Ascesa e rovina del principe dell’hashish a Milano

Ascesa e rovina del principe dell’hashish a Milano

Luca Rinaldi

Non solo una pensione, ma un capitale in grado di «sistemare sette generazioni». Il traffico di hashish ha fruttato a Massimiliano Cauchi, nato a Scicli quarantasette anni fa, ma stabile da tempo a Milano, un patrimonio enorme: 17 milioni di euro, in contanti. Una cifra del genere, accumulata negli ultimi dieci anni di carriera criminale, ha fatto discutere e fantasticare nell’ambiente dei narcotrafficanti milanesi. Tanto che qualcuno, alla fine, ha fatto una soffiata alla polizia. Così si è interrotto il principato di Francesco Cauchi, l’ultimo – in ordine cronologico – “signore” della droga di Milano. In città non esiste – né mai è esistito – un unico re. Ci sono invece tanti principi, ognuno con con la propria piazza. Perché nella capitale economica del Paese, anche nel mondo criminale al di sopra di tutti c’è il mercato.

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17 milioni di euro dentro un muro

Quando gli uomini della polizia di Stato lo scorso primo giugno eseguono un mandato di perquisizione e sequestro spiccato dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano a carico di Massimiliano Cauchi e dei suoi genitori sanno di andare a colpo sicuro: soldi e droga sono dietro l’angolo. Quello che non sospettano è di trovarsi di fronte al più grande sequestro di denaro contante mai avvenuto in Italia. Alle nove del mattino si presentano a casa della madre di Massimiliano Cauchi, dove l’uomo si trova agli arresti domiciliari per una condanna precedente a 16 anni, sempre per reati collegati al traffico di hashish rimediata dopo un’operazione della Dda di Bologna.Tutto ciò che trovano sono 750 euro in contanti e niente di più.

È invece nell’abitazione del padre, Giuseppe, che li attende una scoperta clamorosa. Nel corso delle indagini sul narcotrafficante gli investigatori dell’antidroga avevano raccolto le confidenze di un ex socio di Cauchi che aveva iniziato a collaborare con la giustizia. Quest’ultimo racconta agli inquirenti di un patrimonio nascosto dietro a una parete, senza però fornire ulteriori elementi sulla posizione. Di questi soldi i poliziotti hanno sentito parlare anche durante le intercettazioni la compagna dello stesso Cauchi, il quale starebbe anche pensando di investirli in una propria attività economica nel campo della ristorazione, di acquisire immobili e di portarli in Spagna attraverso un non meglio identificato «intermediario cinese». Il tutto una volta scontata la pena.

Si parla genericamente di «milioni di euro», ma non ci sono altri dettagli. Quando gli uomini della polizia di Stato entrano in casa del padre del narcotrafficante al 33 di via Casoretto a Milano, si accorgono che dietro a un armadio mancavano, rispetto ai dati catastali in loro possesso 40 centimetri di muro. Poche martellate fanno crollare la parete dietro cui si celano 28 scatoloni colmi di banconote da 50, 100, 200 e 500 euro. Nel primo scatolone gli inquirenti contano 550 mila euro, il resto lo ha contato la Banca d’Italia per un totale di circa 17 milioni di euro.

Dal Marocco a Milano, dieci anni di narcotraffico

Attivo a Milano dal 1993, Cauchi ha accumulato il suo patrimonio grazie allo smercio di hashish sulla città di Milano. È però negli ultimi dodici anni che l’uomo ha costruito una rete consolidata di contatti e di modalità di importazione e pagamento tale da consentirgli di accumulare quei 17 milioni di euro.

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Negli anni, secondo le indagini, l’uomo avrebbe gestito e importato dalle montagne del Marocco circa 3 mila chili di hashish all’anno. Per gli inquirenti quella di Cauchi è senza ombra di dubbio «la principale “piazza” di Milano in tale settore criminoso». Il sistema, ricostruito dagli inquirenti anche grazie alla collaborazione con la giustizia di uno dei soci in affari dello stesso Cauchi, si è ripetuto di anno in anno almeno a far data dal 2007: una o due volte l’anno Cauchi mandava in Marocco due uomini di fiducia con una somma di denaro contante di circa 2,4 milioni di euro, utile per l’acquisto di circa tre tonnellate di hashish. Quest’ultima arrivava dalla valle del Ketama, da Tetouan, a circa un’ora e mezza di auto da Tangeri. I due uomini di Cauchi sovrintendevano tutte le fasi di scelta e confezionamento, fino alla preparazione del carico.
Marocco, snodo centrale per l’approvvigionamento
Le organizzazioni marocchine dedite al traffico di hashish si stanno ritagliando negli ultimi anni quote di mercato sempre più importanti. Non a caso l’ultimo rapporto della Direzione centrale dei servizi antidroga (Dcsa) rileva come verso il mercato europeo si continui a utilizzare rotte tipiche e consolidate da tempo. Il passaggio – si legge nel rapporto – «avviene attraverso il collegamento fra le coste africane e quelle spagnole, principalmente percorsa da mezzi navali veloci, ma anche da piccoli vettori aerei che, dal Marocco, attraversando lo spazio aereo algerino, raggiungono la Penisola Iberica». Via terra, invece, ci si sposta «dall’Africa Nord Occidentale verso la Libia, dove approfittando della situazione di grave instabilità politico-militare, le organizzazioni marocchine trasferiscono i carichi verso la costa, per imbarcarci in porti egiziani o libici, con destinazione finale il continente europeo». Il Marocco rappresenta una delle maggiori aree e di produzione mondiale dei derivati della cannabis, in particolare dell’hashish destinato ad altri mercati del Nord Africa (indicato come paese di origine nell’83% delle segnalazioni di sequestro dei Paesi dell’area) e dell’Europa Occidentale e Centrale (nel 43% delle segnalazioni dei Paesi dell’area). Una parte dell’hashish di origine del Marocco è inoltrata anche nei Paesi dell’Europa Orientale e Sudorientale. Negli ultimi sedici anni la superficie destinata alla coltivazione si è ridotta da 134 mila ettari a 75 mila, tuttavia tale calo, riporta la Dcsa «non ha però determinato un decremento della produzione direttamente proporzionale, probabilmente a causa di tecniche produttive in grado di ottimizzare la resa delle colture». Le rotte che dal Marocco interessano l’Europa, conclude la Dcsa, sfruttano itinerari marittimi e terrestri consolidati. Nel transito dell’hashish, la Spagna riveste un ruolo primario in virtù della vicinanza geografica con l’area in cui l’hashish viene prodotto e della presenza nel territorio di appartenenti a consorterie criminali di consolidato spessore. In particolare nella penisola iberica avviene il trasferimento, lo stoccaggio e la successiva distribuzione nei mercati di consumo fra cui quelli italiani. L’Italia, come dimostra il caso di Cauchi, è in grado di approvvigionarsi direttamente anche dalla stessa area di produzione, con carichi che giungono nei porti della fascia costiera occidentale, tramite organizzazioni criminali di matrice magrebina o nazionale. Sono molteplici le rotte attraverso cui l’hashish marocchino viene esportato verso il mercato europeo. Tra le direttrici marittime, riporta la Dcsa, «oltre alla tradizionale rotta che raggiunge la Penisola Iberica attraverso lo Stretto di Gibilterra, ne vengono segnalate altre verso l’Italia, la Libia, l’Egitto e la Turchia». Vengono altresì evidenziati traffici marittimi originati nei porti di Casablanca in direzione di Paesi quali Francia, Italia, Belgio e Paesi Bassi, ove i carichi vengono occultati su veicoli, persone, rimorchi e container. Floride anche le rotte aeree dove «viene segnalato l’utilizzo di velivoli leggeri verso la Spagna e voli di linea in partenza dagli aeroporti marocchini diretti agli scali europei». Via terra invece il transito avviene dalle enclave spagnole di Ceuta e Melilla (con successive spedizioni marittime verso la Penisola Iberica) oppure sfruttando la frontiera con l’Algeria e la Mauritania (per il mercato interno algerino o in transito per la Tunisia, il Mali, la Libia e l’Egitto). «Una tendenza emergente – conclude la Dcsa – si riferisce alla possibile espansione delle rotte di traffico verso nuovi mercati; spedizioni di hashish verrebbero, infatti, inoltrate a destinazione del Sud America e dei Caraibi, per essere scambiate con partite di cocaina da inviare in Europa».

Per il trasporto in Italia erano pronte alcune imbarcazioni di alto bordo preparate in un rimessaggio di Varazze, in Liguria, che avrebbero poi attraccato definitivamente a La Spezia. Una volta a terra i carichi venivano caricati a bordo di autovetture poi trasportate su carri attrezzi. Un modus operandi in grado di evitare i controlli su strada delle forze dell’ordine. Una volta a Milano, lo stupefacente veniva separato in due luoghi di stoccaggio diversi, solitamente box affittati ad hoc, dove veniva realizzata una finta parete di cartongesso per occultarlo. Stessa tecnica poi utilizzata per nascondere il denaro. L’hashish veniva poi immesso su piazza tramite una rete circoscritta di alcuni grossi acquirenti che già possedevano canali di smercio autonomi. Il costo della vendita a Milano della sostanza, hanno rilevato gli uomini dell’antidroga, era di 2 mila euro al chilo, con un incasso lordo di circa sei milioni per le tre tonnellate trafficate a ogni trasporto. Gli uomini che si recavano in Marocco venivano poi ricompensati con circa 60 mila euro in stupefacente a viaggio, sufficiente per convincere uno di questi a fare anche affari in proprio.

Un giro proseguito fino al 23 settembre dello scorso anno quando la procura di Milano ha fatto arrestare Cauchi e i suoi sodali dopo che le indagini dei carabinieri di Savona e della squadra mobile di Bologna avevano tracciato i movimenti dell’imbarcazione Elizabeth G. A bordo dello yacht aveva infatti viaggiato uno dei carichi trattati dal gruppo: in acque internazionali a sud di Almerimar, in Spagna, l’Elizabeth G è stato caricato nella notte del 29 agosto con un trasbordo da altra imbarcazione. Da lì aveva poi raggiunto sei giorni dopo le coste italiane tra Liguria e Toscana, dove lo stupefacente è stato trasportato in uno dei box a Milano.

La legge del mercato: nessun re, molti principi

Può stupire che uno come Massimiliano Cauchi possa aver accumulato una tale liquidità pur non essendo di fatto affiliato alla criminalità organizzata. Ma i trafficanti a Milano, da una vita, hanno un grado di autonomia che si spiega con le regole del libero mercato: l’offerta è molta e molto varia, la qualità oscilla a seconda delle tasche. E questo è ancora più vero per quanto riguarda lo smercio di hashish. In ogni caso lo stesso Cauchi, come ha sottolineato subito dopo il sequestro dei milioni la dirigente della divisione Anticrimine della questura di Milano Alessandra Simone, «è un narcotrafficante attivo a Milano con legami con le consorterie criminali calabresi e con il mondo della tifoseria organizzata degli ultras del Milan».

Due mondi che gioco forza incrociano il mercato della droga, in particolare della cocaina. La ‘ndrangheta si è posizionata come principale importatore nell’area metropolitana di Milano: i trafficanti legati alla criminalità organizzata calabrese oggi acquistano e rivendono per conto di più cosche, che in nome degli affari sono pronte a seppellire rivalità ancora accese nei territori d’origine. È nel momento in cui occorre raggiungere i quartieri della città che si fanno strada figure più “ibride”, come lo è quella di Cauchi, in grado di coordinare i propri “cavallini”, ovvero coloro che materialmente consegnano la sostanza all’acquirente.

I trafficanti legati alla ‘ndrangheta oggi acquistano e rivendono per conto di più cosche, che in nome degli affari sono pronte a seppellire rivalità ancora accese nei territori d’origine

Si era fatto strada così anche Laurence Rossi, classe ‘77, che si autodefiniva «il re della Comasina». Ma re fino in fondo Rossi non lo è mai stato. Oggi collaboratore di giustizia, l’uomo davanti ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia aveva sintetizzato in poche parole la metamorfosi cittadina del mercato della cocaina: «Non era più ai tempi come quando c’erano i Flachi – mette a verbale – che c’erano solo loro. Come Comasina comandavano i Flachi – dice riferendosi allo storico clan calabrese che ha messo radici a Milano fin dagli anni ‘70 – Quarto Oggiaro comandavano i Crisafulli, Bruzzano comandavano loro. Non è più così, concludeva. Quello era ‘94, ‘93, anni Novanta. Poi già dopo ognuno faceva più o meno quello che voleva». Rossi è fonte attendibile perché in passato è stato “partner” di affari con i fedelissimi degli stessi Crisafulli e ha trafficato con la seconda generazione della famiglia siciliana, facendo funzionare a meraviglia quello che in città è stato definito come “coca-delivery”. La batteria che ha in mano il controllo dello spaccio in un determinato quartiere si rifornisce dai trafficanti calabresi legati alla ’ndrangheta. Il capo di tale batteria, ben conosciuto dai clan ma non necessariamente affiliato, gestisce un telefono-centralino, ribattezzato “nokietto”, dal nome del telefono utilizzato dal centralinista, e può contare su cavallini per le consegne della sostanza 24 ore su 24. Un metodo utilizzato anche dallo stesso Cauchi per la consegna dell’hashish ai suoi clienti. I cavallini, spesso incensurati, descritti dai clienti interrogati nel corso di alcune operazioni antidroga come spesso ben vestiti e dai modi garbati, si muovono in motorino oppure in auto, a volte con la fidanzata al seguito. Una situazione che riporta alla mente la vicenda dell’omicidio di Luca Sacchi, il 24enne ucciso a Roma nella notte tra il 23 e il 24 ottobre del 2019 a Roma, dopo l’incontro con la fidanzata Anastasiya Kylemnyk e i grossisti della droga.
L’omicidio di Luca Sacchi a Roma

Alle 22.20 del 23 ottobre 2019 il ventiquattrenne Luca Sacchi viene colpito da un colpo di pistola alla nuca in via Bartolonia all’Appio Latino a Roma. Inizialmente si pensa a un tentativo di rapina ai danni della fidanzata Anastasiya Kylemnyk finito male. Nei giorni e nelle settimane successive invece la scoperta degli inquirenti: nello zaino della donna c’erano 70 mila euro in contanti e la coppia conosceva i “rapinatori” provenienti dal mondo dello spaccio romano. L’incontro non era casuale e i 70 mila sarebbero serviti per l’acquisto di un quantitativo di marijuana da rivendere sul mercato romano. Dai tabulati acquisiti dagli inquirenti risultavano infatti i contatti tra i due spacciatori presenti al momento dello sparo e personaggi legati alla criminalità organizzata, oltre agli incontri con i due ragazzi.

Di chiaro al momento c’è solamente la dinamica dell’omicidio, mentre sull’origine dei 70mila euro usati per l’acquisto della marijuana non sono emersi dettagli definitivi. La dinamica dei rapporti tra la coppia e gli spacciatori replica in parte il rapporto tra narcotrafficanti e i cosiddetti “cavallini”.

Nel tempo gli investigatori hanno ricostruito l’esistenza di almeno una decina di gruppi così strutturati che servono tra l’altro anche una clientela dalle buone possibilità economiche, tanto che la rubrica di un “nokietto” arriva ad acquisire essa stessa un valore, che gli stessi trafficanti hanno fissato sui 200 mila euro. È evidente che in una città come Milano le sole regole del “libero mercato” non siano in grado di evitare conflitti nel mondo degli stupefacenti. Si pensi all’agguato a Enzo Anghinelli nell’aprile dello scorso anno, raggiunto in auto da due uomini a bordo di uno scooter che gli hanno sparato ferendolo in modo grave in via Cadore, a 5 minuti dal palazzo di Giustizia. L’uomo, conosciuto nell’ambiente era stato in carcere perché tra i fornitori di droga delle discoteche della città. Una volta fuori e riallacciati i contatti con quel mondo in cui è facilissimo accumulare ricchezze, ma anche affondare nei debiti, è arrivata una resa dei conti.

Questioni di soldi da lavare col sangue, ma quando gli affari filano nella capitale economica d’Italia le pistole, seppur mostrate, restano in tasca. Per il bene degli affari.

CREDITI

Autori

Luca Rinaldi

Editing

Lorenzo Bagnoli

Infografiche

Lorenzo Bodrero