Calabria, la seconda porta per l’Italia

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Calabria, la seconda porta per l’Italia

Carmen Baffi
Vincenzo Imperitura
Alfredo Sprovieri

Il naufragio avvenuto la notte fra sabato 25 e domenica 26 febbraio a 200 metri dalla spiaggia di Steccato di Cutro, in provincia di Crotone, ha messo sotto i riflettori una rotta migratoria finora praticamente ignorata dall’opinione pubblica. Eppure la Calabria è il secondo approdo in Italia, dopo l’isola di Lampedusa. Dalla Turchia alla Calabria, la traversata dura dai cinque ai sette giorni di navigazione, il doppio di quella che dal Nord Africa porta alla Sicilia. Il tratto in mare è solo l’ultima estenuante parte di un viaggio che per migliaia di persone è iniziato mesi prima.

Sulle spiagge calabresi sono arrivati migranti dalla Siria, dall’Afghanistan, dall’Iran, dal Pakistan e dall’Armenia: persone il più delle volte in fuga da una parte di pianeta in guerra da decenni. Sono anche arrivati cittadini ucraini, turchi, russi, egiziani, migranti a loro volta spesso coinvolti dai trafficanti nel trasporto degli altri profughi dalle coste meridionali della Turchia, trampolino di un continuo flusso di esseri umani a questa seconda porta d’ingresso in Italia.

L'inchiesta in breve
  • Per i migranti, la Calabria è la seconda porta d’accesso all’Italia. Nel 2022 gli arrivi sono stati più di 18mila, contro i 10mila del 2021. Anche prima della strage di Steccato di Cutro, la rotta dalla Turchia alla Calabria destava preoccupazioni: è molto più lunga e meno sorvegliata del triangolo tra Libia, Tunisia e Sicilia.
  • Il Governo Meloni ha dichiarato guerra agli “scafisti” ma in realtà già oggi tanti timonieri delle barche finiscono in carcere. Solo nel 2022 sono stati 61, secondo i dati del Tribunale di Locri. Su 29 procedimenti penali per traffico di esseri umani, il 65% è già a sentenza.
  • Ma gli scafisti non sono i trafficanti, per quanto il governo mescoli le responsabilità. E ci sarà mercato finché esisterà la domanda di oltrepassare i confini senza documenti. La rotta dalla Turchia alla Calabria, infatti, ha incrementato le partenze dopo che si sono ridotte le partenze verso la Grecia.
  • L’avamposto dell’accoglienza calabrese è Roccella Jonica, principale destinazione di chi sbarca in Calabria. L’arrivo di persone in stato di necessità è continuo, ma la struttura di prima accoglienza non è adeguata ai numeri.

Secondo i dati elaborati da Pagella Politica, nel 2022 in Calabria ci sono stati in tutto 18.092 sbarchi (tra autonomi, ovvero senza che le imbarcazioni di migranti siano state intercettate da altre navi, attraverso l’intervento della Guardia costiera o con l’aiuto delle ong), mentre in Sicilia, l’ingresso principale all’Europa, sono stati 78.586. Il tasso di crescita in Calabria è molto significativo, visto che nel 2021 gli approdi sono stati pochi più di 10 mila.

Dal primo sbarco nella Locride alla fine degli anni ‘90 a oggi, quasi niente in questo viaggio è cambiato. Medesima la rotta che collega le province sud orientali della Turchia a quelle della Calabria ionica così come identiche, ed estenuanti, continuano ad essere le modalità di questa traversata. Anche la zona di sbarco individuata dai trafficanti resta incatenata ai soliti posti: pochi chilometri di costa compresi tra Cirò e Le Castella e tra Monasterace e Palizzi, estremo pezzo meridionale delle province di Crotone e Reggio Calabria. Si tratta di un fenomeno radicato nel tempo, ma ogni anno affrontato dalle istituzioni alla stregua di una nuova emergenza in termini di sicurezza.

All’inizio fu Riace

Il primo luglio del 1998, un tecnico di laboratorio percorre in auto la strada che di solito dalla scuola in cui lavora lo riporta a casa. Solo all’apparenza si avvia un pomeriggio qualunque di un giorno qualsiasi della sua vita. A un certo punto della strada però vede qualcosa di inconsueto. Sulla spiaggia vicina a quella che 25 anni prima aveva restituito i famosi Bronzi, è approdato dalle coste turche un barcone carico di profughi curdi. Questo è l’inizio di una storia che conoscono tutti: quella di Mimmo Lucano e dell’accoglienza di Riace. Il borgo è uno dei tanti “paesi sdoppiati” della Ionica in cui il centro storico va verso lo spopolamento, mentre la vita si riorganizza a valle, lungo la costa. Le case vuote per ospitare i migranti non mancano. Lucano inizia poi a studiare alcune pratiche di accoglienza attuate in un altro Comune “sdoppiato”, Badolato. Da questo incontro nasce un percorso politico che lo porta a diventare sindaco nel 2004.

Per Riace, ottiene fondi regionali per la ristrutturazione delle case dismesse nel borgo e fornisce accoglienza e ospitalità ai rifugiati e ai richiedenti asilo che lavorano nel Comune attraverso laboratori artigiani e, nell’attesa dell’erogazione dei fondi, spendono per le proprie necessità una moneta locale creata ad hoc. Rieletto per un secondo mandato nel 2009, Lucano diventa sempre più conosciuto fino a quando, nel 2016, la rivista americana Fortune lo inserisce al quarantesimo posto fra i 50 leader più influenti al mondo. Nell’ottobre del 2017, però, la Procura di Locri lo iscrive nel registro degli indagati per truffa, abuso d’ufficio e peculato proprio nell’ambito della gestione del sistema d’accoglienza di Riace. Sostenuto da manifestazioni di solidarietà in tutta Italia, Lucano sarà comunque messo agli arresti domiciliari, sospeso dal ruolo di sindaco e subirà anche il divieto di dimora a Riace. Il 30 settembre 2021 il Tribunale di Locri lo condanna a 13 anni e 4 mesi di reclusione, praticamente raddoppiando le richieste del pubblico ministero e nel 2022 si apre il processo d’Appello a Reggio Calabria, con la procura generale che il 26 ottobre chiede 10 anni e 3 mesi per Lucano.

Qualunque sarà il suo verdetto finale, questo è comunque un processo giudiziario che porta con sé effetti incontrovertibili. Oggi a Riace arrivano alla spicciolata richiedenti asilo e rifugiati per i quali è scaduto il tempo di permanenza nelle strutture “ufficiali”. Cercano diritti basilari, soprattutto quello all’assistenza sanitaria. Per loro la destinazione è l’ambulatorio Jimuel, fondato nel 2017 dal medico anestesista Isidoro Napoli, per tutti Sisi. Insieme a lui una ventina di medici volontari, fra cui una cardiologa, due ginecologhe, un pediatra, un ecografista e diversi radiologi, presta la propria opera gratuita a chiunque ne abbia bisogno.

L’emergenza è in mare

Le barche che ingrossano la rotta turca sono nella maggioranza dei casi velieri monoalbero in vetroresina, rubati nei porti dell’Anatolia e poi guidati a motore. In condizioni ottimali potrebbero trasportare in sicurezza al massimo una ventina di persone e possono essere guidati per piccoli tragitti turistici anche senza disporre di una grossa esperienza nautica. Viaggiano invece per notti e giorni senza sosta, in media con dieci volte il carico di persone consentito, e non solo non possono contare su sufficienti presidi di salvataggio, ma spesso i migranti non sanno nemmeno nuotare.

L’emergenza c’è insomma, ma è in mare, ed è di natura umanitaria. È difficile stabilire quanti eventi di naufragio siano avvenuti nei decenni di navigazione al largo delle coste italiane, anche perché sullo specchio d’acqua che fa da scenario a questo evento mancano le ong, a differenza della rotta dalla Libia alla Sicilia. La prima strage di cui si ha conoscenza risale al 2007, quando annegarono in sette a largo di Roccella Jonica, ma tragedie meno eclatanti per il numero di persone coinvolte sono purtroppo frequenti.

Operazioni di prima accoglienza al Centro di Roccella Jonica – Foto: Carmen Baffi

Mohamed Nasim è afghano ed è approdato vicino Crotone a metà giugno, in una giornata di mare calmo. Era fra i pochi a parlare inglese, perciò alla mediatrice culturale e al personale della Guardia di finanza che l’hanno interrogato e verbalizzato ha ricostruito al dettaglio le tappe del suo viaggio. Racconta di essere partito dal suo Paese per l’Iran, dove è rimasto tre mesi, per poi raggiungere Istanbul, dove è rimasto circa nove mesi. Per organizzare il viaggio ha ricevuto i contatti necessari da altri connazionali già arrivati in Europa. Ha avuto un numero di telefono che ha contattato, poi ha versato circa 10 mila euro da un conto corrente iraniano a un altro. Racconta che tramite sua madre i soldi sono stati spostati sul conto corrente di un “garante terzo” in Turchia, il quale liquiderà i trafficanti solo dopo il suo arrivo in Italia, elemento che differisce da quanto accade lungo la rotta del Mediterraneo Centrale. Alla domanda sul come siano stati avvertiti del suo arrivo risponde: «Loro lo sanno».

Racconta di essere partito da Bodrum, l’antica Alicarnasso. Nell’antichità era sede della tomba di Mausolo, una delle sette meraviglie del mondo, oggi è un porto turistico frequentato dalla borghesia turca. Dell’organizzazione ricorda «un uomo grande e grosso» che ha requisito i cellulari e distrutto le Sim card, minacciando che altrimenti sarebbero stati scoperti dalle polizie europee. Prima di andarsene, ha ordinato a tutti di restare sottocoperta e di muoversi il meno possibile per evitare di ribaltarsi. Le stanze erano tre, ognuna delle quali con venti persone. Per i primi tre giorni, i migranti non hanno potuto mangiare. Qualunque imbarcazione in quelle condizioni, è da considerare a rischio naufragio. A dirlo è la logica prima che i regolamenti internazionali. Ed è la regola, lungo la rotta dalla Turchia alla Calabria.

Scafisti VS trafficanti

Dalla politica da anni viene riproposta una soluzione che finora non ha risolto nulla: la caccia allo scafista. La parola indica chi guida le imbarcazioni, ritenuti parte dell’organizzazione criminale anche quando si tratta di un migrante che ha accettato il compito solo per pagare di meno. Durante il Consiglio dei ministri organizzato a Cutro il 9 marzo, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha annunciato il decreto legge per «sconfiggere la tratta di esseri umani responsabile di questa tragedia». Per gli scafisti, il decreto introduce il reato di «morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina», con pene dai dieci ai 30 anni. «Il reato – ha aggiunto la presidente del Consiglio in conferenza stampa – verrà perseguito dall’Italia anche se commesso fuori dai confini nazionali».

Nelle parole della prima ministra non c’è distinzione tra trafficanti, cioè coloro che organizzano le traversate, e scafisti; né tra tratta di persone, reato previsto per chi forza o induce una persona a entrare in Italia illegalmente per sfruttarla, e traffico di esseri umani, che invece riguarda l’organizzazione dell’ingresso in Italia di persone prive di documenti. Per quest’ultima fattispecie, le pene per lo scafista sono già inquadrate dall’articolo 12 del Testo Unico Immigrazione. E già oggi nelle carceri di Locri e di Reggio Calabria sono diversi i detenuti, alcuni già condannati, per questo reato, circostanza che però non ha interrotto le partenze.

I presunti scafisti sono giovani, quasi tutti sotto i 30 anni. Al 29 di novembre del 2022, al Tribunale di Locri, competente per territorio nella zona con il maggior numero degli approdi di questa rotta, risultano 29 procedimenti penali svolti nel corso dell’anno con l’accusa di traffico di esseri umani. Di questi procedimenti, oltre il 65% è arrivato a sentenza con giudizio immediato, direttissimo o abbreviato e solo il 31% risulta in fase di indagini preliminari.

Dal 2009, le aggravanti previste per gli scafisti sono severe e di immediata verifica, come il favoreggiamento qualificato che scatta se le persone introdotte illegalmente in Italia grazie alla condotta dell’imputato siano più di cinque, e fanno sì che le pene e le multe comminate siano davvero significative: nei casi più estremi si arriva fino a 15 anni di carcere e un milione di euro di sanzione.

Secondo i dati della Procura le persone fermate o arrestate con questa accusa nella Locride sono in totale 61 nel 2022. La loro provenienza nel 2022 – a causa anche della guerra in Ucraina – è molto cambiata rispetto agli anni scorsi: vengono soprattutto dalla Turchia (34%) e dall’Egitto (21%), mentre in passato la nazionalità più frequente era ucraina. Nonostante i tentativi di coinvolgere le Direzioni distrettuali antimafia allo scopo di allargare le indagini e individuare i vertici delle organizzazioni, finora i risultati sono stati pochi.

Come è cambiata la migrazione dalla Turchia verso i Paesi europei

L’incremento delle partenze dalla Turchia si può spiegare per un concatenarsi di diversi fattori, spiega Luigi Achilli, ricercatore che insegna all’istituto universitario europeo (Eui) di Firenze che in questi anni ha lavorato sulla comparazione tra i traffici lungo il confine USA-Messico e lungo le rotte del Mediterraneo. «È come quando tappi una falla e l’acqua sgorga più forte da un’altra parte spiega. Negli scorsi anni, soprattutto quelli successivi alle crisi siriane, molti sono rimasti bloccati in Turchia e così ha ripreso vigore soprattutto la rotta del Mediterraneo centrale. Però in Libia le dinamiche sono cambiate e il business della migrazione si è trasformato in un business della detenzione». E la Libia è diventata un nuovo tappo.

Invece oggi in Turchia i controlli delle autorità di frontiera sono meno severi, soprattutto a seguito del terremoto dello scorso 6 febbraio, che ha provocato la morte di almeno 49 mila persone. Non ci sono grossi gruppi criminali, ma piccole organizzazioni che agiscono con il sostegno almeno di alcune autorità locali.

Nel 2016, l’Unione europea ha stretto un accordo con la Turchia affinché bloccasse i migranti sul proprio territorio, impedendo loro di prendere il mare. Finora la Grecia è stata nettamente la meta principale. Per ogni richiedente asilo respinto in Turchia dalle isole greche, l’accordo prevede anche che i Paesi europei avrebbero preso un richiedente asilo residente in Turchia. L’accordo ha portato fino al 2020 sei miliardi di euro nelle casse turche, a cui si è aggiunta la promessa di altri tre miliardi nel triennio 2021-2023. Evidentemente in questo momento è sufficiente per sigillare la rotta verso la Grecia, ma non verso l’Italia.

«Per le organizzazioni criminali – aggiunge Achilli – questo significa puntare sul viaggio che dalle coste sud orientali della Turchia arriva in Italia bypassando la Grecia, trovando qualcuno disposto a guidare le barche».
La guerra senza quartiere agli scafisti difficilmente sarà un deterrente per le partenze: «I trafficanti esistono e continueranno a esistere finché ci sarà criminalizzazione dell’immigrazione continua Achilli. Per la mia esperienza non bisogna guardare a sistemi verticistici e a grosse organizzazioni internazionali, ma a piccoli gruppi locali spesso composti a loro volta da migranti». Per quanto possano girare molti soldi in queste attività, invece che concentrarsi in organizzazioni verticistiche, si perdono in mille rivoli. «Per la criminalità organizzata – conclude – resta più conveniente il viaggio di una barca piena di cocaina invece che di persone povere».

Fame d’aria. La storia di Moussa, dall’Iran

A settembre è arrivata in Calabria una famiglia scappata dall’Iran senza documenti. Vista l’importanza della cifra sborsata in contanti per imbarcarsi in Turchia, i suoi componenti – padre, madre e due figli – pensavano di viaggiare senza troppe difficoltà tutti e quattro insieme. Invece la realtà li ha sopraffatti. Melina, Baar, Moussa e Agar sono arrivati a Roccella Jonica, in provincia di Reggio Calabria su una barca omologata per dieci persone. Moussa, 24 anni, è già ingegnere nel suo Paese. Ha seguito le orme del padre e con lui è partito sperando di costruire un nuovo futuro in Europa. Il sogno è quello di una nuova vita in Francia, magari, come tanti connazionali in fuga.

Il suo respiro però si è fermato prima. Moussa è morto per raggiungere l’Europa, destino comune a quasi 25 mila persone che secondo il rapporto Ismu dal 2014 al 25 settembre 2022 sono morti o risultano dispersi nelle acque del Mediterraneo. Nelle pause di un pianto disperato, la madre ha raccontato che il ragazzo nella barca soffriva di mancanza d’aria già da ore, che insieme al marito ha chiesto molte volte di poter far spostare il ragazzo sopra coperta, ma che non gli è stato concesso. Dice che gli è morto fra le braccia, che ha dovuto persino lottare per difendere il suo corpo senza vita e non farlo buttare in mare. Arrivati a Roccella, ha deciso insieme al marito di testimoniare contro i tre presunti scafisti fermati dalle forze dell’ordine. Hanno detto di volerlo fare perché «a nessun figlio può essere impedito di raggiungere la terra desiderata».

Gli operatori della Croce Rossa locale, con l’avallo della Prefettura e l’intercessione della parrocchia, hanno fatto il possibile per affidarli alle cure di una famiglia del posto. I tre cittadini iraniani hanno dunque lasciato il Porto dopo poche ore e in poco più di due settimane hanno ricevuto l’ok per celebrare i funerali per Moussa nella chiesa di Roccella, dove il padre ha letto in farsi alcuni versi prima della benedizione della salma, prima che un imam amico di famiglia, in diretta telefonica, pronunciasse la preghiera di affidamento a Dio prevista dal Corano.

La coppia durante il funerale è rimasta tutto il tempo accanto al feretro, nel centro della navata principale della chiesa, non smettendo quasi mai di guardare la foto del figlio sulla bara, un’immagine nella quale Moussa è ritratto con un maglione giallo e un cappotto blu, sorridente. I cittadini di Roccella hanno messo insieme i fondi per l’inumazione e la sepoltura e Padre Francesco Carlino celebrando la funzione ha inteso ringraziarli dicendo: «Perdonaci Moussa, perdonaci perché la tua morte interroga le nostre coscienze assopite e ci dice di gridare ai nostri politici che è giunta l’ora di mettere fine a questo quotidiano massacro di vite».

Il centro nevralgico della prima accoglienza calabrese

Il centro nevralgico dei soccorsi e della prima accoglienza in Calabria è il Porto turistico delle Grazie di Roccella Jonica, in provincia di Reggio Calabria. Qui i 1.200 migranti arrivati nel 2020 sono diventati più di cinquemila nel 2021. Numeri già superati nei soli primi sei mesi del 2022 e in crescita esponenziale dalla seconda metà di agosto in poi, quando in questa struttura di prima accoglienza hanno cominciato a susseguirsi arrivi con un media registrata, nel periodo di punta fra il 18 agosto e il 22 settembre, di 50 persone ogni 24 ore. Il bilancio finale nel 2022 di Roccella Jonica si è attestato su 86 eventi di sbarco e 6.994 persone accolte. Se si tiene conto dei circa 20 sbarchi autonomi registrati, per la Questura si tratta di circa novemila persone arrivate in un anno in un paese che conta soli seimila abitanti.

L’attività di questo centro è stata avviata dalla prefettura di Reggio Calabria il 25 ottobre del 2021 e si avvale della presenza di diversi enti, istituzioni, organizzazioni e realtà associative. Innanzitutto, la Croce Rossa Italiana con il Comitato Riviera dei Gelsomini, che ha allestito una tensostruttura che può ospitare circa 150 persone e che impiega giornalmente dodici fra operatori e volontari. Si occupano della distribuzione di generi di prima necessità e di conforto al momento dell’arrivo al porto delle persone migranti, alla distribuzione dei kit igiene e vestiario forniti dalla Prefettura e a tutte le attività di supporto per gli accolti fino al loro successivo trasferimento in altre strutture.

La rotta dalla Turchia alla Calabria

La via marittima che collega la Turchia alla Calabria è solo l’ultimo tratto di diverse rotte migratorie le quali convergono nel Paese che collega Europa e Asia. Nel grafico, le nazionalità dei 6.994 migranti arrivati a Roccella Jonica (RC) nel 2022

Tutti i giorni è presente anche il personale di Medici Senza Frontiere, ong che opera un’equipe composta da un medico, un infermiere e due mediatori culturali. È anche presente personale dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (UNHCR) e sono operative anche due unità Save The Children con compiti di supporto psicosociale, di informativa legale e ascolto. Sono presenti anche due professionisti dell’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo (EUAA, la vecchia EASO, ndr) con il compito di supporto nell’attività di informativa sull’asilo. Per quanto riguarda la sicurezza, le forze dell’ordine assicurano un presidio interforze h24 con tre equipaggi e, infine, con un team di undici unità, c’è anche Frontex, l’agenzia europea per il pattugliamento dei confini, a cui spetta il compito di intervistare i migranti, scambiare informazioni con le forze di polizia ed essere di supporto alla Polizia scientifica. Sono loro, con le difficoltà dettate dalla delicatezza dell’intervento e dalla scarsità di risorse a disposizione, a presidiare questa scalcinata porta d’Europa.

La giornata tipo al Porto delle Grazie inizia molto presto. Il primo approdo annunciato conta una cinquantina di persone da accogliere. Pochi uomini, di più le donne e tanti bambini, alcuni davvero piccolissimi. Una motovedetta della Guardia di finanza li ha intercettati a bordo di un’imbarcazione alla deriva subito dopo il sorgere del sole, a largo di Riace e appena dentro il limite delle acque territoriali. Li scorta in modo lento e vigile lungo la linea della costa, davanti a turisti e bagnanti che hanno imparato a considerare la scena come parte del paesaggio. Intanto al porto si mette in moto il meccanismo per l’accoglienza che, anche se ormai rodato, comporta sempre qualche nervosismo.

Le forze dell’ordine pattugliano entrambi i lati dello spazio adibito alla prima accoglienza. Lo spazio è off-limits per i giornalisti, ma sulle sue criticità si esprime chiara una relazione ispettiva del Siulp (Sindacato italiano unitario lavoratori polizia) di Reggio Calabria datata 5 luglio 2022. Un documento che parla di clima «assolutamente invivibile durante il periodo estivo, tanto da costringere i migranti a trascorrere la notte all’esterno», in una piccola pineta «attigua alle ridicole mura perimetrali, assolutamente inefficaci ed inefficienti, che favoriscono l’allontanamento arbitrario degli ospiti». 

Migranti radunati sulla banchina del Porto di Roccella Jonica – Foto: Carmen Baffi

Il rapporto, corredato di foto, mette in fila le numerose falle rilevate dal sindacato di polizia all’interno della tensostruttura e racconta anche di un tentativo di fuga di massa esacerbato dalle condizioni di invivibilità. «Esasperazione determinata da attese snervanti, da caldo asfissiante e dai ritardi alle operazioni di identificazione a loro volta alimentate dalla farraginosa difficoltà di reperire mediatori culturali. Mediatori che vedono un contratto rinnovato, ma non perfezionato dalla Corte dei conti con parallelo devastante effetto nelle realtà periferiche: costringere i locali utilizzatori di quel servizio – ufficio immigrazioni – a reperire volta per volta, in occasione di sbarchi, interpreti di varie lingue e dialetti e richiedere le necessarie autorizzazioni preventive in Prefettura per “contratti occasionali” di lavoro».

Secondo il Siulp di Reggio Calabria, impattanti sulla normale regolarità del servizio sono anche i miasmi causati dal mancato adeguamento fognario: vengono anche segnalate e puntualmente fotografate buche scavate con le mani per tentativi di fuga favorite dalla scarsa illuminazione, tutto in una forbice tra personale operante e ospiti migranti che si presenta troppo larga, con gli operatori della Polizia di stato e dei Carabinieri (uno ogni circa 15 ospiti, secondo il rapporto) «sottoposti a condizioni di lavoro disumane e indegne, con i colleghi costretti ad una esposizione continua al sole anche per più di 12 ore al giorno».

Negli ultimi mesi si accoda la serie di operazioni ispettive intraprese dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Il lavoro di monitoraggio della struttura ha fatto emergere che come a Lampedusa «si è in procinto di realizzare a Roccella Jonica un punto di crisi sul modello “hotspot”, per il quale sarebbero in corso di esecuzione le attività necessarie» e «una gestione che risponde come di consueto ad una logica emergenziale, informale e scarsamente strutturata, tanto da un punto di vista materiale quanto procedurale, che implica, naturalmente, la contrazione dei diritti delle persone ospitate all’interno della struttura».

Il clima di tensioni e stress è palpabile già al mattino del nostro arrivo, quando gli operatori chiamati a fare le pulizie dopo la notte – a garantire cioè che le panche e le brande occupate dai migranti arrivati la notte prima siano pronte per quelli che stanno arrivando – sollecitano ad alta voce l’aiuto dei mediatori culturali e degli agenti: è un’operazione che va fatta presto e bene, e non può permettersi resistenze. Dopo un po’ di discussioni si procede con i primi aiuti umanitari, le interviste e le foto, si prosegue con i tamponi e le visite mediche. Si impartiscono e ricevono ordini, file di persone esauste si spostano caracollando. Il caldo è davvero asfissiante, e solo la pineta attigua alla struttura riesce a dare qualche cono d’ombra di riparo, che in poco si riempie di colori e di voci.

Poco dopo le due del pomeriggio, approda un’altra imbarcazione: il termometro segna 38 gradi, l’umidità percepita è sfiancante. Il gruppo di nuovi arrivati, stipato su un piccolo veliero con bandiera statunitense, viene scortato fino alla banchina Sud, proprio davanti al tendone allestito dalla Croce Rossa. Qualche ora più tardi, la Guardia costiera scorta un nuovo veliero, poco più che un rottame, intercettato a oltre 70 miglia al largo della costa. Sono passate da poco le 18:00, non c’è stato nemmeno il tempo di ripulire il piazzale dalle coperte termiche e dai beni di prima necessità utilizzati per il gruppo precedente. Questa volta arrivano in 76, in prevalenza siriani, partiti dalla spiaggia di Abdeh, in Libano, un porto anomalo rispetto alla rotta consuetudinaria. Tra loro ci sono una ventina di bambini, tre hanno meno di un anno.

Il sole tramonta ma gli sbarchi non si fermano. Una motovedetta della Guardia di finanza sta trainando l’ennesimo piccolo veliero. Quando i due natanti rientrano, è da poco passata l’una del mattino. Il monoalbero viene svuotato dei suoi passeggeri poco alla volta, lentamente. Le luci sono fioche e riflettono i propri raggi dal mare nero. All’interno e all’esterno dell’imbarcazione i viaggiatori appaiono immobili, stipati letteralmente come tonni. Questa volta sono in 85: tanti adolescenti non accompagnati e diversi anziani che hanno fatto l’ultima parte del viaggio in coperta, viste le temperature più rigide della notte. I più piccoli vengono fuori dalla pancia della barca per ultimi, stretti al collo dei soccorritori, alle 2:30 del mattino.

Fino a notte tarda il piazzale del porto è ancora in piena attività: qui davvero non ci si riposa mai. La segnalazione dell’ennesimo barchino è arrivata dai mezzi aerei che monitorano questa porzione di Mediterraneo. Ad uscire questa volta sarà una pattuglia della Capitaneria. Manca qualche minuto alle tre del mattino, una nuova giornata di questa storia infinita sta per cominciare.

CREDITI

Autori

Carmen Baffi
Vincenzo Imperitura
Alfredo Sprovieri

Editing

Lorenzo Bagnoli

Video

Carmen Baffi

Infografiche & Mappe

Lorenzo Bodrero

Foto di copertina

Migranti in attesa di essere sbarcati al porto di Roccella Jonica
(Carmen Baffi)

La zona grigia dello strascico: il pesce illegale del Mediterraneo nei supermercati europei

La zona grigia dello strascico: il pesce illegale del Mediterraneo nei supermercati europei

Davide Mancini
Sara Manisera
Arianna Poletti

Quando Ahmed Taktak era poco più che un bambino, durante l’estate lasciava Tunisi per dare una mano allo zio, un pescatore artigianale che seguiva il ciclo delle stagioni del pesce. Ahmed percorreva la strada che dalla capitale porta alla città più popolosa del Sud, Sfax. Dal porto dove stazionano grandi navi merci, si imbarcava su un vecchio traghetto, lasciandosi alle spalle fumi, traffico e rumori. Sbarcava nel porticciolo di Sidi Yousef, dove attraccano ancora oggi le navi che trasportano da una costa all’altra i passeggeri diretti sulle isole di Kerkennah e i camion frigo carichi del pescato del giorno.

Un’ora di traghetto separa la città industriale di Sfax da tutt’altro panorama. A Kerkennah, i fumi delle industrie di Sfax in lontananza lasciano spazio a lunghe distese di sabbia che costeggiano palmeti sempre più secchi a causa della salinizzazione dei suoli. Qualche casa squadrata dall’intonaco bianco o ancora in cemento costeggia la strada che porta a Remla, la cittadina principale di quest’arcipelago circondato da acque basse e cristalline. La punta di uno dei due triangoli speculari che lo compongono indica Lampedusa, a soli 120 chilometri di distanza. Meno del tragitto Roma-Napoli.

A collegare le due isole principali, le uniche abitate, c’è un ponte. Sotto la passerella in cemento armato, l’acqua scorre da un lato all’altro secondo l’effetto delle maree, che a Kerkennah è visibile a occhio nudo. Quando, all’ora del tramonto, il mare si ritira, i pescatori si dirigono a raccogliere le nasse. I fondali poco profondi che circondano l’arcipelago, infatti, permettono di praticare tecniche ancestrali di pesca artigianale, «sostenibili e rispettose dei tempi del mare», spiega Ahmed.

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Proprio nel punto in cui le due isole si toccano, Ahmed Taktak possiede una “parcella di mare”. Per evitare conflitti, infatti, le famiglie di Kerkennah si sono divise l’ampia fascia di battigia lungo la costa dell’arcipelago, come fosse un grande campo. A segnare il confine con l’“appezzamento” vicino è una charfiya, ovvero una lunga distesa di foglie di palma piantate una accanto all’altra, all’interno delle quali i pesci restano intrappolati quando la marea si abbassa. Ancora oggi, Ahmed ricostruisce ogni anno la propria charfiya, anche se ormai «non conviene più». E ricorda: «Insieme a mio zio, da ragazzino pescavo tra i venti e i trenta polpi con le mani, solo camminando lungo la riva, ancora prima di salire in barca. Questo mare pullulava di vita, oggi non c’è più niente».

Affascinato dalle immagini colorate che vedeva su Rai 1, l’unico canale oltre alla TV di Stato tunisina disponibile nel Paese, negli anni ‘90 Ahmed tentava fortuna in Italia, seguendo la stessa rotta che oggi ripercorre per andare a pesca. Ma la vita in Europa si è rivelata più ostile del previsto e così, dopo vent’anni e un matrimonio, si è ritrovato al porto di partenza. Oggi solleva le reti come faceva suo zio. Ad aiutarlo, c’è un giovane apprendista che lo accompagna in barca in cambio di qualche dinaro. Le sue braccia forti, però, non sono più necessarie a sorreggere il peso delle reti, sempre più vuote.

Ahmed Taktak mentre installa una rete di tremaglio al tramonto a Kerkennah – Foto: Davide Mancini
Ahmed Taktak mentre installa una rete tremaglio durante i giorni di bassa marea – Foto: Davide Mancini

«Prima che io partissi per l’Italia, questo era il golfo più pescoso del Paese, perché molte specie del Mediterraneo vengono a riprodursi qui. Non lasciamo neanche più ai pesci il tempo di farlo. Peschiamo sempre, giorno e notte, quattro stagioni all’anno», spiega mentre ripulisce le reti dalla plastica e getta in acqua le lische dei pesci di piccola taglia mangiati dal granchio blu, una specie invasiva venuta dal Mar Rosso che i pescatori tunisini, per la sua voracità, hanno ribattezzato Daesh, come viene chiamato in arabo l’autoproclamato Stato islamico. «Non trovo più pesce, trovo solamente granchi. Porto cinquanta chili di Daesh ogni giorno, me ne prendono 20, mi pagano due dinari al chilo (60 centesimi di euro)». Lo stesso granchio viene esportato dalla Tunisia verso l’Asia, il Nord America o l’Australia in scatole di polistirolo. Il prezzo sul mercato internazionale è di 70 dollari al chilo.

Il ricatto dello strascico

Di pesca artigianale – spiega Ahmed Taktak – oggi non si vive più. Accanto alle piccole imbarcazioni in legno che ancora costellano le coste di Kerkennah, sono comparse barche lunghe meno di 10 metri, con motori più grandi, spesso cariche di frigo per il congelato a bordo. Sono registrate come vascelli per pesca artigianale, sfuggendo così alle restrizioni per la pesca industriale. Sul retro, una carrucola arrugginita stretta e lunga viene usata per calare le reti. «Le vedete queste?», fa notare Nagui, 63 anni, uno dei pescatori più esperti che, durante una giornata di tempesta, si aggira per il porto con un caffè in mano, gli stivali di gomma fino alle ginocchia e un turbante verde in testa. «Queste barche praticano la pesca a strascico», spiega, indicando tre imbarcazioni ferme nel porticciolo di Kraten, il villaggio più a Nord di Kerkennah.

La pesca a strascico consiste nel trainare una rete sul fondale, chiamata kiss in arabo, che significa “sacco”. La rete raccoglie tutto ciò che trova, senza distinzione, comprese alghe, specie sottotaglia e specie non commerciabili, distruggendo così l’ecosistema marino, specialmente quando praticata a basse profondità, come nel Golfo di Gabès.

Pescherecci perla pesca a strascico ormeggiati nel porto di Tunisi – Foto: Davide Mancini
Peschereggi per la pesca a strascico ormeggiati nel porto di Bizerte – Foto: Davide Mancini

Qui si trova una delle riserve più importanti del Mediterraneo di posidonia oceanica, una pianta acquatica che contribuisce a evitare l’erosione delle coste, chiamata dai pescatori “il polmone del mare”, e che oggi, strappata dalle reti, rischia di scomparire. Eppure la Tunisia ha messo al bando questa tecnica di pesca a basse profondità con la legge n. 94 del 1994. Ma sono sempre di più i pescatori che si riconvertono allo strascico illegale, mettendosi a servizio di un armatore che agisce in un clima d’impunità, ingranaggio di un sistema più grande: quello della pesca industriale.

La pesca a strascico

Nelle acque del Mediterraneo in cui si applica la legislazione dell’Ue, la pesca a strascico è vietata a meno di tre miglia nautiche dalla costa, o ad un profondità compresa tra zero e 50 metri, e oltre gli 800 metri. È inoltre vietata in habitat sensibili in cui esistono barriere coralline, prati di posidonia e in alcune aree marine protette designate. I fondali marini, una volta scossi dalle reti a strascico, impiegano tra i 7,5 e i 15 anni a recuperare la loro funzione nell’ecosistema marino, come il trattenimento della CO2. La pesca a strascico è la seconda tecnica più utilizzata nell’Unione europea, rappresentando il 32% delle catture di pesce. Ma contribuisce al 93% della pesca accidentale, in quanto è la pesca indiscriminata per eccellenza. Si stima che circa un milione di tonnellate di pesca accidentale (della quale la maggior parte viene rigettata in mare priva di vita) sia causata ogni anno dalla pesca a strascico praticata nell’Unione europea.

«Vent’anni fa, si poteva pescare a traino a una profondità maggiore di 15-20 metri. A praticarlo erano piccole barche artigianali, che uscivano la mattina con il tramaglio. Poi è iniziata la corruzione. Lo strascico dei pescherecci più grandi è entrato nel Golfo di Gabes, a basse profondità, dove c’erano le uova e molto pesce. Così i grandi pescherecci hanno iniziato a competere con i pescatori artigianali che, poco a poco, hanno iniziato anche loro a montare motori più potenti e fare strascico», riassume un commerciante europeo installatosi in Tunisia nel 1998. Nagui, volto del porto di Kraten, non si rassegna: «Siamo una delle ultime località che si oppongono allo strascico illegale, anche se non guadagnamo più da vivere». Il pescatore si ritiene fortunato: con il ricavato della sua pesca, anni fa è riuscito a costruire la casa dove abita ancora oggi.

I più giovani, invece, si ritrovano intrappolati in una sorta di circolo vizioso. A causa della pesca a strascico, unita al riscaldamento del Mediterraneo e all’arrivo di specie invasive come il granchio blu, lungo le coste tunisine pesce, molluschi e crostacei si sono fatti sempre più rari. «Negli anni ‘90, pescavo cinque o sei branzini», continua Ahmed Taktak, mostrando sul cellulare una vecchia foto di decine di spigole argentate accumulate in una cassa. «Oggi sono contento se ne trovo uno, perché riesco a guadagnarci da vivere per qualche giorno». In assenza del pescato sufficiente per sfamare la famiglia, allora, molti pescatori si mettono a servizio degli armatori dello strascico, finendo per contribuire loro stessi alla penuria di fauna marina. «Se il granchio blu ha invaso il Golfo di Gabes è anche perché abbiamo spezzato la catena alimentare. L’unico predatore di questa specie è il polpo, ma non fa in tempo a crescere che già finisce nelle loro reti», conclude Ahmed Taktak.

Il granchio blu

Il Portunus segnis, conosciuto come granchio blu, è una specie nativa dell’oceano Pacifico e Indiano, che si sta espandendo velocemente come specie invasiva nel Mar Mediterraneo. Con l’apertura del Canale di Suez alla fine dell’Ottocento comincia a notarsi la comparsa di questo granchio. Ma è con l’aumento delle temperature del Meditrraneo degli ultimi due decenni che il granchio blu trova un habitat ideale in alcune zone costiere poco profonde, come nel Golfo di Gabes. Questa specie è molto aggressiva e vorace, alimentandosi principalmente di altri crostacei, molluschi e pesci, che spesso sono a loro volta target dell’industria ittica. Negli ultimi anni, il granchio blu ha trovato un forte sbocco commerciale nei mercati asiatici, come in Corea del Sud e in Nord America, anche grazie a sostegni economici statali che hanno promosso la commercializzazione di questa specie per controllarne la proliferazione.

Una cesta di granchi blu in un’azienda esportatrice di Sfax – Foto: Davide Mancini
Foto: Davide Mancini

Un ingranaggio della pesca industriale

Se da una parte l’Unione europea continua ad abbattere i pescherecci italiani, spagnoli e greci in cambio di sovvenzioni nel tentativo di ridurre lo sforzo di pesca nel Mediterraneo e salvaguardare le specie a rischio, dall’altra la domanda del mercato europeo non è diminuita. Nel Paese nordafricano non viene consumata la grande varietà di pesce che si osserva nei mercati all’ingrosso dei porti tunisini: buona parte del pescato, infatti, viene esportato verso l’Ue, Italia in primis con il 42% delle esportazioni totali. «Indirizziamo il pescato secondo i gusti del cliente. In Spagna vendiamo i polpi più grandi, per esempio, mentre in Italia piacciono quelli più piccoli», racconta il direttore di una delle più importanti aziende di esportazione situata nel trafficato porto di Sfax, il più grande del Paese.

È qui che opererebbe la potente lobby dello strascico con barchette kiss, che da anni agisce al di sopra delle leggi in un clima di omertà, raccontano i pescatori di Kerkennah, e confermano altri operatori del settore: «Chi lavora con i kiss? Gli stessi armatori che praticano lo strascico [industriale]. I piccoli lavorano con i grandi!», afferma un esportatore tunisino basato in uno dei porti della costa più a nord, a circa 200 km da Sfax. Ma è nel porto di Sfax – una vera e propria piccola cittadina, con banche, poste, cantieri e supermarket al suo interno – che arriva il pescato del Golfo di Gabès, il mare più pescoso della Tunisia, compreso il pesce in arrivo dalle isole Kerkennah, poi rivenduto nei due grandi mercati all’ingrosso riservati ai commercianti e ai loro referenti: quello del pesce, e quello dei crostacei.

«Ogni mattina, un intermediario si presenta al porto e compra il nostro pesce per pochi dinari al chilo. Spesso non riceviamo nemmeno il pagamento subito, ma dopo che il pescato è stato rivenduto a un intermediario più grande», descrive Nagui, pescatore che ha visto cambiare il porticciolo di Kraten e, anche quando non è in mare, non abbandona mai il suo tipico turbante verde. Per le strade di Kerkennah si vedono sfrecciare camioncini frigo tutti uguali: raccolgono il pesce del giorno nei piccoli porti dell’arcipelago, e poi si imbarcano sul traghetto verso la città di Sfax.

A quel punto il pescato passa di mano in mano, da intermediario più piccolo a intermediario più grande, seguendo uno schema rodato. Arriva poi negli stabilimenti di una manciata di aziende esportatrici che commerciano con i Paesi del Sud dell’Europa, in particolar modo Italia e Spagna. Le principali – Golden Fish, Novogel, Ben Ayed Sea Food e poche altre, rappresentate dall’Utica, l’Unione tunisina dell’industria, del commercio e dell’artigianato – sono aziende tunisine classificate come totalmente esportatrici. Spesso hanno alle spalle capitale europeo e sono direttamente in contatto con i commercianti dall’altra parte del Mediterraneo.

Un granchio blu intrappolato in una rete a tremaglio. Questa specie invasiva è particolarmente dannosa per le reti tradizionali, che vengono danneggiate dalle chele del granchio – Foto: Davide Mancini
Un polipo moscardino trovato nella rete da Ahmed Taktak – Foto: Davide Mancini

A recuperare il pescato esportato, sono una manciata di grossisti alimentari. Citato da diverse aziende tunisine, tra questi c’è la società di distribuzione di prodotti ittici Marr, filiale del gruppo italiano Cremonini, colosso della ristorazione e servizi di catering. Che assicura a IrpiMedia: «I prodotti ittici importati dalla Tunisia rappresentano meno dello 0,2% dell’acquisto di ittico totale, e sono scortati da certificati di cattura emessi dalle autorità competenti e sottoposti ad un programma di verifiche alla ricezione». Marr inoltre specifica che l’azienda ha conseguito la certificazione secondo lo Standard MSC (Marine Stewardship Council), che dovrebbe garantire «la provenienza dei prodotti da zone di pesca gestite nel rispetto degli stock, habitat ed ecosistemi marini».

Il pescato entra così nei magazzini dei maggiori rivenditori italiani. La versione del manager di una delle grandi aziende presenti nel porto di Sfax, che accetta di parlare protetto dall’anonimato, è però molto diversa da quella ufficiale: è difficile verificare che quel pesce sia stato pescato rispettando le norme tunisine e europee. E nemmeno le certificazioni richieste dall’Ue sarebbero una garanzia: «Per vendere nei Paesi dell’Unione europea serve tracciabilità. Qui invece è tutto un teatro. Il sistema di controllo europeo è adatto alle grandi barche da pesca che operano nell’Atlantico, che rientrano con 40 tonnellate di pescato a volta. Io qui vendo un prodotto che mi arriva da 50 piccole barche diverse tutti i giorni, ciascuna con 40, 60 chili di pesce al massimo. E l’Ue chiude gli occhi», accusa dal suo ufficio il direttore dell’azienda. Punta il dito contro amministrazioni corrotte, veterinari inesistenti e mancanza di controlli a bordo e nei porti tunisini.

L’associazione degli imprenditori tunisini Utica, però, smentisce le accuse di pescatori e manager. Contattata da IrpiMedia, l’Utica garantisce che «i pescherecci sono tracciati da apparecchi di sorveglianza di tipo VMS (Vessel Monitoring Systems, un sistema che permette di tracciare le attività dei pescherecci, ndr)», che «hanno tutte le autorizzazioni sanitarie necessarie e il pescato viene controllato da un veterinario al porto». «I centri di spedizione sono egualmente oggetto di un controllo sanitario rigoroso, e si limitano a esportare i prodotti pescati da pescherecci recensiti e regolarmente registrati», fanno sapere.

L’associazione ammette però che «come ovunque, c’è chi prova a sfuggire alle regole. Ma i servizi competenti e le autorità locali perseguono le frodi». Anche il grossista Marr, che commercia il pescato tunisino in Italia, ribadisce: «Al fine di contrastare la pesca illegale, ai fornitori di prodotti ittici viene richiesto di sottoscrivere un accordo specifico di fornitura che prevede il rispetto della legalità in tutte le fasi del processo produttivo secondo le norme FAO, nonché il divieto di commercializzazione dei prodotti derivanti dalla pesca illegale».

L’UE e l’alibi dei controlli

Il sistema dei controlli, però, non sembra funzionare perfettamente come assicurano aziende e grossisti. A garantire, dovrebbe essere la Commissione generale per la pesca nel Mediterraneo (General Fisheries Commission for the Mediterranean, Cgpm), un organo regionale che raggruppa tutti i Paesi che si affaciano sul Mediterraneo e Mar Nero, più l’Unione europea.

Questa commissione ha l’obiettivo di gestire i controlli sugli stock di pesca del Mediterraneo, ma delega il monitoraggio e l’applicazione delle direttive alle autorità degli Stati membri. In Tunisia, quindi, alle autorità tunisine, le stesse che – anche grazie a cospicui finanziamenti italiani, come raccontato da IrpiMedia – pattugliano la rotta migratoria più trafficata del Mediterraneo Centrale.

Ahmed Taktak e il suo aiutante Mohamed si imbarcano per controllare le reti – Foto: Davide Mancini
Ahmed Taktak nella sua “parcella” di mare a Kerkennah – Foto: Davide Mancini

Seduto nel dehors di un caffè decorato con le tipiche piastrelle colorate in ceramica tunisina, Ahmed Taktak attende l’ora del tramonto per andare a recuperare le sue reti. Secondo il pescatore, il Mediterraneo centrale è un buco nero, e la pesca è solo uno dei tanti business informali o di contrabbando che legano la Tunisia alla Libia, all’Italia, alla Spagna, alla Grecia. «Basti pensare alla differenza di prezzo tra il carburante tunisino sovvenzionato e quello europeo…», sospira. In tanti, sull’isola, raccontano che alcuni piccoli pescherecci sarebbero addirittura proprietà di agenti della guardia costiera che dovrebbe controllarli e che, invece, secondo alcuni pescatori, parteciperebbe addirittura alla compra-vendita del pescato.

Nel Paese, eludere i controlli durante la pesca e nei porti sembra tutt’altro che complesso, specialmente nel Golfo di Gabes, dove agisce la lobby dello strascico. A raccontarlo è Abdelmadjid Dabbar, presidente dell’associazione Tunisie Écologie, che da anni, insieme all’ong FishAct, indaga sulla pesca illegale: «Nel 2018 abbiamo contato circa 450 imbarcazioni per lo strascico illegale solo nel governatorato di Sfax. Molte di queste barche non sono neanche registrate, e quasi mai appartengono ai pescatori che ci lavorano». Anche l’assistente di Ahmed Taktak, racconta, ha lavorato su un peschereccio a traino, per poi abbandonare perché «la paga del manovale era troppo misera, le reti cariche troppo pesanti». Il nuovo conteggio di pescherecci kiss, intanto, è salito a 576 negli ultimi due anni, secondo una ricerca svolta dalle organizzazioni FishAct e Environmental Justice Foundation.

A determinare la paga giornaliera di Ahmed, ancora prima del suo capo, è quindi il mercato internazionale dell’export, che sembra non solo tollerare, ma appoggiarsi alla zona grigia della pesca a strascico illegale: grandi quantità di pescato per prezzi bassissimi, in cui si mescolano catture regolari e irregolari. Per il fresco, per esempio, il prezzo si fa con una compravendita al telefono.

«A volte si fa prima della pesca, a volte si fa con l’asta», spiega un intermediario siciliano incontrato a Bizerte, da dove, ogni notte, risponde alle chiamate dei clienti per informarli sul pescato. «Da me arriva un rappresentante che raccoglie il pescato da più barche, e mi fa un prezzo. Io non parlo direttamente con i pescatori, ma con il grande armatore, o con l’intermediario che raccoglie dai piccoli pescatori».

Quando il pescato tunisino lascia il Paese con certificati di cattura spesso falsi o doppi, allora, le garanzie della sua provenienza sono ben poche. Il problema dei certificati di cattura è stato segnalato anche dalla Corte dei conti europea lo scorso settembre. La Corte dei conti sottolinea infatti che le certificazioni cartacee attualmente richieste sono facilmente falsificabili, e che si dovrebbe rendere obbligatorio un sistema digitalizzato comunitario (già esistente, ma non obbligatorio). Inoltre, i singoli Stati membri, non sono tenuti attualmente a confrontare tra loro i certificati di cattura a loro presentati dagli esportatori, perciò un solo certificato può essere usato più volte in diversi Paesi, eludendo i controlli degli enti nazionali responsabili dei i controlli.

Ad ammetterlo è proprio il direttore dell’azienda di esportazione, che confida: «Tutti sanno che anche chi fa strascico nel Golfo di Gabes vende alle aziende esportatrici. In teoria non potrebbero, perché non possiedono la documentazione necessaria per essere in regola. In pratica, però, la ottengono facilmente, perché esiste un traffico di certificazioni rilasciate dai veterinari, che non sono in numero sufficiente per rilasciare certificati al volume attuale di pescato. A quel punto come posso imporre le regole io, se arrivano con le carte e le certificazioni sufficienti per entrare nell’Ue?», si chiede.

In assenza di sufficienti controlli alla fonte, quindi, quali misure adottano i Paesi importatori, come l’Italia? Secondo il rapporto pubblicato da una coalizione di Ong internazionali che prende in esame il numero di certificazioni comunicate alla Commissione europea, si nota che l’Italia ha ricevuto 96.736 certificati di cattura nel periodo 2018-2019 (terza per numero dopo Spagna e Francia). Questi certificati, stando al documento ufficiale analizzato, sono stati tutti verificati dalle autorità italiane, ma solamente in un caso le autorità hanno richiesto di verificare l’attendibilità del documento cartaceo in quanto sospettoso.

L’installazione di una charfia nella “parcella di mare” di Ahmed Taktak – Foto: Davide Mancini
La tecnica di pesca passiva, riconosciuto come bene immateriale dall’UNESCO, sfrutta l’abbassamento della marea per canalizzare e intrappolare pesci e molluschi – Foto: Davide Mancini

A fine febbraio 2023, nel frattempo, la Commissione europea ha tentato di rispondere ai danni dello strascico nel Mediterraneo presentando un pacchetto di misure per fermare la pesca a strascico in aree protette entro il 2030, ma solo in acque europee.

«Chiederemo agli Stati membri di darci una tabella di marcia entro il 2024, crediamo siano tutti consapevoli della necessità di fare progressi sulla pesca sostenibile e la tutela degli ecosistemi, soprattutto nel Mediterraneo», si legge nel loro comunicato. Le misure introdotte dalla Commissione, però, hanno mandato su tutte le furie i pescatori dei Paesi dell’Ue che si affacciano sul Mediterraneo, compresa l’Italia, che puntano il dito contro la concorrenza “sleale” delle flotte dei Paesi a Sud, come la Tunisia. A servirsi dell’esternalizzazione della produzione lì dove i controlli si raggirano più facilmente, però, sarebbero proprio i grossisti europei, in cerca di margini di profitto migliori. In assenza di controlli sufficienti, il prezzo del pescato non tiene conto dei danni ambientali e sociali.

La pesca artigianale contro l’inquinamento

Nel frattempo, alcuni gruppi di pescatori o ex pescatori continuano a battersi per una pesca lenta, sostenibile e garante del futuro di un Mediterraneo già colpito dagli effetti devastanti della crisi climatica. Nella vicina città di Gabès – conosciuta per l’industria dei fosfati che scarica direttamente in mare, ed è responsabile dell’inquinamento del Golfo – un gruppo di pescatori si è auto-organizzato in comitato per opporsi agli armatori dello strascico. Anche a Kerkennah, nel porto di Kraten, sulla punta dell’isola, i membri dell’Associazione locale per lo sviluppo sostenibile e la cultura hanno ridipinto i depositi per le reti e gli affari da pesca con una serie di graffiti contro la pesca a strascico.

Solo in questo porto i pescherecci a traino sono la minoranza: «Noi proviamo a resistere al loro ricatto – racconta Ahmed Souissi, presidente dell’associazione e fiero abitante di Kerkennah che, a differenza di tanti altri giovani della sua generazione, ha deciso di non lasciare l’arcipelago dove è nato. Senza pesce i tunisini partiranno», è il monito di Ahmed Taktak, che conosce bene le difficoltà di chi sbarca in Italia, ma non biasima i giovani che si imbarcano dalle spiagge di un’isola sempre più vuota.

Mentre accende un fuoco per grigliare il pesce tra le palme, il pescatore ricorda le tante battaglie dei pescatori-cittadini di Kerkennah per salvare il fragile ecosistema dell’arcipelago. Delle luci in lontananza illuminano il mare all’orizzonte: non la città sulla costa di fronte, ma due piattaforme petrolifere offshore. «Nel 2016, un incidente in uno degli impianti della compagnia tuniso-britannica Thyna Petroleum Services ha causato una marea nera lungo le coste di Kerkennah. Noi pescatori siamo scesi in piazza a protestare e abbiamo bloccato la sede della compagnia», ricorda.

Secondo il pescatore, i danni di allora sono visibili ancora oggi e, insieme alla pesca a strascico, al riscaldamento delle acque e all’inquinamento del Golfo, il petrolio ha contribuito alla desertificazione dei fondali dell’arcipelago. «Anche se ci fermassimo adesso, ci vorrebbero decenni per recuperare la fauna persa, fauna che lo strascico continua a sradicare. Questi banditi del mare non distruggono solo la fauna, ma anche l’habitat. Come possiamo pensare che un domani ci sarà ancora pesce nel Mediterraneo se non ci saranno più le condizioni necessarie per la vita?», si chiede l’attivista Abdelmajid Dabbar di Tunisie Écologie, che ogni anno, durante le sue missioni in mare aperto, constata i danni di «politiche irresponsabili e inadeguate all’urgenza della situazione».

Come lui, Nagui, l’anziano pescatore del porto di Kraten, non ha dubbi: «La natura va rispettata o si vendica sempre», sospira mentre sorseggia il caffè freddo sotto il cielo plumbeo, di fronte al mare in tempesta che trascina a riva la plastica depositata sui fondali e fa dondolare le barche ferme al molo. Nagui, Ahmed e gli altri pescatori, abitanti di questo arcipelago un tempo incontaminato osservano impensieriti il Mediterraneo. Chi conosce il mare, come loro, sa che il fragile equilibrio tra uomo e natura si è rotto: «Ed è anche per questo, perché non c’è futuro su queste isole, che i nostri giovani partono».

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Autori

Davide Mancini
Sara Manisera
Arianna Poletti

Editing

Giulio Rubino

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Davide Mancini

Con il sostegno di

La fortezza Europa colpisce ancora

27 Febbraio 2023 | di Antonella Mautone

Si torna a parlare di migrazioni. Il naufragio di Steccato di Cutro, in Calabria, con 62 morti accertati e molte decine di dispersi, è solo l’ultimo terribile episodio che ha riportato il tema al centro del dibattito pubblico e politico, in Italia come in Europa. I dati degli arrivi irregolari alle frontiere europee, dopo il forte rallentamento imposto dalla pandemia, sono tornati a salire nel 2022 e, pur restando ben lontani da quelli della cosiddetta crisi dei rifugiati del 2015-2016, hanno riportato l’argomento al più alto tavolo dei leader dell’Unione europea. La gestione dei flussi migratori, infatti, è stata uno dei punti principali di discussione del Consiglio europeo straordinario che si è tenuto lo scorso 9 febbraio a Bruxelles.

L’organismo riunisce i capi di stato e di governo dei 27 stati Ue più la presidente della Commissione Ue Ursula Von Der Leyen e il presidente del Consiglio stesso, Charles Michel, e ha il compito di orientare le politiche comunitarie. Il vertice di febbraio si è concluso con la decisione di «mobilitare immediatamente ingenti fondi e mezzi dell’Ue per sostenere gli Stati membri nel rafforzamento delle capacità e delle infrastrutture di protezione delle frontiere». «L’Unione europea – proseguono le conclusioni – rafforzerà la sua azione tesa a prevenire le partenze irregolari e la perdita di vite umane», si pone l’obiettivo di «ridurre la pressione sulle frontiere dell’Ue e sulle capacità di accoglienza», di «lottare contro i trafficanti» e «aumentare i rimpatri».

La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, durante il Consiglio europeo del 9 febbraio 2023 – Foto: NurPhoto/Getty

Nelle conclusioni del Consiglio europeo c’è anche un passaggio in cui vengono riconosciute «le specificità delle frontiere marittime». Stando alle ricostruzioni offerte dalla presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni nella conferenza stampa post vertice, questa parte di testo rappresenterebbe un successo per l’Italia. Un’ipotesi potrebbe essere che Meloni abbia chiesto maggiori sforzi per contenere gli arrivi dal Mediterraneo centrale e, contestualmente, abbia cercato di raccogliere consenso intorno al Piano Mattei, ovvero la trasformazione dell’Italia in un polo di ricezione per tutta l’Europa del gas proveniente dai Paesi africani mediterranei.

Insieme all’obiettivo energetico, il Piano Mattei intende rafforzare il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo per limitare i flussi migratori, contrastare la crescita del terrorismo e dare opportunità economiche ai Paesi africani. È la rielaborazione del 2023 dello slogan “aiutiamoli a casa loro”, che ha innervato le politiche europee dal summit europeo sulla migrazione di La Valletta, nel 2015, a cui parteciparono anche i Paesi africani.

Le cicliche promesse di sviluppo

Correva l’anno 2008 quando, all’ombra di una tenda a Bengasi, l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi siglava con il leader libico Gheddafi il trattato di «amicizia, partenariato e cooperazione» tra Italia e Libia. L’accordo, il cui valore avrebbe dovuto essere 200 milioni di dollari, segnava la collaborazione tra i due Paesi nel contrasto dell’immigrazione irregolare, attraverso il pattugliamento congiunto delle coste libiche. Allora fu il ministro degli interni Roberto Maroni a mettere sul tavolo il progetto di un’autostrada costiera che avrebbe attraversato tutta la Libia, dall’Egitto alla Tunisia; oggi promesse simili rivivono attraverso progetti di cooperazione come il Piano Mattei.

Ormai è sempre più esplicito il meccanismo di condizionalità degli aiuti europei, ovvero il fatto che la cooperazione con la sponda sud del Mediterraneo dipende dall’impegno di bloccare i flussi delle partenze. Questa strategia politica ha ormai fatto scuola. Eppure 15 anni dopo il Trattato di amicizia di Bengasi, Gheddafi è morto, dell’autostrada non c’è traccia, gli sbarchi proseguono. E quella che doveva essere una mossa escogitata sia per bloccare l’arrivo dei migranti via mare, sia per lasciare una minima traccia di influenza italiana nel Paese, sembra essere fallita.

La questione aperta delle Ong

Infine, tra i tanti temi che il documento finale del Consiglio europeo affronta, c’è anche quello delle operazioni di salvataggio. Sottolinea infatti «la necessità di una cooperazione rafforzata in ordine alle attività di ricerca e soccorso». Da questo punto di vista, l’Italia si è mossa in autonomia, cercando di fissare uno standard al quale anche i colleghi europei dovranno adeguarsi. Il 15 febbraio, infatti, la Camera ha approvato il Decreto Ong, voluto dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, capo di gabinetto di Matteo Salvini quando il leader della Lega era al vertice del Viminale. Il decreto afferma che una volta effettuato un salvataggio in mare ogni imbarcazione è tenuta a richiedere un porto di sbarco al Centro di coordinamento marittimo (Mrcc) e raggiungerlo nell’immediato, evitando perciò di effettuare altre operazioni di soccorso.

Aggiunge poi che «alle organizzazioni è richiesto anche di fornire informazioni dettagliate sull’operazione condotta» e soprattutto «informare le persone a bordo della possibilità di richiedere la protezione internazionale e, in caso di interesse, raccogliere i dati rilevanti da mettere a disposizione delle autorità». Non è piaciuto al Consiglio d’Europa (Coe), la principale organizzazione che si occupa di diritti umani in Europa, che tuttavia non è un organo dell’Unione europea. In una lettera firmata dalla commissaria Dunja Mijatovic due settimane prima dell’approvazione, si chiedeva al governo di prendere in considerazione delle modifiche al decreto «per assicurare che il testo sia pienamente conforme agli obblighi del Paese in materia di diritti umani e di diritto internazionale».

Non è andata così. Anzi, il decreto ha già sortito i primi effetti: il 17 febbraio la Capitaneria di porto di Ancona ha contestato alla nave Geo Barents dell’organizzazione Medici senza frontiere di non aver diffuso tutte le informazioni del Vdr (Voyage Data Recorder), una sorta di scatola nera che registra gli spostamenti delle imbarcazioni. Geo Barents, che fa base ad Augusta, avrebbe dovuto ripartire il 24 febbraio ma è stata raggiunta da un fermo amministrativo della durata di 20 giorni: non potrà lasciare il porto.

Il braccio di ferro tra Governo Meloni e ong s’inserisce all’interno di un nuovo clima da “emergenza sbarchi” sul quale insiste l’esecutivo: in soli tre mesi, è la tesi del Governo, è stato bloccato l’arrivo di 21 mila migranti da Libia e Tunisia. Piantedosi presenterà questi numeri agli altri ministri dell’Interno dei Paesi membri Ue convocati al Consiglio “Giustizia e affari interni” previsto giovedì 9 e venerdì 10 marzo. In vista di questo appuntamento, ha senso quindi fare ordine e provare a capire meglio quali sono gli attori che si muovono sulla frontiera marittima italiana, e quindi europea, in particolare con la Libia, dove la strategia di contrasto all’immigrazione irregolare segue le stesse linee guida da anni, a prescindere dal colore dei governi.

Pattugliare il Mediterraneo Centrale

Il 2017 è l’anno della firma del memorandum voluto dal governo di Paolo Gentiloni (dicembre 2016 – giugno 2018) e dal ministro dell’Interno Marco Minniti. Il 2 novembre scorso questi accordi sono stati automaticamente rinnovati per tre anni, così come a gennaio sono state rifinanziate le missioni militari in Libia: anche queste, come vedremo, comportano l’addestramento dei militari libici addetti al controllo delle frontiere del mare, nonostante le polemiche legate all’ormai ampiamente documentata violazione dei diritti umani che ciò comporta. Detto questo, è utile sapere quanti sono i nostri militari in Libia, cosa fanno e, soprattutto, se riescono davvero a controllare le frontiere. Spoiler: le frontiere, siano marittime o terrestri, non sono controllabili. Per diverse ragioni.

In questo momento l’Italia è presente nell’ex colonia con diverse missioni, sia propriamente italiane che sotto il cappello europeo o della bandiera delle Nazioni Unite. Dopo cinque anni, il 31 marzo 2020, si è conclusa la missione navale europea EUnavFor Med Sophia, che quell’anno ha visto fino a 270 unità di personale, un mezzo navale e due mezzi aerei impiegati. Il loro obiettivo era, ed è tuttora, monitorare e fermare il traffico e la tratta di esseri umani, anche mettendo fuori uso imbarcazioni e mezzi usati o sospettati di essere usati dai trafficanti in alto mare, in acque territoriali ed interne o nel territorio dello Stato costiero interessato. Tra gli obiettivi secondari troviamo anche il tentativo di frenare il traffico illegale di armi e di petrolio dalla Libia. 

Nel 2020 questa missione è poi stata sostituita da EUnavFor Med Irini. Entrambe sono state guidate dall’Italia, che aveva offerto di fornire comando e base operativa: «Una proposta accettata dagli altri Stati che partecipano alle operazioni – aveva dichiarato in un’intervista del 2020 l’allora comandante della missione, l’ammiraglio di divisione Fabio Agostini – perché ci è stato riconosciuto un ruolo importante di conoscenza e di trasferimento di esperienza dall’Italia a questa operazione».

Nel 2022, l’Italia ha messo a disposizione di Irini 406 unità di personale e un budget di oltre 40,3 milioni di euro. A differenza di Sophia, Irini ha cambiato l’ordine di priorità dei suoi obiettivi: quelli primari diventano far rispettare l’embargo delle armi imposto alle fazioni libiche e impedire l’esportazione illegale di petrolio dalla Libia, mentre passa in secondo piano tutto ciò che è legato ai flussi migratori. A gennaio 2023, secondo il report mensile prodotto dalla European External Action Service, di fatto, il ministero degli Esteri dell’Unione europea, su 8.376 navi cargo sospette, ne sono state indagate 230 «tramite chiamate radio», mentre cinque sono state abbordate dai militari europei, con il consenso dei comandati, su 425 raggiunte. I porti e i terminal petroliferi tenuti sotto osservazione sono stati 16. Dal 2020, le ispezioni condotte da Irini sono state circa 25 e sono stati tre i carichi trovati ritenuti in violazione dell’embargo

A fine novembre 2022, la Turchia ha denunciato le autorità europee di aver violato «le leggi marittime internazionali» a seguito dell’ispezione di una nave battente la sua bandiera. A ottobre 2022, tuttavia, Irini aveva bloccato un’altra nave turca, la Meerdijk, che aveva a bordo veicoli militari.

Armi ed energia: la presenza turca in Libia

Dall’ottobre 2022, la Turchia ha siglato un accordo triennale con il Governo di unità nazionale (Gun), la forza politica riconosciuta dalle Nazioni Unite che governa a Tripoli. Il patto concede l’esplorazione e lo sfruttamento degli idrocarburi nelle acque libiche e istituisce una zona economica esclusiva libica nel mar Mediterraneo. Questo patto ha provocato nuove tensioni nel Mediterraneo orientale, dove Egitto e Grecia sono sempre più insediate dalle mire espansionistiche di Ankara. L’indotto energetico ricavato sarà trasportato in Turchia tramite gasdotti ed oleodotti già esistenti o di prossima costruzione.

L’accordo rappresenta il ringraziamento del governo di Abdul Hamid Dabeiba per il supporto ricevuto dalla Turchia durante gli scontri di agosto 2022 con le forze fedeli a Fathi Bashaga, il rivale sostenuto dal governo di Tobruk, nella Libia dell’Est, che alla fine è uscito sconfitto. Nell’ultimo report del gruppo di esperti delle Nazioni Unite, datato maggio 2022, già si indicava come la Turchia fosse attiva nella formazione militare dei libici e come fosse stata protagonista di violazioni dell’embargo all’esportazione di armamenti in Libia. Le ispezioni di Irini hanno confermato il coinvolgimento di Ankara, accrescendo ulteriormente le tensioni con Onu e Unione europea.

Dai dati pubblicati dal Consiglio europeo, Sophia ha condotto all’arresto di 143 presunti trafficanti, alla distruzione di 545 navi e alla formazione di 477 guardacoste libici. Tuttavia è stata ritenuta da alcuni Paesi membri non meglio identificati un “fattore d’attrazione” per i migranti, ricorda l’Alto rappresentante agli affari esteri dell’Unione europea Josep Borrell nel discorso per l’estensione del mandato di Irini. Accuse che in quell’occasione Borrell ha rimandato al mittente, perché prive di fondamento. Eppure il timore che la missione sia un incentivo alle partenze è molto presente nei documenti europei.

Il Comitato politico e di sicurezza, ovvero l’organismo composto dagli ambasciatori degli Stati membri con base a Bruxelles presieduto dai rappresentanti del servizio europeo per l’azione esterna, nel documento con cui sigla la proroga della missione fino al 31 marzo 2023 scrive che Irini va riconfermata ogni quattro mesi «a meno che lo schieramento dei mezzi marittimi dell’operazione non produca sulla migrazione un effetto di attrazione». Per evitare ogni rischio, l’obiettivo dei Paesi membri è che siano i libici stessi a gestire gli interventi. Per questo Irini è impegnata anche nella formazione di guardacoste e militari della marina di Tripoli.

Mare sicuro. Ma per chi?

Oltre a Irini, l’Italia è impegnata anche in un’altra missione di pattugliamento dei mari solcati dai migranti. Il Dispositivo aeronavale nazionale approntato per la sorveglianza e la sicurezza dei confini nazionali nell’area del Mediterraneo centrale, noto come Mare Sicuro, è una missione che dal 2015 ha lo scopo di «prevenire e contrastare il terrorismo», di sorvegliare e proteggere le piattaforme petrolifere collocate nelle acque internazionali e le unità navali nazionali impegnate in operazioni di ricerca e soccorso, e di contrastare i traffici illeciti. Dal 2017 contribuisce all’attività di addestramento dei militari libici anche con una missione bilaterale di supporto della Marina libica. Una delle navi impegnate in questa missione è ormeggiata ciclicamente al porto di Tripoli, dove svolge compiti di supporto alla marina militare libica anche nell’ambito del progetto europeo Support to Integrated Border and Migration Management in Libya (Sibmmil).

Per approfondire

Come l’Italia ha costruito le forze marittime della Libia

Il Grande Muro del Mediterraneo è costruito su bandi di cui è difficile tenere traccia. Nel complesso, l’esternalizzazione è costata oltre un miliardo. E i risultati non sono soddisfacenti

A inizio 2022, Mare Sicuro è stata prorogata e incrementata (l’unica ad esserlo tra le missioni che operano in Libia) sia nel personale, 774 militari, sia nel costo, 95,4 milioni euro. Ad agosto, l’operazione ha cambiato nome in Mediterraneo Sicuro e la porzione di mare da pattugliare è stato aumentata di circa dodici volte: l’area coperta passa infatti da 160 mila a due milioni di chilometri quadrati circa. Stessi mezzi e stessi obiettivi per una missione che non si occupa solo più della Libia ma anche di diverse crisi come quella tra Grecia e Turchia, sul controllo delle aree energetiche e sulle isole.

Il corridoio del Mediterraneo centrale, per altro, resta caldo non solo per gli sbarchi: a febbraio, l’Ansa riporta che quattro pescherecci hanno rischiato di essere sequestrati da una motovedetta libica a 80 miglia da Tripoli. Per evitare il sequestro è dovuta intervenire la nave militare San Marco.

Gli stivali sul terreno in Libia

L’Italia partecipa con altre missioni alla formazione e all’assistenza delle sue guardie di frontiera, anche attraverso operazioni che apparentemente si occupano di tutt’altro. Nel 2018 l’operazione Ippocrate, nata per curare le forze libiche che combattevano l’Isis a Sirte, è stata accorpata alla missione MIASIT, Missione bilaterale di assistenza e supporto in Libia, (400 unità di personale, 69 mezzi navali, due mezzi aerei, finanziata con 40.218.658 euro di cui 17.000.000 esigibili nel 2023). Quest’ultima, anche se predisposta per prestare assistenza sanitaria (nel corso della missione sono state effettuate oltre 25 mila visite ambulatoriali/specialistiche presso l’ospedale civile e il Field Hospital di Misurata) e organizzare corsi di sminamento, dal 2018 supporta la Guardia costiera libica, ripristinando i mezzi aerei e gli aeroporti, compiti che originariamente appartenevano al dispositivo aeronavale nazionale Mare Sicuro. Compiti simili anche per il personale del Corpo della Guardia di finanza, che nel decreto Missioni, oltre ad essere addetti all’addestramento della Guardia costiera libica, devono «fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione clandestina e della tratta di esseri umani».

L’altra faccia della medaglia

I numeri delle missioni che supportano la cosiddetta Guardia costiera libica vanno letti sempre insieme a quelli delle persone che questa organizzazione ha il compito di fermare: migranti di tante nazionalità diverse, ma anche gli stessi cittadini libici, se si considera che, in un Paese di sette milioni di abitanti, l’Onu stima che almeno 800 mila necessitano di assistenza umanitaria. Le sofferenze di queste persone sono l’altra faccia della medaglia delle missioni che abbiamo descritto.

Secondo la ong Mediterranea, dal 2017 all’11 ottobre 2022 sono state 99.630 le donne, gli uomini e i bambini intercettati in mare e riportati in Libia, verso abusi e violenze. Ad attendere queste persone nel Paese africano, infatti, nella maggior parte dei casi, ci sono campi di detenzione dove per mesi, se non per anni, vengono picchiate e torturate, finché qualcuno non paga il loro riscatto.

E poi c’è chi, invece, non viene salvato, nemmeno dalla Guardia costiera libica. A metà febbraio, un barcone partito da Qasr Al Kayer con a bordo circa 80 persone è naufragato facendo 73 vittime. Secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazione, dall’inizio dell’anno, le morti nel Mediterraneo centrale solo almeno 130.

Foto: Volontari della Croce Rossa e personale della Guardia costiera rimuovono il corpo di uno degli almeno 62 migranti affogati al largo di Crotone il 26 febbraio 2023. Si stima che il barcone rovesciato a causa di una tempesta trasportasse circa 250 persone, 80 delle quali hanno raggiunto la spiaggia a nuoto – Kontrolab/Getty
Editing: Lorenzo Bagnoli, Paolo Riva

L’organizzazione marittima dell’ONU sta facilitando i crimini nel Mediterraneo?

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L’organizzazione marittima dell’ONU sta facilitando i crimini nel Mediterraneo?
Ian Urbina
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Le decine di migliaia di rifugiati che  attraversano il mar Mediterraneo ogni anno vengono catturati dalla Guardia costiera libica finanziata dall’Unione Europea e mandati in carceri violente dove omicidi, estorsioni e stupri sono frequenti. 

Uno dei motivi per cui la Guardia costiera è diventata così efficace nelle sue attività è dovuto al fatto che nel 2018 la Libia ha ampliato la zona di pattugliamento fino al mare aperto. Ricevendo il riconoscimento delle Nazioni Unite di una zona di ricerca e salvataggio in mare (Search and rescue region, Srr, in inglese, suddivisa in diverse zone Sar, Search and rescue, ndr), le autorità libiche hanno esteso la loro giurisdizione a quasi cento miglia al largo della costa libica in acque internazionali, a metà strada verso le coste italiane. 

La conseguenza del rafforzamento della Srr è che alle navi di soccorso umanitario come quelle di Medici Senza Frontiere viene impedito di raggiungere per primi i migranti per recuperarli e trasportarli in porti sicuri, che si trovano di solito in Europa. Al contrario, con l’aiuto di aerei e droni finanziati dall’Unione Europea che volano sopra le imbarcazioni dei migranti, la Guardia costiera libica li raggiunge più velocemente, riportandoli nelle prigioni in Libia, il paese dal quale i migranti sono appena fuggiti. 

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Mappa che indica le dimensioni della zona di soccorso della Libia riconosciuta dall’Imo – Foto: https://eu-libya.info/ 

L’IMO all’Europarlamento

Parlamentari e sostenitori del diritto umanitario stanno ponendo nuove richieste al Parlamento europeo e all’Organizzazione marittima internazionale (IMO), l’agenzia marittima delle Nazioni Unite che ha formalmente riconosciuto la zona di ricerca e salvataggio libica. I critici ritengono che la zona Sar libica violi la relativa convenzione delle Nazioni Unite e abbia aggravato le violazioni dei diritti umani e la violazione della legge di non respingimento (il principio di non-refoulement, ndr), secondo cui è vietato dirottare chi fugge in zone di guerra in altri luoghi dove è probabile che siano torturate o lese in altro modo 

Un gruppo di 18 europarlamentari ha scritto nel maggio 2021 al Parlamento europeo: «C’è l’intenzione di sospendere la registrazione della “zona di ricerca e salvataggio” libica presso l’Organizzazione marittima internazionale, in quanto non è conforme né alle norme internazionali né agli obblighi dei singoli Stati di rispettare il diritto d’asilo e il diritto del mare?» (qui la risposta del 2 agosto 2021).

Secondo la convenzione SAR delle Nazioni Unite del 1979, gli Stati possono istituire le proprie zone di ricerca e salvataggio in mare, a patto che siano rispettati certi obblighi. Per creare o espandere una zona di ricerca e salvataggio, un paese deve prima «stabilire centri di coordinamento dei soccorsi (Maritime rescue coordination center, Mrcc è la sigla in inglese più diffusa per identificarli, ndr)» che siano «operativi 24 ore su 24 e con personale costantemente addestrato con una conoscenza a scopi lavorativi della lingua inglese». Le persone salvate in quelle zone devono essere riportate in un porto sicuro, secondo le regole della convenzione. 

La definizione di “porto sicuro”
L’inglese place of safety (POS) di cui si parla ogni volta che un’ong aspetta di poter accedere a un porto, in italiano si traduce “porto sicuro”. Si tratta del luogo nel quale si concludono le operazioni di salvataggio di un gruppo di naufraghi. Affinché sia considerato sicuro, un porto deve poter garantire oltre ai servizi fondamentali (cibo, acqua, cure mediche, riparo) deve poter garantire di poter raggiungere la destinazione finale. Per i migranti, quindi, deve essere un porto nel quale è permesso presentare una richiesta di asilo. Secondo diversi studiosi, questa definizione si deduce “in negativo”, visto che non è mai chiarita in questo modo nelle convenzioni dell’IMO.

Il mistero del Centro di coordinamento dei salvataggi in mare in Libia

Quando l’IMO ha riconosciuto la zona di ricerca e salvataggio della Libia nel 2018, questi obblighi non sono però stati rispettati. Secondo le Nazioni Unite, la Libia non aveva un proprio centro di coordinamento dei salvataggi in mare, con personale 24 ore su 24 che parlasse inglese e i porti del paese non erano (e non sono ancora) classificati come “porti sicuri”. Quando i migranti vengono “salvati” o arrestati nella zona di ricerca e salvataggio della Libia, la Guardia costiera li porta nelle prigioni dove l’ONU ha affermato che avvengono «crimini contro l’umanità». 

L’IMO non è stata affatto l’artefice principale dell’ampliamento della zona di ricerca e salvataggio della Libia. Questa responsabilità grava sulle spalle dell’UE e dell’Italia, le quali hanno spinto per la sua istituzione, pur mettendo in chiaro che i requisiti fondamentali della convenzione non sono stati soddisfatti. 

Nel 2016, la Guardia Costiera italiana è stata invitata dalla Commissione europea a sostenere le autorità libiche nell’identificare e dichiarare questa zona. In una presentazione del 2017 all’IMO, l’Italia ha chiarito che la Libia non aveva un centro di coordinamento dei soccorsi, promettendo invece che ne sarebbe stato creato uno. Gli anni passarono e tale centro non fu costruito. Nel 2021, rispondendo alle domande del Parlamento europeo, la Commissione europea ha continuato a parlare delle sue aspirazioni di costruire un «centro di coordinamento dei soccorsi funzionale», e un rapporto interno dell’UE risalente a gennaio 2022 chiarisce che il centro non è ancora in grado di soddisfare i suoi obblighi fondamentali. 

Prima che l’IMO lo annunciasse, non esisteva ufficialmente una zona di ricerca e salvataggio libica. Erano l’Italia e le organizzazioni umanitarie a occuparsi prevalentemente di rintracciare le imbarcazioni dei migranti nel Mar Mediterraneo. Ma la nuova zona di ricerca e salvataggio ha dato alla Guardia costiera libica il potere di ordinare alle navi – che siano mercantili privati o navi di soccorso umanitario – di riportare i rifugiati nel paese da cui sono fuggiti. Questo ha sollevato diverse questioni legali: come si può ordinare alle navi di consegnare i rifugiati in porti considerati non sicuri? Perché l’IMO dovrebbe annunciare una zona che facilita tali violazioni legali e non soddisfa le condizioni della convenzione che l’IMO stessa dovrebbe sostenere? 

«Da una parte c’è la legge e dall’altra le attuali politiche in contraddizione con la legge stessa», ha dichiarato Laura Garel portavoce dell’organizzazione umanitaria SOS Méditerranée.

 Il caso australiano e le risposte dell’IMO

Non è solo nel Mediterraneo che esiste questa contraddizione. In uno studio pubblicato nel 2017, la professoressa Violeta Moreno-Lax, specialista in diritto internazionale delle migrazioni, ha documentato come l’Australia sia costantemente venuta meno agli obblighi della convenzione del 1979 relativa alle zone di ricerca e salvataggio. Lo studio sottolinea come l’Australia abbia militarizzato la sua risposta alla migrazione via mare, concentrandosi sulla «deterrenza, l’intercettazione e il ritorno forzato delle imbarcazioni» invece di condurre «reali missioni di ricerca e salvataggio», permettendo una regolare violazione della convenzione. 

In risposta, l’IMO dice di avere un avere potere minimo o responsabilità minimi per la sanzione di zone di ricerca e salvataggio in mare. Natasha Brown, una portavoce dell’IMO, ha scritto a The Outlaw Ocean Project via e-mail che l’organizzazione «non approva le zone di ricerca e salvataggio» ma semplicemente «diffonde le informazioni». Ha aggiunto che «non c’è nessuna disposizione nella convenzione di ricerca e salvataggio che ci permetta di valutare o approvare le informazioni fornite».

Tuttavia, l’Organizzazione marittima internazionale gioca chiaramente un ruolo nel decidere se annunciare e riconoscere queste zone. Nel dicembre 2017, per esempio, la Libia ha ritirato provvisoriamente la sua domanda iniziale dell’IMO per determinare la sua zona, «dopo un’implicazione dell’IMO che in assenza di un centro di coordinamento dei soccorsi, i requisiti fondamentali per la zona SAR non sarebbero stati soddisfatti», hanno scritto Peter Muller e Peter Smolinski nel Journal of European Public Policy

È stato chiesto se per salvaguardare la propria reputazione e assicurare che la convenzione non sia violata l’IMO esamina qualsiasi informazione che riceve dai paesi per verificare che i criteri della convenzione siano soddisfatti, Brown, la portavoce dell’IMO, ha confermato che la sua organizzazione «chiarisce o conferma i punti tecnici» prima di annunciare formalmente una zona di ricerca e salvataggio. Ha aggiunto che la convenzione dovrebbe essere modificata affinché l’IMO si assuma un ruolo maggiore nella verifica delle informazioni che rilascia.


L’IMO «rimuova» la zona SAR della Libia

In passato, l’IMO si è occupata del fatto che l’organizzazione o le sue regole siano usate in modo da facilitare i crimini. Nel 2015, Koji Sekimizu, l’allora segretario generale dell’IMO, ha chiarito che la sua organizzazione deve aiutare a impedire che i migranti siano inviati in porti considerati non sicuri. Durante una riunione sulla migrazione attraverso il Mediterraneo, ha sottolineato che i governi firmatari erano obbligati a coordinare e cooperare con le navi di soccorso per garantire che le persone salvate in mare fossero riportate in un “porto sicuro”. 

«Questi obblighi si applicano indipendentemente dallo status delle persone in difficoltà in mare, compresi i migranti potenzialmente illegali – ha detto Sekimuzu -. Queste questioni sono chiaramente di competenza dell’Organizzazione marittima internazionale se mettono in discussione la corretta applicazione delle norme internazionali». 

Molti studiosi, avvocati, difensori dei diritti e parlamentari dicono che questo è esattamente ciò che sta accadendo: l’IMO sta permettendo l’impropria «applicazione dei regolamenti internazionali» così come le violazioni del diritto umanitario e marittimo. Si dice che l’IMO abbia l’autorità e il dovere di risolvere il problema cancellando la zona di ricerca e salvataggio libico, il che impedirebbe complicità della Guardia Costiera libica che rivendica una giurisdizione estesa nella consegna illegale dei migranti ai luoghi di abuso. 

«È urgente che l’IMO, come autorità marittima dell’ONU, rimuova la zona di ricerca e salvataggio libica dai registri ufficiali», si legge in una lettera aperta del 2020 firmata da decine di europarlamentari, organizzazioni umanitarie, attivisti, avvocati e accademici. La lettera spiega che l’IMO ha creato un sistema che «è stato usato opportunisticamente per creare un accordo fittizio che permette a diversi Stati, e all’UE, di rinunciare ai propri doveri previsti dal diritto internazionale, dalla legge del mare e dalle convenzioni sui diritti umani». 

La lettera fa riferimento allo status di porto non sicuro della Libia e alle violenze commesse dalla Guardia costiera libica. Descrive anche l’uso della regione Srr della Libia per «criminalizzare» le ong  impegnate in missioni di salvataggio come Medici Senza Frontiere. 

«Poiché crediamo che l’IMO non apprezzi che gli Stati usino le sue procedure in maniera strumentale per minare la legge del mare, la sicurezza marittima, i diritti umani e il diritto internazionale, i sottoscritti chiedono che il riconoscimento formale della zona di ricerca e salvataggio libica sia revocato», si legge. In risposta alla lettera, l’IMO ha scritto che non era «autorizzato a rimuovere o annullare cancellarsi» dalla zona. 

Addestrare o no la Guardia costiera libica?
Ad aprile 2021, rispondendo a un’interrogazione dell’eurodeputata della Lega Susanna Ceccardi in tema di addestramento della Guardia costiera libica, la commissaria agli affari interni Ylva Johansson ha spiegato che «nel periodo 2014-2020, l’UE ha destinato alla Libia circa 700 milioni di EUR, di cui 59 milioni di EUR per aumentare la capacità operativa della guardia costiera libica e dell’amministrazione generale per la sicurezza costiera». «Il sostegno – prosegue la risposta – comprendeva formazione tecnica su argomenti come le competenze in materia di navigazione e diritti umani; ne hanno beneficiato 105 membri dell’amministrazione generale per la sicurezza costiera». 

Secondo Ceccardi, «la Commissione europea finalmente riconosce l’importanza delle operazioni della guardia costiera libica e, quindi, la legittimità delle azioni della stessa». La sua posizione è condivisa all’interno del gruppo parlamentare Identità e Democrazia, mentre altri gruppi parlamentari chiedono di revocare la zona SAR. 

Dal canto suo, la Commissione continua nel suo sostegno economico, nonostante le critiche. A fine marzo la Germania ha deciso di non prendere più parte alle missioni di addestramento dei guardacoste di Tripoli: «Il governo della Germania non può giustificare in questo momento la formazione della Guardia costiera libica da parte dei soldati tedeschi alla luce degli inaccettabili comportamenti mantenuti da alcuni individui della Guardia costiera libica nei confronti di rifugiati e migranti e anche delle organizzazione non governative», ha dichiarato ad Associated Press il ministro degli Esteri Andrea Sasse il 30 marzo. (L.Ba.)

Pressioni sull’IMO

Questa pressione sull’IMO non proviene solo dall’esterno delle Nazioni Unite. In un rapporto del 2019, l’organizzazione “sorella” dell’IMO, l’Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha invitato l’organizzazione marittima ad assumersi la responsabilità per il suo ruolo nel facilitare le violazioni della Guardia costiera libica. L’IMO «dovrebbe riconsiderare la classificazione della zona di ricerca e salvataggio libica fino a quando la guardia costiera libica non dimostri di essere in grado di condurre operazioni di ricerca e salvataggio senza mettere a rischio la vita e la sicurezza dei migranti», ha scritto l’ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite. 

Dalla creazione della zona di ricerca e salvataggio libica, la Guardia costiera libica è diventata molto più efficace nel catturare i migranti. Secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per la migrazione, nel 2021 sono stati arrestati più di 32.000 migranti che cercavano di attraversare il Mediterraneo, rispetto agli 11.891 arrestati in mare nel 2020. Questi migranti vengono portati a riva e messi in prigioni per migranti, dove si verificano una miriade di abusi. 

«Ci sono video dei campi di concentramento in Libia, i campi di concentramento dei trafficanti», ha detto Papa Francesco in un’intervista televisiva a Che tempo che fa, descrivendo come “criminale” il trattamento dei rifugiati che attraversano il Mediterraneo e chiedendo ai paesi dell’UE di accettare un numero maggiore di migranti. 

Le conseguenze per le navi commerciali in navigazione nel Mediterraneo centrale

Il riconoscimento da parte dell’IMO della zona di ricerca e salvataggio della Libia crea problemi legali anche agli armatori e agli operatori di navi private. Se il comandante di una nave privata salva i migranti in acque internazionali (come è richiesto dalla legge) e a quel comandante viene poi ordinato dalla guardia costiera libica di riportare quei migranti al porto di Tripoli, il comandante dovrebbe obbedire a questi ordini? 

A causa dell’annuncio dell’IMO della zona di ricerca e salvataggio libica, i comandanti della Guardia costiera libica possono affermare – come fanno abitualmente – di avere una giurisdizione riconosciuta da parte delle Nazioni Unite anche se in teoria i migranti sono già in acque internazionali. Di conseguenza, i comandanti delle navi mercantili pensano di essere legalmente obbligati a obbedire agli ordini della guardia costiera libica di consegnare i migranti. 

Tuttavia, così facendo, questi comandanti di navi mercantili stanno commettendo un crimine. Ciò è stato reso evidente nel 2021 in seguito alla condanna a un anno di carcere per un capitano italiano che ha fatto esattamente come gli era stato detto dalla Guardia costiera libica, riportando i migranti a Tripoli in violazione del diritto umanitario che vieta il non respingimento. Questa situazione si è creata perché la guardia costiera libica ha rivendicato, con la tacita approvazione dell’IMO, un’ampia giurisdizione su gran parte del Mediterraneo. 

L’IMO ha cercato di offrire indicazioni in merito ai comandanti, ma l’organizzazione non è riuscita a risolvere la contraddizione legale che ha contribuito a creare. L’IMO avverte i comandanti delle navi del loro obbligo legale di salvare i migranti in mare, dicendo loro di obbedire agli ordini dati dal paese, come quelli della Libia, che rivendicano la giurisdizione su una zona di ricerca e salvataggio. Ma lo stesso documento dell’IMO dice anche che i migranti devono essere portati in un “porto sicuro” ufficialmente riconosciuto. Secondo le affermazioni dell’ONU, la Libia non lo è. 

I paesi che fanno parte della convenzione possono proporre emendamenti per evitare ulteriori abusi dei regolamenti e perché l’IMO abbia un ruolo più chiaro nel verificare le informazioni che pubblica legate alle zone di ricerca e salvataggio. Questi emendamenti sono a loro volta votati nelle conferenze convocate dall’IMO. È richiesta una maggioranza qualificata con due terzi dei paesi votanti per la loro adozione. 

E c’è un precedente. Nel suo studio del 2017, Moreno-Lax constata che «a seguito di ripetuti episodi di non conformità agli obblighi di ricerca e salvataggio», la convenzione di ricerca e salvataggio è stata modificata per rendere più chiari gli obblighi dei paesi di effettuare salvataggi. 

«L’IMO deve opporsi all’abuso delle procedure da parte degli Stati per scopi strumentali, per il bene del sistema giuridico internazionale nel suo complesso –  spiega Yasha Maccanico, un ricercatore di Statewatch, un’organizzazione che monitora le libertà civili in Europa -. La zona di ricerca e salvataggio libica si prende gioco del diritto del mare». 

(L’articolo in inglese è stato pubblicato da The Outlaw Ocean Project a febbraio 2022)

CREDITI

Autori

Ian Urbina
Joe Galvin

Editing

Lorenzo Bagnoli

Traduzione

Allison Vernetti

Foto di copertina

In partnership con

The Outlaw Ocean Project

Il centro di Al-Mabani è chiuso, ma le milizie sono ancora impunite in Libia

21 Aprile 2022 | di Ian Urbina, Joe Galvin

C’è una nuova rivalità politica in Libia: il Governo di unità nazionale della Libia (Gun) presieduto da Abdulhamid Dabeiba è sfidato a Est da Fathi Bashagha, primo ministro nominato dalla Camera dei rappresentanti di Tobruk, che ne pretende le dimissioni. Dopo le fallite elezioni dello scorso dicembre, la tensione torna a salire, con le milizie che sostengono l’uno e l’altro leader che stanno riguadagnando terreno. La situazione è diventata talmente complessa che la compagnia petrolifera Noc ha dovuto dichiarare lo stop dei principali impianti il 19 aprile. Alla crisi politica fa il paio la solita situazione umanitaria: l’Organizzazione internazionale delle migrazione ha dichiarato che dall’inizio del 2022 sono stati riportati in Libia dalla Guardia costiera nazionale oltre 4mila migranti (di cui 122 minori), con 95 morti annegati e 381 dispersi. The Outlaw Ocean Project, nel pezzo che segue – pubblicato in inglese a fine febbraio – spiega cosa è successo a uno dei principali centri di detenzione del Paese. Una chiusura che preannunciava l’instabilità tra le milizie. 

 

SSenza nessuna spiegazione da parte del governo, senza fanfare da parte dei gruppi d’aiuto, né copertura da parte di media nazionali o stranieri, la prigione per migranti più conosciuta della Libia, Al-Mabani, è stata ufficialmente chiusa il 13 gennaio 2022.
Durante la sua apertura, per circa 12 mesi, la prigione è stata l’emblema dell’incomprensibile natura del sistema di detenzione della Libia. Stupri, estorsioni e omicidi sono stati frequenti (e ben documentati) all’interno della prigione.
La prigione di Al-Mabani era importante per il mondo non solo perché l’ONU ha dichiarato che al suo interno stavano avvenendo crimini contro l’umanità, ma anche perché la sua esistenza e crescita sono il risultato delle politiche dell’Unione Europea volte a impedire ai migranti di attraversare il Mediterraneo e raggiungere le coste europee.
Dal punto di vista giornalistico parlando, la chiusura di Al-Mabani potrebbe sembrare un risultato. Un team di giornalisti ha denunciato gli abusi subiti nella prigione e il governo ha immediatamente chiuso quel posto. Ma la storia più importante è meno incoraggiante.

Le milizie restano impunite

La chiusura silenziosa di Al-Mabani mostra la natura sempre mutevole dell’incarcerazione in Libia e come tale transitorietà renda quasi impossibile la protezione dei detenuti. I centri di detenzione per migranti aprono, chiudono e riaprono da una settimana all’altra. Gli spostamenti dei detenuti non sono tracciabili: 3mila persone vengono prelevate da una prigione e, misteriosamente, solo 2500 di loro scendono dall’autobus che li trasporta all’altra. Gli operatori umanitari hanno bisogno di mesi per avere i permessi per visitare le prigioni come Al-Mabani — solo per ricominciare i negoziati da capo quando i detenuti vengono spostati in una prigione appena creata. La conseguenza: le milizie possono, sicure di essere impunite, far sparire, torturare e detenere i rifugiati per un tempo indeterminato.

La chiusura di Al-Mabani mostra anche come funzionano effettivamente il potere e la gestione della società in Libia; ciò che determina il modo in cui i detenuti vengono trattati, dove vengono trattenuti, per quanto tempo e se vengono rilasciati ha meno a che fare con la legge o gli imperativi umanitari e più con l’appoggio economico e i pagamenti.

Perché Al-Mabani è stata chiusa: una guerra tra milizie

Probabilmente Al-Mabani non è stata chiusa perché i giornalisti internazionali hanno rivelato che le guardie al suo interno hanno commesso crimini, come l’omicidio di Aliou Candé, oltre a estorsioni e torture di molti altri migranti. Probabilmente Al-Mabani è stata chiusa a seguito di una lotta politica tra due uomini in lizza per gestire la Direzione per il contrasto all’immigrazione clandestina (DCIM, organismo sotto il controllo del Ministero dell’interno libico), che gestisce il flusso di migranti catturati. La detenzione dei migranti in Libia è un grande business e per i detenuti tutto ha un prezzo: protezione, cibo, medicine. Il più costoso di tutti: la libertà.
Quando il direttore di Al-Mabani, il Generale Al-Mabrouk Abdel-Hafiz ha perso il suo posto di comando al DCIM, la prigione – gestita dalla milizia che predilige- è andata in rovina. Il giorno dopo Al-Mabrouk ha perso il lavoro e Al-Mabani ha pubblicato il suo ultimo post su Facebook. Quando il nuovo direttore Mohammed al-Khoja ha preso il controllo al DCIM, il lucrativo flusso dei migranti prigionieri è stato reindirizzato alla prigione di Al-Sikka. Questa struttura era stata precedentemente gestita dallo stesso Al-Khoja. Una portavoce delle Nazioni Unite ha confermato che molti dei detenuti di Al-Mabani sono stati trasferiti ad Al-Sikka. E il bottino va al vincitore.

Mohammed al-Khoja, al centro, con il ministro degli esteri libico Najla Mangoush a gennaio – Foto: Twitter / pbs.twimg.com

La chiusura di Al-Mabani fa anche parte di una più ampia spinta del governo libico di spostare i centri di detenzione ufficiali fuori da Tripoli. Le fughe da parte dei detenuti sono molto più difficili se la prigione di trova nel bel mezzo del nulla. Anche le pressioni da parte dei gruppi di aiuto e dei giornalisti sono meno probabili dato che il governo limita fortemente i movimenti al di fuori della capitale. 

Cosa succedeva all’interno del centro di detenzione

Aperta all’inizio del 2021, Al-Mabani, che in arabo significa “gli edifici”, era nota per la sua brutalità. Nessun giornalista è mai entrato nella struttura, ma i migranti che sono fuggiti hanno raccontato che cosa succedeva al suo interno, a volte anche fornendo filmati girati con i telefonini. La violenza ha raggiunto il suo apice all’interno di Al-Mabani a ottobre durante una sparatoria di massa sui migranti in fuga. L’episodio è avvenuto pochi giorni dopo che le autorità avevano radunato e detenuto arbitrariamente circa 5 mila migranti di Gargaresh, una baraccopoli dove abitano nelle vicinanze. Federico Soda, direttore in Libia dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, ha affermato: «Alcuni dei nostri collaboratori che hanno assistito all’incidente descrivono i migranti feriti che giacciono a terra in una pozza di sangue». Sei persone sono state uccise, altre due dozzine sono state ferite. 

Lo scorso dicembre, The Outlaw Ocean Project ha pubblicato un’inchiesta su Al-Mabani e sul più ampio sistema carcerario ombra che l’UE ha contribuito a creare (qui la traduzione su IrpiMedia). L’articolo ha raccontato la storia di Aliou Candé, un rifugiato climatico della Guinea-Bissau, che è stato arrestato dalla guardia costiera libica finanziata dall’UE nel Mediterraneo, rimandato ad Al-Mabani e infine ucciso dalle sue guardie. 

Questo reportage ha sicuramente giocato un ruolo nella chiusura di Al-Mabani, ma i suoi contenuti più importanti riguardano il modo in cui il sostegno economico europeo passa per governo libico, come questo finanziamento produca crimini contro l’umanità e come l’UE continui a sostenere economicamente questi abusi attraverso il suo sostegno alla Guardia Costiera libica.

Lo schema è chiaro: le milizie gestiscono i centri di detenzione finché possono, poi questi vengono chiusi quando gli intermediari del potere – le milizie reggenti – cambiano oppure quando i media se ne occupano troppo. Per esempio, la prigione di Al-Mabani è stata creata solo per prelevare i detenuti da un’altra prigione notoriamente violenta, Tajoura, dopo che questa aveva iniziato ad attirare troppa attenzione. È stata bombardata nel 2019, e gli investigatori hanno rivelato che tra i migranti uccisi c’erano alcuni che erano stati costretti a svolgere opere militari come l’assemblaggio di armi. «Le chiusure dei singoli centri o la centralizzazione della centri detentivi dei migranti servono a poco per combattere l’abuso sistematico di rifugiati e migranti, evidenziando la necessità di sradicare gli abusi del sistema di prigionia nel suo complesso», ha scritto Amnesty in un rapporto del 2021.

Cosa si dice nelle istituzioni europee del sostegno alla Libia

L’UE è stata lenta ad assumersi le responsabilità del suo ruolo. A gennaio, The Outlaw Ocean Project ha presentato i dettagli della sua indagine alla Commissione per i diritti umani del Parlamento europeo, e ha delineato l’ampio sostegno dell’UE all’apparato di controllo dell’immigrazione in Libia. I rappresentanti della Commissione europea si sono opposti alla nostra descrizione della crisi. «Non stiamo finanziando la guerra contro i migranti – ha detto Rosamaria Gili, direttore per la Libia del Servizio europeo per l’azione esterna -. Stiamo cercando di instillare una cultura dei diritti umani», ha spiegato.

Eppure, solo una settimana dopo, Henrike Trautmann, un rappresentante della Commissione europea, ha detto ai legislatori che l’UE stava per fornire altre cinque navi alla Guardia Costiera libica per rafforzare la sua capacità di intercettare i migranti in alto mare. 

Più navi significa più arresti. Nel 2021, oltre 32mila migranti sono stati arrestati dalla Guardia Costiera libica e riportati nelle prigioni libiche per migranti. Con il sostegno aggiuntivo dell’UE, è probabile che quel numero aumenterà nel 2022. «Sappiamo che il contesto libico è tutt’altro che ottimale per tutto questo – ha ammesso Trautmann -. Pensiamo che sia pur sempre meglio continuare a sostenere questo che lasciarli al loro destino».

Foto di copertina: Palizzolo/Getty
Traduzione: Allison Vernetti
Editing: Lorenzo Bagnoli
In partnership con: The Outlaw Ocean Project