Migranti e gasolio, la rete degli armatori della flotta fantasma

#PiratiDelMediterraneo

Migranti e gasolio, la rete degli armatori della flotta fantasma

Lorenzo Bagnoli

APasquetta 2020 dodici migranti sono morti attraversando il Mediterraneo. I sopravvissuti sono stati riportati in Libia da un peschereccio appartenente a una flotta composta da tre imbarcazioni private, coinvolte in più occasioni dal gabinetto del primo ministro maltese in operazioni di questo genere. A coordinare le comunicazioni tra autorità maltesi e autorità libiche è stato Neville Gafà, da gennaio 2020 fuori dalle istituzioni maltesi ma sempre un punto di riferimento per i rapporti Malta-Libia: «Ho fatto tutto questo su istruzioni dell’Ufficio del Primo Ministro, dopo che il suddetto ufficio mi ha chiesto di aiutare attraverso il coordinamento diretto con il ministero degli Affari interni libico e la Guardia costiera libica – ha spiegato al giornale maltese Newsbook -. Mi è stato chiesto di farlo poiché sono stato coinvolto in queste operazioni negli ultimi tre anni».

Uno dei tre pescherecci privati intervenuti su richiesta dell’ufficio del primo ministro maltese, la Tremar , oggi continua a fare la spola tra Malta e Mazara del Vallo, città di una delle principali flotte pescherecce d’Italia dove ha anche sede il deposito di idrocarburi della Pinta Zottolo, coinvolto in varie inchieste sugli interessi di cosa nostra nel settore dei prodotti petroliferi.

Durante le operazioni di soccorso dei migranti avvenute a Pasquetta dello scorso anno, il comandante della Tremar era un certo Amer Abdelrazek. Egiziano di nascita, a Malta è titolare di due società armatrici: Daha Oil & Gas e Rema Fishing (diventata in seguito Rema Trading). A raccontare di essere al timone della barca era stato lo stesso Abdelrazek, intervistato dal New York Times. La barca – ha spiegato – non è intervenuta direttamente, è rimasta in acque internazionali in attesa di ordini. Però ha fatto parte della spedizione di salvataggio e poi di respingimento. A quello che un anno fa era il suo numero di telefono oggi risponde una persona che dice di non essere lui e di abitare in Turchia: «Da un anno continuano a domandarmi della stessa persona», scrive in arabo via WhatsApp. Nemmeno un vecchio datore di lavoro che ancora oggi si trova a Malta ha mantenuto i rapporti con il comandante, che non è stato quindi possibile rintracciare per porgli direttamente qualche domanda.

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Amer Abdelrazek è, insieme al fratello Khaled, l’uomo chiave per collegare l’episodio della strage di Pasquetta e il peschereccio Tremar alla rete dei presunti contrabbandieri di gasolio sulla quale sta indagando la Direzione distrettuale antimafia di Catania e al centro della quale sono rimasti, almeno fino al 2018, Gordon e Darren Debono, due imprenditori maltesi non accomunati da alcuna parentela e che negli anni sono diventati rivali, pur essendo parte di uno stesso cartello attivo proprio nel contrabbando di gasolio. Le forze dell’ordine europee che indagano su Malta ritengono Amer Abdelrazek un contrabbandiere di carburante, ma non accennano a ruoli nella gestione dei migranti.

L’uomo è collegato in particolare a Gordon Debono: tra il 2018 e il 2019 la società Daha Oils & Gas di Abdelrazek ha armato la Bonnie B , una delle navi nelle disponibilità di Debono e degli imprenditori con cui collabora

Legami in alto mare

Dal comandante della Tremar alle inchieste sul contrabbando di gasolio tra Libia, Malta e Italia. In mezzo, una rete di navi intercettate dalla Guardia costiera libica

Il Panel di esperti sulla Libia delle Nazioni unite indica la Bonnie B , smantellata nel 2019 ad Aliaga (Turchia), come una nave «d’interesse» in quanto appartiene a un gruppo di imbarcazioni che «mostrano rotte sospette che indicano attività illecite». In effetti la Bonnie B è una delle petroliere protagoniste dell’indagine Vento di Scirocco, condotta dall’antimafia di Catania, che nel gennaio del 2020 ha portato a quindici arresti. A dire di «averla messa in cammino» era stato Nicolò Alì, il quale considera la Bonnie B una sua nave.

Alì è un imprenditore petrolifero già nominato (ma non indagato) nell’operazione Dirty Oil, il primo capitolo dell’indagine antimafia catanese sui legami tra cosa nostra e i presunti contrabbandieri di gasolio maltesi e libici, scattata nell’ottobre dell 2017. Secondo le ipotesi di Vento di Scirocco, la Bonnie B era tra le navi impiegate da un gruppo di imprenditori spregiudicati con i quali erano in affari anche uomini vicini al clan Mazzei di cosa nostra catanese. L’organizzazione, secondo quanto riporta l’ordinanza di custodia cautelare, importava prodotti petroliferi libici senza accise, grazie al contributo di colletti bianchi che lavoravano per favorire l’organizzazione criminale.

La replica di Nicolò Alì

Dopo l’uscita dell’articolo Nicolò Alì ha scritto a IrpiMedia alcune precisazioni. La prima riguarda la sua posizione giudiziaria: non è mai stato oggetto di misure cautelari o sequestri, né in Dirty Oil (dove non è nemmeno stato rinviato a giudizio), né in Vento di Scirocco. La seconda riguarda la Bonnie B: Nicolò Alì spiega di averla venduta alla Daha Oil and Gas nel novembre 2017. Per la conoscenza di Alì «la Daha Oil and gas risultava essere rappresentata da Norman Spiteri (persona di alto profilo sociale, è stato anche Presidente dell’Air Malta) che risultava essere, oltre amministratore unico, socio unico e anche segretario della Daha Oil and Gas, quindi nessun collegamento con Amir [Abdelrazek, ndr]/Gordon De Bono». In merito al rapporto con quest’ultimo, Alì scrive: «Con Gordon De Bono, non ho avuto alcuna relazione, se non un intervento di mediazione di lite» con un’altra società petrolifera che «non pagava e Gordon, che a sua volta non rilasciava la merce per la vendita…». Aggiunge che in quel momento aveva «in corso una trattativa per la vendita della mia società (Gori Petrol Group) che dopo 22 anni di attività, era devastata dalla concorrenza sul mercato della Maxcom [Bunker, ndr], guidata dall’amministratore delegato Marco Porta (indagato per commercio illegale di gasolio, inchiesta Dirty Oil)».

Aggiunge inoltre che con Gordon Debono «nessuna attività è andata a buon fine, per vari motivi incidentali che si verificavano, che facevano ritenere non convenienti». Nicolò Alì ha fornito anche informazioni rispetto al rapporto con Darren Debono: «L’ho conosciuto nel 2016, credo prima dell’estate, poiché si faticava a tenere il mercato, Darren si è presentato con un prodotto certificato della NOC (società petrolifera di Stato della Libia) il prezzo proposto, mi permetteva di difendere il mercato». La dogana italiana non ha eccepito la validità del documento e in quel momento «non si parlava di attività illecite nella zona Libia, non esisteva nessun embargo internazionale». In seguito, continua Alì, la società nazionale libica «ha reso noto che nessuno era autorizzato a commercializzare il prodotto della NOC» e quindi il prodotto di Darren Debono era illegale: «Sembra che avessero rubato, o falsificato, anche i timbri e carta intestata per riprodurre i documenti in originale». «Quindi – prosegue – ho interrotto i rapporti». Visto che il prodotto del presunto contrabbandiere maltese «metteva in crisi il mercato», le major del mercato (come Eni, Exxon Mobil, BP o Shell) sono state stimolate «a fare una denuncia alle Autorità Giudiziarie», denuncia che ha innescato il processo Dirty Oil. «Vi ricordo che il sottoscritto godeva, e gode tutt’ora, della piena fiducia della major Exxon Mobil, dalla quale ho attinto le informazioni della circolare della NOC», precisa ancora Alì.

Gli armatori “nigeriani” e le navi intercettate dalla Guardia costiera libica

Daha Oils & Gas appare nella lista dei “partner” della Pak Maritime & Shipping Services Ltd, una società di navigazione con sede a Lagos, in Nigeria. Vista la penuria di petroliere, nel 2015 le associazioni di armatori greci e nigeriani avevano sottoscritto un accordo per la fornitura di 40 imbarcazioni che in due anni sarebbero diventate di proprietà dei nigeriani. Alcuni armatori greci hanno così scelto di entrare in società di navigazione in Nigeria. La Bonnie B appare ancora sul sito della Pak Marine nonostante sia stata già demolita. La società non ha risposto alle nostre richieste di commento.

Il caso di cui IrpiMedia ha già scritto riguarda la Temeteron, una petroliera abbordata da Abdelrahman al-Milad, il famoso Bija, allora capo della cosiddetta Guardia costiera libica, oggi alla guida dell’importante Accademia navale di Zawiya, nella Libia occidentale, nonostante sia sotto sanzioni delle Nazioni unite per le accuse di traffico di esseri umani. C’è poi la San Gwann, che secondo le indagini catanesi è stata «utilizzata anch’essa per caricare in Libia il gasolio di provenienza illecita». È stata fermata dal «governo di Tripoli» con a bordo «certificati della raffineria di Zawiya», sostiene l’imprenditore Nicolò Alì, intercettato nell’inchiesta Dirty Oil.

Abdelrahman al-Milad, noto come Bija, trae in arresto i membri dell’equipaggio della Temeteron – Foto: Facebook della Guardia costiera libica

La Bonnie B non è l’unica petroliera di proprietà di una società di navigazione con queste caratteristiche e finita sotto indagine in Italia o sotto osservazione degli esperti delle Nazioni Unite, utilizzata da Gordon Debono o da imprenditori in affari con lui. Diverse di queste navi sono state intercettate dalla Guardia costiera libica e accusate di aver contrabbandato prodotti petroliferi.

Il fatto che a essere fermate in Libia fossero le navi “in orbita Gordon”, impiegate direttamente dal trader o da suoi partner, sembra una conseguenza del conflitto interno al cartello tra i due Debono. L’operazione della Guardia di finanza di Catania Dirty Oil aveva già individuato contese e fermi di navi, soprattutto tra aprile e luglio 2016.

La nave petroliera San Gwann – Foto: Facebook della Guardia costiera libica

Una terza nave, la Distya Ameya, «era entrata nel porto di Zawiya, gestito dalle autorità di Tripoli, in attesa di risolvere il contenzioso aperto con la compagnia petrolifera National Oil Company (Noc, ovvero la società petrolifera nazionale libica, ndr), che l’aveva accusata di aver acquistato illegalmente un carico di 650 mila barili di petrolio dal governo transitorio di Tobruk e da una sua società sussidiaria che non godeva del riconoscimento internazionale», scrivono gli inquirenti.

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La città è ritenuta da tempo uno snodo fondamentale per il traffico di droga da «Marocco, Siria, Libano, Europa (Grecia e Italia meridionale) e persino Sudamerica», scrive l’analista Mark Micallef nel report del 2019 Sabbie mobili: le dinamiche mutevoli del traffico di droga in Libia lungo i confini costieri e desertici. «Alcune droghe sono consumate nel mercato locale ma un volume consistente viene ri-esportato lungo rotte marittime verso l’Italia meridionale e i Paesi balcanici come Albania e Montenegro», proseguiva Micallef. Tobruk ha un contesto politico particolare: è sede della Camera dei rappresentanti ed è il porto più vicino all’Egitto, potenza regionale che ha cercato più volte di intromettersi all’interno dello scacchiere libico. Tobruk è la capitale della fazione che sostiene il generale Khalifa Haftar, l’uomo che guida l’opposizione al governo centrale di Tripoli. Questa osservazione conforta l’ipotesi che Gordon Debono stesse cercando di ampliare la sua rete di fornitori nell’est della Libia e lascia pensare che qualcuno all’interno della rete dei contrabbandieri, oltre al gasolio, si sia dedicato al traffico di droga.

L’abbordaggio della Transnav Hazel

Uno dei primi abbordaggi della guardia costiera libica ai danni di petroliere di cui si ha notizia riguarda la Transnav Hazel, una delle più grosse imbarcazioni tra quelle coinvolte nel contrabbando. Due elementi della sua storia ritornano con quelle precedenti: il riferimento alla Nigeria e il ruolo di una società di trading con interessi nell’est della Libia. La nave in questo caso non è stata poi tenuta sotto sequestro dalle autorità libiche.

Tra il 21 e il 22 aprile 2016 la Transnav Hazel stava navigando nelle acque antistanti Zuwara, 70 chilometri da Zawiya, dove aveva appena caricato del gasolio da bettoline e pescherecci: «L’equipaggio aveva appreso che il carico fosse destinato allo scarico in Nigeria», si legge nei documenti dell’ispezione delle autorità portuali maltese. Tuttavia, prosegue il rapporto, «la partenza è stata ritardata dal momento che i marittimi aspettavano il pagamento dalle parti interessate»: il carico di carburante, quindi, non era stato pagato ai fornitori libici. Questi ultimi avevano così deciso di impedire alla nave di riprendere il viaggio. A coordinare le operazioni di carico della merce dalla costa di Zuwara era un agente marittimo libico, “Mr Saleem”. Secondo le memorie dei membri dell’equipaggio della Transnav Hazel, indiani e pakistanie, e raccolte dagli ispettori marittimi, Mr Saleem è salito in diverse occasioni a bordo della Transnav Hazel insieme a sei o sette uomini armati.

Lo stallo a largo di Zuwara si è interrotto quando Mr Saleem ha chiamato da Malta un amico che avrebbe fatto da garante del carico: l’imprenditore Paul Attard, di cui IrpiMedia ha già scritto nel 2018 poiché coinvolto in un traffico di hashish e perché ha trainato anche altre due navi coinvolte nel contrabbando di gasolio con la Sicilia. Attard non ha risposto alle nostre domande per questa inchiesta. Per quanto risulta dalle precedenti inchieste, è tra i maltesi più agganciati ai guardacoste libici e questo lo rende un elemento importante dei presunti traffici tra Italia, Malta e Libia.

Di fatto, Attard, proprietario della Patron Group, viene chiamato dai libici, in accordo con l’armatore, per prendere il comando della Transnav Hazel: «Quattro uomini – si legge nel report degli ispettori maltesi – sono stati messi a bordo dell’imbarcazione dall’armatore. Due libici, un egiziano e un maltese, in particolare il comandante David Bonello della Patron Group (la società è chiusa dal 2020, ndr). […] Per quanto compreso dal primo ufficiale, l’imbarcazione (Transnav Hazel, ndr) era nel pieno controllo di parti terze (“sequestrata”)». Il piano era di rimorchiare la petroliera in acque maltesi ma l’operazione di rimorchio è fallita perché il cavo di traino si è spezzato.

La nave petroliera Trasnav Hazel – Foto: fleetphoto.ru

La Transnav Hazel ha fatto ingresso nella zona contigua maltese scortata a breve distanza dalla Sea Patron. Un elicottero della marina militare dell’isola ha assistito a tutto e un pattugliatore dei guardacoste ha ispezionato la Sea Patron in cerca di armi, senza mai controllare la bolla di carico della Transnav Hazel, secondo le testimonianze dell’equipaggio raccolte dagli ispettori. Eppure era stata falsificata – non è specificato in che modo – dopo minacce e intimidazioni di Mr Saleem. Il rapporto degli ispettori maltesi non spiega la ragione del mancato controllo.

Un’ipotesi possibile è la collusione fra trafficanti e controllori: come spiegato da una fonte interna alle forze armate maltesi alla newsletter specializzata African Energy poco dopo l’omicidio di Daphne Caruana Galizia «la mancanza di controllo da lungo tempo indica che il contrabbando potrebbe essere stato favorito da protezioni politiche di alto livello».

Hurd’s bank, la secca dei trafficanti

I trasferimenti dei carichi di carburante dalle petroliere di piccole dimensioni a quelle più grandi destinate ai porti europei avvengono in un’area che si trova all’interno della zona contigua di Malta, Hurd’s bank, una secca a 16 miglia a sud est della costa maltese che per ragioni morfologiche rende semplici queste operazioni. Solo che la zona contigua è un’area fuori dalle acque territoriali ma dove uno Stato può esercitare poteri di controllo anche sulle navi che battono bandiere straniere. L’attività ispettiva non è tuttavia obbligatoria e va giustificata. Un Paese troppo zelante può quindi farsi una cattiva pubblicità agli occhi di broker e armatori per i quali ogni controllo è una perdita di tempo se in buonafede o un impedimento se in malafede . Il centro studi statunitense Hudson, di ispirazione conservatrice, nel 2015 scriveva che l’inerzia maltese su Hurd’s Bank è funzionale a mantenere in Libia «la guerra civile a lenta combustione in corso». Per il Tesoro americano, Hurd’s bank «è un noto luogo per trasferimenti marittimi illeciti». L’analista norvegese Andreas Hobbelin sul sito Finextra scrive a luglio 2021: «Almeno dal 2015, Russia, Venezuela, Iran, Siria, Libia e persino Corea del Nord, nonché organizzazioni terroristiche come Hamas e Hezbollah, hanno utilizzato Hurd’s bank per aggirare le sanzioni, in particolare quelle statunitensi».

Secondo quanto ricostruito dal Times of Malta attraverso una serie di testimonianze di ufficiali e ispettori nel 2018, Hurd’s bank è diventato il punto di riferimento dal momento in cui è stato possibile implementare i controlli a Malta: il fatto che le operazioni fossero fuori dalle acque nazionali «era visto con favore da parte nostra», spiega una fonte anonima all’interno del governo maltese.

La bolla di carico mai controllata indica che la società che spedisce il gasolio ha sede a Dubai, crocevia di proventi di origine sospetta secondo diverse inchieste che riguardano presunti crimini finanziari commessi da maltesi (vedi box di questo articolo), compreso Gordon Debono. Il Patron Group di Paul Attard è il destinatario ma l’indirizzo di notifica, cioè quello da avvisare una volta che il carico è consegnato, appartiene alla Volont Shipping and Trading Sa, una società indagata nel 2017-2018 dagli esperti Onu perché aveva cercato di stringere un accordo di fornitura di gasolio con l’entità “separatista” della National Oil Corporation (Noc), quella di Tobruk. Solo la Noc di Tripoli, infatti, è autorizzata a vendere petrolio e prodotti petroliferi dalla Libia.

Oggi l’armatore Paul Attard è in attesa di giudizio a Catania, dove è accusato di traffico di hashish. La Quest, la nave che aveva a bordo la droga, era stata trainata sempre da un altro suo rimorchiatore. Attard nega di essere responsabile del carico. MeridioNews ha scovato l’imprenditore maltese anche nell’indagine Borderless, condotta dalla Guardia di finanza di Catania nel 2019. L’obiettivo in quel caso era la nave Aquarius dell’ong Medici senza frontiere, accusata di smaltimento illegale di rifiuti e rinviata a giudizio, insieme a quattro persone, a marzo 2021. L’agente marittimo al centro dell’inchiesta, intercettato, parlava di un maltese «noto per le sue implicazioni in traffici criminali», riferendosi proprio ad Attard, come ha verificato MeridioNews.

Le doppie registrazioni dei pescherecci

Tra i più importanti partner di Paul Attard c’è un mediatore marittimo che in una vecchia intervista con IrpiMedia l’imprenditore maltese ha definito «il migliore che conosco». È Joseph O’Connor, irlandese trapiantato a Malta, titolare della società Britannia Shipping con alle spalle una lunghissima carriera: acquista ferri vecchi, li rimette a nuovo e li rivende sul mercato. Base delle sue operazioni è tal-Pont, uno dei moli di Marsa, il principale porto di Malta. Britannia Shipping ha armato decine di navi e tra loro, stando ai documenti giudiziari che riguardano un debito contratto dalla compagnia nel 2014 con le autorità doganali maltesi, intorno al 2010-2011 c’è anche la Anna Maria. Consultando il registro navale di Malta si scopre che la Tremar «in precedenza era stata registrata a Cipro come Anna Maria». Eppure per Malta gli unici due nomi dell’imbarcazione sono Tremar o, prima del 2018, Agostino Padre.

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Lo scopo della doppia o tripla registrazione delle imbarcazioni è quello di opacizzare la catena di controllo di un’imbarcazione per rendere impossibile alle forze dell’ordine ricostruire chi sia l’armatore in caso di sequestro.

Non a caso anche un altro peschereccio che ha partecipato alle operazioni di salvataggio e respingimento nel corso della strage di Pasquetta ha una doppia se non tripla registrazione: la Dar al salaam 1 al registro navale libico è battezzata infatti Mae Yamanye. Secondo fonti sentite dal giornalista del New York Times Patrick Kingsley ha anche un terzo nome: Maria Cristina, con Las Palmas come porto di riferimento.

Dal 1986 esiste una Convenzione Onu per la registrazione delle navi che tuttavia non è mai stata implementata dai Paesi membri. L’Organizzazione marittima internazionale (Imo) denunciava oltre 200 «registrazioni fraudolente» di imbarcazioni nel 2019. I casi più frequenti di registrazioni fraudolente avvengono presso registri navali di Paesi le cui autorità non sono mai state messe al corrente dell’esistenza di certe imbarcazioni. Un caso che ha fatto notizia nel 2017 riguarda 73 imbarcazioni battenti bandiera della Repubblica democratica del Congo e delle quali le autorità marittime del Paese non avevano alcuna idea.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli

Ha collaborato

Marc Tilley

Infografiche & mappe

Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi

Foto

Uno scorcio del porto di Marsa (Malta), sede operativa della Britannia Shipping
Foto: Roberto Sorin/Shutterstock

Armi, droga, gasolio e migranti: indagini sui predoni del mare

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#PiratiDelMediterraneo

L’estate 2016 è stata uno spartiacque per i traffici nel Mediterraneo. Il caso della nave Temeteron ha segnato un prima e un dopo nel contrabbando di gasolio. Si è spaccato il gruppo maltese di Darren e Gordon Debono, tra Malta, Italia e Libia i due nomi sulla bocca di tutti, investigatori e criminali. Ha perso il monopolio sul carburante di frodo. In Libia i loro partner storici sono diventati importanti attori di polizia marittima, riconosciuti dai governi europei, soprattutto a Malta e in Italia. Eppure, sotto l’abito da guardacoste, indossavano sempre la divisa delle milizie libiche. E continuavano a fare i pirati.

All’epoca c’è stato un contraccolpo nel business che però non è mai andato esaurendosi. A tutt’oggi è una delle principali fonti di guadagno delle milizie che combattono per la supremazia in Libia.

Questa serie d’inchieste indaga su chi sono i predoni del Mediterraneo, sui loro appoggi istituzionali, sul ruolo che giocano negli equilibri geopolitici regionali.

E non c’è solo il traffico di gasolio: lungo le rotte passano anche armi, droga, migranti, pesci pregiati. Tra i pirati di ieri e quelli di oggi ci sono punti fermi – la città di Zawiya, Hurd’s Bank, le società anonime al Pireo o in Libano – e nuovi assetti, destinati a mutare al prossimo cambio di vento.

Storie di guardie e di ladri alla frontiera, nelle acque internazionali, terre di nessuno dove non c’è legge da applicare e dove i ruoli, a volte, si faticano a distinguere.

Il caso Bonnie B e la flotta contesa

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Da un procedimento giudiziario si scopre il tentativo di uomini di mare di aggiudicarsi alcune delle navi protagoniste di episodi di contrabbando tra Libia, Malta e Italia dal 2015 al 2017

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Gli intoccabili, la bomba e la mafia

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C’è un gruppo di criminali a Malta, i Maksar, che gestisce i traffici più redditizi e può vantare contatti con cosa nostra. Secondo testimonianze inedite hanno fornito la bomba che ha ucciso la giornalista Daphne

Le nuove piste del caso Daphne

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Tre anni dopo l’omicidio della giornalista maltese, numerosi indizi puntano a un potente uomo d’affari come mandante, Yorgen Fenech. Quest’ultimo nega ogni coinvolgimento, ma nuovi elementi rivelati dal Daphne Project, mettono in discussione la sua versione

Malta, il paradiso dei trafficanti

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Dietro l’omicidio di Daphne Caruana Galizia si è mosso un sistema criminale che va dal traffico di gasolio alla criminalità organizzata e si muove in una zona d’ombra ricca di complicità

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Lorenzo Bagnoli
Matteo Civillini
Giulio Rubino

In partnership con

La Repubblica
OCCRP

Editing

Luca Rinaldi

Infografiche/Mappe

Lorenzo Bodrero

Foto

Bob63/Shutterstock

«Così la guardia costiera libica abbordava le navi per il traffico di gasolio»

#PiratiDelMediterraneo

«Così la guardia costiera libica abbordava le navi per il traffico di gasolio»

Cecilia Anesi
Lorenzo Bagnoli
Giulio Rubino

Giugno 2016. Mancano cinque mesi all’omicidio di Daphne Caruana Galizia, battesimo di Malta come isola fuorilegge. Oltre i limiti delle sue acque territoriali, il mare è già preda di contrabbandieri, in particolare da quando con la Rivoluzione in Libia (2011) la sponda meridionale del Mediterraneo è diventata un’inestinguibile riserva di beni di frodo.

Sergey Samaylov, marinaio russo che abita in Crimea, è a Marsaxlokk, dove Malta è esposta allo scirocco. È in attesa di re-imbarcarsi sulla Temeteron, petroliera di cui è il primo ufficiale, secondo in comando a bordo. La nave è stata costretta a fermarsi per ripulire i serbatoi, dopo essere partita dal Pireo qualche giorno prima. Samaylov ha firmato un contratto con un armatore greco, che gestisce la nave per conto di una società nigeriana. A sua volta, quest’ultima noleggia l’imbarcazione ad altri armatori maltesi e italiani. La compagnia greca ha da poco ottenuto un ingaggio da una società dell’isola. Non è il primo per la società, mentre lo è per Samaylov e il resto del nuovo equipaggio.

Inizialmente nessuno ha idea che la destinazione sia la Libia, eppure da contratto dovrebbe essere esplicitato, visto che è un Paese in guerra. Samaylov ancora non lo sa, ma in Nord Africa ci passerà tre anni, dimenticato nella prigione di Mitiga, a Tripoli, come tanti altri marittimi. Non sa di essere in procinto di commettere un reato. Non sa nemmeno che in quei mari fuorilegge, lontano da casa, c’è in corso una battaglia tra bande su cui gravitano interessi geopolitici da cui dipende l’intero conflitto libico.

L'inchiesta in breve
  1. Sergey Samaylov è il primo ufficiale della petroliera Temeteron. Il 28 giugno del 2016, insieme al resto dell’equipaggio, viene assalito e arrestato dalla Guardia costiera libica della città di Zawiya, guidata dal comandante Abdulrahmane Milad, detto Bija, braccio operativo di Mohamed Koshlaf. I due libici fanno parte della Brigata dei Martiri della Libertà (Shuhada al-Nasr) e sono stati sanzionati dalle Nazioni Unite per il loro ruolo nel traffico di gasolio e migranti.
  2. La Temeteron era stata noleggiata da un’azienda maltese che faceva capo a Gordon Debono, uno dei due broker accusati di contrabbando di diesel dalla Libia all’Italia, via Malta, dalle Nazioni Unite e dalla Guardia di Finanza nel 2017. La Temeteron era contesa da Gordon e dal suo alleato Darren Debono, che disponeva delle alleanze con i libici. L’episodio segna la rottura dell’equilibrio del cartello criminale. Il riassestamento permette ai libici anche oggi di smerciare prodotti di contrabbando in tutta Europa.
  3. Il trattamento subito da Sergey Samaylov, del tutto ignaro che la Temeteron fosse stata noleggiata per un’operazione di contrabbando, è identico a quello subito dai migranti fermati dalla Guardia costiera libica di Zawiya. La Brigata Shuhada al-Nasr è tra le principali milizie di sostegno al governo di Tripoli di Fayez al-Serraj, sostenuto dalle Nazioni Unite. Il modello di business criminale della Brigata prevede la detenzione e il traffico dei migranti e il contrabbando di gasolio della raffineria di Zawiya. L’Italia, a partire dalla firma del Memorandum of Understanding del febbraio 2017, ha fornito navi e addestramento, con il supporto europeo, alla Guardia costiera libica, compresa la sezione di Zawiya.
  4. Dopo oltre tre anni Samaylov e l’equipaggio sono stati liberati dalla prigione di Mitiga, a Tripoli. A trattare la loro liberazione è stato in una prima fase Lev Dengov, ex cantante diventato diplomatico, che rappresenta in Libia anche le istanze di Ramzan Kadyrov, leader della Cecenia. La repubblica della Federazione russa mira, attraverso l’Islam, a espandere la propria rete tra le milizie dell’ovest della Libia. La liberazione è stata poi realizzata dal Consiglio di sicurezza russo, organismo del Ministero della Difesa che oggi è l’istituzione russa più schierata con Khalifa Haftar, il generale ribelle. Samaylov spera di ottenere un’indagine internazionale rispetto all’abbordaggio, alla carcerazione e ai negoziati per liberarlo, visto che finora nessuna istituzione gli ha fornito alcuna risposta.

Il gruppo dei maltesi

Dopo questo episodio avvenuto all’inizio dell’estate del 2016, il triangolo tra Malta, Italia e Libia è diventato preda di un cartello criminale. Da un lato, il coacervo di broker internazionali di stanza a Malta che tarocca bolle di accompagnamento per rivendere gasolio in mezza Europa, aggirando le accise; dall’altro gli immutabili fornitori libici, criminali travestiti da guardacoste e agenti che si occupano della sicurezza degli impianti petroliferi.

Dopo questo episodio avvenuto all’inizio dell’estate del 2016, il triangolo tra Malta, Italia e Libia è diventato preda di un cartello criminale

Gordon e Darren Debono sono i due maltesi registi dell’operazione, partner in affari loro malgrado e non parenti. Fino a quel momento sono i soli attorno ai quali gravita il sistema di contrabbando. Gordon ha a disposizione le società di armatori internazionali, soprattutto russi e ucraini; Darren ha dalla sua i fornitori libici della Brigata al-Nasr, che controllano la raffineria di Zawiya.
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Su questo sistema criminale in questi anni hanno indagato sia la Guardia di finanza di Catania, sia il gruppo di esperti sulla Libia delle Nazioni Unite. I due Debono sono stati sanzionati dall’Onu e messi sotto processo in Italia. Nonostante le sanzioni abbiano colpito anche gli uomini della Brigata al-Nasr, fonti investigative confermano che i gruppi criminali di Zawiya continuano a rifornire contrabbandieri di tutto il Mediterraneo.

Con il caso Temeteron, Darren e Gordon Debono si dichiarano guerra l’un l’altro. La nave è il principale oggetto del contendere: entrambi vogliono esserne proprietari o quanto meno noleggiatori. Sia gli esperti delle Nazioni Unite, sia i militari della Guardia di finanza di Catania sostengono che a controllarla, in quel momento, sia Gordon Debono. Pur di ottenere quello che vuole, Darren è disposto a mettergli contro le milizie libiche, approfittando dell’aiuto del suo braccio destro in Nord Africa, il cugino Chris Attard.

I protagonisti

A ottobre 2017 la Guardia di finanza di Catania arresta a Lampedusa Darren Debono, giunto in Italia in gommone insieme al cugino Chris Attard, in quel momento non identificato dagli inquirenti. L’uomo è tra i nove raggiunti da una misura di custodia cautelare per l’inchiesta Dirty Oil, di cui Irpi ha scritto nell’inchiesta The Daphne Project. Socio del presunto cartello criminale è Gordon Debono, broker petrolifero molto attivo sull’isola, insieme al suo misterioso partner Roderick Grech, mai identificati dagli investigatori italiani. Dirty Oil svela l’esistenza della rete libico-maltese, che vende gasolio di contrabbando in primis in Italia e da lì nel resto d’Europa. Scaduti i termini di custodia cautelare, i due principali imputati sono oggi a piede libero, in attesa di giudizio. I loro nomi compaiono nuovamente nell’indagine della Gdf catanese Vento di scirocco (gennaio 2020), con la quale le Fiamme gialle rivelano la rete di distribuzione in Sicilia del gasolio di contrabbando fornito dai Debono, in mano a esponenti del clan mafioso Mazzei. Fino all’agosto del 2017, la rete conta su Fahmi Ben Khalifa, detto il Malem, come principale interlocutore con i libici.

Un momento dell’abbordaggio della Temeteron filmato dalla Guardia costiera libica

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L’abbordaggio

Per la seconda volta nel giro di due settimane, Temeteron si trova nelle acque antistanti Zuwara, Libia occidentale. La prima volta la nave ha prima recuperato gasolio, poi a Hurd’s Bank, la secca dei trasbordi che lambisce le acque territoriali maltesi, ha consegnato il prodotto a un’altra imbarcazione, diretta poi in Italia. È andato tutto come da programma e la Temeteron è tornata a ripetere esattamente la stessa operazione per un secondo carico.

Alle 13 del 28 giugno 2016 i membri dell’equipaggio hanno appena completato le operazioni di carico di gasolio. Le acque sono agitate, ricorda Samaylov, e i tempi del trasbordo sono stati più lunghi del normale.

Due imbarcazioni hanno fornito al tanker il gasolio libico. Le successive indagini della Guardia di finanza di Catania e degli esperti del Consiglio di sicurezza dell’Onu dimostreranno che i documenti dei carichi di gasolio erano carta straccia: il prodotto era venduto come saudita anche quando non lo era e prelevato illegalmente dalla raffineria di Zawiya, città costiera a pochi chilometri di distanza, principale polmone produttivo del gasolio libico. Tutto all’insaputa dell’equipaggio, dichiara oggi Samaylov.

«Bija in persona ci colpisce alle gambe e ci costringe a gridare “Allah Akhbar”».
Sergey Samaylov

Primo ufficiale della Temeteron

Il comandante Vladimir Tekuchev vira verso Nord e punta di nuovo verso Hurd’s Bank. La Temeteron viaggia a 9,5 nodi, normale velocità di crociera. A poppa, la scorta a distanza un’imbarcazione dalle fattezze militari, un po’ più lenta: «I marinai indossavano la mimetica con la bandiera libica», ricorda il primo ufficiale. Durante il trasbordo sono stati sulla Temeteron. Il noleggiatore maltese, nella persona di Chris Attard, doveva occuparsi della sicurezza: sono noti i pericoli che si corrono in quei mari. Intorno al 25 giugno, a tal proposito, la radio aveva gracchiato un messaggio d’allerta per la presenza di pirati tra le 30 e le 40 miglia dalle coste libiche.

Durante il primo viaggio nelle acque antistanti la Libia, a bordo della Temeteron c’era il marinaio maltese Bernard Attard. Lavora nella società che ha noleggiato l’imbarcazione insieme al fratello Chris, che la Gdf di Catania indica come stretto collaboratore di Darren Debono. Samaylov ricorda di aver visto l’ultima volta Chris e Bernard Attard a bordo della Temeteron il 22 giugno.

La seconda volta che la petroliera va in Libia, quindi, non ci sono maltesi a bordo. Alle 14.30 del 28 giugno l’imbarcazione è quasi in acque internazionali, dove i libici non hanno più competenza. La nave della scorta segue la Temeteron a distanza di un miglio, poco meno di due chilometri. D’improvviso sulla scena compaiono due motoscafi veloci, ormai appaiati al tanker. Cominciano a girare in cerchio intorno all’imbarcazione, fino poi ad agganciarla.

L’abbordaggio della San Gwann nel febbraio 2017 da parte della Guardia costiera libica

Dieci minuti dopo, salgono a bordo nove uomini armati di Kalashnikov, senza nemmeno bisogno di scale: a pieno carico affiora giusto il ponte della nave dal pelo dell’acqua. Gli assalitori appartengono alla Guardia costiera di Zawiya e tra loro ci sono due dei personaggi che finiranno tra i miliziani libici sanzionati dalle Nazioni Unite: Abdul Rahman Milad detto al Bija e il suo capo, il leader della Brigata al-Nasr Mohamed Koshlaf. Samaylov nota che la loro mimetica è del tutto simile a quella di chi li scorta.

Bija si dirige spedito nella cabina di pilotaggio e comunica a terra la posizione dell’imbarcazione, ossia 11.9 miglia da Zawiya. In realtà il limite delle acque territoriali libiche, stabilito dalle leggi internazionali a 12 miglia dalla costa, è passato da un pezzo, eppure quello che sta per accadere verrà registrato dai libici come un incidente avvenuto nelle acque sotto la loro giurisdizione.

Gli altri soldati sequestrano i telefoni dell’equipaggio. Iniziano a cercare i marinai in ogni angolo della Temeteron. Chi viene trovato, viene colpito con il calcio del fucile, pedate e pugni e portato sul castello di prua. Tutta la crew viene derubata di ogni bene. I guardacoste urlano in arabo, nessuno li capisce, nessuno ha idea di cosa stia succedendo. «Bija in persona ci colpisce alle gambe e ci costringe a gridare ‘Allah Akhbar’», ricorda Samaylov.

La cronologia della vicenda

A poppa, intanto, l’acqua che divide la Temeteron dalla nave che la scorta è sempre meno. Bija torna sul ponte centrale, dove stanno il comandante Vladimir Tekuchev e il secondo ufficiale Oleksabdr Kodymsky. Porta quest’ultimo, che è timoniere, fino alla cabina di comando. Gesticola e sbraita. Con le mani indica una distanza, poi porta il pollice al collo e lo traccia da un estremo all’altro, a simulare un taglio netto. Segna una nuova distanza con le mani, a cui segue un nuovo taglio, racconta lo stesso Kodymsky. L’intimidazione è esplicita anche se non parlano la stessa lingua: a ogni porzione di mare recuperata dall’imbarcazione che li scorta, ammazzerà un membro dell’equipaggio.

Dopo circa 40-50 minuti un’altra nave si fa sotto. Secondo Samaylov, è militare. Secondo la testimonianza scritta che Bija ha fornito agli esperti dell’Onu per dare la sua versione dei fatti, era un’imbarcazione semplice, con a bordo una Dushka, una mitragliatrice di produzione sovietica. Chiunque sia al suo comando, a un certo punto apre il fuoco sulla Temeteron. Pochi colpi secondo Samaylov, mentre secondo Bija la sparatoria è stata «pesante»: «Abbiamo risposto al fuoco e ferito un membro dell’altro equipaggio», scrive Bija. Di certo, l’imbarcazione desiste e fa ritorno verso Zuwara, da dove proviene. Secondo Samaylov un’altra nave militare simile li approccia, per poi fare rotta di nuovo verso il porto.

La Temeteron attraccata in Grecia – Foto: shipspotting.com

L’episodio resta avvolto nel mistero, ma è significativo per capire chi abbia solcato il Mediterraneo in questi anni. Nei video ripresi dalle ong durante le fasi di salvataggio compaiono spesso predoni del mare, a volte in divisa, a bordo di anonime imbarcazioni con artiglieria a bordo. Dal racconto di Samaylov, sembra che chi ha attaccato la Temeteron possa fare parte della stessa schiera.

In prigione: gli incontri con gli altri equipaggi

Terminato l’arrembaggio, l’equipaggio viene portato a Zawiya, mentre il tanker resta, per anni, ormeggiato al porto di Tripoli. A Zawiya l’equipaggio trascorrerà cinque giorni nella stessa prigione dei migranti, per poi essere consegnato alle Rada, le forze speciali di ispirazione islamista guidate da Sheik Abdul Raouf Kara, che gestiscono la prigione di Mitiga. Sono il corpo scelto di Tripoli, i veri padroni della città sul piano della sicurezza. Secondo Amnesty, sono un gruppo fuorilegge. L’Istituto studi politici internazionali (Ispi) in varie analisi ha indicato stretti legami tra le Rada e le milizie delle città costiere, tra cui Zawiya.

Queste stesse forze speciali, un anno dopo aver ricevuto da Bija i prigionieri della Temeteron, arresteranno uno dei membri principali del network della Brigata al-Nasr: Fahmi Ben Khalifa, definito dagli stessi inquirenti libici «il re dei trafficanti». Era il contatto più fidato di Darren Debono in Libia. Giudicata oggi, l’operazione sembra solo di facciata. Per quanto abbia rallentato, almeno in una prima fase, la portata del contrabbando, non l’ha comunque estirpato alla radice: la Brigata al-Nasr continua a operare indisturbata a Zawiya, anche senza Ben Khalifa.

Mohamed Koshlaf a bordo della Temeteron dopo l’abbordaggio – Fonte: report del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 5 settembre 2018

Dalla cella di Mitiga, Samaylov vede diversi equipaggi entrare e uscire dalla prigione. Era detenuto da quasi nove mesi quando arriva Alexey Balushkin, comandante della MV Merle, con i membri del suo equipaggio. La nave russa di un armatore di San Pietroburgo è stata fermata dagli uomini di Bija il 5 marzo 2017, durante un viaggio che da Salerno l’avrebbe dovuta portare a Zuwara. Doveva caricare «casse» di rottami metallici. A volte, imbarcazioni come queste sono utilizzate per trafficare armi. Non è il caso dell’accusa alla MV Merle, che indica invece il contrabbando di rottami come capo d’imputazione.

Samaylov riesce a procurare a Balushkin carta e penna. Il comandante della Merle appunta quello che ricorda del diario di bordo. E lo prosegue, raccontando il viaggio dietro le sbarre, da 5 al 17 marzo. La liberazione avverrà dopo altri due mesi. Il diario comincia così: «05.03.2017: La Merle sta procedendo lungo la rotta 217° (verso sud-ovest, ndr) e sta per entrare nelle acque territoriali, nelle vicinanze del porto di Zuwara». Alle 9 dello stesso giorno l’equipaggio cerca di comunicare con le autorità a terra, senza successo. Un’ora dopo comincia «l’ispezione» della Guardia costiera. «L’atto di pirateria è avvenuto in acque neutrali (internazionali, ndr). C’erano 50 miglia dalle acque territoriali libiche», scrive Balushkin.

Dalla cella di Mitiga Samaylov vede diversi equipaggi entrare e uscire dalla prigione

Una pagina del diario di Sergey Samaylov durante la prigionia / Irpimedia
Il diario prosegue ricostruendo una dinamica simile a quella raccontata da Samaylov: l’abbordaggio con navi veloci, i pestaggi, la consegna della nave alle autorità di Tripoli, il trasporto alla prigione di Mitiga. In cella, oltre ad annotare la presenza degli uomini della Temeteron, il comandante Balushkin segna anche la presenza di sei migranti subsahariani da Congo, Nigeria e Togo. In tutto i detenuti sono 17, prosegue il comandante. I pasti sono «un pezzo di pane, pasta, acqua», sempre. Non vengono dati loro cambi, né spazzolini da denti. «I prigionieri locali condividono i loro vestiti con noi», prende nota. Il 12 marzo l’equipaggio dà anche segnali di febbre, ma non ricevono medicinali né cure. Il 17 marzo, la prima ora d’aria fuori dalla stanza, di cui Balushkin disegna una schizzo: un rettangolo di 3,2 metri per 4,5. Tutti ormai hanno la febbre. È l’ultima nota delle pagine di diario in cirillico che Samaylov è riuscito a conservare e a tradurre in inglese.
Il gruppo Selay
In contemporanea alla contesa della Temeteron, Darren e Gordon Debono sembrano ridisegnare anche la loro sfera d’influenza sulle imbarcazioni coinvolte nei traffici. Giugno 2016 anche in questo senso è uno spartiacque: mentre prima Darren si occupa di Libia e Gordon del resto, a seguito dell’episodio della Temeteron i compiti si fanno più sfumati e due contrabbandieri si pestano i piedi e si ostacolano a vicenda. In una prima fase, di certo, chi ne esce più forte è Darren, vista l’alleanza con i libici.

Per capire gli schieramenti, basta vedere quali navi operano senza che i guardacoste libici intervengano. Samaylov, durante i suoi viaggi, ne ricorda tre: Selay, Gorg e Vassilios XXI. Le prime due rientrano nella rete di armatori greci ed equipaggi russi, come Temeteron, mentre Selay apre su un altro gruppo di società marittime coinvolte nella vicenda: quelle turche.

Oltre a Selay, la Guardia di Finanza di Catania individua almeno altre due navi turche, attive soprattutto nella prima metà del 2016, prima dell’affaire Temeteron. Selay appartiene a un armatore più di prestigio, la famiglia Colak, da sempre attiva nella costruzione di navi e nel trading petrolifero. A Malta, i Colak hanno investito nell’industria del trasporto marittimo insieme a un’altra famiglia turca, i Kalkavan. A conferma del lignaggio, nel 2005 al matrimonio di Refik Yavuz Kalkavan era atteso, riportano i media turchi, persino il primo ministro turco, Recep Tayyip Erdogan, l’uomo che ha cambiato, almeno per il momento, il conflitto libico, intervenendo a sostegno del Governo di accordo nazionale di Tripoli, a cui è fedele la Brigata al-Nasr.

Il processo a Tripoli

Interrogati e pestati nei primi giorni, poi più niente; solo a settembre 2016 i membri dell’equipaggio riescono a parlare con le famiglie e uno degli armatori, il quale dice di essere pronto a pagare una cauzione per liberarli. Non se ne fa nulla. A ottobre incontrano il corpo diplomatico russo, poi, il 2 marzo 2017, vengono rilasciati sei marinai, senza apparenti spiegazioni. Restano in cella comandante, primo e secondo ufficiale. Nonostante fosse stato promesso un avvocato per ciascuno in vista dell’imminente processo, ne ottengono uno d’ufficio dall’ambasciata ucraina. Un mese dopo, è marzo 2017, è programmata la prima udienza del processo per traffico di gasolio, rimandata poi di un anno. Gli imputati sentiranno una traduzione dei loro capi d’imputazione solo allora. Nel frattempo il caso Temeteron è ufficialmente uno dei dossier delle trattative diplomatiche tra Russia e Libia, discusso a ogni vertice internazionale.

La Corte di Tripoli emette la sentenza per contrabbando di gasolio a ottobre 2018. Il verdetto è quattro anni e tre mesi di carcere e una multa complessiva da 10,5 milioni di dollari. La pena pecuniaria per ciascuno dei marittimi è un milione di dollari. Il lavorio diplomatico per risolvere la questione prosegue. I prigionieri vengono informati di un tentativo di scambio tra Russia e Libia: la parte restante dell’equipaggio della Temeteron in cambio di un libico collegato alle Rada detenuto in Russia.

Il tentativo fallisce nel giro di poco tempo, così si continua sul piano giudiziario: il ministero degli Esteri russo presenta appello alla sentenza di primo grado. Sei mesi dopo, a maggio 2019, Samaylov e gli altri sono ancora in cella, senza aggiornamenti sul procedimento a loro carico. Poi, d’improvviso, con meccanismi oscuri ai prigionieri, il dossier viene preso in carico non più dal corpo diplomatico, bensì dal Consiglio di sicurezza russo. Significa che a occuparsene è il Ministero della Difesa e non più quello degli Esteri.

Di spalle Abd al-Rahman al-Milad, detto al Bija, a bordo della Temeteron – Fonte: Fonte: report del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 5 settembre 2018

Lev Dengov, il negoziatore

Finché la liberazione dei marinai era gestita dal ministero degli Esteri, il negoziatore principe è stato Lev Dengov, ossia l’emissario diplomatico di Ramzan Kadyrov, il presidente ceceno strettissimo alleato di Vladimir Putin. Sergey Samaylov ricorda il loro primo incontro, quasi per caso, visto che Dengov si trovava al Tribunale di Tripoli per seguire un altro caso, quello della Mekhanik Chebotarev, imbarcazione fermata davanti alla costa di Zuwara nel settembre 2015, sempre con l’accusa di traffico di gasolio. È stata la prima intercettata, ma non dalla Brigata al-Nasr.

Lev Dengov è dal 2015, anno in cui ha cominciato a prestare servizio come diplomatico, la voce russa più conciliante con le Nazioni Unite e il suo governo di rappresentanza in Libia, quello guidato da Fayez al-Serraj. A margine del vertice bilaterale tenutosi a Mosca nel dicembre 2017 tra una delegazione diplomatica libica e il Ministero degli Esteri russo, Dengov dice che le priorità russe sono «stroncare la minaccia terroristica e limitare il flusso migratorio». È in piena sintonia con quanto hanno cercato, in questi anni, le diplomazie europee sostenitrici di Serraj.

La sua carriera da negoziatore in Libia comincia per caso, come racconta GQ Russia in un profilo a lui dedicato. Nato in Bielorussia nel 1984, figlio di imprenditori, Dengov conosce i suoi primi successi con lo pseudonimo di Pavel Guzband. Nei primi anni Duemila è infatti il leader di una boy band, gli Arbat, nati nella diaspora russa in Germania e poi trasferitisi in Russia. Resta nello showbiz per un po’ come produttore, poi nel 2018 si fidanza con una cantante georgiana, Keti Topouria, figlia di un esponente di spicco del crimine organizzato georgiano, morto in carcere nel 2010.

L’uomo d’affari russo Lev Dengov – Foto: Fedor Nikolaenko

Dopo la musica, Dengov/Guzband si dedica a un’azienda di costruzioni, aperta in Libia nel 2008. Sceglie il Paese nordafricano perché il suo migliore amico a Minsk è figlio di un diplomatico libico. Nello stesso anno incontra Muhammar Gheddafi e nel 2011 si aggiudica gli appalti per la costruzione di impianti sportivi per la Coppa d’Africa che si terrà a Tripoli. Siederà al tavolo della ricostruzione della Libia e cercherà in più occasioni di aiutare gli amici, compreso il figlio dell’ex leader libico Saif Gheddafi. Quando nel 2015 cominciano gli arresti degli equipaggi russi, Dengov diventa il punto di riferimento diplomatico di Mosca a Tripoli. Nella ventura si porta dietro un altro amico ingombrante, il leader ceceno Ramzan Kadyrov. Attraverso l’Islam, Kadyrov spera di diventare un punto di riferimento per i Paesi musulmani. 

Dal 2017, Dengov è presidente della Camera di commercio libico-russa, organismo che facilita l’import-export tra i due Paesi. Ricorda il centro di analisi Jamestown Foundation che a febbraio 2017, la neonata organizzazione ha promosso un accordo tra la russa Rosneft e la National Oil Corporation (Noc), la società petrolifera nazionale libica, per la prima volta nella storia. «In Libia non vogliamo essere associati con nessuna delle parti in conflitto», diceva Degov al quotidiano russo Kommersant nel 2017.

Il suo ruolo è sempre stato quello di cercare la via d’uscita vantaggiosa sul piano economico, così ha sempre tenuto aperto il dialogo con tutti, spalleggiato dai ceceni e dal ministero degli Esteri russo. Al contrario, il ministero della Difesa e il Consiglio di sicurezza hanno deciso di puntare forte sul generale della Cirenaica, Khalifa Haftar. Per questo il Wagner Group, il gruppo di mercenari privati di cui dispone il Cremlino, ha schierato i suoi uomini a sostegno di Haftar, per quanto i russi continuino a smentire.

Quando nel 2015 cominciano gli arresti degli equipaggi russi, Dengov diventa il punto di riferimento diplomatico di Mosca a Tripoli

L’epilogo: il ritorno in Crimea

Samaylov lascerà il carcere insieme al comandante e al secondo ufficiale solo ad agosto del 2019, dopo oltre tre anni dall’inizio della prigionia. A nessuno verrà riconosciuto nemmeno un giorno di paga per tutto il tempo trascorso in carcere. Panomar Shipmanagement, l’armatore greco che noleggiò ai maltesi la Temeteron, è fallito e ha riaperto come Geomar Shipmanagement con un assetto proprietario di fatto invariato. I noleggiatori maltesi, intanto, sono irraggiungibili.

Al rientro in Russia, il primo ufficiale ha cercato immediatamente di mettersi in contatto con Dengov e il corpo diplomatico per capire perché la sua liberazione sia stata tanto complicata, nonostante il negoziatore desse il risultato per raggiunto in tempi rapidi. Il marittimo ha anche cercato di ottenere, attraverso i sindacati, l’apertura di un’inchiesta sul management della Temeteron e la Guardia costiera libica. Non ha mai avuto risposte. Così ha deciso, quattro anni dopo, di rendere pubblico e raccontare a IrpiMedia quello che ha visto con i suoi occhi.

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Lorenzo Bagnoli
Giulio Rubino

Ha collaborato

Vladimir Petin

Editing

Luca Rinaldi

Foto

Shipspotting
Fedor Nikolaenko

Omicidio Daphne Galizia: quel vascello dei trafficanti nella secca al largo di Valletta

#PiratiDelMediterraneo

Omicidio Daphne Galizia: quel vascello dei trafficanti nella secca al largo di Valletta
Cecilia Anesi
Lorenzo Bagnoli
Giulio Rubino

Marsa, l’insenatura più profonda del Grand Harbour di Valletta, è il vero porto di Malta. Una selva di pescherecci e rimorchiatori. E dietro, nell’ombra, moli di magazzini fatiscenti e capannoni arrugginiti. È qui che trafficanti di droga, sigarette e gasolio hanno il loro covo. Perché l’isola non offre soltanto l’expertise fiscale e finanziaria in grado di dissimulare provenienza e destinazione di capitali, ma anche consulenti marittimi in grado di mutare nome e bandiere alle barche in un battibaleno. Perché a sole 12 miglia a est di Malta c’è una comoda secca per ancorarsi appena al di fuori dalle acque territoriali, dove i trafficanti si possono incontrare per scambiare ogni genere di merce.

Le autorità maltesi – come documentato da Repubblica e IRPI per il Daphne Project nell’aprile scorso – non intervengono perché quelle sono già acque internazionali e i contrabbandieri – nei casi in cui vengono fermati da italiani, spagnoli o greci – sono sempre protetti da bolle d’accompagnamento contraffatte o dal nome di qualche azienda lontana, sia essa nelle Isole Marshall o tra le macerie della Libia. E a marcire dietro le sbarre finiscono solo i marinai di equipaggi messi assieme da agenzie di reclutamento online.

Daphne Caruana Galizia lo aveva capito. E poco prima di venire assassinata il 16 ottobre 2017 aveva iniziato a indagare il mondo dei trafficanti. IRPI, nell’ambito del Daphne Project coordinato da Forbidden Stories, ha proseguito la sua ricerca. E ha scoperto che Marsa se è stato il luogo dove i killer di Daphne avevano il loro rifugio, è anche il luogo dove è stato organizzato l’ultimo viaggio di contrabbando di hashish del Mediterraneo.

Il battello dei trafficanti

È il quattro giugno e a tagliare le onde del mare di fronte a Capo Bon, Tunisia, c’è un grosso peschereccio bianco e blu con il nome “Quest”. È dipinto di fresco. Ha lasciato Malta per l’Algeria, ma appena raggiunto il golfo di Oran, di fronte alle coste marocchine, ha repentinamente invertito la rotta per dirigere verso Alessandria d’Egitto. A bordo non c’è nessuno occupato con reti da pesca e la barca naviga insolitamente lungo una linea retta, con rotta costante. Ricorda una nave cargo che ha fretta di giungere a destinazione, più che un’imbarcazione in cerca di pesce, che navigherebbe disegnando cerchi concentrici.

I militari del Reparto Operativo Aeronavale di Messina della Guardia di Finanza, guidati dal Colonnello Cristino Alemanno, la stanno osservando. Le si avvicinano a bordo del pattugliatore Monte Sperone. «Siamo un motor yacht», risponde via radio il capitano della Quest, tentando di non destare sospetti. Dopo 40 ore di navigazione affiancata, la Gdf riceve il permesso dall’Olanda – lo stato di cui batte bandiera la Quest – per abbordarla. Sottocoperta, dentro la cella frigo, è la ragione di un comportamento così anomalo: 10 tonnellate di hashish.

I cambi di rotta

Prima della caduta di Gheddafi – febbraio 2011 – l’hashish marocchino entrava principalmente dalla Spagna. Poi, dal 2013, un cambio di strategia: le navi della droga hanno iniziato a tenere una rotta lungo il Nord Africa e dirigersi soprattutto a Tobruk, nella Libia orientale. Tobruk è diventato il luogo di stoccaggio ideale, dove l’hashish viene protetto da milizie che nessuno è in grado di contrastare. Da lì, viene caricato su piccole imbarcazioni che lo portano fino ai balcani, da cui poi entra in Europa via terra.

«Non sappiamo ancora esattamente come l’hashish raggiunga l’Europa da Tobruk, ma casi recenti evidenziano anche un ruolo, quali finanziatori, di esponenti della criminalità organizzata italiana e maltese», spiega il colonnello Giuseppe Campobasso, l’Ufficiale della Guardia di Finanza che dirige il Gruppo Operativo Antidroga del Nucleo PEF di Palermo e che partecipa all’operazione “Libeccio International”.

Sicuramente c’è stato un cambiamento logistico. Da navi cargo gestite da siriani, adesso l’hashish viene trasportato per lo più a bordo di pescherecci riconducibili ad armatori maltesi o italiani. «La collaborazione tra forze di polizia di Italia, Spagna, Grecia e Francia ha potuto delineare come l’asse del traffico di hashish sia oggi molto più vicino a Malta e all’Italia», spiega Campobasso. E il caso della Quest lo conferma.

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Le nuove piste del caso Daphne

Tre anni dopo l’omicidio della giornalista maltese, numerosi indizi puntano a un potente uomo d’affari come mandante, Yorgen Fenech. Quest’ultimo nega ogni coinvolgimento, ma nuovi elementi rivelati dal Daphne Project, mettono in discussione la sua versione

«Abbiamo identificato la Quest come potenziale nave contrabbandiera analizzandone la rotta», spiega il Comandante Cristino Alemanno che partecipa all’operazione “Libeccio International” di contrasto al traffico di stupefacente via mare. «Un peschereccio d’altura che lascia Malta e si aggira in quello specifico golfo del Marocco non può che destare sospetti. È proprio in quel punto che l’hashish viene caricato da gommoni o imbarcazioni più piccole a bordo di navi più grandi. Durante alcuni controlli successivi abbiamo scoperto che il nome M/Y Quest (Motor Yacht Quest) è legato anche ad un’altra barca, un vero yacht. Il nome – che è stato cambiato appena prima di questo viaggio – è stato chiaramente scelto per confondere le acque».

C’erano una volta un irlandese, un ucraino e un maltese

Il Daphne Project, grazie alla collaborazione con il centro di ricerche americano C4ADS, ha avuto accesso a documenti che dimostrano un legame tra tre uomini: un maltese, Paul Attard; un irlandese, Joseph O’Connor e un ucraino, Mykola Khodariev. I tre sono riconducibili ad una rete di contrabbandieri di base a Malta. Paul Attard, classe 1978, è un nome bisbigliato con timore al porto di Marsa. Il cittadino comune non lo conosce, ma nel mondo marittimo tutti sanno chi sia, seppure nessuno voglia indicare come trovarlo.

I marinai dell’equipaggio della Quest, arrestati con l’accusa di traffico internazionale di droga, sono in custodia cautelare in Italia. E sette di loro hanno deciso di collaborare, indicando in Paul Attard il vero proprietario della barca e l’organizzatore del viaggio. «Assisto il motorista della Quest e un altro marinaio, macchinista, entrambi ucraini”, dice l’avvocato catanese Antonio Giuffrida. «Sono stati assunti per navigare dalla Danimarca a Malta, e poi mantenuti a bordo dal nuovo proprietario, Paul Attard della Patron Group. Hanno sempre e solo seguito gli ordini impartiti e non avevano idea che la barca stesse caricando hashish».

C’è un uomo dell’equipaggio che è rimasto in silenzio. È David Bonello, parente stretto di Paul Attard. Sulla carta, ufficiale in seconda. In realtà, comandava le operazioni in diretto collegamento con il parente. Bonello e Attard sono ora indagati come responsabili del carico di hashish.

Per Giuseppe Cavallaro, legale di Attard, l’armatore non ha nulla a che vedere né con la nave, né con il suo carico: «Ho già consegnato alla Procura tutte le prove che dimostrano come il mio cliente non c’entri assolutamente nulla».

«Se sapeste controllare la storia dell’imbarcazione – sbraita Attard al telefono – vedreste che io non ne sono il proprietario. Un mio amico libico mi ha chiesto di aiutare un ucraino che cercava una barca a Malta, e così io l’ho messo in contatto con il migliore broker di navi che conosco, Joseph O’Connor. Poi l’ucraino aveva bisogno di un equipaggio e così io glielo ho procurato». «Ma – garantisce Attard – non c’entro nulla né con la nave né, tanto meno, con il suo carico».

Il venditore di navi

Il venditore di navi raccomandato da Attard è il terzo nome legato alla Quest, il 67enne irlandese Joseph Anthony O’Connor, che ha fatto di Malta la sua nuova casa. Da una vita O’Connor compra navi scassate, le aggiusta e le rivende. Un lavoro che gli ha però creato grane giudiziarie in Spagna, Stati Uniti e Malta.

È stato imputato e poi assolto per traffico di hashish quando, nel 2005, una barca che aveva da poco rinnovato e venduto in Spagna, è stata fermata con un carico di hashish a bordo.

Nel 2007, invece, è stato condannato a pagare una multa di 70mila dollari per avere inquinato la baia di San Diego durante la ristrutturazione di un grosso peschereccio. L’aveva acquistato all’asta dopo che la barca era stata fermata in quello che all’epoca fu definito «il più grosso sequestro di cocaina degli Stati Uniti». A Malta, O’Connor è stato multato più volte per non avere pagato le tasse di ancoraggio.

E poi c’è il caso della Quest. Prima di essere fermato, il peschereccio è stato ristrutturato al Il-Mol Tal-Pont di Marsa, dove O’Connor ha la sua base operativa. Raggiunta al telefono, la segretaria di O’Connor ha fornito un indirizzo a Mosta, nell’interno dell’isola. Ma quando O’Connor ha risposto al campanello e capito che di fronte aveva giornalisti e non acquirenti, ha reagito aggressivamente, mettendo alla porta chi intendeva provare a fare delle domande.

Il terzo uomo

Raggiunto via email, O’Connor questa volta ha impiegato un legale per smentire con forza ogni coinvolgimento nel traffico di hashish, producendo un atto di vendita della Quest risalente al 16 maggio. Due elementi, però, non quadrano. Il primo: non è Malta Towage a vendere l’imbarcazione ma l’altra azienda dell’irlandese, la Britannia Shipping International. Secondo: l’acquirente sarebbe un ucraino di nome Mykola Khodariev. Due giorni dopo l’atto, Khodariev apre un’azienda di comodo in Inghilterra e la chiama Quest Shipping Ltd.

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Khodariev non appare in alcun documento ufficiale rinvenuto a bordo, ma durante l’ispezione la Gdf trova un foglio scritto a mano con un presunto armatore, ovvero la Quest Shipping.

In realtà Mykola Khodariev è un fantasma, che appare per la prima volta in Europa per acquistare la Quest. Per conto di chi, e con quali soldi?

Giro giro tondo

Ufficialmente quindi, Paul Attard non è il proprietario della Quest. È però, a tutti gli effetti, un armatore. Oggi ha intestato un solo rimorchiatore, ma in passato vantava una flotta, tra rimorchiatori, navi cargo e navi cisterna – o possedute direttamente o prese in affitto. Negli anni, ha preferito lavorare sempre più da dietro le quinte e questo perché i suoi rimorchiatori sono ormai ritenuti «a rischio» per avere trainato imbarcazioni con carichi illegali. Gli inquirenti credono che Attard abbia messo a punto un trucco per evitare di finire nei guai direttamente: se il carico illegale sta su una barca in avaria, cosa può saperne chi la traina?

In effetti, a scontare il carcere sono troppo spesso solo gli equipaggi, che vengono arrestati in flagrante senza essere le vere menti del traffico. È raro che gli armatori vengano chiamati in causa, o – ancora peggio – identificati. Emblematico è il caso di luglio 2017, quando le autorità spagnole hanno sequestrato 6.800 scatole di sigarette. E anche questa volta tutto ebbe inizio nella secca maltese di Hurd’s Bank.

A giugno di quell’anno la Med Patron, un cargo riconducibile ad Attard, aveva lasciato gli ormeggi a Bar, in Montenegro, per incontrarsi con due navi nell’area che si estende a partire da 10 miglia a est di Malta. Si trattava della Eisvogel – noleggiata da Attard – e di una piccola nave cargo, la Falkvaag. La Falkvaag è una carretta che era arrivata a Malta da Zuwara, Libia occidentale, a marzo 2016. Sospettata di traffico di migranti da Frontex, fu fermata più volte nel Mediterraneo ma senza che si trovasse mai alcun carico illecito. Quel che è certo è che a Malta ci arriva perché ha bisogno di manutenzione, e viene così affidata ad Attard dai suoi proprietari libici. Un anno dopo, nell’estate 2017, viene decisa la sua destinazione finale: la demolizione in Spagna. Ma farla viaggiare vuota viene considerato uno spreco, e così a fine giugno viene trainata da Attard fino a Hurd’s Bank. Lì incontra la Med Patron che le passa il carico di sigarette. Il passaggio ship-to-ship è insolito, ma non illegale in acque internazionali. Ma per le dogane spagnole è stato fatto «in maniera del tutto inappropriata». Infatti, non appena la Falkvaag, trainata dalla Eisvogel, raggiunge le acque spagnole le due navi vengono poste sotto sequestro, e l’equipaggio arrestato. Ad oggi, i marinai restano in carcere, mentre gli armatori non risultano indagati.

Paul Attard giura di avere la coscienza pulita. «Avevo noleggiato la Eisvogel da un armatore italiano», dice. «Ma durante il periodo del sequestro non la stavo più noleggiando». E aggiunge: «La nave cargo Med Patron non è mai stata mia. Era della Safe Harbour Navigation Ltd». Eppure, stando ai database marittimi, dal 2014 la nave è della storica azienda di Attard, la Patron Group.

Uno schema consolidato

Le disavventure in cui incappano le navi di Attard rappresentano in realtà un vero e proprio Sistema. Oltre al caso della Quest e della Eisvogel, ce ne sono altri in cui a pagare è stato solo l’equipaggio.

È il 27 agosto 2015 e, al largo delle coste di Zuwara, una petroliera di 68 metri, la “Sovereign M”, viene fermata dalla Guardia costiera libica. Il tribunale di Tripoli ne condanna l’intero equipaggio per traffico illegale di gasolio. Resteranno in carcere in condizioni inumane fino al marzo scorso. A possedere la nave è la famiglia dei Mizzi, noti “compro oro” dell’isola che hanno deciso di investire nel mondo marittimo. A gestire la nave sarebbe però la “Patron Group” di Paul Attard. E quando la petroliera viene persa in Libia, Mizzi trascina Attard in tribunale chiedendogli un risarcimento di un milione di dollari. Avrebbe violato il contratto d’affitto, mandando la “Sovereign M” fino in Libia.

«La Sovereign l’avevo noleggiata ma solo per portare il gasolio da Malta alla Sicilia. Quella di mandarla in Libia è stata una decisione di Silvio Mizzi. Era lui in contatto con il capitano», dice Attard. I Mizzi, proprietari anche di una bettolina sequestrata l’estate scorsa ad Augusta sempre per traffico di gasolio, hanno preferito non commentare.

Il covo

C’è un luogo che ritorna nelle storie dei trafficanti: è Il-Mol Tal-Pont, il molo dove la Quest è stata rimessa a nuovo a primavera scorsa. La strada che lo disegna segue il profilo di un’aquila in picchiata, costeggiata da edifici in tufo e capanne in lamiera. È la parte del porto che i turisti non vedranno, un mondo nascosto che deve restare tale. Impossibile scrutarlo dalla terra ferma, è difeso dalle mura degli antichi magazzini doganali in disuso e circondato da uno scudo di pescherecci e rimorchiatori. A questo molo sono ormeggiate le barche di Attard e, nella parte finale, quella più riservata e protetta da un cancello, ci sono i pescherecci di O’Connor. Poco prima della cancellata ci sono dei magazzini di lamiera arrugginita, sono i potato shed dove i fratelli Alfred e George Degiorgio e il loro complice Vince Muscat hanno preparato l’omicidio di Daphne Caruana Galizia.

«Siamo in una battaglia vera, una guerriglia, nella quale ogni singolo scontro può essere vinto solo con la cooperazione internazionale», dice il comandante del Gruppo antidroga della Gdf di Palermo, Giuseppe Campobasso, nel tirare le somme di Libeccio International. Un luogo da colpire è sicuramente Marsa, il covo dei contrabbandieri maltesi. A farsi un giro ora si vedono molti pescherecci attraccati, ma non sono abbandonati: gli equipaggi abitano a bordo. «Stanno lì in attesa di ordini, pronti a partire per il primo viaggio deciso da qualche trafficante», afferma una fonte con una lunghissima esperienza nel settore marittimo sull’isola. «State attenti con questo mondo – ammonisce -. Perché in fondo chi pensate abbia ucciso Daphne?».

Il mondo di sotto e gli assassini di Daphne

Già. E del resto, un filo tra il Mondo di Sotto dei traffici e gli esecutori materiali dell’omicidio di Daphne – Vincent Muscat e i fratelli George e Alfred Degiorgio – esiste e può essere trovato. Il Daphne Project ha avuto accesso a materiale confidenziale che prova come i Degiorgio, all’epoca dell’omicidio e in tempi precedenti, fossero in stretto contatto con un pescatore di tonno che attracca anch’esso lungo il molo Tal Pont: Pierre Darmanin.

Darmanin non è immune al mondo dei traffici, da cui però per ora è uscito sempre pulito. La sua “Crystal Starlight” fu fermata per contrabbando di sigarette, ma oggi ufficialmente caccia il tonno nei mari a sud di Malta. Poi l’uomo ha acquistato un peschereccio da un contrabbandiere di gasolio che ha perso due gambe in un’autobomba, e ha venduto una bettolina a Gordon Debono, a processo a Catania sempre per traffico di diesel.

Darmanin – si vocifera tra i pescatori, è noto per contrabbando di gasolio e anche Daphne ne aveva scritto. Ed è Darmanin l’uomo che – come ha rivelato lunedì scorso il Daphne Project – dopo aver interloquito con Daphne nell’ottobre del 2016 in occasione di un suo articolo sui regolamenti di conti nel mondo del contrabbando di gasolio, ha contattato prima il ministro dell’Economia maltese Chris Cardona e quindi Alfred De Giorgio, uno degli uomini che ucciderà Daphne l’anno successivo, il 16 ottobre 2017. Una coincidenza?

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Tra mafia e scommesse, perché Malta è la nuova isola del tesoro

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Tra mafia e scommesse, perché Malta è la nuova isola del tesoro
Cecilia Anesi
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Se soltanto i luoghi in cui si affollano avessero un indirizzo, dei tavoli verdi su cui depositare delle fiches, una leva da afferrare per far girare una slot, Malta conterebbe più giocatori d’azzardo che abitanti. Perché sull’isola, ogni giorno, ventiquattro ore su ventiquattro, 300 casinò virtuali macinano centinaia di migliaia di giocate. A gestirli sono società di gioco a distanza, con clienti lontani. “Gambling”, “Betting” on line. Un business che ha fatto da volano all’economia di Malta. Cercato e voluto a cominciare dal 2004, quando il governo guidato dall’allora primo ministro nazionalista Lawrence Gonzi introdusse la prima legge sul gioco online nell’Unione Europea.

Oggi, quattordici anni dopo, Malta ha la più alta concentrazione di operatori del gioco d’azzardo d’Europa fiscalmente domiciliati sull’isola, cui garantiscono il 12 per cento del PIL. La crescita esponenziale del “gambling” on line aveva incuriosito Daphne Caruana Galizia, la giornalista investigativa uccisa con un’autobomba il 16 ottobre scorso. Il “Daphne Project” (consorzio di 18 organizzazioni giornalistiche di 15 diversi Paesi, e di cui IRPI e Repubblica fanno parte) ha lavorato per cinque mesi per completare anche questo capitolo del suo lavoro. Traendone una conclusione. Che quella del gambling maltese è la storia di un successo economico pagato a caro prezzo: infiltrazioni criminali, riciclaggio e una preoccupante commistione tra organismi di controllo e controllati indicano che l’isola continua a permettere un uso spregiudicato delle licenze per questo tipo di business.

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Del resto sono anni ormai che le Direzioni Distrettuali Antimafia d’Italia documentano come le mafie investano e riciclino milioni di euro attraverso il gioco d’azzardo online. A Malta, accade addirittura che le licenze di gioco passino di mano da un’organizzazione criminale a un’altra. Dalla ‘Ndrangheta a Cosa Nostra. Come fossero un carico di cocaina. E per giunta “assicurato”. Perché anche nell’ipotesi in cui le autorità maltesi reagiscano sospendendo una licenza, la soluzione è già brevettata. Ridisegnare le architetture societarie dei beneficiari delle licenze attraverso società fiduciarie gestite da ex funzionari dell’Autorità di controllo del gioco d’azzardo online, capaci dunque di mettere a posto le cose. Colletti bianchi fidati, a cui i mafiosi si affidano per aprire società maltesi con patrimonio e identità dei beneficiari nascosti in qualche paradiso fiscale dei Caraibi. Gli stessi colletti bianchi che poi, per quelle società, otterranno le licenze di gioco da usare in tutta Europa.

Sono anni ormai che le Direzioni Distrettuali Antimafia d’Italia documentano come le mafie investano e riciclino milioni di euro attraverso il gioco d’azzardo online

Il nipote di Nitto Santapaola sul traghetto per Malta

Uno stretto braccio di mare separa La Valletta, capitale di Malta, e la nostra Pozzallo. La cittadina siciliana è nota come uno dei punti di approdo principali delle navi cariche di migranti salvati lungo la rotta che attraversa il Mediterraneo meridionale. Ma, in direzione opposta, dal suo porto partono anche i traghetti che in un’ora e mezza raggiungono Malta. Una rotta frequentata anche dal nipote del boss catanese Nitto Santapaola, Vincenzo ‘Enzo’ Romeo, che nell’aprile del 2015 si è imbarcato su uno di quei traghetti con 38mila euro in contanti. Per gli inquirenti italiani, Vincenzo Romeo è un ‘diamante grezzo’ di mafia. Padrino di una nuova leva di capi: istruito, con uno sguardo internazionale e l’intuito per gli affari più redditizi. In quel 2015, Romeo sembra voler puntare tutte le sue fiches sul gioco d’azzardo online. E, per questo, attraversa il Mediterraneo.

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A Malta può contare su un contatto messinese, M.L., che lì organizza importanti eventi di poker nel casinò di Portomaso e collabora con “Planetwin365”, uno tra i marchi di betting online più noti. In Italia, M.L. era stato indagato per gioco online abusivo e per avere facilitato il clan dei Casalesi con la distribuzione di slot machines, ma è stato assolto con formula piena. Per Romeo, l’esperto di Poker ha la giusta esperienza e gli affida quindi un compito importante: aprire molteplici siti online, senza che vengano registrati con l’Autorità dei Monopoli di Stato, cui potersi agganciare dai computer di centri scommesse aperti tra Catania e Messina. Un sistema capace di generare profitti milionari, rigorosamente in contanti e da portare poi a Malta.

In teoria, le regole per evitare gli abusi esistono. Chi ottiene una licenza a Malta, come in qualsiasi altro paese europeo, può aprire sale scommesse in tutta l’Unione, a patto che i clienti registrino un proprio profilo in cui caricare fondi con la carta di credito, e giochino direttamente sul sito connesso ai server maltesi. In modo tale che le transazioni possano essere tracciate dagli organismi di controllo. E tuttavia, in Italia, le cose vanno diversamente. La maggior parte dei giocatori d’azzardo entrano in un punto vendita dove pagano in contanti per scommettere online. Giocate che, a questo punto, non transitano più da un account individuale, ma da una cassa unica che rende le scommesse anonime. Una pratica del tutto illegale per gli operatori non riconosciuti dall’AAMS (i monopoli italiani), non fosse altro perché permette anche di creare enormi fondi neri. I contanti delle giocate raccolti nella sala scommesse vengono quindi affidati a degli spalloni, alcune volte dei veri e propri broker finanziari, che si occupano di trasferirli fisicamente in qualche istituto bancario “distratto”.

In Italia, a Malta o in Svizzera. In altri casi, come scoperto recentemente dalla Procura di Palermo, il denaro viene “caricato” (versato) nell’account di un giocatore connivente o di un gestore di un centro scommesse affiliato ai clan, che, in questo modo, diventa la cassaforte per il denaro destinato alle giocate on line e per i proventi di attività illecite tipiche delle mafie. Insomma, una sorta di “libretto al portatore” 2.0 per i soldi delle mafie.

È quello che avrebbe voluto continuare a fare Vincenzo Romeo, se solo non fosse stato fermato. Sia lui che il suo contatto a Malta, M.L, sono stati infatti arrestati lo scorso luglio nell’operazione Beta2 della Procura di Messina per associazione mafiosa e raccolta di scommesse abusive. M.L. è poi stato assolto. Romeo non è stato il solo a coltivare il business del gioco d’azzardo sull’asse Malta-Sicilia. Lo scorso 26 gennaio la Procura di Palermo conclude infatti un’indagine che rivela per l’ennesima volta l’infiltrazione delle mafie italiane nell’industria del gioco maltese.

Tra gli arrestati c’è anche Benedetto Bacchi, accusato di aver stretto un’alleanza con Cosa Nostra palermitana per garantirsi il monopolio delle sue piattaforme di gioco d’azzardo online liberandosi di ogni forma di concorrenza. Grazie a Mario Gennaro, un bookmaker che all’epoca operava per conto della ‘Ndrangheta di Reggio Calabria, Bacchi ottiene infatti in prestito delle licenze maltesi con cui offrire gioco online a Palermo. Arriva a raccogliere oltre 15 milioni al mese di euro in giocate. In cambio, stando all’accusa, i suoi punti scommesse diventano una cassaforte per i soldi dei clan palermitani. La Dda descrive il sistema come una sorta di “bancomat” che ha permesso ai boss di Cosa Nostra di avere accesso ad un “continuo flusso di denaro” grazie a prelievi in contante che avvenivano puntualmente per qualsiasi necessità delle cosche.

«Prova a prendermi»

Le continue indagini sugli interessi mafiosi nel gioco online a Malta hanno macchiato profondamente la reputazione dell’intera industria, anche di quella che opera in una cornice di piena legalità. Non a caso, una fonte del settore ha spiegato a IRPI come alcune grosse aziende di gambling abbiano dato un ultimatum alla Malta Gaming Authority (MGA), l’Agenzia di controllo maltese, pretendendo un intervento. In mancanza del quale, avrebbero lasciato l’isola. Per questo, spinta dal timore di perdere clienti importanti, l’MGA si è impegnata a un’analisi approfondita dei suoi concessionari italiani prendendo in breve tempo alcuni provvedimenti. Il più evidente dei quali è stata la revoca della licenza di “Leaderbet”, marchio di scommesse diffuso in tutta Italia e citato anche nell’indagine palermitana.

L’MGA non ha motivato il provvedimento di revoca. Ma, stando agli atti giudiziari, a Palermo il marchio “Leaderbet” sarebbe stato sponsorizzato dalle famiglie mafiose di Partinico e Resuttana. Anche se la vera spinta imprenditoriale sarebbe arrivata da Mazara del Vallo, dove si gestiva la diffusione del brand. Per altro, proprio qui, sulla costa trapanese, gli investigatori hanno scoperto che i milioni incassati con il gioco online avrebbero addirittura finanziato la latitanza di Matteo Messina Denaro. Ed è per questo che i carabinieri arrestano Carlo Cattaneo, imprenditore in erba del gioco d’azzardo di Castelvetrano, che faceva la spola tra la Sicilia e Malta. Controllava decine di centri scommesse in tutta la Sicilia occidentale, che assicuravano guadagni di centinaia di migliaia di euro alla settimana. Un po’ per lui, un po’ per Messina Denaro e famiglia.

C’è di più. Cattaneo avrebbe fatto il doppio gioco. Ufficialmente, le sue agenzie di scommesse avevano l’insegna di “Betaland”, un noto marchio registrato a Malta e autorizzato a operare in Italia, che non ha alcun legame con l’inchiesta e che ha interrotto ogni rapporto con Cattaneo. Ma, in realtà, le piattaforme di Cattaneo nascondevano un banner invisibile ma noto a gestori conniventi di centri scommesse. Un banner che, cliccato, consentiva di accedere al sito “Bet17Nero”, il vero brand di Cattaneo. Si offriva così un servizio illecito, ma molto apprezzato dai giocatori. Garantiva quote con vincite più alte, capaci di sbaragliare qualsiasi concorrenza. E lo faceva grazie alla possibilità di evadere il fisco italiano. Anche “Bet17Nero” porta a Malta. I dati di registrazione dei domini web svelano infatti che dietro a questo marchio c’è la “LB Group”, società di Gzira, quartier generale del gioco d’azzardo di Malta, che controlla anche il marchio Leaderbet. Leaderbet ha dichiarato a La Repubblica che «Cattaneo non è nulla di più che un cliente comune. Con contratti standard. Che ha operato con LB Group solo per un limitatissimo periodo temporale e non ha mai destato sospetti per operazioni anomale».

È un fatto che la licenza maltese di Leaderbet sia stata ritirata dalla MGA, ma che Leaderbet continui a raccogliere scommesse nei punti vendita italiani e i suoi operatori proseguano ad operare dall’ufficio di Gzira. E su questo, sempre a Repubblica, Leaderbet ha sostenuto che «l’azienda ha acquisito una ulteriore licenza, e non ha mai interrotto la propria attività». Irpi ha così scoperto che in Italia Leaderbet opera grazie ad una scappatoia. Tiene in vita i propri servizi dichiarando sul proprio sito di usare la licenza austriaca di un’altra azienda di giochi online, la Tipexbet. Quel che sorprende però è che a Repubblica Tipexbet dichiara di non avere mai autorizzato Leaderbet all’uso della propria licenza. Dicono di essersi accorti solo ora che Leaderbet si «appoggiava» alle loro licenze da un mese, e di essere riusciti a rimuoverle dal loro sito con successo oggi pomeriggio. «La legge austriaca non permette a terzi di usare la nostra licenza. Abbiamo proceduto a informare i nostri legali per diffidare Leaderbet e chiedere una sanzione pecuniaria».

Chi debba risponderne rimane un mistero. Dal registro delle imprese maltese risulta che l’amministratore sia un ragusano su cui non esistono informazioni. E l’identità del proprietario di Leaderbet è protetta da una serie di scatole cinesi. Il capitale è infatti detenuto da una holding maltese, che a sua volta fa riferimento a una società di consulenza. Fino al 2016, quel ruolo di fiduciaria era ricoperto dalla “GVM Holding” di David Gonzi, figlio dell’ex primo ministro Lawrence. Proprio colui che nel 2004 diede il là all’industria del gioco d’azzardo online. Del resto, il trust di Gonzi sembra essere stato molto popolare tra gli operatori italiani, compresi i siciliani indagati dalla Procura di Palermo. Per il suo servizio prestato anche a Mario Gennaro, il bookmaker della ‘Ndrangheta poi diventato collaboratore di giustizia, David Gonzi finì iscritto al registro degli indagati dell’Antimafia di Reggio Calabria.

Ma la sua posizione è stata poi archiviata per insufficienza di prove. Un ruolo chiave quello dei trust maltesi che è proprio Gennaro a raccontare ai pm. “Ci sono delle società di consulenza – dice a verbale – che se tu ti vuoi, diciamo ipoteticamente, nascondere, quindi non fare apparire la vera proprietà, loro si prestano. Per esempio, la Unit Group era appunto la nostra società, le risulta che il proprietario della Unit Group è la Star Games – dice al pm, continuando la spiegazione. “E chi è Star Games? Il proprietario di Star Game è GVM, che è la fiduciaria, chi è dietro GVM non me lo dicono”. David Gonzi ha dichiarato a Repubblica di «non essersi mai incontrato o aver parlato con Mario Gennaro» e che «dal Dicembre 2015 la GVM Holdings ha cessato la propria attività».

Dalla MGA alla Mafia

L’avvocato maltese Anthony ‘Tony’ Axisa è uno dei pionieri del gaming a Malta. Oggi è un affermato consulente per decine di società, ma fino al 2006 era uno dei controllori dell’MGA. Fu addirittura lui a disegnare le normative nazionali per il gioco online: un ruolo di primissimo piano che gli ha permesso di acquisire una perfetta conoscenza del settore e preziosi contatti da mettere a disposizione dei propri clienti. Axisa ha aperto dozzine di società di gambling e avviato vari marchi, tra cui Bet1128, che stando alle indagini della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro sarebbe riconducibile alla criminalità organizzata. A guidare la società – scrivono i pm – è Francesco Martiradonna, figlio di “Vitino l’Enel”, un barese già condannato per associazione mafiosa. Martiradonna – arrestato a maggio 2017 – è accusato di aver stretto un patto commerciale con il potente clan Arena di Isola di Capo Rizzuto, mettendo di fatto a disposizione il suo marchio Bet1128.

Nel 2009, la Bet1128 viene trasferita in fretta e furia da Londra a Gzira, dopo che le autorità britanniche avevano risposto positivamente a una richiesta di sequestro e di sospensione delle licenze a seguito di un’indagine dell’antimafia barese. A Malta, il marchio finisce nella mani di una azienda aperta per l’occasione, Centurionbet, amministrata da Tony Axisa e controllata da società di comodo con sede in paradisi fiscali nei Caraibi. Il nome di Martiradonna è scomparso.
Ma le conversazioni intercettate dalla Guardia di Finanza di Crotone, guidata dal Colonnello Emilio Fiora, svelano che Martiradonna il brand Bet1128 non lo ha mai abbandonato. Sarebbe stato lui, infatti, il burattinaio. Gestiva i contatti a Malta. Raccoglieva gli incassi in contanti e viaggiava in lungo e il largo per l’Italia e il mondo, America Latina compresa, a stringere nuovi accordi commerciali. Inclusi quelli con il clan Arena. L’avvocato di Martiradonna ha detto a Repubblica che il suo assistito «chiarirà la propria posizione in sede giudiziaria».

La misura di Catanzaro dipinge un quadro di un’imprenditoria espressione e strumento di interessi mafiosi. Il boss Pasquale Arena avrebbe infatti imposto i termini di gioco della Bet1128 in centri scommesse e bar del territorio di riferimento, in cambio di una percentuale sui guadagni. A giugno 2017, un mese dopo gli arresti, la Malta Gaming Authority sospende tutte le licenze concesse alla Centurionbet. Le autorità maltesi non rispondono però alla richiesta di sequestro preventivo avanzata dal Tribunale di Catanzaro, nonostante il timore che il patrimonio dell’azienda potesse venire spostato offshore. La mancanza di collaborazione manda su tutte le furie il Procuratore Capo Nicola Gratteri che in un’audizione della Commissione Parlamentare Antimafia dichiara: «Ho più facilità a collaborare con la Colombia e col Perù che con Malta. Se Malta decide di non collaborare con l’Italia, o risponde con sei mesi o un anno di ritardo, l’indagine sarà inutile».

A gennaio di quest’anno è stato richiesto nuovamente il sequestro tramite rogatoria. Dopo una cordiale risposta, i maltesi sono spariti per fare capolino nuovamente solo quando Repubblica ha contattato la Procura Generale Maltese per un commento. Il Procuratore Generale Peter Grech ha dichiarato di avere proceduto all’esecuzione della misura e di averlo già comunicato alla controparte italiana. In Calabria però il decreto maltese non è ancora arrivato. Alla richiesta di potere vedere il decreto da parte di Repubblica, il procuratore Grech ha risposto picche. Resta quindi incerto su cosa, esattamente, i maltesi abbiano apposto i sigilli. Anche considerato che all’ufficio di Tas-Sliema 11, a Gzira, Centurionbet non c’è piu.

“Centurionbet ha fatto le valigie e se ne è andata in tutta fretta lo scorso dicembre”, ha spiegato a IRPI la receptionist dell’edificio che ospitava l’ufficio di Centurionbet. Oggi, al suo posto lavora una start-up norvegese del gioco online. Ma, un piano più in basso, in un ufficio identico e completamente vuoto, seduto all’interno di un box di vetro, c’è una vecchia conoscenza. Si tratta di un ex manager di Bet1128, e uomo fidato di Francesco Martiradonna, la mente dietro Centurionbet. Dal gioco d’azzardo si è lanciato in una nuova avventura: “Ivy Net Ltd”, un’azienda che offre sistemi di pagamento in criptovalute. Un rappresentante di Ivy Net raggiunto da Repubblica ha negato alcuna connessione con Centurionbet, dichiarando che l’attuale manager è stato scelto per le sue competenze e che è un “professionista serio e persona onesta”.

Ivy Net dichiara anche di avere scelto quell’ufficio per puro caso, ma stava cercando in quella zona, a Gzira. Non è una coincidenza. Il quartiere sta infatti diventando il quartier generale delle criptovalute, dopo avere ospitato per anni il gambling. Come accaduto per il gioco online più di un decennio fa, Malta ora si sta proponendo come la prima capitale al mondo delle monete virtuali. L’attuale primo ministro laburista Joseph Muscat le ha definite “il futuro” e sta spingendo affinché nel paese venga introdotta la prima normativa al mondo del settore. Quella delle criptovalute è ancora un’industria indecifrabile, tra grosse potenzialità e timori di illegalità diffusa. Per questo, diversi paesi se ne tengono alla larga. Muscat è comunque pronto a scommetterci. “È come navigare in acque inesplorate, dove non abbiamo una mappa da seguire. Ma cammineremo, impareremo e saremo in testa,” ha dichiarato il primo ministro nel marzo del 2018. “Anche se ci saranno degli ostacoli lungo la strada, saremo i pionieri del mondo. La nostra direzione è chiara.” Un decreto legge è attualmente in discussione nel Parlamento di La Valletta. Se approvato, il compito di regolamentare l’industria delle monete virtuali ricadrà sulla Malta Financial Services Authority (MFSA), l’autorità finanziaria del paese. Alla sua guida a quel punto ci sarà Joseph Cuschieri, fino a poche settimane fa a capo della Malta Gaming Authority.

Porte girevoli. A Malta tutto cambia, perché nulla cambi.

Questo articolo è stato modificato in data 27 settembre 2023 a seguito di una richiesta per il diritto all’oblio da parte di M.L.

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