Il limbo degli “El Hiblu 3”, tre vite in attesa di giudizio

11 Aprile 2023 | di Rita Martone

Il 25 marzo 2023 si sono svolte a Malta le manifestazioni in favore di Amara Kromah, Abdul Kader e Abdalla Bari, tre migranti africani intrappolati in un limbo giudiziario dal loro sbarco sull’isola, il 28 marzo 2019. All’epoca avevano rispettivamente 15, 16 e 19 anni. Kromah è diventato maggiorenne la vigilia di Natale 2021, ma dice che i suoi piani e sogni per la vita sono costantemente offuscati dal futuro incerto. Bari è diventato padre per la seconda volta; il suo primo figlio non è con lui ma è rimasto in Guinea, accudito dalla nonna. Kader, invece, studia inglese. I tre non sono costretti in un carcere, ma non sono nemmeno liberi; sono bloccati sull’isola in attesa di giudizio, con una condanna fino all’ergastolo che pende sulle loro teste per i nove crimini di cui sono accusati, tra cui spiccano atti di terrorismo, dirottamento e sequestro di persona con lo scopo di ricattare lo Stato. Secondo la loro tesi, invece, avrebbero impedito alla nave che li ha soccorso di riportarli in Libia.

Il giorno della manifestazione, diverse organizzazioni maltesi, laiche e religiose, che si occupano di diritti, migranti e corruzione si sono date appuntamento di fronte al tribunale di La Valletta per tornare a puntare i fari sulla vicenda. Si sono rivolti al procuratore generale per chiedere che vengano ritirate le accuse contro i tre della El Hiblu 1, gli “El Hiblu 3”. Da quando sono finiti sotto indagine è stato creato un coordinamento per chiederne la liberazione che ha anche realizzato un libro, Free the El Hiblu 3, in cui raccontano la loro versione dei fatti.

Le anomalie del viaggio della El Hiblu 1

È il 26 marzo del 2019 quando gli adolescenti Amara Kromah, Abdul Kader e Abdalla Bari, provenienti dalla Costa d’Avorio e dalla Guinea, salgono su un gommone insieme a circa 110 persone, tra cui 15 bambini. Sono in partenza da Gasr Garabulli, la città libica fondata dagli italiani nel 1938, una sessantina di chilometri a est di Tripoli. I campi di detenzione e i gruppi di trafficanti di uomini della città sono noti almeno dal 2016, quando Garabulli è stata la linea del fronte della guerra civile. Nei primi mesi del 2019 è da lì che partono i migranti diretti in Europa: i controlli alle frontiere si sono allentati con la crisi politica che vive l’allora Governo di accordo nazionale di Tripoli, oggi Governo di unità nazionale.

Il gommone sul quale sono a bordo Amara Kromah, Abdul Kader e Abdalla Bari dà immediatamente segni di cedimento, imbarca acqua dai lati e il motore spinge a fatica. Gli oltre 110 migranti a bordo devono essere recuperati, se non vogliono annegare.

Grazie al lavoro d’inchiesta della campagna Free El Hiblu Three e di diversi colleghi, si conoscono molti aspetti dell’operazione con la quale sono stati tratti in salvo alcuni naufraghi. Zach Campbell già nel settembre 2019 ha raccontato l’accaduto su The Atavist; l’anno seguente, insieme a Daniel Howden e Apostolis Fotidias, ha pubblicato sul Guardian le comunicazioni che proprio quel 26 marzo sono intercorse via radio tra i guardacoste libici e i militari dell’allora missione Sophia della Marina europea, impegnata nel coordinamento del recupero dei migranti che si trovavano a bordo di due gommoni. È infatti uno degli aerei della missione Sophia, identificato dal codice di chiamata Seagull 75, a segnalare ai libici i due natanti in difficoltà.

La comunicazione intercorsa tra l’aeromobile Seagull 75 in capo all’Operazione Sophia dell’Unione europea e la Guardia costiera libica il 26 marzo 2019 durante un soccorso prestato a due gommoni carichi di migranti nel Mediterraneo centrale. L’intervento dell’aereo è decisivo per permettere ai guardacoste libici di individuare le imbarcazioni in difficoltà. In uno dei due natanti c’erano a bordi i migranti salvati dalla El Hiblu. (Per approfondire il ruolo delle missioni europee nel Mediterraneo centrale, leggi Da Operazione Sophia a Irini, anatomia delle missioni navali europee)

Secondo la ricostruzione di Zach Campbell, i libici non riescono a intervenire e Seagull 75 chiede assistenza alla El Hiblu 1, una petroliera di proprietà turca battente bandiera di Palau, salpata da Istanbul e diretta a Tripoli, a bordo della quale il piccolo equipaggio – quattro marinai che vengono definiti «indiani» – risponde a un comandante turco e un primo ufficiale di nazionalità libica.

Meno di un mese prima, segnala l’agenzia di intelligence marittima Windward, El Hiblu 1 ha cambiato bandiera, da quella turca a quella di Palau, e in quel momento è operata da una società con una sola nave. Ha anche passato dodici giorni in un cantiere della parte asiatica del Bosforo «che è stato, in passato, legato a episodi di traffici di alto profilo», scrive Windward. Sono indicatori di rischio, dato che quello di Palau è uno dei “registri di comodo” dove le navi sono sottoposte a pochissimi controlli in termini di rispetto delle convenzioni internazionali. Il sindacato dei marittimi Itf l’ha segnato nel 2023 tra i quattro peggiori al mondo per salari non pagati e abbandoni di equipaggi.

A questo si aggiungono altre anomalie: dal 2017 fino al 22 marzo 2019, la El Hiblu 1 aveva sempre e solo navigato in acque turche e una petroliera piccola come la El Hiblu 1 normalmente non fa tappa nel porto libico di Tripoli. Resta quindi il dubbio del perché la nave si trovasse in quel momento nelle acque internazionali tra Malta e la Libia.

Forze di polizia maltesi a bordo del mercantile El Hiblu il 28 marzo 2019 durante le operazioni di sbarco dei 110 migranti a bordo – Foto: Matthew Mirabelli

«El Hiblu 1, El Hiblu 1, questo è l’aereo di pattugliamento – si legge nella trascrizione della comunicazione via radio tra il velivolo e la petroliera riportata da Zach Campbell -. Ci stiamo coordinando con la Guardia costiera libica. Signore, abbiamo bisogno che salviate quelle persone perché la motovedetta della Guardia costiera libica non funziona».

«Non riportateci in Libia»

L’equipaggio della El Hiblu 1 comunica ai naufraghi di spegnere il motore e di arrampicarsi sulla rete lungo il fianco della nave. Chi prende il mare ormai conosce le fattezze delle navi delle Ong e la El Hiblu 1 è diversa. Qualcuno chiede dove sia diretta la nave e un membro dell’equipaggio, un indiano, dice: «A Tripoli». Tanto basta per convincere sei migranti a rimanere sul gommone che si sta per inabissare. Nessuno sa cosa sia successo loro.

«Poi arrivò il primo ufficiale che disse: “Buone notizie!”. Disse proprio così: “Buone notizie, l’elicottero (aereo militare secondo altre ricostruzioni, ndr) mi ha indicato un punto d’incontro”. Giurò sul Corano che non ci avrebbe mai riportato in Libia. Disse che sarebbero arrivate due navi che ci avrebbero portato in Europa», spiega un testimone intervistato da Amnesty International che ha incontrato i sopravvissuti nei mesi seguenti.

Nader El Hiblu è il primo ufficiale libico della nave, a volte erroneamente identificato come comandante. Nelle testimonianze riportate nel libro per la campagna Free El Hiblu Three, Abdalla Bari spiega che Nader «parlava solo in inglese, ma uno di noi capiva e traduceva per gli altri». Il primo ufficiale è fratello di Salah El Hiblu, l’armatore della nave, il quale, contattato da IrpiMedia via email e Whatsapp, non ha risposto alle richieste di commento. La famiglia El Hiblu lavora in diversi settori tra Libia, Malta e Turchia: dal trasporto marittimo ai servizi di agenzia, fino al trasporto di prodotti petroliferi.

I misteri della Nehir/El Hiblu

Questa è la seconda puntata di una serie in due episodi sulle vicende della Nehir, fino al 2019 chiamata El Hiblu 1. Oggi la nave è sotto sequestro in Spagna, dopo essere stata intercettata con a bordo un carico di droga, come abbiamo raccontato nella puntata precedente.

È passato poco tempo da quando Nader El Hiblu ha giurato sul Corano, quando riceve una seconda chiamata dalla Missione Sophia per soccorrere un’altra imbarcazione in difficoltà. Riporta Zach Campbell: «Non posso procedere perché ho un grosso problema. Lasciatemi… non mi permettono di spostarmi dalla mia posizione, ok? Vogliono andare in Europa, in Spagna o in Italia», dice agli uomini a bordo dell’aeroplano della missione europea.

«Signore – è la risposta -, stiamo collaborando con la guardia costiera libica. Ci hanno detto di dirle che può trasferire queste persone a Tripoli».

«Riporto le persone a Tripoli?», chiede conferma El Hiblu.

«Signore – ribadiscono dall’aeromobile di Sophia -, stiamo coordinando… siamo sotto il coordinamento della Guardia costiera nazionale libica. Non andate a salvare l’altra barca. Potete procedere verso Tripoli».

«Se una nave viene incaricata di sbarcare le persone salvate in Libia si crea un potenziale conflitto tra l’equipaggio e le persone disperate, che potrebbero opporsi al rimpatrio – ha commentato nei giorni successivi all’incidente Guy Platten, il segretario della Camera internazionale dello shipping (Ics), l’organizzazione mondiale che rappresenta l’industria delle spedizione marittima -. Dato il numero di persone salvate in queste operazioni su larga scala, l’equipaggio della nave soccorritrice può facilmente essere sopraffatto perché in inferiorità numerica». «I comandanti delle navi mercantili – ha aggiunto – devono aspettarsi che le autorità di ricerca e soccorso degli Stati costieri provvedano a indicare lo sbarco in un luogo sicuro, sia per le persone soccorse, sia per i marittimi coinvolti nel salvataggio». In altri termini, assegnare Tripoli come porto di sbarco mette in pericolo tutti, anche gli equipaggi delle navi che soccorrono i naufraghi.

Per approfondire

Il mistero della cocaina scomparsa dalla petroliera Nehir

Secondo l’equipaggio, condannato a nove anni di carcere, a bordo c’erano oltre tre tonnellate. Gli inquirenti spagnoli ne hanno trovato la metà. Tutti i misteri della Nehir

Il primo ufficiale Nader El Hiblu descrive agli uomini di Sophia una situazione già molto difficile a bordo e chiede assistenza. Durante la notte, dopo un paio di manovre, la El Hiblu 1 riesce comunque a fare rotta verso la Libia. Sono le prime luci del mattino quando a bordo si inizia a vedere terra. Dopo una prima fase di gioia, scoppia la disperazione: un migrante sul telefono prende il segnale che gli indica una compagnia telefonica libica. Grida: «Libia! Libia!», scatenando la rabbia tra i passeggeri.

Dopo l’inizio delle proteste, l’equipaggio della El Hiblu 1 è asserragliato: «Hanno attaccato la cabina di pilotaggio, picchiando pesantemente sulle porte e sulle finestre e hanno minacciato di distruggere la nave», ricorderà Nader El Hiblu sbarcato a Malta all’Associated Press. Descriverà l’esperienza come «un orrore»: «Non mi importava della nave, ma dell’equipaggio».

Alla fine l’imbarcazione farà rotta verso Malta. Testimonianze raccolte dal Times of Malta però non indicano né l’uso della violenza durante l’operazione di “dirottamento”, né la presenza di armi a bordo. Secondo il giornale, la polizia maltese ha anche ipotizzato la possibilità che fosse aperto un fascicolo per traffico di esseri umani ai danni del comandante, di cui però ad oggi non c’è traccia.

«Ero sconvolto dall’inganno del comandante – testimonia invece Abdalla Bari nel libro del comitato Free The El Hiblu Three -, ma superai la rabbia per unirmi a coloro che cercavano di riportare la calma sulla nave. Quando la situazione si è placata, il comandante (qui forse si riferisce a Nader El Hiblu, ndr) è uscito dalla sua cabina per parlare con la persona che capiva e parlava inglese, mentre noi eravamo davanti alla folla a spiegare e aiutare». Secondo la sua testimonianza, sarebbero poi stati costretti a rimanere nella cabina del comandante come “ostaggi”, fino a quando la nave non è stata approcciata dalla Marina militare maltese.

Le reazioni post sbarco sono state molto dure verso i migranti. Matteo Salvini, che all’epoca dei fatti era ministro dell’Interno, descrisse l’accaduto come «un atto di pirateria» e un portavoce della Marina maltese parlò di una «nave pirata». Al contrario, secondo il diritto internazionale, un’acquisizione ostile di una nave deve avvenire in alto mare e a opera dell’equipaggio di un’imbarcazione diversa perché si qualifichi come atto di pirateria. In questo caso, la nave era stata rilevata nelle acque nazionali libiche (era a sei miglia dalla costa) e da persone sulla stessa nave, sottolinea il blog accademico Völkerrechtsblog, che pubblica dibattiti sul diritto internazionale.

I precedenti del caso El Hiblu 1

E se la El Hiblu avesse avuto fin dall’inizio il compito di riportare in Libia dei migranti recuperati in mare? Negli anni passati, ci sono state diverse navi mercantili coinvolte o nel traffico di esseri umani oppure in operazioni di salvataggio che avrebbero dovuto concludersi con il rimpatrio in Libia. Sono casi che possono offrire qualche chiave interpretativa per rispondere ai dubbi che restano intorno al caso El Hiblu 1, la cui storia è finita in Spagna, semi-affondata insieme a un carico di droga nel 2021.

Il primo caso: la Blue Sky M

31 dicembre 2014: il mercantile Blue Sky M parte dalla Turchia diretto a Rijeka, in Croazia. Quando si trova vicino all’isola greca di Corfù, nello Ionio, alcuni migranti che si trovano a bordo – sono 800 in tutto – chiamano le autorità elleniche per segnalare «uomini armati» a bordo. Il comandante richiamerà poco dopo per bloccare l’intervento e tranquillizzare le autorità greche. Qualche ora dopo, le autorità italiane troveranno la nave di fronte alle coste pugliesi, senza equipaggio e con il pilota automatico impostato per dirigersi verso l’Italia. Windward segnala che alcune delle anomalie della El Hiblu 1 si ripetono nel caso della Blue Sky M, in particolare il cambio di bandiera e la navigazione sempre e solo in Turchia prima dell’ultimo viaggio in Italia. IRPI aveva indagato per Correctiv sulla “flotta fantasma” di grosse navi mercantili impiegate per trasportare migranti verso l’Italia, nei primi mesi del 2015.

Il “dirottamento” della Vos Thalassa

8 luglio 2018: il rimorchiatore di supporto per le piattaforme petrolifere Vos Thalassa interviene a recuperare più di 60 migranti che stavano naufragando a bordo di una piccola imbarcazione di legno. Coordina le operazioni il centro di Roma, che chiede alla nave di andare a Lampedusa. Le autorità della Guardia costiera libica richiamano l’imbarcazione perché vogliono trasbordare i migranti a bordo della loro motovedetta e riportarli in Libia. La Vos Thalassa inverte la rotta, ma i migranti protestano e costringono le autorità italiane a intervenire con un trasbordo sulla nave Diciotti della Guardia costiera, che li riporta in Italia. A dicembre 2021, la Cassazione ha stabilito che l’intervento dei migranti è stato «per legittima difesa», ribaltando le conclusioni della Corte d’Appello di Palermo.

Gli ostaggi della Nivin

7 novembre 2018: una volta salvati dalla nave da carico per veicoli Nivin, impegnata solitamente lungo la rotta tra il porto libico di Al Khoms e Savona, i 79 naufraghi sono stati rassicurati dai soccorritori: li avrebbero portati in Italia. Invece il comandante della Nivin fa improvvisamente rotta verso Misurata, in Libia, come gli era stato ordinato dalla Guardia costiera libica, che aveva preso il coordinamento al posto dell’Italia. Tredici giorni dopo, le autorità libiche fanno irruzione nella nave costringendo i passeggeri a rientrare nei centri di detenzione per migranti irregolari. «Questa situazione è il risultato degli sforzi dell’Italia e dell’Unione europea per ostacolare le operazioni di salvataggio da parte delle organizzazioni non governative e dare potere alla Guardia costiera libica, anche quando l’Europa sa che la Libia non è un luogo sicuro», aveva commentato Judith Sunderland di Human Rights Watch. Anche l’equipaggio della Nivin, in buona parte europeo, era stato messo in pericolo dalla decisione di respingere i migranti in Libia.

I respingimenti del 2019

A dicembre 2019, l’organizzazione Forensic Architecture ha analizzato diversi respingimenti in Libia con modalità simili a quelle che si sono verificate con il caso El Hiblu. I nomi delle imbarcazioni sono Gesina Schepers, Lady Sham, BFP Galaxy, OOC Emerald, Maridive: in tutti i casi, le navi hanno sbarcato i migranti in Libia dopo l’intervento della Guardia costiera libica, subentrata nella gestione dei salvataggi. Tra luglio 2018 e maggio 2019, Forensic Architecture scrive che ci sono stati almeno 13 tentativi di respingimenti operati da mercantili di flotte private, undici dei quali realizzati con successo (in tre casi i respingimenti sono avvenuti in Tunisia).

La strage di Pasquetta

Pasquetta 2020: durante un naufragio, dodici migranti muoiono annegati. Altri 52 migranti sono tratti in salvo da tre navi private, partite dal porto di Marsa, a Malta, su ordine delle autorità dell’isola. Sono poi riportati a Tripoli. È il caso più evidente in cui l’intervento di salvataggio, con respingimento verso la Libia, è stato deciso fin dall’inizio dalle autorità maltesi. IrpiMedia se ne è occupata qui (1 e 2) e insieme ad Avvenire nel Libyagate (1, 2 e 3).

Lo sbarco a Malta e l’inizio della detenzione

Entrato in acque maltesi, il mercantile El Hiblu 1 viene perquisito dall’Unità C per le operazioni speciali della Marina maltese (Afm). Appena sbarcati al porto di La Valletta, Amara Kromah, Abdul Kader e Abdalla Bari vengono arrestati con le accuse che pendono ancora sulle loro teste. Detenuti in custodia cautelare per sette mesi, vengono rilasciati su cauzione nel novembre 2019. I tre, da allora, devono presentarsi ogni giorno alla stazione di polizia e partecipare alle udienze preliminari mensili, con le quali si decide se il processo è o meno da celebrare. Se venissero ritenuti colpevoli da una giuria a Malta, i tre potrebbero affrontare l’ergastolo.

«Questo caso ci preoccupa molto, perché rientra nei tanti casi di criminalizzazione della solidarietà – spiega Ilaria Masinara, campaign manager di Amnesty International Italia –. Un accanimento politico e giudiziario nei confronti dei migranti e di chi si occupa di migrazione e in questo caso in maniera abbastanza trasversale perché i ragazzi hanno una doppia veste. Sono persone che scappano da un contesto geografico pericoloso ma sono equiparabili anche a difensori di diritti umani. Perché quello che hanno fatto sull’imbarcazione è stato agevolare la comunicazione e far sì che l’intera imbarcazione non venisse riportata in luoghi di tortura. Insieme alla preoccupazione di una stretta sempre più repressiva nei confronti di queste persone, ci preoccupa ciò che sta succedendo a livello della giustizia a Malta».

Amnesty International ha lanciato un appello per la scarcerazione dei tre ragazzi, un appello che ha raccolto ad oggi migliaia di firme online. «Dal nostro appello si è mossa anche l’ex presidente della Repubblica maltese Marie Louise Coleiro Preca; si è attivato il Papa che ha voluto incontrare i ragazzi. Si sono mosse persone di altissimo livello. Nonostante ciò siamo in attesa che si pronunci il Procuratore generale. Da un momento all’altro ci aspettiamo la decisione che può essere quella di mandarli in giudizio oppure revocare il processo. In ogni caso c’è una carenza della giustizia che non comunica e che ha lasciato queste persone in un limbo», prosegue Masinara.

I tre giovani si sono sempre dichiarati innocenti, sostenendo di aver agito come mediatori per evitare il respingimento verso la Libia. Proprio in relazione ai respingimenti verso la Libia i giudici italiani hanno emesso sentenze di condanne verso comandanti di navi che, pur seguendo direttive di operazioni europee, hanno riportato in Libia migranti salvati da naufragi nel Mediterraneo. È il caso della sentenza di condanna del capitano del rimorchiatore Asso 28 (vedi box dell’articolo Migranti e gasolio, il cartello dei trafficanti coinvolto nella strage di Pasquetta).

Un processo senza fine

Fondata nell’ottobre 2021, la Commissione ElHiblu3 Freedom è un’alleanza indipendente di vari sostenitori dei diritti umani che chiedono a Malta di archiviare immediatamente il processo contro i tre giovani uomini. La Commissione ha un ruolo di monitoraggio, attenzione, diffusione e condivisione di pratiche e di saperi. Il tema centrale è quello della criminalizzazione della migrazione che è comune a tutti i Paesi d’Europa.

«L’idea di fare rete, di monitorare e studiare tali questioni è ciò che anima questa Commissione e la mia personale partecipazione» spiega a IrpiMedia Francesca Cancellaro, avvocato e membro della Commissione. «È vero che gli ordinamenti giuridici sono diversi ma è pur vero che le regole internazionali e i diritti fondamentali hanno una portata trasversale e devono trovare un’applicazione in tutti gli ordinamenti. Da questo punto di vista la Commissione ha il senso di tenere alta l’attenzione, monitorare quello che avverrà anche nelle fasi processuali successive e riuscire a creare una rete di sostegno e di impegno internazionale per evitare che queste vicende rimangano confinate nei territori a cui si riferiscono e non riescano a essere lavorate in modo condiviso. Il paradosso – secondo l’avvocato Cancellaro – è che per vedere rispettati i propri diritti fondamentali i tre ragazzi stanno rischiando condanne pesantissime e tutt’ora sono in un limbo giudiziario».

Un migrante è tratto in arresto immediatamente dopo lo sbarco dalla El Hiblu 1 il 28 marzo 2019. Agli arrestati sono contestati nove crimini tra cui terrorismo, dirottamento e sequestro di persona a scopo di ricatto – Foto: Jonathan Borg/Getty

Tempi così lunghi per un processo del genere non se ne sono mai visti a Malta. E ancora va deciso se rinviare a giudizio i tre indagati.

I membri della polizia maltese e i membri dell’equipaggio della nave mercantile sono stati ascoltati subito dopo lo sbarco della El Hiblu 1, l’accusa maltese ha impiegato invece due anni per chiedere ai sopravvissuti di testimoniare. Finora l’hanno fatto in sei, solo uno di loro nella sua lingua madre con l’ausilio di un interprete. Per loro è chiaro che Kromah, Kader e Bari sono innocenti e hanno contribuito a impedire che più di 100 persone fossero costrette a tornare in Libia.

«I ragazzi, che ho avuto occasione di conoscere a Malta durante un meeting organizzato dalla Commissione e tutte le realtà che stanno lavorando alla campagna, sono stati in detenzione dura per molti mesi e ci hanno raccontato che è stato difficile – prosegue Cancellaro -. Non è stata considerata in questa fase di detenzione la giovane età. Tutt’ora ci sono delle limitazioni, restrizioni, adempimenti che limitano la loro libertà di movimento».

I ragazzi infatti hanno l’obbligo di presentarsi alle autorità maltesi quotidianamente. La situazione è giunta a un punto cruciale. Adesso si aspetta la decisione definitiva del procuratore generale, a cui la Commissione ha indirizzato una lettera aperta per chiedere la chiusura del procedimento.

Foto: Il mercantile El Hiblu 1 attraccato a La Valletta durante le operazioni di sbarco dei 110 migranti a bordo, il 28 marzo 2019 – Matthew Mirabelli/Getty
Editing: Lorenzo Bagnoli

Come l’Italia ha costruito le forze marittime della Libia

Come l’Italia ha costruito le forze marittime della Libia

Lorenzo Bagnoli
Fabio Papetti

Dal primo gennaio alla fine di settembre 2022 oltre 16.600 migranti sono stati riportati indietro dalle forze marittime della Libia occidentale. Le “operazioni” sono state più di 160, in netta crescita rispetto al passato. La parola “operazione” in questo contesto può assumere due significati: salvataggio, oppure intercettazione di una barca con a bordo un gruppo di migranti. In entrambi i casi il finale è lo stesso: i passeggeri ritornano in Libia per essere nuovamente incarcerati in un centro di detenzione, in attesa di pagare di nuovo il proprio riscatto e tentare nuovamente la fortuna.

Il report dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) del 24 ottobre afferma che nelle prigioni ufficiali ci sarebbero oltre 3.500 persone su circa 43 mila richiedenti asilo e rifugiati nel Paese.

Il progetto The Big Wall

Da quest’anno IrpiMedia collabora con ActionAid nella realizzazione di inchieste che nascono da The Big Wall, osservatorio sull’esternalizzazione della spesa per gestire i flussi migratori diretti all’Italia. Questo lavoro raccoglie anche spunti dalle richieste di accesso agli atti di Asgi – Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione.

Le foto dell’articolo sono realizzate dalla fotogiornalista Sara Creta, che da anni segue inchieste e reportage sui migranti.

Sono numeri che testimoniano una crescita nell’attività delle forze marittime libiche. “Risultati” che senza il contributo dell’Italia e di altri Paesi europei, la Libia non avrebbe mai potuto raggiungere. Solo l’Italia infatti ha fornito almeno 12 navi e gestisce gli affidamenti delle gare per la loro manutenzione e la fornitura di equipaggiamenti specifici. Organizza i corsi di formazione degli equipaggi e guida il progetto per la creazione di un centro di coordinamento delle operazioni di salvataggio (in inglese Maritime rescue coordination center – Mrcc). Sono questi i mattoni con i quali l’Italia ha costruito il Grande Muro delle frontiere esterne in Libia. Un muro la cui costruzione è stata spinta dal Memorandum of Understanding tra il governo italiano e quello libico, entrato in vigore a febbraio del 2017 e in attesa di automatico rinnovo (per altri tre anni) il 2 novembre. L’accordo ha disegnato i confini della collaborazione per il controllo delle frontiere.

Lo scorso anno ActionAid ha lanciato The Big Wall, il Grande Muro, un osservatorio sulle politiche di contenimento dei flussi migratori, che l’Italia, con il sostegno dell’Unione europea, ha messo in piedi a partire dal 2015. Il progetto ha rivelato che l’Italia si è impegnata a spendere quasi un miliardo di euro per spingere le frontiere sempre più a Sud, allo scopo di evitare nuove partenze e rendere meno visibile il fenomeno migratorio all’opinione pubblica europea.

La Guardia costiera libica durante un’operazione di intercettazione nel Mediterraneo centrale – Foto: Sara Creta

Un gruppo di migranti a bordo di un vascello della Guardia costiera libica a seguito di un’operazione di intercettazione nel Mediterraneo centrale – Foto: Sara Creta

Uno scorcio del centro di detenzione di Tajoura. Qui, secondo l’Onu, nel luglio 2019 una bomba sganciata da un aereo straniero a supporto della fazione guidata da Khalifa Haftar ha ucciso 53 persone e ferite 130 – Foto: Sara Creta

Quest’anno IrpiMedia e ActionAid hanno cercato di capire come siano stati spesi i soldi del Muro nel Mediterraneo centrale, la rotta seguita dai migranti per raggiungere l’Italia da Libia, oggetto di questa inchiesta, e Tunisia, protagonista della prossima. L’obiettivo di fondo, stando ai documenti, è stabilizzare i Paesi per interrompere i flussi migratori e combattere l’immigrazione alla radice. Evidentemente, però, i due Paesi nordafricani sono tutt’altro che stabili e gli aiuti economici hanno semmai alimentato, invece che pacificato, le divisioni interne. La logica del Grande Muro alimenta la ricattabilità dell’Italia e dei suoi partner europei: mettendo queste risorse in mano ai Paesi nordafricani si diventa dipendenti dalla loro politica interna nella gestione delle frontiere d’Europa.

Mattone su mattone

I mattoni del Grande Muro sono bandi di gara che rispondono a strategie disegnate da convenzioni spesso sconosciute all’opinione pubblica. Le fonti di finanziamento sono sia italiane, sia europee. Non le amministra un’unica cabina di regia e il risultato è una spesa frammentata su diverse stazioni appaltanti: Polizia, Guardia di Finanza, Marina Militare ed Invitalia, l’agenzia che ha tra le sue funzioni l’implementazione di progetti europei. Poche di queste pubblicano i bandi di gara completi e in ogni caso il processo di finanziamento non è trasparente. Da anni molte ong chiedono una diversa condivisione dei dati, alla luce delle ripetute violazioni dei diritti umani dei migranti e delle morti in mare.

La mancanza di trasparenza ha anche una conseguenza più politica: senza dati completi è impossibile valutare quanto questi progetti abbiano realizzato i loro scopi. C’è un’espressione in inglese che descrive questo scenario: «muddle through», tirare avanti raggiungendo qualche risultato, ma ben al di sotto delle aspettative e delle promesse iniziali.

La Libia è uno Stato sovrano in punto di diritto, ma nei fatti il controllo delle sue frontiere, il suo esercito e la sua integrità territoriale sono a brandelli. «I gruppi armati libici e i loro leader hanno preso il ruolo che un tempo era di élite politiche e imprenditori corrotti, diventando così uno strumento fondamentale per qualsiasi sviluppo del Paese», scrive il ricercatore Emadeddin Badi in un articolo pubblicato dall’Ispi l’8 luglio.

Un conflitto senza soluzione
In Libia ci sono due governi, uno a Tripoli sostenuto dalle Nazioni unite e uno a Tobruk, sostenuto dal parlamento libico, che si contendono il potere. Il primo è guidato dal premier Abdul Hamid Dabaiba (traslitterato anche come Dbeibah), il secondo da Fathi Bashagha. In agosto la capitale Tripoli è tornata contesa tra le bande armate che sostengono l’una o l’altra fazione. Bashagha da giugno chiede al presidente del Consiglio sostenuto dalle Nazioni unite di cedere il passo. Dbeibah avrebbe dovuto governare fino allo scorso dicembre, quando avrebbero dovuto svolgersi delle elezioni che invece non si sono mai tenute.

L’instabilità si riflette anche sui migranti: insieme alla crisi economica in Tunisia, è tra i principali push factor che hanno spinto le partenze di quest’estate. Da oltre un anno, alcuni migranti hanno organizzato un movimento, Refugees in Libya, per denunciare gli episodi di repressione e gli arresti arbitrari che subiscono. Chiedono all’Italia di non rinnovare l’accordo con la Libia. Grazie all’aiuto di una rete di attivisti internazionali, il gruppo ha costruito un proprio blog.

Anche le forze marittime sono frammentate e contaminate dai gruppi armati di varia appartenenza. Ci sono formazioni che rispondono a signori della guerra per la maggior parte fedeli personalmente a Dbeibah. Poi ci sono la Guardia costiera libica (Gcl) e l’Amministrazione generale della sicurezza costiera (di cui Gacs è l’acronimo inglese), che sono affiliate al ministero della Difesa e al ministero dell’Interno di Tripoli. La differenza è che le prime sono forze “private”, che rispondono direttamente all’ufficio del presidente, le secondo invece sono “ufficiali” e quindi rispondono alla catena di comando dei ministeri di riferimento.

Anche nelle forze ufficiali sono tuttavia presenti soggetti di ben altra natura, come la brigata al-Nasr, considerata dalle Nazioni Unite un’organizzazione di trafficanti di esseri umani e contrabbandieri di gasolio. La brigata costituisce anche la Gcl di Zawiya, ovest della Libia. Gli uomini di al-Nasr sono guardie e ladri allo stesso tempo, interessati alle forniture italiane per imporre il proprio potere in mare. Per loro e per altre forze marittime della Libia la promessa di effettuare salvataggi dei migranti è stata negli anni una moneta di scambio.

Il cimitero del Mediterraneo centrale

A cinque anni dall’inizio della cooperazione, dalla Libia si continua a partire e morire annegati: il tasso di mortalità del 2021 è stato del 4,7%, quello del 2017 era il 2,6%. Il dato indica la percentuale di persone annegate e disperse sul totale di chi è partito quell’anno

L’opacità dei flussi di denaro

L’instabilità permanente della Libia è stata presentata ufficialmente come la principale causa dei ritardi nella realizzazione dei progetti per controllare le frontiere terrestri e marittime della Libia. Il Support to Integrated Border Management and Migration Management in Libya, acronimo Sibmmil, avrebbe dovuto concludersi nel 2020 ma solo nel corso del 2022 ha cominciato a ottenere alcuni dei risultati previsti. Ha come obiettivi principali il rafforzamento sia delle capacità di salvataggio in mare, sia del controllo del confine marittimo.

Tra il 2017 e il 2022, secondo la Ragioneria di Stato, dei 32 milioni di euro da gestire dei fondi europei dedicati a questo progetto, l’Italia ne ha spesi 27,2. La dotazione prevista totale è di circa 44,5 milioni di euro, di cui l’Italia ha fornito di tasca propria circa 2 milioni. Il ministero dell’Interno è l’ente attuatore di Sibmmil, che rappresenta uno dei principali mattoni sui quali si regge The Big Wall.

Sibmmil alle frontiere terrestri: l’accordo con l’Oim

Tra i beneficiari del fondo c’è anche l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), agenzia associata alle Nazioni Unite che si occupa di migranti, richiedenti asilo e rifugiati. È tra le poche organizzazioni che riescono ad accedere – con grande difficoltà – ai centri di detenzione libici.

Oim ha ricevuto un pezzo dei 44 milioni del progetto Sibmmil, 12 milioni di euro, a seguito di un accordo triangolare con Commissione europea e ministero dell’Interno italiano. Spiegano dall’agenzia delle Nazioni Unite che non si tratta di accordi nuovi. La convenzione tra Oim e il Viminale, ottenuta dall’Associazione studi giuridici per l’immigrazione (Asgi) con una richiesta di accesso agli atti, prevede per l’Oim il coinvolgimento soprattutto nell’assistenza medica dei migranti che arrivano dalle frontiere desertiche meridionali, dove il progetto per la realizzazione delle frontiere è più indietro.

Assistenza e protezione sono due delle principali missioni dell’Oim, ma non sono le uniche azioni richieste all’agenzia delle Nazioni Unite. C’è anche la «verifica dei pubblici ufficiali libici che partecipano all’addestramento affinché siano esclusi coloro che hanno commesso abusi e violazioni dei diritti umani e quindi non possano essere ritenuti affidabili e credibili nella promozione e nell’applicazione degli standard internazionali». Sembra un tentativo di evitare di finire di nuovo al centro delle polemiche, come accaduto dopo le rivelazioni del 2019 di Avvenire: il quotidiano cattolico ha scoperto che tra i guardacoste libici che hanno partecipato ai percorsi formazione in Italia c’era anche Abdel Rahman al-Milad detto Bija, accusato di traffico di migranti e contrabbando di gasolio.

Asgi non ha tuttavia potuto avere accesso agli allegati che contengono i dettagli della convenzione Oim-Viminale perché rientrano «nel più ampio quadro delle attività e dei rapporti di cooperazione internazionale di Polizia con la Libia» e di conseguenza rientra in questioni di politica estera coperte da segreto che le richieste di accesso agli atti non possono penetrare.

Dei 27,2 milioni di euro spesi dall’Italia è stato possibile tracciarne poco meno di quattro-quinti, circa 20 milioni, tra appalti già completati e altri in corso di assegnazione nel periodo 2019-2022. Le principali voci di spesa sono 8,3 milioni per nuovi mezzi marini (20 barche veloci di diverse lunghezze); 3,4 per mezzi terrestri (30 fuoristrada, 14 ambulanze e dieci minibus); 5,7 per ricambi e manutenzione degli assetti navali; un milione in attività di addestramento e un milione per 14 container.

Milioni di euro per il Big Wall

Dei 44,5 milioni di euro stanziati dall’Europa, l’Italia ne ha gestiti più di 32. Di questi, ne abbiamo tracciati circa 27

Il bando di gara prevede tra le unità mobili anche la sede dell’Mrcc, il centro di coordinamento dei salvataggi in mare. Un Mrcc svolge funzioni fondamentali sia per rendere efficaci i soccorsi, ma anche per dare legittimità dal punto di vista del diritto internazionale a queste operazioni, senza il quale rischiano di essere considerati come “respingimenti per procura” da parte dell’Italia. Attraverso il progetto quindi, l’Unione europea – sotto la spinta italiana – conta di fornire alla Libia il principale strumento per gestire in autonomia il recupero dei migranti in mare.

Della missione ha parlato il 7 luglio 2021 l’ormai ex ministro della Difesa Lorenzo Guerini durante le Commissioni riunite Esteri e Difesa di Camera e Senato. Guerini ha descritto i due indirizzi intrapresi dalle forze armate italiane in Libia: il primo riguarda un maggiore coinvolgimento della missione europea Irini (pattugliamento delle acque antistanti la Libia) nell’addestramento e nel monitoraggio delle autorità marittime libiche; il secondo riguarda «lo sviluppo di una capacità di comando e controllo dei propri mezzi da parte della Marina libica», vale a dire la gestione delle operazioni di pattugliamento, recupero e soccorso.

Su questo Guerini è stato chiarissimo: «A partire dal 3 luglio 2020 l’attività è condotta in piena autonomia dalla marina libica presso proprie infrastrutture a terra e senza coinvolgimento alcuno del personale della Difesa italiano».

Migranti intercettati nel Mediterraneo Centrale attendono in condizioni di sovraffollamento a bordo di una nave della Guardia costiera libica nella base navale di Abu Sita – Foto: Sara Creta

Dalla Libia, però, arrivano informazioni diverse. Una fonte che fino al 2021 è stata molto vicino alla sala di coordinamento delle operazioni di salvataggio di Tripoli, che parla in forma anonima in quanto non autorizzata a rilasciare interviste, sostiene che in realtà i guardacoste libici siano tuttora informati via e-mail principalmente dall’Italia (in misura molto minore da Spagna o Malta) ogni volta che c’è da gestire un’operazione di salvataggio. Secondo la fonte, anche la nave militare italiana impegnata ufficialmente in quell’area in una missione di «supporto tecnico» è coinvolta nella trasmissione delle email ai libici.

Il mistero sull’effettivo ruolo degli italiani a Tripoli si lega all’imbarazzo sul progetto Sibmmil: con tutti i soldi spesi il centro di coordinamento dovrebbe essere pienamente in funzione, ma la stessa natura dei partner libici – milizie più che ufficiali di un apparato statale – rende impossibile avere il pieno controllo sull’implementazione del progetto.

Il supporto a Gacs e Guardia costiera

Sia la Gacs, sia la Gcl hanno «limitate capacità operative», si legge nel rapporto di monitoraggio sulle attività della marina libica curato dai militari della missione Irini lo scorso dicembre, un documento confidenziale.

La Gacs è una forza di polizia che fino al 2019 circa ha avuto mandato di operare strettamente entro le acque territoriali libiche. Nel 2021 ha partecipato a 14 operazioni di recupero in mare ed è stata coinvolta in un progetto pilota ancora in corso con Frontex e il ministero dell’Interno italiano per rafforzare la propria capacità di salvataggio. L’intento è inserirla all’interno di un sistema di monitoraggio delle frontiere marittime nel quale la Gacs possa avere uno scambio di informazioni con le altre polizie di frontiera europee. Lo scopo va anche oltre l’immigrazione: la Gacs dovrebbe contribuire a fermare anche navi mercantili e pescherecci che muovono prodotti di contrabbando, armi o che pescano senza rispettare le regole. L’Italia ha fornito e svolto la manutenzione su un totale di sette motovedette tra i 28 e i 35 metri fornite alla Gacs e un’altra ventina di imbarcazioni tra i nove e i dodici metri, per una spesa complessiva di oltre nove milioni di euro.

Un video promozionale della Gacs pubblicato su Youtube l’8 giugno mostra le motovedette cedute dagli italiani anche al loro interno: i loghi del Cantiere Navale Vittoria, i monitor, le bussole elettroniche e le bussole satellitari Furuno, i sistemi di navigazione, tutto è stato fornito alla Libia attraverso gare d’appalto bandite dalla Polizia e dalla Guardia di Finanza. Nel video, il direttore della Gacs Al-Bashir Bannour dichiara: «Ringraziamo i nostri partner italiani per sostenerci da anni con la costruzione, la fornitura di pezzi di ricambio, di manutenzione e la formazione dei lavoratori».

Il video esplicita il ricatto delle forze marittime libiche all’Europa: «Secondo le stime ufficiali il numero dei migranti è raddoppiato – spiega la voce narrante – e la Gacs non ha la forza per ridurre gli sbarchi ma può combattere i trafficanti». Più avanti spiega che la possibilità di contrastare il fenomeno è condizionata dalla mancanza di mezzi «che limita l’efficacia delle forze di sicurezza costiere». «Il Ministero dell’Interno – prosegue il video – spera che queste nuove navi aiutino ad aumentare la capacità degli equipaggi» grazie a «nuovi strumenti» e «sistemi di propulsione per affrontare le condizioni in alto mare».

La Guardia costiera, invece, è la forza marittima che, insieme alla Marina Militare, dipende dal ministero della Difesa. Secondo il report di monitoraggio della missione europea Irini – punto di contatto dei militari sia per la formazione, sia per lo scambio di informazioni – la Gcl e la Marina Militare dispongono di 26 navi, 17 delle quali sono state donate o riparate dall’Italia. La spesa complessiva, tra soldi già spesi e da spendere nell’arco del 2022, supera i tre milioni di euro, dal 2018 a oggi. Le motovedette Ubari, Ras Al Jadar, Sabratha, parte delle 26 complessive della flotta libica, sono state protagoniste di scontri con le ong o di violenze sui migranti.

Cosa sappiamo del centro di coordinamento dei salvataggi

Il 2 dicembre 2021, la nave della Marina Militare San Giorgio ha ormeggiato ad Abu Sitta, base militare della Marina libica, per consegnare dieci container. Le casse mobili sono abitabili: servono per la creazione del centro di coordinamento dei salvataggi e di una sorta di accampamento. In attesa della collocazione migliore, la struttura sarà mobile e si troverà all’interno di uno dei container. In prospettiva, l’Unione europea vorrebbe arrivare a finanziare due Mrcc fissi, uno in Libia e l’altro in Tunisia, Paese che ancora non ha dichiarato alla comunità internazionale i confini della sua zona di ricerca e soccorso.

Secondo quanto riferisce la fonte in Libia, il container con le attrezzature del centro di coordinamento libico si trova nel porto commerciale da diverso tempo. Gli italiani avrebbero già fornito alcuni computer e un’antenna, ma parte del materiale ancora non sarebbe arrivato. Quindi, riferisce, al momento le operazioni sarebbero gestite da un appartamento in un bell’edificio storico poco lontano da piazza dei Martiri, nel centro di Tripoli.

Il mancato utilizzo del centro di controllo nel container sarebbe da imputare a una forte competizione interna tra Marina e Guardia costiera, entrambe sotto il Ministero della Difesa di Tripoli, per la gestione delle operazioni di salvataggio e presumibilmente anche dei fondi europei e dei mezzi messi a disposizione dall’Europa. Più della sala di controllo mobile, i guardacoste libici sperano quindi di spostare il cuore delle base a Tajoura, città al confine orientale di Tripoli, già in passato sede di un centro di coordinamento, per ritagliarsi maggiore autonomia dalla Marina.

Due uomini della Marina italiana nella base navale di Abu Sita a Tripoli – Foto: Sara Creta

Insieme ai container, sono arrivate ad Abu Sitta anche delle apparecchiature radio e radar fornite dalle aziende italiane Gem Elettronica srl e Elman srl, parte del pacchetto per il centro di coordinamento dei soccorsi. Nessuna azienda italiana coinvolta ha voluto commentare le nostre richieste di chiarimento sull’implementazione del Mrcc. Dal fascicolo tecnico risulta che possono essere collegati con un sensore che si trova nella base di Abu Sitta.

Gem Elettronica, di proprietà al 30% di Leonardo spa, è stata coinvolta nella fornitura di radar per le frontiere terrestri di Tripoli già dal 2013. Elman srl nel maggio 2021 ha pubblicato sul proprio sito un comunicato in cui annunciava la sua partecipazione al progetto per realizzare il centro di coordinamento dei salvataggi in Libia. La Marina Militare ha solo confermato di aver preso parte alla missione Sibmmil per la realizzazione dell’Mrcc ma non ha fornito ulteriori chiarimenti rispetto alla messa a terra dei container.

L’altro muro: fondi europei senza trasparenza

Durante le ricerche, IrpiMedia ha chiesto più volte accesso alle informazioni riguardanti gli sviluppi del Mrcc. Le risposte o non sono arrivate oppure «per motivi di sicurezza» ne sono state omesse alcune. Vale soprattutto per i fondi europei dedicati all’esternalizzazione delle frontiere in Africa, i quali «sono al di fuori del controllo del parlamento europeo» secondo la parlamentare europea Özlem Demirel e la sua assistente Ota Jaksch. Il parlamento riceve un report annuale, un file che si può trovare facendo una semplice ricerca su internet, e le informazioni contenute non sono specifiche di ogni operazione o progetto.

Inoltre, non vengono menzionati i beneficiari di tali fondi. «La commissione stila il programma del fondo senza chiedere ai parlamentari di esprimere un parere – continua Jaksch -. Ciò che il fondo segue sono gli interessi che vogliono raggiungere i singoli Stati membri, e questo era così fin dall’inizio». L’unico strumento a disposizione dei parlamentari per chiedere maggiori informazioni alla Commissione e al Consiglio sono le interrogazioni, «ma hanno un limite di 200 parole e di tre domande massimo. Noi dobbiamo già sapere qualcosa per conto nostro e poi solo allora possiamo provare a chiedere qualcosa e sperare di avere una risposta», concludono Jaksch e Demirel.

Quando lo Stato sragiona

Esiste uno schema ricorrente nella cooperazione tra Paesi europei e paesi governati da regimi autoritari oppure da esecutivi molto deboli. C’è spesso una “ragion di Stato” che spinge a stringere accordi anche quando è difficile capire chi sia davvero l’interlocutore e quali siano i suoi obiettivi. Finanziamenti e progetti di cooperazione sono il mezzo per raggiungere il proprio scopo. Finora la strategia non ha funzionato in Libia: per quanto le forze marittime libiche siano più efficienti, il contesto in cui operano è molto instabile. E questa analisi non tiene conto del fattore dello stato di diritto: gli stessi militari formati dall’Europa sono accusati di traffico di esseri umani e contrabbando e non si è nemmeno certi che esista una vera catena di comando tra l’Est e l’Ovest del Paese, come sarebbe previsto in uno Stato unitario.

Navi appartenenti alla General Administration for Coastal Security (GACS) nel porto di Tripoli – Foto: Sara Creta

Una guardia del centro di detenzione Shara Zawya a Tripoli – Foto: Sara Creta

Un ufficiale della Guardia costiera libica a bordo della nave Fezzen – Foto: Sara Creta

L’Italia ha cercato di guidare il processo europeo in Libia perché il Paese è il cuore del “Mediterraneo allargato”, uno spazio geopolitico sul quale anche Giorgia Meloni è già impegnata (ne è la riprova il suo discorso alla Camera, in cui ha parlato del «nostro ruolo strategico nel Mediterraneo»).

Eppure, quando si parla delle dirette conseguenze delle missioni europee sui flussi migratori, già negli anni passati alcuni alleati avevano mostrato molte riserve rispetto all’efficacia delle iniziative europee a traino italiano. Nel 2017, quando la Gran Bretagna era ancora parte dell’Unione europea, i parlamentari della Camera dei Lord hanno prodotto un report in cui hanno definito «fallita» la missione Sophia, quella che nel 2020 è diventata Irini. Il documento sottolineava che la missione europea di sostegno alla creazione di un sistema di frontiere integrato, Eubam, non aveva nel proprio mandato combattere l’immigrazione irregolare, che per gli inglesi era invece l’obiettivo principale della loro partecipazione. Definiva poi «una grande sfida» formare una guardia costiera rispettosa dei diritti umani.

Il punto è vero oggi quanto allora: a fine marzo 2022 la Germania ha deciso di non partecipare più ai corsi di addestramento dei libici a causa del «comportamento inaccettabile» di questi ultimi. Secondo Mark Micallef, esperto di Libia presso il Global Initiative Against Transnational Organized Crime (GITOC), le forze libiche non sono da considerare come un’unità omogenea. Al contrario, sono in continua opposizione e solo una parte sta cercando di migliorare le capacità di ricerca e soccorso. Eppure la spesa per l’esternalizzazione delle frontiere in Libia continua senza tregua.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Fabio Papetti

Ha collaborato

Antonella Mautone

Foto

Sara Creta

Editing

Giulio Rubino

Infografiche

Lorenzo Bodrero

In partnership con

Perché per i migranti climatici il Mediterraneo sarà sempre peggio

#MediterraneoCentrale

Perché per i migranti climatici il Mediterraneo sarà sempre peggio

Ian Urbina

Nel luglio del 2018, la Asso 28 – rimorchiatore di servizio a una piattaforma petrolifera libica battente bandiera italiana – si è imbattuta in un gommone in stallo che trasportava un centinaio di migranti disperati. I migranti avevano raggiunto le acque internazionali, nel tentativo di compiere il pericoloso viaggio dalla Libia all’Europa, quando la nave d’appoggio li ha soccorsi e il suo comandante ha deciso di portarli non in un porto sicuro in Europa, come previsto dalla legge, ma in un gulag di strutture di detenzione per migranti in Libia dove le Nazioni unite e altri hanno documentato torture sistematiche, stupri, estorsioni, lavori forzati e morte.

Il comandante di quella nave rifornimento, Giuseppe Sotgiu, a ottobre di quest’anno ha pagato a caro prezzo la sua decisione: un giudice italiano lo ha condannato a un anno di carcere per violazione del diritto umanitario. La dolorosa ironia di questa condanna è il fatto che Sotgiu sia diretto in prigione per ciò che i funzionari dell’Unione europea hanno fatto su vasta scala per diversi anni: respingere i migranti in un luogo di gravi violazioni dei diritti umani.

Respingimenti per procura

Dal 2017, l’Unione europea, sotto la guida dell’Italia, ha addestrato e attrezzato la Guardia costiera libica per fungere da forza marittima per procura, il cui scopo principale è impedire ai migranti di raggiungere le coste europee. La Guardia costiera libica è molto efficace in questa missione grazie all’intelligence aerea fornita dall’agenzia di pattugliamento dei confini esterni dell’Unione europea, Frontex. Tramite l’utilizzo di droni e aerei sul Mediterraneo, Frontex localizza le zattere dei migranti, poi allerta gli italiani, che a loro volta informano le autorità libiche. Una volta catturati dalla Guardia costiera libica, decine di migliaia di questi migranti vengono poi consegnati in una dozzina di centri di detenzione gestiti dalle milizie.

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Sia per l’Ue, sia per i comandanti delle navi che attraversano il Mediterraneo, la sfida su come gestire al meglio i migranti in fuga dalle difficoltà nei loro Paesi d’origine non farà che aumentare. Si prevede che il cambiamento climatico provocherà 150 milioni di sfollati in tutto il mondo nei prossimi 50 anni. L’innalzamento dei mari, la desertificazione, la carestia: tutto questo porterà loro in posti come l’Europa e gli Stati Uniti, mettendo alla prova il carattere morale e l’immaginazione politica di Paesi meglio preparati a sopravvivere a un pianeta surriscaldato.

E i grandi attori di questo dramma globale – gli uomini e le donne che lavorano sulle navi commerciali nel Mediterraneo – si ritroveranno sempre di più in questa situazione difficile. Quei comandanti che a differenza di Sotgiu rispettano il diritto umanitario e decidono di portare i migranti in Europa, a volte affrontano conseguenze disastrose.

Un gruppo di migranti provenienti dall’Africa occidentale osserva il Mediterraneo a bordo della Geo Barents, nave di soccorso di Medici Senza Frontiere, l’11 giugno 2021 | Foto: Ed Ou/The Outlaw Ocean Project

Il caso della Maersk

Nell’agosto 2020, su richiesta delle autorità maltesi, l’equipaggio di una petroliera battente bandiera danese chiamata Maersk Etienne ha salvato 27 migranti, tra cui una donna incinta e un bambino. Malta in seguito ha negato alla nave Maersk l’ingresso al porto di Valletta per lo sbarco, provocando un lungo e costoso stallo che si è concluso solo dopo che i migranti sono stati consegnati a una nave delle ong. In un gesto di apprezzamento, Maersk ha poi fatto una donazione a quella ong (Mediterranea, ndr) , che ha portato i pubblici ministeri italiani a minacciare Maersk di essere perseguita per presunta violazione delle leggi contro la tratta di esseri umani.

Dopo il trasbordo su Mediterranea

di Lorenzo Bagnoli

Il 5 agosto 2020, 27 migranti sono stati trasferiti dalla nave di Maersk Etienne alla Mare Jonio, imbarcazione per le operazioni di salvataggio di Mediterranea. Dato che Malta non assegnava un porto per lo sbarco, Mare Jonio si è rivolta al centro di coordinamento delle operazioni di salvataggio di Roma, ottenendo un permesso per sbarcare il 12 settembre 2020 a Pozzallo.

A seguito di questa operazione la procura di Ragusa ha indagato otto tra armatori, marittimi, attiviste e attivisti, come riporta Mediterranea in un comunicato stampa. L’accusa è che il trasbordo sia avvenuto a seguito di un «accordo commerciale» tra Maersk e la società armatrice di Mediterranea. Ne è scaturita un’enorme polemica sui media italiani, nel corso di marzo 2021, a seguito della notifica della notizia di reato agli interessati.

Alla fine l’ong e la società di spedizioni marittime danese concordano sul fatto che Mediterranea, mesi dopo l’esecuzione del salvataggio, abbia ricevuto da Maersk 125 mila euro in forma di donazione. Mediterranea, sul proprio sito, ha anche dato il dettaglio del modo in cui è stata spesa (i due importi più consistenti, 25 mila euro e 33 mila euro circa, sono stati spesi rispettivamente per il personale a bordo e per tasse e sanzioni amministrative). Mediterranea ha sempre definito le accuse «infamanti». Le indagini sono al momento ancora in corso.

La maggior parte dei migranti che cerca di attraversare il Mediterraneo non riesce mai a salire sulle navi mercantili perché vengono sequestrate dalla Guardia costiera libica. Sebbene la guardia costiera libica apra regolarmente il fuoco sulle zattere dei migranti, sia stata legata al traffico di esseri umani e all’omicidio e ora è gestita da milizie, continua a ricevere sostegno dall’Ue. Questo autunno, l’Unione europea ha spedito quattro nuovi motoscafi alla Guardia costiera libica in modo che potesse catturare più efficacemente i migranti e inviarli agli stessi centri di detenzione che le Nazioni unite hanno descritto come coinvolti in crimini contro l’umanità sponsorizzati dallo stato.

I gulag della Libia alimentati dai fondi europei

Da tempo ero interessato a fare un reportage sul gulag libico delle prigioni per migranti. Per anni ci sono stati rapporti di orrori inimmaginabili: tortura, stupro, estorsione, lavori forzati. Ci sono anche state numerose richieste all’Unione europea di bloccare i fondi per la gestione dei centri di detenzione in Libia, ma sono rimaste inascoltate.

Un’inchiesta di The Outlaw Ocean Project, di base a Washington, ha scoperto che i fondi dell’Ue e degli Stati membri, a volte instradati attraverso le organizzazioni umanitarie, pagano la maggior parte di ciò che accade dopo: sono serviti per comprare i container che fungono da uffici portuali per il personale della Guardia costiera libica e i tablet utilizzati dagli operatori umanitari che contano i migranti quando sbarcano a Tripoli. Sono serviti a pagare molti degli autobus usati per trasportare i migranti dal porto ai centri di detenzione, le coperte, i vestiti invernali e le pantofole che spesso ricevono all’arrivo. I bagni di alcuni centri di detenzione, così come le docce, le toilette, il sapone, i kit per l’igiene, la carta igienica. Lo stesso vale per i materassi dove dormono i migranti detenuti, i SUV delle autorità libiche per cercare i migranti che sfuggono alla detenzione o che entrano in Libia a sud attraverso il deserto del Sahara. Anche le ambulanze che li portano all’ospedale in caso di malattia spesso sono donazioni dell’Unione europea. E quando i migranti muoiono – che avvenga a riva o nei campi di detenzione – il denaro europeo viene spesso utilizzato per pagare i sacchi per le salme e per insegnare al personale libico a trattare i cadaveri rispettando la loro religione.

Un mese prima che mi dirigessi in Libia, c’è stata la notizia dell’ultimo oltraggio: l’uccisione di un giovane migrante dal Nord Africa in uno dei centri di detenzione più noti della Libia, situato nel cuore della capitale Tripoli: Al-Mabani o “Il palazzo”.

Aliou Candé, migrante climatico

Ho saputo della prigionia di Aliou Candé per la prima volta lo scorso aprile, poche settimane dopo la sua cattura e ho iniziato a ricostruire il suo viaggio. Candé è cresciuto in una fattoria vicino al remoto villaggio di Sintchan Demba Gaira, in Guinea Bissau. Il villaggio non ha ricezione cellulare, strade asfaltate, impianti idraulici o elettricità. Viveva in una casa di argilla, dipinta metà in giallo e metà in blu, con sua moglie Hava e i loro due figli piccoli.

Vicino alla casa si trova un albero dove la famiglia si riunisce per prendere il tè. Candé era sempre stato inquieto nel villaggio: ascoltava musicisti stranieri e seguiva le squadre di calcio europee. Parlava inglese e francese e stava imparando da autodidatta il portoghese, sperando di vivere un giorno in Portogallo. «Aliou è sempre stato un ragazzo d’oro, sempre fuori dai guai – mi racconta Jacaria, uno dei suoi fratelli -. Era un gran lavoratore. Le persone lo rispettavano».

Il 28enne della Guinea Bissau era un “migrante climatico”: la siccità in Guinea Bissau è diventata più lunga e più frequente, le inondazioni più imprevedibili e dannose. I raccolti di Candé stavano fallendo e i suoi figli erano affamati. Candé è quindi partito per l’Europa sperando in una vita migliore.

La sua fattoria produceva infatti manioca, mango e anacardi (coltivazioni che rappresentano il 90% delle esportazioni del Paese) ma recentemente l’andamento delle stagioni è cambiato, probabilmente come risultato del surriscaldamento globale. «Non sentiamo più freddo durante la stagione fredda e il caldo arriva prima del dovuto», riferisce il fratello Jacaria. Le inondazioni sono peggiorate, lasciando la fattoria accessibile sono in canoa per gran parte dell’anno. La siccità è durata il doppio del tempo. Le sue quattro vacche, già magre, hanno prodotto un quantitativo di latte che è bastato solo per dissetare i suoi figli una volta al mese. Ci sono state più zanzare che diffondono malattie come la meningite; quando uno dei figli di Candé ha preso la malaria, il viaggio per arrivare all’ospedale è stato di un giorno e il bambino è quasi morto.

«Tutte le persone della sua generazione sono andate all’estero e hanno avuto successo, quindi perché non lui?», si domanda sua madre, Aminatta. La mattina del 13 settembre 2019, Candé è partito per l’Europa portando con sé un romanzo d’amore, due paia di mutande, una maglietta, un diario di pelle e 600 euro. Una mattina Candé ha detto a sua moglie: «Non so quanto tempo ci vorrà, ma ti amo e tornerò».

Aliou Candé | Foto: Jacaria Candé

Il viaggio

Candé ha viaggiato in macchina per l’Africa centrale fino ad Agadez nel Niger, una volta conosciuta come la Porta d’accesso del Sahara. A gennaio è arrivato in Marocco, ha cercato di comprare un passaggio in nave fino in Spagna e ha saputo che il prezzo da pagare era di tremila euro, quindi più dei soldi che aveva con sé.

Il percorso di Aliou Candé dalla Guinea-Bissau fino al Mediterraneo, dove ha trovato la morte

Candé si è poi diretto in Libia, dove ha potuto prenotare un “barcone” a un prezzo più economico per l’Italia. A febbraio, lui e più di cento altri migranti sono partiti dalla costa libica a bordo di un gommone gonfiabile. Non è mai arrivato a destinazione. Non ce l’ha fatta.

Impunità

A circa settanta miglia dalla Libia, la guardia costiera libica ha speronato l’imbarcazione dei migranti tre volte e poi ha ordinato loro di salire una scaletta di corda fino alla nave. I migranti sono stati riportati sulla terraferma, caricati su autobus e camion da guardie armate e portati ad Al Mabani, detto “Il palazzo”, centro di detenzione nel cuore di Tripoli.

Vista aerea del complesso di Al Mabani a Tripoli, Libia, in una foto scattata il 18 giugno 2021 | Foto: Pierre Kattar/The Outlaw Ocean Project

Insieme a centinaia di altri migranti che affrontano un destino simile in queste prigioni, Candé è stato ucciso per mano delle guardie e sepolto in un sovraffollato cimitero riservato ai migranti nella capitale libica, a più di tremila chilometri dalla sua famiglia in Guinea Bissau.

A Tripoli, ho intervistato decine di altri migranti che sono stati imprigionati con Candé ad Al Mabani. Mi hanno raccontato che le celle erano così sovraffollate che i detenuti dovevano dormire a turni. Hanno parlato di una “stanza speciale” in cui i migranti a volte venivano picchiati mentre erano appesi a testa in giù alle travi del soffitto. Hanno condiviso con me il messaggio audio che Candé ha registrato su un cellulare nascosto in prigione dove ha fatto un’ultima supplica alla sua famiglia di inviargli il riscatto di cui aveva bisogno per essere liberato.

Nessuno è stato punito per la morte di Candé. I funzionari dell’Unione europea hanno richiesto un’indagine, ma poi non è successo più niente. È stato l’ultimo esempio dell’impunità con cui i funzionari libici trattano alcune delle persone più vulnerabili del mondo.

Cinque giorni da prigioniero

Ho avuto anche io un assaggio dell’impunità libica. Una settimana dopo il mio servizio sull’uccisione di Candé, sono stato rapito nella mia stanza d’albergo e trattenuto per quasi una settimana dai servizi segreti libici, gestiti da una milizia chiamata Al-Nawasi. Sono stato bendato, mi hanno spaccato due costole e tenuto in isolamento per cinque giorni prima del mio rilascio finale. Il reato? Occuparsi di migranti.

Siamo stati poi costretti sotto la minaccia delle armi dai nostri rapitori a firmare una lettera di confessione su ordine del capo dei servizi segreti libici, un uomo chiamato Generale maggiore Hussein Muhammad Al-A’ib.

Chi è Hussein Muhammad Al-A'ib

Hussein Muhammad Al-A’ib ricopre il ruolo di capo dell’intelligence in Libia dal maggio 2021. Lo ha nominato Abdul Hamid Dabaiba, presidente del Consiglio del Governo di accordo nazionale libico ad interim. La sua nomina era stata fortemente criticata dalle milizie alleate al vecchio presidente Fayez al-Serraj, che ritengono Al-A’ib un uomo del generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Libia orientale che ha sempre sfidato il governo riconosciuto dalle Nazioni unite. Fino all’inizio del 2011, poco tempo prima della caduta del regime, Hussein Muhammad Al-A’ib ha lavorato per il rais Muhammar Gheddafi.

C’è qualche speranza di ottenere dall’Unione europea una maggiore assunzione di responsabilità in merito alla partnership con la Libia. La condanna del comandante della nave a ottobre indica il clima di contestazione per i respingimenti dei migranti in Libia. Così come due casi emblematici portati quest’anno dai migranti contro l’agenzia di pattugliamento dei confini esterni dell’Unione europea, Frontex, davanti alla Corte di giustizia dell’Unione europea. I casi accusano gli agenti e i funzionari dell’agenzia di aver ignorato le prove delle violazioni dei diritti perpetrate dagli stati membri o di aver partecipato essi stessi al respingimento dei richiedenti asilo.

Una torcia della Geo Barents, nave di soccorso di Medici Senza Frontiere, perlustra le acque del Mediterraneo al largo della Libia a seguito di una richiesta di soccorso il 4 giugno 2021 | Foto: Ed Ou/The Outlaw Ocean Project

L’esternalizzazione delle frontiere oltreoceano

Ovviamente l’Europa non è sola nel cercare di esternalizzare il lavoro sporco di contenere la migrazione. Nell’ultimo decennio, il governo degli Stati Uniti ha cercato di ridurre il flusso di migranti latinoamericani imponendo a chi passa per l’America centrale di fermarsi in Messico per fare domanda di ricollocamento negli Usa. È il cosiddetto “controllo a distanza”, che permette anche alle autorità statunitensi per l’immigrazione di evitare di dover gestire i diniegati – coloro che hanno ricevuto un rifiuto alla domanda d’asilo – che provengono da Paesi con i quali gli Stati Uniti non hanno accordi di deportazione. Secondo il Global Detention Project, una ong che si occupa dei diritti dei detenuti con sede a Ginevra, i migranti in questi centri di transito subiscono percosse da parte delle guardie di frontiera, mangiano cibo avariato, non hanno accesso all’acqua pulita, vivono con temperature estreme, sovraffollamento, pidocchi e scabbia.

I Paesi hanno sicuramente il diritto e il dovere di amministrare i loro confini, ma il modo in cui gli Stati Uniti e l’Unione europea stanno gestendo questi migranti non è né efficace né umano. Mettere i comandanti delle navi mercantili in mezzo a questa crisi non è certo la soluzione. Peggio ancora è esternalizzare il problema a Stati falliti come la Libia, dove gli abusi dei diritti umani sono una conclusione inevitabile.

CREDITI

Autori

Ian Urbina

In partnership con

Mappa

Lorenzo Bodrero

Traduzione a cura di

Lorenzo Bagnoli
Marta Soldati
Allison Vernetti

Editing

Lorenzo Bagnoli

Foto di copertina

Ed Ou/The Outlaw Ocean Project