a far riconoscere come un’organizzazione legale, giocò un ruolo chiave nel sanguinoso colpo di stato che rimosse – fisicamente ma non formalmente – nel gennaio del 1992 il neo-eletto primo Presidente della Repubblica di Georgia, Zviad Gamsakhurdia. Iniziò allora l’era di Eduard Shevardnadze di cui Ioseliani rimase consigliere per i successivi quattro anni.

Il crollo dell’URSS e dei vory

È impossibile dunque non tenere in considerazione la specificità della Georgia quando si parla di ladri in legge. Il Caucaso è stato allo stesso tempo culla e rinascita dei vory-v-zakone, ma anche la loro tomba. Una dipendenza reciproca che spesso induce alla confusione. La mafia russa è la mafia dei vory? E ancora, i ladri in legge sono una caratteristica esclusiva della Georgia?

I tatuaggi – Un plotone di esecuzione non avrebbe aperto il fuoco sulle immagini di Lenin o di Stalin tatuate sul corpo di un vor.

Non è semplice distinguere tra la mafia russa e i ladri in legge. Così come è impreciso utilizzare il termine vory-v-zakone per indicare la malavita georgiana nella sua interezza.

La fine dell’impero socialista portò grandi incertezze nelle ormai ex repubbliche sovietiche, in Georgia in particolare. Circondati ancora da un’aurea quasi mitologica, durante i primi anni dell’indipendenza i vory potevano ancora contare su un sostanziale apporto da parte della popolazione. Moltissimi cittadini preferivano infatti affidarsi a loro per risolvere dispute o per accaparrarsi quella protezione che lo Stato, corrotto e inefficiente, non era più in grado di offrire. Per tutti gli anni ’90 i vory operarono nella totale impunità, si impossessarono di larghe fette dell’economia nazionale e contavano sull’appoggio di “fratelli” infiltrati nel parlamento nazionale. In questo senso è sintomatico un episodio avvenuto nel 2003 quando il presidente Shevardnadze espresse tutto il suo disappunto alla notizia che dei dipendenti delle Nazioni Unite, tenuti ostaggio sulle montagne georgiane, furono liberati solo dopo la mediazione di un importante ladro in legge.

E poi arrivò la Rivoluzione delle Rose. Dopo due lunghe settimane di proteste nella capitale Tblisi a sostegno dell’irregolarità delle elezioni parlamentari, il 23 novembre 2003 il presidente Shevardnadze fu costretto a dimettersi. Due mesi più tardi cominciava l’era di Mikheil Saakašvili, e con lui un approccio alla lotta alla criminalità mai visto prima nelle repubbliche ex-sovietiche.

Con tre provvedimenti inaugurati nel 2005, Saakašvili diede il via ad una campagna anti-crimine senza precedenti. Criminalizzò il solo fatto di possedere il titolo di vor, istituì la confisca di beni e fece costruire nuove prigioni specificamente progettate per ospitare i ladri in legge in un regime carcerario simile al nostro 41-bis. Purgò gli uffici istituzionali di 17.000 dipendenti ritenuti corrotti e, infine, mise in moto una campagna sociale per «educare alla legalità». Nel giro di pochi anni la popolazione carceraria crebbe del 300% e nel 2007, in un sondaggio nazionale, solo il 7% della popolazione georgiana aveva ancora un’attitudine positiva verso i ladri in legge.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi

Illustrazioni