Il (verde) granaio di Roma
#NdranghetaInSardegna
Cecilia Anesi
Raffaele Angius
Occorre una mezz’ora in fuoristrada tra tornanti, strade dissestate e canaloni per raggiungere il costone di una delle montagne che guardano verso Orgosolo. Siamo nel Supramonte, nel centro della Sardegna. Qui, pochi mesi fa, la squadriglia dei carabinieri di Pratobello – un’unità scelta dell’Arma – ha trovato una piantagione di marijuana «per sbaglio, facendo un giro di perlustrazione», spiegano. Nascosto tra le stalle abbandonate di una casa in dissesto, si celava un campo perfettamente attrezzato, ordinato in filari, con tanto di tubi interrati per l’impianto di irrigazione.
«Vedete quelle montagne? Da qui si vede». Il comandante della squadriglia fa un cenno per indicare il paese – nemmeno quattromila anime – arroccato nel cuore della Barbagia. Lontana dal mondo eppure così culturalmente viva, Orgosolo è celebre per i suoi murales che parlano di Antonio Gramsci, Emilio Lussu e della rivolta di Pratobello, quando nel 1969 lo Stato ha mal pensato di poter sottrarre terre e campi agli abitanti per farne una base militare.
«Probabilmente sono scappati quando ci hanno sentito arrivare», spiegano i militari, che hanno trovato la piantagione deserta: «Camminando per il bosco, se si conosce la strada, sono sufficienti un paio d’ore per arrivare al paese senza essere visti». Di piantagioni come questa ne sono sorte a centinaia in tutta la Sardegna, dove clima e isolamento sono strategici e anni di abbandono delle campagne hanno favorito l’insorgenza di questa industria illegale.
Foto: Giulio Rubino
Dati alla mano, l’isola è diventata una centrale di produzione e commercio di stupefacenti, di cui detiene svariati record. In Sardegna, si legge nella Relazione al Parlamento sulle tossicodipendenze, nel 2021 sono state sequestrate 23.676 tonnellate di stupefacente, il 28% di quanto sequestrato sul territorio nazionale. L’isola è ormai considerata il principale produttore di cannabis illegale, con il 30% dei sequestri e un’incidenza di 7.453 piante ogni 100 mila abitanti. La seconda regione della classifica è la Calabria, che però ne coltiva la metà.
Ma è proprio dalla Calabria che arriva il maggiore incentivo alla produzione di marijuana. Lo spiega a IrpiMedia e Indip un pm della Direzione distrettuale antimafia di Cagliari, che per via delle indagini in corso preferisce l’anonimato. La fonte sostiene che nell’isola la produzione è direttamente incentivata dalle cosche della ‘ndrangheta che preferiscono delocalizzare e focalizzarsi sulla distribuzione. Se nell’antichità la Sardegna era chiamata “il granaio di Roma”, oggi dell’Italia ne è diventata piuttosto la serra.
Foto: Giulio Rubino
Una questione di qualità
Quello delle cosche non è l’unico motore che ha animato questo mercato. Nel 2016 una legge dello Stato ha promosso e consentito la libera coltivazione della canapa sativa L. da sementi certificate di varietà in cui il Thc (Tetraidrocannabinolo) non superi lo 0,6%. Il Thc è l’elemento “stupefacente” della canapa, mentre il principio attivo di quella legale è il Cbd, cannabidiolo, che dà al consumatore miti effetti rilassanti.
Sulla scorta di questa misura, in Sardegna come nel resto d’Italia si è moltiplicata la presenza di coltivazioni di canapa. Molti hanno pensato di approfittare della nuova normativa per produrre marijuana illegale, confidando in meno controlli e puntando a profitti ben più alti.
Foto: Giulio Rubino
«Passa così», spiega il comandante della Compagnia carabinieri di Nuoro, il tenente colonnello Gianluca Graziani. «Passa come se fosse legale, trasportata in Continente già confezionata in sacchetti ed etichettata come legale, ma in realtà viene venduta in circuiti illeciti, dove si guadagna molto di più».
Secondo gli investigatori, uno dei modi di aggirare i controlli consisterebbe nel far uscire la canapa legale dall’isola per poi sottoporla a trattamenti chimici nei laboratori della criminalità organizzata nel Nord Italia. Qui sarebbero in grado di ripristinare un livello di Thc tale da dare l’effetto psicotropo della marijuana.
In altre indagini, spiegano sempre gli inquirenti, si è scoperto che i coltivatori hanno piantato alcune piante di canapa illegale tra i filari solamente dopo che i controlli avevano già certificato la legalità dell’intero campo. L’effetto è che le poche piantine non depotenziate hanno condizionato la crescita di quelle circostanti, stimolando l’intera piantagione a tornare a produrre Thc in valori non consentiti dalla legge.
Foto: Giulio Rubino
Di entrambe le strategie, non è del tutto chiaro il funzionamento nei dettagli. Le stesse autorità stanno cercando di decifrare le metodologie adottate di volta in volta dai criminali, di cui finora si ha un’idea vaga.
Ma c’è ancora un problema: a fronte di una normativa lacunosa e poco chiara nell’identificare quali usi delle piante siano legali o meno, la parola è passata ai giudici che nel tempo hanno fornito interpretazioni diametralmente opposte sulla possibilità di commerciare al dettaglio i derivati della coltivazione. In base a una sentenza pubblicata nel 2019 dalla Corte di Cassazione, la Procura di Cagliari ha emanato una direttiva che ribadisce la più stringente delle interpretazioni possibili: la canapa prodotta in Sardegna non può essere lavorata in loco ma deve essere conferita alle officine autorizzate e per i soli scopi previsti dalla norma.
Questo, almeno in parte, ha inciso sulle statistiche dei sequestri, che di conseguenza annoverano anche le operazioni di controllo sulle aziende che coltivano canapa legale. Come spiegano fonti di polizia, i sequestri vincolano le stesse autorità all’ottenimento delle analisi, che sull’isola possono essere svolte solamente in pochi laboratori e con tempi molto lunghi. Ciò significa che i risultati delle analisi arrivano quando la canapa è già marcita e, che fosse legale o meno, spesso finisce al macero.
Foto: Giulio Rubino
«È evidente, a mio avviso, che proibire di svolgere un’attività inoffensiva ma redditizia, impoverisce le campagne e apre la strada ad altri soggetti magari organizzati che intraprendono coltivazioni illegali», spiega Adriano Sollai, avvocato penalista del foro di Cagliari. «La legge del 2016 ha aperto una possibilità che per una terra come la Sardegna poteva essere una grande opportunità ma purtroppo il rigorismo giuridico, nonché il pregiudizio ideologico politicamente diffuso, hanno reso questo settore difficile da praticare e hanno forse innescato appetiti sulle nostre terre, stavolta certamente illeciti».
Un sequestro importante
Di questi interessi si trova facilmente traccia sull’isola, dove sequestri e attività d’indagine faticano a stare al passo con la creazione di nuove piantagioni e rinnovate reti per la distribuzione, talvolta tradite dallo stesso profumo che emanano le piante di canapa.
È appena passata l’ora di pranzo quando i militari da Pratobello vengono richiamati a Nuoro: qui, proprio grazie al forte odore, i carabinieri hanno trovato un magazzino in periferia. All’ingresso un cartello: «Vendita piante di canapa legale», con tanto di numero di cellulare e un sito web.
Foto: Giulio Rubino
Nel magazzino la marijuana è ovunque. Appesi a seccare su delle lunghe funi pendono centinaia di rami, mentre a terra è quasi impossibile camminare senza schiacciare i boccioli già separati e pronti a essere impacchettati. Su dei tavoli gli uomini della Scientifica catalogano bilancini e cestelli a cilindro simili ai pallottolieri della tombola, in questo caso usati per separare le infiorescenze dalla ramaglia. Altri apparecchi servono a deumidificare l’aria e a confezionare sottovuoto l’erba direttamente nell’edificio, le cui finestre sono state meticolosamente oscurate dall’interno con del cartone. Sebbene occorrano analisi più approfondite, i primi esami sul posto condotti dalla Scientifica fanno emergere da subito il sospetto che le indicazioni sulla vendita di canapa legale siano una copertura: il Thc è superiore al consentito e tutta la merce è da sequestrare.
Le autorità sono sempre più diffidenti nei confronti della cosiddetta cannabis light, spesso usata come copertura per il traffico illecito. «Ormai della coltivazione di marijuana ne parlano apertamente, sembra una comunicazione innocente», dice Michele Morelli, già comandante del Nucleo investigativo dei carabinieri di Livorno e oggi alla Direzione investigativa antimafia di Firenze.
Foto: Giulio Rubino
A confermarlo ci sono anche le intercettazioni di due imprenditori del settore, i fratelli Francesco e Pasquale Buffa. Originari di Orgosolo, sono coinvolti in un’indagine del nucleo investigativo guidato da Morelli. Si tratta dell’operazione Mandra, che prende il nome dall’azienda agricola di Robertino Dessì, Il massaro. Dessì è un sardo trapiantato nel Livornese. Qui è diventato un prezioso appoggio logistico per i trafficanti di droga, come abbiamo già scritto. È qui che i fratelli Buffa vengono intercettati mentre spiegano che «ormai con il Cbd [da quando esiste la canapa light] si può parlare, prima non si poteva».
Dieci quintali per il continente
Nonostante tanta fiducia Pasquale Buffa viene arrestato la prima volta nel 2017 con l’accusa di far parte di una banda specializzata in furti, rapine a portavalori, coltivazione e traffico di marijuana attiva in Barbagia tra Nuoro, Mamoiada e Orgosolo.
Nel 2019 viene nuovamente arrestato con l’accusa di aver allestito una piantagione di oltre quattromila piante di cannabis, poi assolto in sede di giudizio.
Foto: Giulio Rubino
Ma l’indagine che mette nero su bianco la reale portata del business della marijuana di Orgosolo non parte dalla Sardegna, bensì proprio dalla Toscana e dall’azienda di Robertino Dessì, già luogo d’incontro tra le cosche della ‘ndrangheta e della criminalità sarda del Campidano.
Qui emerge, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, una trattativa finora raramente osservata nel campo delle narcomafie: cocaina in cambio di marijuana. A cercare controparti per il baratto sono alcuni criminali albanesi, che dispongono di grosse quantità di polvere bianca e chiedono a Robertino Dessì di procurare qualcuno in grado di fornire marijuana come controvalore. Spesso considerata «un piccolo taglio», la marijuana è più facilmente vendibile per finanziare ben più costosi carichi di droghe pesanti.
A Dessì i contatti non mancano e infatti è lui a rivolgersi a Pasquale Buffa, di cui conosce le capacità. Come spiegano loro stessi in un’intercettazione, i due orgolesi dispongono di erba di varie tipologie, tra cui un quintale di canapa del tipo californiano. «Dieci quintali, abbiamo messo diecimila piante», spiegano. Il prezzo: duemila euro al chilo.
Foto: Giulio Rubino
Una rete più ampia
È ottobre 2020 e alla fattoria Mandra di Dessì, nelle campagne toscane, Pasquale Buffa incontra il massaro e due narcotrafficanti albanesi. Non sanno che ad ascoltarli ci sono i carabinieri di Livorno. «Loro a Nuoro hanno bisogno di questa (la cocaina, ndr), noi qua abbiamo bisogno di questa (la marijuana, ndr)», spiega Dessì agli albanesi, perorando la causa di uno scambio tra le merci. Esattamente in questa direzione vanno anche gli orgolesi, che a fronte di un pagamento in cocaina sono disposti a fare un prezzo di favore: 180 mila euro per un quintale di marijuana, contro i 200 mila che chiederebbero in cambio di contanti.
La marijuana è particolarmente richiesta nel centro e Nord Italia e anche se né Dessì né gli albanesi hanno un mercato già avviato per la distribuzione a Livorno, possono contare su un «punto di riferimento a Milano» che poi «sparge dappertutto». Una persona che «anche 500 (chili, ndr) te li prende subito».
Un mese dopo Buffa fa arrivare 80 chili di marijuana che vengono stoccati nell’azienda di Dessì. Agli albanesi non viene detto subito, perché Buffa vuole prima trattare. Non è chiaro chi si farà carico di trasportare la cocaina fino in Sardegna e l’orgolese propone di dividere in parti uguali eventuali perdite dovute a sequestri o problemi nel trasporto.
Foto: Giulio Rubino
Né possono molto le insistenti richieste degli albanesi di tirare giù il prezzo, dalle quali emerge un dettaglio importante. Buffa infatti spiega di non poter scendere oltre «perché la cosa non è solo mia», facendo intendere di far parte di un gruppo. Non una mafia, ma, spiegano fonti informate, una filiera che va dai coltivatori – che negli anni hanno avviato la produzione di marijuana in Sardegna – arrivando fino ai “moderni banditi” che si fanno carico di portarla fuori dall’isola, gestendo la logistica, i fondi e i rapporti con le organizzazioni criminali “in continente”: in testa le ‘ndrine calabresi e la criminalità albanese.
Il 5 novembre 2020, all’indomani dell’ultimo incontro nell’azienda di Dessì, uno dei due albanesi incrocia un posto di blocco mentre è diretto verso la riviera romagnola. Nel tentativo di scappare sperona un’auto, finendo a folle velocità fuori strada. A bordo dell’automobile, i carabinieri trovano 29 chili di marijuana divisi in cinquanta sacchetti termosaldati. Profumano ancora di macchia mediterranea.
Poco più di un anno dopo, la gip di Firenze Angela Fantechi firma un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Dessì e dei fratelli Buffa, i cui legali difensori, contattati da IrpiMedia e Indip, hanno preferito non rilasciare dichiarazioni.
CREDITI
Foto
Giulio Rubino