Vietato chiedere trasparenza nella filiera degli acquisti pubblici

16 Dicembre 2020 | di Laura Carrer*, Matteo Civillini

L’inchiesta è partita da una semplice domanda: l’acquisto di mascherine da parte della nostra pubblica amministrazione ha contribuito ad alimentare lo sfruttamento dei lavoratori uiguri in Cina? Un quesito legittimo nato dalle molteplici testimonianze secondo cui alcuni tra i principali produttori cinesi di dispositivi di protezione individuali utilizzino lavoratori uiguri messi alle loro dipendenze da un controverso programma statale di “rieducazione” coatta. Si inserisce in questo scenario anche la notizia pubblicata alcuni giorni dal Washington Post che, facendo riferimento a un report interno all’azienda Huawei, parla della creazione di un sistema di riconoscimento facciale ad hoc per identificare proprio la minoranza uigura.

Non ci sono dubbi che prodotti macchiati da sospetti di lavoro forzato siano arrivati anche in Europa e in Italia. Come abbiamo raccontato nell’inchiesta pubblicata ieri, 15 dicembre, su IrpiMedia, la più grande catena italiana di farmacie vende ancora oggi le mascherine fabbricate in una di queste aziende. Un guaio – quantomeno di immagine – per una multinazionale che vorrebbe fare della responsabilità sociale il suo fiore all’occhiello.

Ancor più spinoso, però, sarebbe sapere che le nostre casse pubbliche supportano un modello volto a soffocare i diritti e le libertà individuali di decine di migliaia di persone. Seppur questi acquisti siano stati spinti con molta fretta e pochi controlli da una drammatica situazione di emergenza. Ma non è il caso di abbassare la guardia, soprattutto in un momento come questo. La Regione Puglia, per esempio, ha ricevuto lo scorso aprile una partita di 200mila tute mediche che, secondo il Guardian, sono state prodotte da lavoratori nordcoreani sfruttati.

Il diritto di sapere

Un caso isolato o parte di un problema più ampio? Per andare a fondo in una questione di stretto interesse pubblico ci siamo rivolti al governo centrale e alle più grandi regioni dal nord al sud Italia. Lo abbiamo fatto tramite il progetto FOIA4journalists di Transparency Italia, che da giugno 2018 supporta giornalisti e associazioni nella stesura di istanze di accesso agli atti delle Pubbliche Amministrazioni.

Il FOIA (Freedom of Information Act) è un diritto-strumento fondamentale per ottenere documenti ufficiali e di prima mano da parte degli enti centrali o, in questo caso, delle Regioni. Quest’anno è risultato particolarmente decisivo per il tema dell’accesso alle informazioni poiché da una parte la pandemia da covid-19 ha incentivato la richiesta di dati aperti soprattutto in ambito sanitario; dall’altra parte è stato possibile constatare tristemente quanto un’emergenza sanitaria come quella che stiamo vivendo non basti per incentivare la trasparenza e la proattività degli enti che ci amministrano.

Il Freedom of Information Act in Italia

Il Freedom of Information Act (FOIA), diffuso in oltre 100 paesi al mondo, è la normativa che garantisce a chiunque il diritto di accesso alle informazioni detenute dalle pubbliche amministrazioni, salvo i limiti a tutela degli interessi pubblici e privati stabiliti dalla legge.

In Italia tale diritto è previsto dal decreto legislativo n. 97 del 2016 che ha modificato il decreto legislativo n. 33 del 2013 (c.d. decreto trasparenza), introducendo l’accesso civico generalizzato al fine di promuovere la partecipazione dei cittadini all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche.

L’obiettivo del FOIA è dunque promuovere una maggiore trasparenza nel rapporto tra le istituzioni e la società civile e incoraggiare un dibattito pubblico informato su temi di interesse collettivo. Giornalisti, organizzazioni non governative, imprese, cittadini italiani e stranieri possono richiedere dati e documenti, così da svolgere un ruolo attivo di controllo sulle attività delle pubbliche amministrazioni.

Il passaggio di una delle risposte ricevute da IrpiMedia dopo l’accesso agli atti alle Regioni

Il FOIA serve infatti a questo: richiedere dati, documenti o informazioni che non sono oggetto di pubblicazione obbligatoria nelle sezioni di amministrazione trasparente degli enti locali e centrali, senza obbligo di motivazione. Un diritto che si estende quindi a chiunque voglia controllare l’operato delle amministrazioni e della cosa pubblica richiedendo tutto ciò che è considerato atto pubblico, una mole davvero importante di informazioni che possono contribuire ad una lettura meno opaca delle azioni dei decisori.

Risposte evasive e insufficienti

Le richieste inoltrate vertevano sulla presenza o meno, all’interno degli elenchi dei produttori di dispositivi di protezione individuale (DPI) e mascherine chirurgiche ai quali le varie stazioni appaltanti si sono rivolte dall’inizio dell’emergenza covid-19 fino al 30 ottobre 2020, di alcune aziende cinesi note per utilizzare lavoratori uiguri. Abbiamo anche specificato di voler ottenere le stesse informazioni nel caso in cui produttore e soggetto affidatario fossero differenti, casistica non proprio rara.

Degli 11 soggetti interrogati solo 3 hanno risposto pienamente alle richieste, verificando l’assenza delle aziende segnalate sia tra i loro fornitori diretti che tra i produttori dei dispositivi acquistati. Tra gli altri i riscontri sono stati tra i più disparati. C’è chi non ha neppure risposto, rimpallando la questione tra diversi uffici. C’è chi ha rimandato a una lunga serie di delibere o liste, dove però venivano indicati solo i nomi dei fornitori – per la stragrande maggioranza importatori italiani di prodotti cinesi.

Degli 11 soggetti interrogati solo 3 hanno risposto pienamente alle richieste, verificando l’assenza delle aziende segnalate sia tra i loro fornitori diretti che tra i produttori dei dispositivi acquistati

E c’è chi, infine, ha detto che i dati non erano “immediatamente reperibili”, che l’estrazione degli stessi sarebbe “troppo onerosa” da sostenere durante l’emergenza sanitaria, o che la richiesta era “irragionevole”.

Regioni come Toscana e Veneto, colte dalle nostre istanze, si sono dette impossibilitate a rispondere dettagliatamente e con sicurezza poiché il funzionario incaricato avrebbe dovuto cercare i nominativi delle aziende manualmente all’interno di centinaia di documenti cartacei. Unica concessione la ricerca all’interno di una singola gara. Insufficiente a garantire un livello minimo di trasparenza per la cittadinanza.

Un risultato diametralmente opposto a quello ottenuto dai colleghi stranieri che hanno posto le medesime domande alle rispettive amministrazioni pubbliche. In Svezia, Danimarca, Norvegia ed Estonia – Paesi dove la trasparenza rappresenta un valore cardine – i funzionari pubblici hanno fornito risposte rapide e dettagliate. Se i prodotti incriminati non figuravano lo hanno detto senza giri di parole.

L’inchiesta

Le mascherine prodotte dagli uiguri ai lavori forzati in Cina e vendute in Europa

Trasferiti da Pechino in fabbriche lontano dalla loro regione, gli operai uiguri sono costretti ai lavori forzati. La distribuzione nelle farmacie europee e italiane

15 Dicembre 2020

Quando invece la risposta era affermativa hanno indicato con precisione i quantitativi, i distributori europei che li hanno reperiti in Cina, e infine i luoghi di destinazione finale, come ospedali o case di cura. Dati che hanno restituito una panoramica limpida, permettendo così di ricostruire l’intera filiera. Non per fare una caccia alle streghe, ma per capire le sue implicazioni più profonde e, quando necessario, mettere i soggetti coinvolti di fronte alle proprie responsabilità. E perché no, metterli anche nella condizione di poter verificare gli attori della stessa filiera.

Se la cosiddetta accountability, ovvero la responsabilità da parte dei funzionari pubblici di rendicontare ai cittadini come vengono investite le risorse finanziarie per il bene pubblico, è ormai aspetto cardine all’interno delle decisioni in una lunga lista di paesi nel mondo anche durante la pandemia che ci accomuna senza distinzioni, in Italia così non è: possiamo chiaramente affermare che il suo posto al tavolo dei decisori è ancora vuoto.

*Transparency International Italia | Editing: Luca Rinaldi | Foto: Nirat.pix/Shutterstock

Le mascherine prodotte dagli uiguri ai lavori forzati in Cina e vendute in Europa

#Covid-19

Le mascherine prodotte dagli uiguri ai lavori forzati in Cina e vendute in Europa

Matteo Civillini

C’è anche la più grande catena italiana di farmacie tra i rivenditori di mascherine prodotte in Cina da cittadini uiguri sottoposti a condizioni di lavoro forzato. In Italia, i prodotti sono distribuiti dal gruppo Lloyds Farmacia (marchio di Admenta Italia, divisione italiana del colosso americano della distribuzione farmaceutica McKesson), presente nella penisola con oltre 260 punti vendita, tra cui quelli gestiti da società partecipate di enti pubblici come i Comuni di Milano, Bologna e Bergamo. A scoprirlo è un’inchiesta internazionale – di cui IrpiMedia è partner italiano – che ha ricostruito la presenza in Europa di dispositivi di protezione forniti da aziende cinesi accusate da analisti internazionali di sfruttamento.

Gli uiguri sono una minoranza di religione musulmana ed etnia turcofona che risiede principalmente nella regione autonoma dello Xinjiang, nella Cina occidentale. Da anni il governo cinese sottopone gli uiguri a una sistematica campagna di repressione che prende pieghe particolarmente distopiche: dalla sorveglianza di massa, al controllo delle nascite e alla prigionia in centinaia di centri di detenzione.

Tra le misure più controverse c’è il “trasferimento” di lavoratori uiguri dalla loro terra di origine a fabbriche dislocate nel resto del Paese. Per Pechino questo programma offre alla minoranza musulmana la possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita ed emanciparsi da situazioni di povertà. Ma, a detta di gruppi per la difesa dei diritti umani, gli uiguri non hanno reale libertà di scelta e sono costretti ad accettare gli spostamenti nei “campi di lavoro” sotto la minaccia, anche solo implicita, di un ulteriore peggioramento delle proprie condizioni.

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McKesson, multinazionale americana da 200 miliardi di dollari di fatturato all’anno che in Europa è presente in 13 Paesi, dichiara pubblicamente di avere un occhio di riguardo per la responsabilità sociale all’interno della propria filiera. Il codice di condotta di Admenta richiama i propri dipendenti a «prestare particolare attenzione a ciò che è giusto dal punto di vista etico».

Tra le aziende che hanno ricevuto operai uiguri attraverso il programma di trasferimento c’è la Hubei Haixin Protective Products, azienda che si occupa di dispositivi di protezione individuale con sede nella provincia di Hubei. Video della TV di Stato e notizie sul sito del governo provinciale dimostrano che 131 operaie uigure hanno lavorato nella fabbrica fino allo scorso settembre. Il gruppo McKesson è cliente della Hubei Haixin.

I dispositivi di protezione nelle farmacie italiane

In Italia, il gruppo McKesson è attivo dal luglio 1999, quando acquistò dal Comune di Bologna l’80% del pacchetto azionario dell’azienda che gestiva le farmacie comunali. Prima tappa dell’inarrestabile processo di privatizzazione del settore, nel quale Admenta Italia – holding italiana di McKesson – l’ha fatta spesso da padrone, inghiottendo grosse fette di mercato nel centro-nord.

Da Milano a Padova, da Bergamo a Modena, passando per numerosi piccoli paesi. Il modello di gestione è sempre lo stesso: Admenta acquisisce il pacchetto di maggioranza delle partecipate, mentre ai comuni resta in mano una quota di minoranza. Le amministrazioni mantengono un posto in consiglio d’amministrazione e la possibilità di influenzare l’operato delle farmacie comunali.

Oggi il gruppo Admenta gestisce più di 260 punti vendita e, tramite la controllata Farmalvarion, distribuisce prodotti ad oltre 2500 clienti, tra farmacie private, ospedali e case di cura. L’holding italiana ha un fatturato consolidato di oltre 600 milioni di euro.

Alle farmacie fisiche Lloyds affianca un sito di e-commerce, ulteriormente potenziato nel corso della pandemia. A gestire le vendite online è l’Azienda Farmacie Milanesi, la società partecipata dal Comune che riunisce le farmacie comunali di Milano di cui Palazzo Marino detiene il 20% delle quote. Proprio sul sito di Lloyds si trovano ancora oggi in vendita le mascherine chirurgiche di Hubei Haixin.

No comment

IrpiMedia ha chiesto ad Admenta Italia un’intervista, ma l’azienda ha declinato l’offerta. Il Comune di Milano non ha voluto fornire commenti. McKesson Europe, la holding che controlla Admenta Italia, ha dichiarato di impegnarsi «a garantire una buona responsabilità sociale d’impresa e l’approvvigionamento etico».

L’editoriale

Vietato chiedere trasparenza nella filiera degli acquisti pubblici

La Pubblica amministrazione italiana, nonostante la legge e gli strumenti, non è stata in grado di rispondere ai quesiti sulle società che avrebbero sfruttato i lavoratori uiguri in Cina

«I fornitori – conclude l’azienda – devono accettare i nostri principi di sostenibilità della filiera che riguardano il rispetto delle leggi pertinenti, oltre che l’adesione alle nostre rigorose politiche sulla protezione dei lavoratori, la preparazione alle emergenze, l’identificazione e la gestione dei rischi ambientali e la protezione dell’ambiente».

Lavorare alla Hubei Haixin

Decine di milioni di mascherine chirurgiche prodotte da Hubei Haixin sono arrivate in tutta Europa, compresa l’Italia, dove vengono vendute al pubblico da Lloyds Farmacia.

Le mascherine marchiate Hubei Haixin sono rimaste sugli scaffali – virtuali e non – di Lloyds, sebbene la presenza e lo sfruttamento di lavoratori di origine uigura all’interno dell’azienda cinese sia nota da almeno marzo scorso.

Le mascherine chirurgiche prodotte da Hubei Haixin che IrpiMedia ha acquistato sul sito di Lloyds Farmacia
L’antropologo tedesco Adrian Zenz è tra i maggiori studiosi al mondo della questione uigura e delle politiche repressive di Pechino nello Xinjiang. Tanto che è diventato bersaglio delle campagne propagandistiche del governo cinese a causa dei suoi studi sui campi di rieducazione. Secondo Zenz chiunque abbia nella propria filiera aziende che utilizzano il programma cinese di trasferimento dei lavoratori «commette una violazione di qualsiasi codice etico».

#Covid-19

Il mercato parallelo dei vaccini

Vero o presunto che sia, è oggetto di indagini in Italia ed Ue. Lo popolano truffatori ed esiste perché il sistema di distribuzione globale, soprattutto verso i Paesi poveri, arranca

Genesi delle attuali politiche di Pechino nei confronti degli uiguri

Lo Xinjiang, terra stanziale degli uiguri, detiene lo status ufficiale di Regione Autonoma dal 1955. Da allora il governo centrale ha incentivato il trasferimento nella regione dei cittadini han, l’etnia maggioritaria del Paese, attraverso politiche agricole e industriali. In seguito al crollo dell’Unione Sovietica e alla nascita delle vicine repubbliche centro-asiatiche, i sentimenti secessionisti della minoranza uigura si sono riaccesi, dando vita a gruppi indipendentisti. All’indomani degli attacchi dell’11 settembre, Pechino ha designato alcune di queste frange indipendentiste come “terroristi” legati a una vasta rete internazionale di terrorismo islamico.

Ma sono gli eventi del 2009 che hanno segnato lo spartiacque della politica governativa nei confronti degli uiguri. Nel luglio di quell’anno a Ürümqi è scoppiata una sanguinosa rivolta tra uiguri e han che, secondo le autorità, ha provocato 197 morti e 1721 feriti. A innescarla è stato un incidente avvenuto in una fabbrica della regione di Guangdong dove lavoravano alcuni operai uiguri. Erano stati trasferiti proprio in virtù del controverso programma di cui è vittima la minoranza etnica, già attivo all’epoca. Due di essi sono stati linciati da colleghi han dopo che erano circolate accuse di stupro nei loro confronti, rivelatesi poi infondate. A Ürümqi gli uiguri sono scesi in piazza per chiedere un’indagine imparziale sulla duplice uccisione. Inizialmente pacifica, la manifestazione si è trasformata in un violento scontro etnico. Da una parte gli uiguri hanno preso d’assalto le proprietà dei cittadini han, aggredendoli brutalmente. Dall’altra, gruppi di vigilantes di origine han hanno attaccato gli uiguri in rappresaglia.

Come scrive Gabriele Battaglia su Internazionale, quelle violenze, insieme a successivi episodi, hanno fornito al governo di Pechino il pretesto per scatenare la guerra contro i cosiddetti “tre mali”: terrorismo, separatismo ed estremismo religioso. Costruendo, passo dopo passo, quell’apparato di controllo sociale e repressione in vigore ancora oggi.

Al contrario di quanto afferma il governo di Pechino, Zenz sostiene che i trasferimenti degli operai nelle fabbriche non siano “politiche del lavoro” ma violazioni dei diritti umani: «Si passa dal reclutamento e dall’addestramento in ambienti di tipo militare, a programmi di indottrinamento e lavaggio del cervello fortemente coercitivi», dice il ricercatore.

I lavoratori uiguri che vengono spediti in altre zone della Cina finiscono molto spesso «in dormitori dove viene applicata la segregazione, dove sono continuamente monitorati da videocamere e guardie, senza la possibilità di entrare e uscire liberamente», aggiunge Zenz.

Secondo un’indagine dell’Australian Strategic Policy Institute (Aspi), pubblicata nel marzo scorso, sono oltre 80mila gli uiguri che tra il 2017 e il 2019 sono stati costretti ad abbandonare le propria regione per andare in fabbriche che funzionano come campi di lavoro forzato nel resto della Cina. Il report del centro studi australiano è stato il primo a documentare la presenza di lavoratori uiguri nello stabilimento di Hubei Haixin.

Lavoro forzato

Dal 2017 più di un milione di uiguri e appartenenti ad altre minoranze etniche sono stati rinchiusi in campi di prigionia sparsi per lo Xinjiang. Il governo cinese li descrive come “Centri Vocazionali di Istruzione e Formazione” necessari nella lotta all’estremismo religioso. Ma per numerose Ong internazionali e governi occidentali si tratta di campi di concentramento, dove i reclusi vengono privati di qualsiasi libertà.

I racconti di ex detenuti, insieme a un corposo leak di informazioni riservate, hanno permesso di ricostruire il funzionamento dei centri. Al loro interno gli uiguri sono costretti a seguire un rigido programma di indottrinamento, imparare il mandarino e rinunciare ai propri costumi e abitudini religiose. Nei casi più estremi, i reclusi raccontano di aver subito punizioni corporali e torture dopo essersi rifiutati di aderire alla dura disciplina.

Come scrive l’Australian Strategic Policy Institute (Aspi), il programma di “rieducazione” è ora entrato in nuova fase, il cui nucleo centrale è il trasferimento forzato degli uiguri in fabbriche collocate sia nello Xinjiang che nel resto della Cina. In alcuni casi i lavoratori uiguri vengono spostati direttamente dai campi di prigionia verso i luoghi di produzione a loro assegnati.

A detta di Aspi, per gli uiguri è estremamente complicato rifiutare questi incarichi lavorativi, poiché essi sono sempre espressione del più ampio apparato di repressione e indottrinamento politico. «Oltre all’incessante sorveglianza fisica, sulle minoranze che provano a disertare il programma di trasferimento dei lavoratori incombe la minaccia della detenzione arbitraria», scrive Aspi nel suo report.

«La mia pelle è così splendente!»

All’inizio del 2019, 131 donne di origine uigura sono state trasferite nella fabbrica di Songzi, a poco meno di 3mila chilometri di distanza dal confine con lo Xinjiang. Un articolo pubblicato dall’organo di propaganda statale Hubei Daily racconta che, all’interno dello stabilimento, le donne devono partecipare a quotidiane cerimonie dell’alzabandiera, cantare l’inno cinese, seguire lezioni di mandarino e soggiornare in alloggi dedicati.

Un altro resoconto dall’interno di Hubei Haixin riporta la composizione scritta da una lavoratrice uigura durante uno dei corsi serali obbligatori: «L’acqua, il terreno e l’aria sono così puliti qui. In soli tre mesi, sono passata da essere scura e smilza, ad avere la pelle chiara ed essere ben nutrita. La mia pelle è così splendente!»

Lavoratrici uigure all’interno dello stabilimento di Hubei Haixini – Foto: weibo.com

Racconti come questo non convincono gli osservatori internazionali. Secondo Penelope Kyritsis, direttrice del Worker Rights Consortium, organizzazione internazionale per la difesa dei diritti dei lavoratori, è semplicemente impossibile essere certi che l’utilizzo di lavoratrici uigure da parte di Hubei Haixin non comporti aspetti di coercizione.

Qualsiasi distributore che compra prodotti da aziende come Hubei Haixin deve «immediatamente interrompere i suoi rapporti commerciali con stabilimenti situati nello Xinjiang o che abbiano degli input dalla regione», aggiunge Kyritsis.

Le mascherine nelle farmacie europee e il silenzio di Hubei Haixin

L’Italia non è l’unico paese europeo in cui McKesson vende i dispositivi di protezione individuale prodotti da Hubei Haixin. Le stesse mascherine possono essere acquistate nelle farmacie online controllate dalla multinazionale in Norvegia, Belgio e Olanda.

Nel Nord Europa, a commercializzare prodotti medicali legati al lavoro degli uiguri è anche Onemed, leader della distribuzione farmaceutica con sede in Svezia. A differenza di McKesson, Onemed non vende direttamente al dettaglio, ma gestisce numerosi appalti pubblici per la forniture di Dpi. Mascherine e camici marchiati Hubei Haixin sono stati forniti da Onemed a governi e ospedali pubblici in Svezia, Norvegia, Danimarca ed Estonia.

Onemed ha dichiarato a SVT, la TV di stato svedese, di essersi accorta dell’utilizzo di lavoratori uiguri da parte di Hubei Haixin alla fine del 2019 e di aver continuato il proprio rapporto dopo aver svolto alcune verifiche: «La nostra valutazione complessiva è che non vi è alcun caso di lavoro forzato o discriminazione contro la minoranza uigura nella nostra catena di fornitura – dichiara il portavoce del gruppo svedese Onemed – ma ovviamente continueremo a seguire la questione e a prendere provvedimenti se dovessimo ricevere nuove informazioni».
Le mascherine di Hubei Haixin in vendita sul sito di Lloyds Farmacia

Hubei Haixin non ha risposto a una lista di domande dettagliate. Tuttavia, OCCRP è entrata in possesso di una lettera redatta da Hubei Haixin, nella quale l’azienda spiega di aver tenuto le lavoratrici uigure alle proprie dipendenze fino alla fine di settembre. «Il contratto di lavoro tra la nostra azienda e i dipendenti dello Xinjiang sarebbe dovuto terminare a marzo 2020 – ha scritto l’azienda Hubei Haixin -. In seguito allo scoppio della pandemia Covid-19 nella provincia di Hubei e i successivi lockdown regionali le 130 lavoratrici della Xinjiang sono rimaste bloccate a Hubei senza poter tornare a casa».

Anche il Ministero degli Esteri cinese non ha risposto alle domande inviate da OCCRP, ma un portavoce dell’ambasciata cinese a Oslo ha dichiarato: «I cosiddetti “abusi dei diritti umani” nello Xinjiang o la “persecuzione delle minoranze etniche” sono le menzogne del secolo inventate dalle forze estremiste anti-cinesi».

CREDITI

Autori

Matteo Civillini

Hanno collaborato

Aubrey Belford
Peter Svaar
Ola Westerberg

Editing

Lorenzo Bagnoli

In partnership con

OCCRP, SVT (Svezia)
NRK (Norvegia)
DR (Danimarca)
Follow The Money (Paesi Bassi)
De Tijd (Belgio)
Eesti Päevaleht (Estonia)

Infografiche & Mappe

OCCRP

I fari dell’autorità antifrode sui certificati sospetti per le mascherine

2 luglio 2020 | di Lorenzo Bodrero, Matteo Civillini

Milioni di prodotti medici e dispositivi di protezione individuale con falsi certificati di conformità sono arrivati in Europa dall’inizio della pandemia Covid-19. Un’ondata con seri rischi per la salute degli operatori sanitari e dei cittadini che li utilizzano con la convinzione di essere protetti. A lanciare l’allarme è l’Ufficio Europeo Antifrode (OLAF) che sta portando avanti un’indagine sul fenomeno insieme agli organi di polizia degli stati membri.

«La domanda per questi prodotti è aumentata e, con essa, anche il numero dei truffatori attirati dalla possibilità di fare profitti illeciti enormi,» spiega a IrpiMedia Ville Itälä, direttore generale di OLAF. «La caratteristica principale della frode consiste – specifica Itälä – nel vendere dispositivi con certificazioni ottenute da organismi che non hanno il reale potere di certificare questi prodotti».

Come un’inchiesta di IrpiMedia aveva già raccontato, l’emergenza Covid-19 ha fatto nascere un fiorente mercato grigio delle certificazioni per Dpi. Documenti che, a un occhio inesperto, danno l’impressione che si tratti di un bollino di qualità o un lasciapassare per l’esportazione in Europa. Ma, in realtà, non è così. Se, infatti, i certificati mostrano ben in vista il marchio CE – lo standard per la vendita nel mercato comunitario, poi a caratteri piccoli specificano che questo non è altro che un attestato volontario di revisione delle specifiche tecniche. Inutile quindi per garantire la sicurezza dei prodotti.

«La caratteristica principale della frode consiste nel vendere dispositivi con certificazioni ottenute da organismi che non hanno il reale potere di certificare questi prodotti»
Ville Itälä, direttore generale di OLAF

Il gran bazar delle certificazioni

A emettere questi documenti sono soggetti che non hanno le licenze necessarie per certificare dispositivi di protezione individuale. Ma che, tuttavia, con lo scoppio della pandemia hanno venduto questi pezzi di carta a centinaia di aziende cinesi che si erano riconvertite da un giorno all’altro alla produzione di mascherine.

Due società l’hanno fatta da padrone in questo bazar delle certificazioni: l’italiana Ente Certificazione Macchine (Ecm) e la polacca ICR Polska. Organismi notificati e riconosciuti dalla Commissione Europea, e dai ministeri nazionali, per la certificazione di macchine industriali, apparecchiature radio e ascensori, ma non di mascherine FFP2, FFP3 o altri dispositivi di protezione personale.

Un’inchiesta di OCCRP, e dei media partner tra cui IrpiMedia, ha scoperto che la documentazione di queste aziende è stata utilizzata per vendere Dpi in almeno 19 paesi europei. In alcuni casi, i certificati hanno permesso l’importazione di mascherine successivamente ritirate dalla vendita per non aver soddisfatto gli standard di sicurezza di test indipendenti.

In Lituania, la Kangyuan Jiangkang Technology, azienda di proprietà di un cittadino cinese, oggi latitante ricercato dalle autorità di Pechino, si è assicurata 19 contratti pubblici dopo aver mostrato certificati di Ecm. Le mascherine prodotte dall’azienda sono state segnalate come a rischio per la salute da enti regolatori in Portogallo, Estonia e Malta.

«I prodotti accompagnati da certificati falsi potrebbero essere inefficaci o persino dannosi per la salute», sottolinea Ville Itälä, direttore generale di OLAF. «Non è un problema soltanto per i singoli consumatori, ma anche per le farmacie, le case di cura e i grandi acquirenti istituzionali, come ospedali o carceri».

Non si tratta soltanto di un rischio ipotetico. OLAF spiega di aver accertato come, in almeno uno Stato membro, gli operatori sanitari siano stati infettati dal virus perché i dispositivi di protezione acquistati dagli enti pubblici erano sotto standard. In un altro caso, centinaia di migliaia di mascherine difettose sono state sequestrate poco prima che venissero distribuite a medici e infermieri. Casi su cui sono ancora in corso le indagini dell’antifrode.

Il bollino della discordia

Fondata nel 1999 in un paesino sui colli bolognesi, Ente Certificazione Macchine (Ecm) è un’azienda riconosciuta dal Ministero dello Sviluppo Economico come organismo notificato per diverse categorie di merce, ma non per i Dpi. Dallo scoppio della pandemia sono comparsi sul mercato centinaia di “attestati volontari” emessi da Ecm, e spesso spacciati per vere e proprie certificazioni di conformità CE.

Chi induce i clienti a pensare che il “bollino Ecm” valga come marchio CE sono i distributori, si difende l’azienda: «Noi facciamo un’attività di pre-verifica documentale su richiesta dei consulenti dei produttori – aveva spiegato Luca Bedonni, direttore servizi di Ecm a IrpiMedia. Il certificato viene emesso su base volontaria e non è un certificato CE, come viene scritto a chiare lettere sullo stesso».

Tuttavia, diverse autorità di vigilanza del mercato ed esperti del settore hanno censurato l’operato dell’azienda bolognese. Il 7 aprile scorso Accredia – l’ente a cui spetta vigilare sugli organismi certificatori – ha inviato una circolare agli organismi attivi in questo mercato come Ecm. Accredia ha sottolineato come le fattezze grafiche della attestazioni creassero confusione, a causa di riferimenti a Direttive e al logo CE «richiamati più o meno ad arte per ingenerare in chi li riceve l’idea di aver ricevuto un certificato del tipo valido». Successivamente, Accredia ha adottato provvedimenti sanzionatori nei confronti di Ecm.

Tuttavia, documenti ottenuti da IrpiMedia e OCCRP mostrano che Ecm ha continuato ad offrire servizi connessi alla verifica di DPI anche dopo la strigliata di Accredia. Il 27 aprile Ecm ha inviato a un importatore un preventivo per la «verifica di conformità CE di seconda parte» per delle mascherine cinesi ad uso di dispositivo di protezione individuale. Il servizio sarebbe costato 20mila euro da pagare interamente in anticipo. Dorte Kardel, consulente danese per la compliance di DPI, ha affermato a OCCRP che questa «verifica di seconda parte» non esiste secondo le regole europee.

L’ad di Ecm, Andrea Secchi, sostiene che la sua azienda ha emesso i certificati su una «base puramente volontaria» e che i suoi clienti cinesi erano pienamente consapevoli che la responsabilità di ottenere il marchio CE sarebbe ricaduta su di loro.

«La nostra azienda – fa sapere Secchi raggiunto da IrpiMedia – non è responsabile per qualsiasi uso differente, scorretto o improprio del documento o di qualsiasi sua manipolazione. Inoltre, Ecm non è responsabile per qualsiasi non-conformità presente sul prodotto, dato che il processo di produzione, le modificazioni e i difetti – conclude l’amministratore delegato – non sono sotto la nostra sorveglianza».

Quest’inchiesta è stata realizzata in collaborazione con Bayerischer Rundfunk / ARD (Germania), the Danish Broadcasting Corporation (Danimarca), Sveriges Television (Svezia), Follow the Money (Olanda), Investigative Reporting Lab (Macedonia), De Tijd (Belgio), RISE Romania, Oštro (Slovenia), Atlatszo.hu (Ungheria), Público (Portogallo), Reporter.lu (Lussemburgo) and Siena.lt (Lituania).

Mascherine, Regione Lombardia ci pensa da sola ma poi annulla il 72% delle forniture

#Covid-19

Mascherine, Regione Lombardia ci pensa da sola ma poi annulla il 72% delle forniture

Lorenzo Bodrero
Matteo Civillini

Dall’inizio dell’emergenza coronavirus, Regione Lombardia ha ordinato almeno 315 milioni di mascherine per la protezione individuale. Dispositivi promessi a medici prima e a 10 milioni di abitanti della regione poi. Almeno il 72% degli ordini relativo alle mascherine, però, è stato annullato e ad oggi non è dato sapere quante ne siano state effettivamente consegnate. Sono i risultati dell’analisi di IrpiMedia di circa un centinaio di affidamenti fatti da Aria Spa, la stazione appaltante di Regione Lombardia nata nel luglio del 2019.

Gli ordini sono stati cancellati per i motivi più disparati: dalla mancata idoneità del prodotto a ritardi nella consegna, fino al mancato rispetto di imprecisate clausole contrattuali. Qualche carico è stato addirittura requisito durante gli scali aerei in direzione Italia, quando era ormai chiaro che il contagio stava colpendo anche altri Paesi. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, il documento di annullamento non precisa alcuna ragione. Se fossero arrivate con i tempi previsti, le mascherine – dalle chirurgiche alle Ffp3 – avrebbero protetto l’intera popolazione lombarda fino a maggio, quando si è effettivamente concluso il lockdown.

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La grande corsa è cominciata il 13 marzo, quando l’Assessore al Bilancio regionale Davide Caparini ha lanciato la call internazionale, con affidamento diretto, per reperire il materiale necessario alle strutture sanitarie e socio-sanitarie.

Cos’è la procedura negoziata senza pubblicazione del bando di gara?

Con il decreto legge “Cura Italia”, le pubbliche amministrazioni sono autorizzate ad acquistare beni e servizi mediante procedura negoziata senza pubblicazione di un bando di gara, in deroga al codice dei contratti pubblici. L’affidamento di un appalto, quindi, può essere diretto.

Il dispositivo ha l’obiettivo di accelerare le procedure di affidamento, ma come abbiamo visto espone il fianco ad abusi e frodi. In realtà, l’uso della procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara è già contemplato dal Codice dei contratti pubblici solo in determinati casi, quali ad esempio ragioni di estrema urgenza derivante da eventi imprevedibili, come può essere l’esplosione del Covid.

La centrale degli appalti lombardi, nei primi dieci giorni, ha siglato una trentina di accordi, destinati ad aumentare ulteriormente nei giorni successivi. Ormai, con lo scoppio della pandemia in mezzo mondo, era diventato sempre più complicato trovare fornitori.

In Cina decine di migliaia di fabbriche si erano riconvertite nottetempo alla produzione di dispositivi di protezione individuale (Dpi), spesso senza avere le certificazioni necessarie per esportare nel mercato europeo. In Europa, in mezzo agli operatori del settore, si sono tuffati improvvisati broker che millantano contatti in grado di consegnare prodotti che poi non si materializzano. Alcuni compaiono tra coloro a cui Aria Spa ha alla fine annullato l’ordine.

È il caso, per esempio, di un 22enne di Praga, che figura come intermediario in una fornitura per 20 milioni di mascherine chirurgiche. L’azienda produttrice, come si legge nel contratto da 6 milioni di euro siglato il 23 marzo da Aria Spa, ha sede ad Hong Kong. Nella lettera, Aria specificava che la prima consegna sarebbe dovuta avvenire entro sette giorni dalla firma del documento. Il 9 aprile la maxi-commessa è stata però annullata per mancanza della documentazione tecnica a supporto della qualità dei prodotti.

Due settimane sono trascorse invece tra la stipula e l’annullamento di un’altra gara, questa volta per dieci milioni di mascherine chirurgiche. In questo caso l’accordo era stato raggiunto con l’indiana Gitvin Remedies per la quale, secondo le carte consultate da IrpiMedia, appariva come intermediario una persona di cui è nota solo l’email. Non ha risposto alle nostre richieste di spiegazioni.

L’ordine di Aria è rimasto inevaso anche quando gli intermediari erano noti, come Cristian Ferraris, direttore del Settore organizzazione sviluppo e rapporti associativi di Assolombarda, l’associazione degli industriali che operano nelle province di Milano, Lodi, Monza e Brianza e Pavia. In quelle concitate settimane «ci siamo resi disponibili, come tanti altri soggetti pubblici e privati, ad aiutare nel reperimento di Dpi, mettendo in campo la nostra rete di contatti in Italia e all’estero, soprattutto in Estremo oriente», spiega Ferraris. La società che avrebbe dovuto fornire le mascherine ad Aria Spa era la cinese Liaoning Mec Group. «L’azienda è piaciuta subito», rammenta il manager di Assolombarda. Forse fin troppo: l’acconto anticipato di 740mila euro è stato versato immediatamente, ma dei documenti per la lettera di credito con cui saldare il conto non c’è mai stata traccia. Dopo 18 giorni Aria ha annullato l’ordine per un milione di mascherine ricevendo il rimborso dell’anticipo, secondo Ferraris, pochi giorni dopo.

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Per tre volte, a mettere Aria Spa in contatto con altri potenziali fornitori di mascherine è stata Margareta Florea, 65enne nata in Romania ma residente nell’hinterland milanese dagli anni ‘70. Con la sua azienda, Sano Life Medical, Florea fornisce kit diagnostici per il pap test al collo dell’utero a diverse aziende sanitarie in tutta Italia. Florea è un’imprenditrice con un’ampia rete di conoscenze tra politica e istituzioni, in Italia e all’estero. Dopo la discesa in campo di Silvio Berlusconi nel 1994, fu chiamata a gestire il club “Tricolore” di Forza Italia, tra i più influenti di Milano.

Margareta Florea insieme all’assessore alla sanità della Lombardia, Giulio Gallera – Foto: Facebook Margareta Florea

Oggi, invece, Florea è presidente de “Il bello che avanza siamo noi”, associazione da lei costituita nel 2017 con l’obiettivo di «fare da ponte tra la società civile e il mondo delle istituzioni e della politica». Tra i soci fondatori compare anche il nome di Marco Trivelli, fresco di nomina come direttore generale della Sanità lombarda per volontà del governatore Attilio Fontana. Una lunga carriera come dirigente sanitario cominciata all’epoca di Roberto Formigoni, Trivelli il 10 giugno subentra a Luigi Cajazzo, ex poliziotto della Mobile di Lecco, che ha ricoperto il ruolo di dg da maggio 2018. Resterà in Regione con la carica di vicesegretario.

Oltre a Trivelli, l’associazione di Florea conta tra i soci diversi direttori sanitari e primari, soprattutto lombardi. E un politico: il deputato leghista Luca Toccalini, classe 1990, per diversi mesi anche vicepresidente dell’associazione. Toccalini è membro della Commissione Difesa della Lega alla Camera ed è stato nominato segretario della Lega Giovani da Matteo Salvini.

«Ognuno ha le proprie idee politiche e Toccalini non è nell’associazione in quanto leghista – prende le distanze Florea -. Noi non abbiamo un colore politico». Eppure nel maggio del 2019 Florea si è spesa in prima persona per la campagna alle elezioni europee della Lega: ha organizzato la presentazione di due candidati, Isabella Tovaglieri e Alessandro Panza, a cui hanno partecipato anche i pesi massimi del partito, Giancarlo Giorgetti e Matteo Salvini. «Ho parlato con Luca Toccalini e altre persone che lavorano negli ospedali e mi hanno chiesto: “Visto che tu sei brava potresti fare un evento per questi candidati” – ricorda Florea -. Parlando con loro ho capito che avevano a cuore il bene comune e ho pensato ne valesse la pena».

Florea sostiene sia stata la sua coscienza a spingerla a cercare tra i propri canali istituzionali qualcuno in grado di fornire i Dpi per la Regione. «Senza volerci guadagnare neanche un centesimo», specifica. Ha individuato una prima azienda, la Commerce Leader Service Trading Canada, che il 18 marzo ha stretto un accordo con Aria per 10 milioni di mascherine. Una settimana più tardi, però, l’ordine con l’azienda canadese è saltato. La commessa è passata quindi nelle mani di due aziende cinesi, segnalate da Florea ad Aria. Ancora una volta, però, l’affare si è chiuso con un nulla di fatto. Nella nota, la centrale degli appalti comunica alle aziende cinesi, con Florea in copia, l’annullamento dell’ordine «per la vostra mancata possibilità a garantire la consegna». L’imprenditrice definisce però la sua collaborazione con Aria «di alto profilo»: «Se le forniture sono saltate – conclude Florea – è per colpa dei cinesi che hanno dato ad altri la merce pattuita».

Le mascherine i cui affidamenti non sono stati annullati da Aria spa

Altre commesse mai consegnate per le quali Aria ha elargito comunque importanti anticipi di pagamento sono finite sotto la lente della procura. Come, la maxi-fornitura da quasi 14 milioni di euro per mascherine e camici affidata ad aprile alla Eclettica Srls, azienda di Turbigo specializzata nell’import di cappotti. Eclettica è piccola e ha solo mille euro di capitale sociale, ma Aria le ha anticipato comunque il 70% del pagamento, ossia 10 milioni. Un mese dopo, il suo amministratore Fabrizio Bongiovanni, 44 anni, aveva consegnato ancora solo una parte di quanto ordinato: «Il 4 aprile, dopo l’ok di Aria, avevo comprato tutto. Ma loro hanno cambiato in corsa la tipologia dei dispositivi», si è difeso l’interessato. Oggi è agli arresti domiciliari con l’accusa di frode nelle forniture pubbliche dopo essere stato denunciato dalla Regione e aver subito il sequestro da parte della Guardia di Finanza di Como di 3,3 milioni di euro depositati sui conti della sua società. Bongiovanni ha dichiarato a La Stampa che è stata Aria ad aver voluto anticipargli comunque il denaro, solo con un’autocertificazione senza garanzie.

Altre aziende sono riuscite a completare l’ordine ma hanno messo sul mercato prodotti di dubbia qualità. Un caso riguarda la Fippi, l’azienda di pannolini di Rho che ha riconvertito la produzione su commissione di Regione Lombardia. Aria le ha affidato una commessa da oltre 8 milioni di euro per 18 milioni di pezzi. Il sindacato Adl Cobas Lombardia, in un esposto alla procura di Milano, ha chiesto di chiarire l’idoneità, i costi e l’aggiudicazione della fornitura. I pm meneghini stanno accertando i fatti, ma nel frattempo le “mascherine-pannolino” sono rimaste nei magazzini, sostiene il gruppo consigliare del Movimento 5 Stelle sulla base di un accesso agli atti.

L’inizio della spesa forsennata

Il tema delle forniture è stato al centro delle polemiche, in Lombardia, a partire da inizio marzo, pochi giorni prima della chiusura totale della regione, quando ancora l’ondata di contagi, e morti, era solo all’orizzonte. Giulio Gallera, assessore alla Sanità e al Welfare, aveva accusato la Protezione civile della scarsità di dispositivi di protezione individuale: «Il problema è di chi doveva organizzarsi rispetto a uno scenario di emergenza sanitaria importante, con acquisti straordinari di presidi di protezione individuale, o non l’ha fatto o non l’ha fatto in maniera adeguata». Come ha ricostruito Business Insider Italia, però, proprio Regione Lombardia non ha mai avuto un ‘Piano Emergenze’ che stabilisse in modo chiaro la responsabilità dell’acquisto di dispositivi medici.

Una settimana dopo questa prima gaffe, Gallera ha rincarato comunque la dose contro Roma. Si è presentato alla quotidiana conferenza stampa con una mascherina da lui rinominata “modello Swiffer” e, mentre la sventolava di fronte ai giornalisti, ha detto: «Ci hanno mandato delle mascherine che sono un fazzoletto o un foglio di carta igienica che viene unito. Non vogliamo fare polemica però non sono sufficienti per la sicurezza degli operatori sanitari». La Protezione civile ha ribattuto di aver consegnato ai magazzini della regione oltre mezzo milione di dispositivi di diverso tipo in pochi giorni, ma ormai la strada era tracciata: la Lombardia aveva deciso di rifornirsi da sola, con i risultati che abbiamo visto.

Al 16 marzo, la regione contava già oltre 1200 morti e quasi 15mila persone contagiate. La sede lombarda della Federazione dei medici di famiglia (Fimmg) era sul piede di guerra e puntava il dito dritto verso la Regione. Con una lettera intimava pubblicamente l’amministrazione locale di rifornire al più presto tutto il personale medico e sanitario dei necessari dispositivi di protezione. Già si conoscevano gli ordini impartiti ai medici di non indossare le mascherine in alcune strutture ospedaliere lombarde e già si conosceva quanto alta fosse l’incidenza degli infettati tra il personale sanitario. L’associazione a febbraio aveva suggerito alla giunta regionale e alle Asl di verificare la disponibilità dei Dpi. Per evitare di rimanere sprovvisti.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bodrero
Matteo Civillini

Editing

Lorenzo Bagnoli

Il gran bazar delle certificazioni per le mascherine dalla Cina

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Il gran bazar delle certificazioni per le mascherine dalla Cina

Matteo Civillini
Lorenzo Bodrero

Dall’inizio dell’emergenza coronavirus, mascherine Ffp2 con la loro “certificazione di conformità” sono arrivate in mezza Europa. Migliaia ne hanno acquistate ospedali italiani, carceri, forze di polizia penitenziaria. Il documento correda la scheda prodotto di Ffp2 su diversi siti di e-commerce. Le mascherine in questione provengono dalla Cina e la loro patente di conformità è garantita dall’Ente Certificazione Macchine (Ecm), un’azienda bolognese riconosciuta dal Ministero dello Sviluppo Economico come organismo notificato. Si potrebbe pensare che questo pezzo di carta sia un bollino di qualità o un certificato che approva la vendita nell’Unione europea. Ma non è così.

Ecm non ha la licenza per certificare questo genere di dispositivi di protezione individuale (Dpi). È autorizzata per macchine industriali, apparecchiature radio, ascensori e altri dispositivi medici, ma non le mascherine Ffp2. Quel pezzo di carta scambiato per un lasciapassare è solo una pre-certificazione, un attestato volontario di revisione delle specifiche tecniche del prodotto. Ovvero una dichiarazione secondo cui per Ecm il dispositivo in questione potrebbe essere ammesso al vero processo di certificazione. Insomma, ciò che si ottiene è un bollino Ecm, inventato dall’azienda bolognese.

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Nel caos dell’emergenza coronavirus e nella corsa agli approvvigionamenti, le complessità della burocrazia europea e del suo mercato delle certificazioni hanno permesso a qualcuno di spacciare questo documento come una certificazione CE, il vero documento richiesto per essere commercializzati in Europa. Chi induce i clienti a pensare che il “bollino Ecm” valga come marchio CE sono i distributori, si difende l’azienda: «Noi facciamo un’attività di pre-verifica documentale su richiesta dei consulenti dei produttori – spiega Luca Bedonni, direttore servizi di Ecm -. Il certificato viene emesso su base volontaria e non è un certificato CE, come viene scritto a chiare lettere sullo stesso».

Per velocizzare la certificazione dei Dpi, con il decreto Cura Italia il governo ha attribuito all’Inail il compito di validare i dispositivi che non richiedono il marchio CE, come ad esempio le mascherine chirurgiche. Una sorta di procedura abbreviata che prevede l’invio di un’autocertificazione e della documentazione tecnica da parte di chi mette in commercio il Dpi e che non riguarda gli standard di qualità dei prodotti, bensì soltanto la procedura e la relativa tempistica.

In un report pubblicato il 7 maggio, l’Inail afferma che delle 2.458 verifiche condotte soltanto 96 sono risultate conformi: il 4%.

Le diffide delle agenzie di controllo europee

«Come la facciamo noi, questo tipo di certificazione viene fatta dagli altri organismi notificati in Italia e Europa», si difende Bedonni. Ciò non toglie che diverse autorità di vigilanza del mercato in Europa abbiano diffidato i propri consumatori dall’acquistare prodotti con queste certificazioni. La Sikkerhedsstyrelsen, ente governativo che si occupa della sicurezza dei prodotti in Danimarca, il 30 aprile ha fatto i nomi di «due organismi notificati che emettono certificati per Dpi senza averne i requisiti»: uno è Ecm, l’altro Icr Polska, ente certificatore polacco. La European Safety Federation (Esf), il corrispettivo europeo dell’agenzia danese, l’1 maggio ha detto di essere consapevole dell’esistenza di «“certificati” o altri documenti usati come base per la certificazione CE di dispositivi di protezione personale (incluse le mascherine Ffp2/Ffp3 e le protezioni agli occhi), nonostante questi “certificati” non abbiano valore legale e non possano essere usati per la validazione di conformità». Nella nota si legge un elenco di 13 aziende tra cui, di italiane, compaiono Ecm e Celab.

«È da 15 anni – risponde ancora Luca Bedonni di Ecm – che noi, come altri organismi notificati, emettiamo questi certificati in Cina. I produttori accettano i termini del nostro contratto quando li ricevono da noi. Se gli importatori hanno venduto di tutto e di più utilizzando i certificati di Ecm, e non rispettando la normativa, non è certo responsabilità nostra».

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Nelle prime settimane dell’emergenza, l’ente bolognese spiegava però sul proprio sito di essere pronto a «fornire un servizio di certificazione efficiente e mirato», che avrebbe incluso «mascherine, guanti, filtri per respiratori automatici».

Qualche giorno più tardi, il Resto del Carlino dedicava un articolo ai loro sforzi: «Si lavora a pieno ritmo alla Ecm, alle prese in questi giorni con una raffica di richieste dall’Italia e dall’estero per la certificazione di presidi di sicurezza», scriveva il quotidiano.

Una copia delle certificazioni rilasciate da Ecm

Le mascherine certificate Ecm negli ospedali italiani

In Italia le mascherine con la conformità Ecm sono state donate alle strutture ospedaliere di Viterbo e Sestri Levante. Il Cotugno, importante ospedale di Napoli, era in procinto di acquistarne 50mila al prezzo di 3,40 euro l’una in aprile. La Protezione civile ha ammesso di aver comprato partite di Dpi con quel certificato, che poi ha fatto analizzare al comitato tecnico-scientifico. La diffusione di prodotti “marcati” Ecm è diventata tanto prevalente, che in una seduta del comitato di inizio maggio tutte le mascherine in esame presentavano il documento dell’azienda bolognese. Tra queste anche le mascherine importate da Only Italia, la società di Irene Pivetti, oggi indagata per frode e ricettazione in seguito a un maxi-ordine proprio della Protezione civile.

«Certificare dispositivi per la protezione personale è una cosa seria – spiega a IrpiMedia Claudio Delaini, ingegnere e consulente specializzato in certificazioni CE -. Quel certificato è poco chiaro e può indurre in errore, è come se avessero vestito i panni di un ente preposto alla certificazione di Dpi quando invece non sono legittimati a farlo. Da quello che ho potuto osservare questo “certificato” ha invaso il mercato».

Come funziona la certificazione dei Dpi?

Molti prodotti necessitano del marchio CE per essere venduti nell’Unione Europea. Il marchio certifica che il prodotto in questione è stato valutato dal produttore e che rispetta i requisiti stabiliti dall’Ue in materia di sicurezza, salute e tutela dell’ambiente.

I dispositivi di protezione personale (Dpi) rientrano in questa fattispecie, come previsto dal Regolamento UE 245/2016. Sono suddivisi in tre categorie di rischio: Ffp2 e Ffp3 ricadono nella terza, dunque necessitano di marchio europeo fornito da un ente preposto.

La responsabilità sulla conformità del prodotto è di chi lo produce, ma la normativa impone a tutti i soggetti coinvolti nella catena di verificare sia la documentazione tecnica, sia la conformità del marchio CE prima della loro immissione nel mercato. Qualora uno dei soggetti della catena di controllo ritenga i Dpi non conformi, ha l’obbligo non solo di non commercializzarli ma anche di informare il produttore e l’autorità di vigilanza.

La marcatura CE, inoltre, può essere apposta sul Dpi solo dopo essere stato sottoposto a prove di laboratorio e a una procedura di valutazione da parte di un ente accreditato e registrato, una licenza che Ecm non detiene. Inoltre, il regolamento Ue sui Dpi riprende quello che disciplina l’accreditamento e la vigilanza del mercato, il quale all’articolo 30 specifica che «è vietata l’apposizione di marcature, segni o iscrizioni che possano indurre in errore i terzi circa il significato della marcatura CE o il simbolo grafico della stessa».

Le Ffp2 con bollino Ecm sono finite in mezza Europa: dalla Lituania alla Spagna, dalla Polonia alla Slovenia, dalla Repubblica Ceca alla Finlandia. La Romania, dicono fonti giudiziarie, ha allertato l’Interpol, che avrebbe già avviato accertamenti.

Il 7 aprile, però, la corsa alle certificazioni di Ecm si è interrotta. Quel giorno Accredia – l’ente a cui spetta vigilare sugli organismi certificatori – ha inviato una circolare per censurare il comportamento di alcuni suoi consociati impegnati a emettere attestazioni volontarie. Ecm è in cima alla lista, come ha spiegato l’ufficio stampa di Accredia a IrpiMedia: «In considerazione del fatto che l’emissione di tali documenti poteva portare discredito all’intero sistema delle Certificazioni Accreditate abbiamo adottato provvedimenti sanzionatori nei confronti di Ecm, consistenti nel blocco delle estensioni degli accreditamenti per un periodo di sei mesi e nella sorveglianza intensificata». Ecm, in sostanza, non può essere accreditata per certificare nuovi prodotti.

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Già in passato l’azienda bolognese è stata al centro di controversie relative a certificazioni per Dpi. Nel 2008 il Regno Unito bloccò l’importazione di indumenti di protezione per schermidori oggetto di una dichiarazione di conformità rilasciata da Ecm ma che non soddisfavano i requisiti di sicurezza. Un caso poi passato al vaglio della Commissione europea che definì «fuorviante» il fatto che l’Ente Certificazione Macchine avesse apposto sul certificato il numero di identificazione attribuito dalla Commissione. A Ecm fu poi imposto di cessare il rilascio di altre documentazioni simili.

Pechino-Seychelles sola andata

Il Regno Unito ritorna in un’altra vicenda che ha visto protagonista uno dei due proprietari dell’ente certificatore bolognese, Andrea Secchi. L’imprenditore risulta infatti aver aperto tre società, una a Londra, le altre due con sede alle Seychelles, appoggiandosi a Formations House, agenzia inglese che apre società anche in paradisi fiscali per conto terzi. L’elegante palazzina al civico 29 di Harley Street, sede fino al 2017 della società inglese, è stata al centro dell’inchiesta #29Leaks, a cui IrpiMedia e La Stampa hanno partecipato lo scorso anno. Come dimostra il leak che ha dato avvio all’inchiesta, Formations House è stata spesso scelta dai propri clienti poiché faceva poca due diligence, anche quando chi voleva aprire aziende in Gran Bretagna o in giurisdizioni offshore aveva lo scopo di commettere reati fiscali.

Tra i documenti del leak di Formations House consultati da IrpiMedia e La Stampa ci sono due fatture emesse da una società di Shanghai, la Verna International Certification alla britannica Simple Consulting, la società aperta da Secchi a Londra. Verna International sembra una società fantasma. Tuttavia nell’intestazione della fattura compaiono come casella email e sede legale dell’azienda gli stessi indirizzi della sede cinese di Ecm.

Quindi una società cinese legata a Ecm ha fatturato a un’azienda di Secchi: a quale scopo? Secondo Luca Bedonni, Ecm non ha mai avuto filiali in Cina. Il diretto interessato, Andrea Secchi, contattato per mail, non ha risposto.

La versione originale del grafico di cui sopra che riprende i legami di Andrea Secchi con società registrate all’estero aveva, causa refuso, erroneamente riportato una delle società registrate alle Seychelles con il nome di Verma International Consulting, invece della versione corretta Verna International Consulting.

La replica di Andrea Secchi e la risposta di IrpiMedia

Simple Consulting Ltd. è stata chiusa nel 2016 in quanto non ha riscosso successo di mercato. L’oggetto era la vendita di servizi tecnici.

Le società Verma International ed ECO Information erano, a suo tempo, due clienti di Simple Consulting Ltd. e non hanno fatto fatture a Simple Consulting Ltd.

Queste due società NON sono a noi collegate, non sono di nostra proprietà diretta od indiretta, non sono di giurisdizione delle Seychelles e, a quanto mi risulta appartengono, a persone fisiche cinesi e sono od erano regolarmente registrate in Cina come si può riscontrare dalle Business Licenses emesse dal governo cinese. Quindi quanto riportato nel Flowchart è completamente errato e riporta un’informazione non corretta.

Più precisamente la Verma International ha come nome “Shanghai Oujie Testing Technology Co., Ltd” ubicata all’indirizzo Room 910, no. 2 building, Xinzhuyuan Mansion no. 539, East Xingjian Road – Shanghai ed oggi  all’indirizzo 1601-1602, No. 76, Jiuxin Road, Jiuting Town, Songjiang District, Shanghai.

Shanghai Oujie, a nostra insaputa e senza nessuna autorizzazione, ha realizzato il sito web http://ecmchina.cn.trustexporter.com/ ed il sito www.ecmchina.com. Come ci siamo accorti di questo abuso, il nostro legale in Shanghai, ha immediatamente notificato il fatto alla Società Oujie ed al Shanghai Supervision Market Bureau.

La società ECO Information era, all’epoca, ubicata all’indirizzo Unit C,12 F, World Plaza, No 855 Pudong South Road, Pudong New Zone, Shanghai. I rapporti con questa società sono terminati nei primi mesi del 2014 in quanto i proprietari di ECO Information, nel 2014, hanno acquistato l’Organismo Italiano di Certificazione 0865 ISET.

Ho ricevuto la Sua mail solamente ieri, 18/05/2020, rispondo oggi 19/05/2020 in quanto ieri ero fuori ufficio, sono rientrato oggi a fine mattinata. Sarei stato disponibile a chiarire questi aspetti prima della pubblicazione dell’articolo, ma non ho avuto il tempo materiale.

Gent. le dott. Secchi

Prendiamo atto di quanto da Lei esposto in merito alla vicenda della creazione del sito web. In seconda battuta teniamo a precisare che quanto esposto da noi all’interno dell’articolo è basato sul possesso di materiale documentale acquisito nel corso del lavoro giornalistico. In merito alle società citate nel flow-chart precisiamo inoltre che le società Verna International Consulting ed Eco Information and Consulting a quanto ci risulta (sempre da materiale documentale) avevano sede alle Seychelles e l’amministratore e principale azionista risulta il dott. Andrea Secchi.

Lorenzo Bodrero e Matteo Civillini

CREDITI

Autori

Matteo Civillini
Lorenzo Bodrero

In partnership con

Editing

Lorenzo Bagnoli

Illustrazioni

Lorenzo Bodrero

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