Messina Denaro, il “capo” che capo non è
27 Gennaio 2023 | di Lorenzo Bodrero, Simone Olivelli
L’arresto di Matteo Messina Denaro avvenuto il 16 gennaio 2023, dopo trent’anni di latitanza, ha generato più interrogativi che risposte. Queste ultime si spera arriveranno con il prosieguo delle indagini che si concentrano ora sui luoghi in cui l’ex primula rossa si nascondeva e sulle persone che per tre decenni gli hanno consentito di trasformarsi in un fantasma. Ma le domande abbondano, incentrate sia sui segreti di un passato che solo lui e pochissimi altri detengono sia sul futuro di Cosa nostra. La prima da porsi, non in ordine di importanza ma piuttosto in risposta all’esibizione di emotività che ha attraversato tutti i media all’indomani del suo arresto, è quanto Messina Denaro contasse davvero all’interno del sistema mafioso siciliano fino al giorno prima della cattura.
Il quesito è d’obbligo dal momento che sui principali giornali italiani a fianco del nome dell’ormai ex superlatitante sono comparse definizioni quali «capo di Cosa nostra», «l’ultimo padrino», «capo dei capi». Etichette che strizzano l’occhio alla narrazione da fiction ma che rischiano di falsare sia l’analisi di ciò che ha rappresentato negli anni il boss sia lo stato di salute dell’odierna mafia siciliana.
Un capo che capo non è?
«Messina Denaro non è stato super capo di niente». Le parole sono di Salvatore Lupo, studioso di mafia di lunga data e professore di Storia contemporanea all’Università di Palermo. «La definizione può anche essere stata usata dagli inquirenti qualche volta – aggiunge – ma loro stessi sanno che Cosa nostra ha sempre avuto il suo epicentro nel Palermitano e ciò esclude che un boss trapanese possa ricoprire questo ruolo». Essere stato delfino prima e successore poi di Totò Riina non hanno significato per Messina Denaro ereditarne automaticamente il ruolo. E ciò non perché il boss di Castelvetrano non abbia dato prova di carisma e intelligenza criminale, anzi, ma perché, dopo le stragi dei primi anni Novanta e la successiva repressione delle forze dell’ordine, la struttura verticistica di Cosa nostra, che aveva nella commissione interprovinciale il proprio apice, ha subito un pesante colpo. Tra arresti e necessità per l’associazione di inabissarsi, non c’era più alcun trono su cui sedere.
Nonostante ciò, sarebbe altrettanto errato non riconoscere il peso avuto da Messina Denaro all’interno di Cosa nostra. Infatti, se per un trapanese, secondo le regole e le tradizioni mafiose, sarebbe stato difficile riuscire a presiedere la Cupola, resta indubbio che lui – figlio di un boss e cresciuto alla “scuola” di Riina – abbia rappresentato l’elite mafiosa.
«Messina Denaro incarna la figura del mafioso corleonese ma al contempo è stato anche in grado di trasformare quell’ortodossia portandola verso nuove prospettive», commenta a IrpiMedia Nino Di Matteo, già magistrato a Palermo e prossimo al rientro nella Direzione nazionale antimafia, dopo l’esperienza al Consiglio superiore della magistratura. Tra gli elementi che dimostrano come Messina Denaro sia stato capace di ammodernare Cosa nostra, per Di Matteo sono da segnalare «la scelta di differenziare gli investimenti anche al di fuori della Sicilia, per riciclare il denaro, e l’utilizzo di strumenti tecnologici nelle comunicazioni». Un modus operandi ben diverso dai boss – Riina su tutti – che ha accompagnato la crescita di Messina Denaro all’interno di Cosa nostra.
Ricostruire la biografia di Messina Denaro, risalire all’origine della sua latitanza, significa immergersi nell’Italia delle bombe. Quelle del ‘92, che uccisero in Sicilia i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e quelle dell’estate ‘93 nel Centro e Nord Italia, quando Messina Denaro e i fratelli Graviano, con Riina da qualche mese in carcere, decisero – insieme probabilmente a soggetti esterni a Cosa nostra – di esportare la violenza al di là dello Stretto. È in quelle settimane che Messina Denaro, letteralmente, sparisce. Gli ultimi 30 anni, una latitanza lunga e trascorsa con la consapevolezza di essere già stato condannato all’ergastolo, non hanno fatto altro che mitizzare quel personaggio che con grande abilità lui stesso ha plasmato.
«L’arresto di Messina Denaro non rappresenta di certo la decapitazione di una cupola ma implica indubbiamente una modifica degli assetti di Cosa nostra», spiega a IrpiMedia Sebastiano Ardita, anche lui membro uscente del Consiglio superiore della magistratura e prossimo al ritorno alla Direzione distrettuale antimafia di Catania. Le cronache dell’arresto e la scoperta delle complicate condizioni di salute di Messina Denaro hanno fatto pensare a una possibile volontà dello stesso boss di mettere fine alla propria latitanza. «Così fosse significherebbe che lo stesso Messina Denaro potrebbe avere già previsto la necessità di un riassestamento dell’organizzazione, che adesso sarà chiamata a gestire ciò che lui gestiva dall’esterno (in quanto latitante, nda)». Insomma, una certa riorganizzazione delle gerarchie dovrà per forza avvenire.
Le incognite sulla collaborazione di Matteo Messina Denaro
Ma al di là del suo effettivo status dentro Cosa Nostra, la domanda che più preme dopo l’arresto di Messina Denaro è una: parlerà? Il boss, che ha sfidato lo Stato dimostrando però anche di saperci trattare, è custode di una memoria criminale che, per molti, potrebbe intrecciarsi con importanti passaggi della recente storia d’Italia. Pensare a una possibile collaborazione con la giustizia di Messina Denaro significa valutare di poter fare luce sull’esistenza di mandanti esterni alla mafia delle stragi del 1992 e 1993, ma anche su chi abbia reso possibile i suoi 30 anni di latitanza, e magari anche arrivare all’archivio di Totò Riina.
È ancora presto per dire se Messina Denaro deciderà di compiere questo passo. Farlo potrebbe consentirgli di evitare i rigori del carcere duro ma sono tanti anche i motivi che portano a pensare che il boss possa scegliere di trincerarsi dietro un rigoroso silenzio.
«Guardando al passato sappiamo che gli uomini appartenenti alla stirpe di sangue di Cosa nostra normalmente non si sono mai pentiti», spiega il pm Ardita. «Pensiamo a Totò Riina, Leoluca Bagarella, Nitto Santapaola, o Giuseppe Madonia… sono figure – continua il magistrato – che hanno mantenuto nella condizione di detenuti di lungo corso la stessa linea, addirittura fino alla morte per alcuni di essi».
Di previsioni non ne fa neanche Di Matteo. Il magistrato palermitano aggiunge che la decisione è «sempre connessa a scelte di carattere personale, oserei dire intime», delle quali al momento non possiamo avere contezza. Messina Denaro ha pur sempre una reputazione da mafioso doc da difendere. E quindi «chissà se il boss non smentisca se stesso rinnegando tutta la sua esistenza e vuotando il sacco», ha auspicato il giornalista Attilio Bolzoni su Domani. Esistono infatti esempi di segno opposto: Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi e, più recentemente, Nino Giuffré e altri hanno saltato il fosso pur avendo ricoperto ruoli apicali in Cosa nostra.
Ma supponiamo per un attimo che l’ex primula rossa collabori. Se già questa è un’ipotesi tutt’altro che scontata, altrettanto incerta è la totale disponibilità delle istituzioni a perseguire, fino in fondo, eventuali piste offerte da Messina Denaro.
«Mi auguro che lo Stato in tutte le sue articolazioni – è l’auspicio del magistrato Nino Di Matteo – dimostri di volere la collaborazione ed eventualmente di saperla gestire con professionalità e coraggio, senza alcun timore di affrontare argomenti che potrebbero essere particolarmente delicati».
Il riferimento non è solo alla trattativa che Cosa nostra – di cui Messina Denaro era già un solido rappresentante mentre lo scettro era in mano a Riina – intavolò con taluni rappresentanti delle istituzioni (pur non costituendo reato, secondo la Corte di assise d’appello di Palermo) ma anche alla prolungata latitanza di u siccu, irrealizzabile senza l’ausilio di personaggi che vanno oltre la cerchia di fiancheggiatori dell’ex boss.
Ancora Di Matteo: «È chiaro dalle cronache di questi giorni che l’interessato è stato certamente protetto ad alto livello nella sua latitanza». E dunque chi dovrebbe temere la sua collaborazione? «Coloro che hanno interesse ad archiviare definitivamente la stagione stragista e a collegare quel periodo esclusivamente alle responsabilità dei mafiosi», aggiunge il magistrato. «Potrebbero essere in tanti – conclude Di Matteo – a temere una piena e completa collaborazione di Messina Denaro». Per ottenere la quale qualcuno sospetta ci sia in ballo un accordo con le istituzioni.
Il prezzo della collaborazione: fantasia o realtà?
In un’intervista rilasciata a Massimo Giletti nel novembre 2022, Salvatore Baiardo, l’uomo che agevolò la latitanza dei fratelli Graviano e che per questo è stato condannato per favoreggiamento, preannunciava la cattura di Messina Denaro. Baiardo, in quell’occasione, accennava alle gravi condizioni di salute del boss, ipotizzando che una possibile cattura sarebbe stata il frutto di un accordo con le istituzioni per l’abrogazione dell’ergastolo ostativo. Quelle dichiarazioni tornano prepotentemente attuali alla luce dell’arresto dell’ex boss.
Ergastolo ostativo e 41-bis: le differenze
Sono due espressioni divenute centrali nel dibattito sulla giustizia in Italia e che spesso vengono confuse l’una con l’altra. Entrambe fanno riferimento a due distinti articoli dell’Ordinamento penitenziario.
L’ergastolo ostativo è regolamentato all’articolo 4-bis dell’Ordinamento. Consiste in un regime che esclude l’applicabilità di alcuni benefici (lavoro all’esterno, permessi premio, misure alternative alla detenzione) ai condannati per reati particolarmente gravi, quali terrorismo, eversione, mafia. Reati che “ostano” all’accesso dei benefici. Questi sono applicabili solo a patto che il detenuto collabori con la giustizia. Le critiche a questo regime ruotano intorno al fatto che rimuove per il detenuto la funzione “rieducativa” e il “reinserimento”, creando una discriminazione tra chi vi è sottoposto e il resto dei detenuti. Nel 2021 la Corte costituzionale ha giudicato l’ergastolo ostativo contrario ai principi costituzionali, secondo i quali le pene «devono tendere alla rieducazione del condannato». La riforma è arrivata a fine 2022 e prevede la possibilità di accesso ai benefici, a patto che vengano rispettati alcuni requisiti, tra cui l’ottenimento del parere favorevole da parte del pubblico ministero.
Con 41-bis si fa invece riferimento all’articolo dell’Ordinamento penitenziario che tratta il carcere duro. Introdotto dopo la strage di Capaci, prevede forti restrizioni per il detenuto, con l’obiettivo di impedire che mantenga i contatti con l’associazione criminale di cui ricopre un ruolo di vertice. Viene applicato ai condannati per gli stessi reati del 4-bis anche se i dati dicono che al carcere duro sono sottoposti prevalentemente detenuti condannati per mafia, a prescindere dalla durata della pena comminata. Prevede lo sconto della pena presso istituti appositi oppure in sezioni separate all’interno di un carcere.
«Le informazioni date da Baiardo si sono rivelate precise e puntualmente si verificano», riflette Sebastiano Ardita. «Significa che la persona (Baiardo, ndr) che le ha riferite era informata in modo diretto, oppure da qualcuno che sapeva ciò che sarebbe successo». La domanda da porsi è perché Baiardo abbia rilasciato queste dichiarazioni. Ardita si sofferma sul fatto che in genere «si è portati a credere a coloro che riferiscono un fatto che poi si realizza, anche quando riferiscono qualcosa che deve ancora accadere». Elementi, dunque, che possono portare ad accreditare un soggetto di affidabilità ad ampio raggio. Con i rischi che ne possono conseguire: non è infatti detto che l’anticipazione dell’arresto fatta da Baiardo significhi che tutto ciò che dica quest’ultimo sul tema sia fondato.
È la stessa cautela utilizzata dagli inquirenti per valutare l’attendibilità dei collaboratori di giustizia, uno dei pilastri nel contrasto alle organizzazioni mafiose: ogni dichiarazione va verificata.
Oltre alla capacità predittiva, ciò che ha colpito di più nelle parole di Baiardo è stato il riferimento a una possibile contropartita nella presunta resa di Messina Denaro. Cosi fosse significherebbe che anche in questi mesi esiste una trattativa tra Cosa nostra e pezzi dello Stato. Secondo Baiardo la moneta di scambio starebbe nell’abrogazione dell’ergastolo ostativo. L’ipotesi, però, non convince il magistrato Ardita.
«Dire pubblicamente e far sapere che da una certa azione – cioè la consegna o la cattura di un latitante – possa derivare una scelta politica di attenuazione del 41-bis o dell’ergastolo ostativo significa mettere in allarme il quadro istituzionale e politico e di fatto impedire che questo avvenga». Stando così le cose è difficile dire perché e per conto di chi Baiardo abbia parlato. «Ci deve essere dunque una ragione che sfugge, un pezzo del ragionamento che riguarda fatti o circostanze che, al momento, non possiamo comprendere».
Dubbi che forse solo l’ex boss può fugare, l’uomo che ha sventrato autostrade e ucciso bambini e che in uno dei suoi covi teneva il poster di Marlon Brando nei panni di Vito Corleone, lui sì «capo dei capi» di un mondo immaginario.
Foto di copertina: Giornali in edicola all’indomani dell’arresto di Matteo Messina Denaro – Donato Fasano/Getty
Editing: Giulio Rubino