Da Operazione Sophia a Irini, anatomia delle missioni navali europee

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Da Operazione Sophia a Irini, anatomia delle missioni navali europee

Lorenzo Bagnoli
Migration Newsroom

Non è mai stata davvero una questione di numeri, quanto, piuttosto, della loro percezione. Gli sbarchi dei migranti in partenza dalla Libia sono diventati un problema per le conseguenze che hanno innescato, prima fra tutte l’ascesa delle destre europee. Lo ammette in un’intervista al Guardian Mario Giro, viceministro dell’Interno all’epoca di Marco Minniti. Trattare direttamente con milizie e trafficanti è stato «un errore, punto e basta». «A quel tempo – aggiunge – era chiaro che tutti in Italia e in Europa, a destra e a sinistra, erano ossessionati dalla questione dei migranti. E tutti volevano una soluzione rapida e immediata in nome del tentativo di tenere sotto controllo l’opinione pubblica».

Da questo peccato originale nascono le missioni europee lungo il Mediterraneo centrale, i mattoni con cui si è alzato il muro della Fortezza Europa. Dal 2015 in avanti i mandati di queste missioni, che fossero condotti dall’agenzia di pattugliamento delle frontiere Frontex o da coordinamenti delle marine militari europee, sono state variazioni su uno stesso tema: fermare i traffici dalla Libia e «disarticolare» i gruppi criminali che si occupano di traffico di uomini, gasolio e armi.

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Sono ormai nove anni che la Libia è una polveriera. Dal 2011 il Paese è dilaniato da una profonda crisi che negli ultimi dieci mesi ha dato avvio a una guerra per procura, travestita da guerra civile. Da un lato ci sono i sostenitori del Governo di accordo nazionale (Gna) di Fayez al-Serraj, Qatar e Turchia. Dall’altro ci sono Russia, Egitto, Giordania ed Emirati arabi uniti che sostengono il generale Khalifa Haftar e il suo Esercito nazionale libico. Le potenze esterne si contendono le risorse energetiche libiche (gas in primis) e per la sua posizione strategica nello scacchiere mediterraneo.

In questi cinque anni trascorsi dall’inizio delle iniziative europee, il ruolo della Commissione e degli Stati membri è stato sempre più defilato, a causa dei continui fallimenti, sia diplomatici, sia operativi.

«A quel tempo era chiaro che tutti in Italia e in Europa, a destra e a sinistra, erano ossessionati dalla questione dei migranti. E tutti volevano una soluzione rapida e immediata in nome del tentativo di tenere sotto controllo l’opinione pubblica»

Mario Giro

Viceministro dell’Interno all'epoca di Marco Minniti

Il 27 marzo la Commissione europea ha lanciato l’ultimo tentativo per tornare a dire la sua in questo scenario: la nuova operazione di pattugliamento del tratto di mare che separa la Libia da Malta e dall’Italia. Si chiamerà Irini, “pace” in greco. La missione sostituisce Operazione Sophia, il dispositivo militare europeo partito nel 2015 che si è concluso il 31 marzo.

Obiettivo principale di Irini sarà mettere in atto l’embargo delle Nazioni Unite sulla fornitura di armi in Libia: lo stesso che avrebbe dovuto perseguire anche Operazione Sophia.

Il traffico di armi in Libia: il caso Bana

Questa nuova missione però non parte sotto i migliori auspici. Infatti nonostante il 19 gennaio di quest’anno il vertice di Berlino abbia rinnovato l’embargo, solo cinque giorni dopo una nave carica di armamenti turchi è arrivata in Libia. Lo ha dimostrato un’importante inchiesta di Bbc Africa Eye condotta da Benjamin Stick, tra i collaboratori del collettivo Euarms di cui IrpiMedia fa parte, insieme ai suoi colleghi.

La Bana, così si chiama l’imbarcazione, era scortata da due fregate della marina militare turca ed era ufficialmente diretta in Tunisia. Secondo le accuse della Dda di Genova, ultimo porto in cui la nave ha fatto scalo ed è stata successivamente sequestrata, il carico di armamenti è stato effettivamente scaricato al porto di Tripoli. Sempre a Genova, il 19 febbraio 2020, il comandante della Bana Jouseff Tartiussi, 55 anni, libanese, è stato arrestato con l’accusa di traffico di armi. Secondo stralci dell’inchiesta riportati dal Secolo XIX, a bordo del suo cargo c’erano almeno dieci agenti turchi, a conferma del coordinamento dell’operazione con Ankara.

Il tragitto della nave Bana dal 3 gennaio al 1 febbraio 2020 in cui è evidenziato il lasso di tempo in cui il trasponder viene disattivato al largo della Libia / IrpiMedia

La Bana, che fino al 2019 si chiamava Sham I, era finita già nelle indagini del Panel di esperti delle Nazioni Unite sulla Libia per un carico di 300 pick up Toyota e Landcruiser antiproiettili arrivati nel porto di Tobruk, Libia orientale, il 16 gennaio del 2017. Anche questi mezzi sono classificati come armamenti militari, il cui commercio in Libia è vietato dall’embargo dell’Onu. Quel carico è stato consegnato agli alleati del generale Khalifa Haftar, il nemico dell’ultimo “cliente” della Bana, il Gna di Tripoli: un segno di come gli schieramenti cambiano velocemente in Libia.

Nonostante il cambio di nome, armatore dell’imbarcazione già all’epoca era Med Wave Shipping Sa, il cui indirizzo è a Beirut, ma la sede operativa, secondo il Panel dell’Onu è ad Amman. Nel 2015 la nave è finita sotto sanzioni del Dipartimento del Tesoro americano, perché il proprietario del tempo, Merhi Ali Abou Merhi, è un imprenditore libanese ritenuto dagli Stati Uniti un finanziatore di Hezbollah.

I fallimenti di Operazione Sophia

Dalla sua creazione, l’Operazione Sophia ha cambiato più volte il suo mandato. All’inizio, il suo scopo principale era fermare i trafficanti di uomini. Lo ricorda lo stesso ufficio stampa in un comunicato a seguito di un salvataggio avvenuto nell’ottobre 2015, all’avvio di quella che le marine europee definivano «la fase due della missione»: «L’operazione navale europea nel Mediterraneo contro contrabbandieri e trafficanti di uomini chiamata Eunavfor Med operazione Sophia è stata lanciata il 22 giugno 2015 con l’obiettivo principale di arrestare i trafficanti e quindi prevenire la perdita di vite umane».

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Quest’ultimo aspetto si è totalmente perso con l’Operazione Irini ed è sempre stato accidentale anche all’interno di Operazione Sophia. Il contesto politico europeo è stato sempre ostile ai salvataggi: già la prima missione militare del Mediterraneo, Mare Nostrum, a conduzione solo italiana, era stata portata a conclusione da un lato per i costi e dall’altro perché ritenuta un pull factor, un fattore di attrazione per i migranti. L’argomento segnerà in modo costante il dibattito sulla presenza in mare delle Ong in particolare a partire dal 2015.

Anche senza considerare i salvataggi nel suo mandato, il giudizio su Sophia da parte dei governi europei è stato molto duro, in particolare da parte di Londra. La Camera dei Lord inglese l’ha definita una missione fallita. «Giudicata in base al mandato – si legge nell’introduzione – la missione navale europea, Operazione Sophia, ha fallito il raggiungimento del suo obiettivo di “contribuire a smantellare il modello di business dei trafficanti di esseri umani e dei contrabbandieri nel Mediterraneo centrale meridionale”».

Nel tentativo di risultare più efficiente e venire incontro alle esigenze della società petrolifera nazionale libica, uno dei pochi motori economici del Paese, Operazione Sophia negli anni seguenti, fino alla conclusione del 2018, ha cercato di concentrarsi sul contrasto ai trafficanti di gasolio. Anche in questo caso, però, i risultati non sono stati all’altezza. Basti pensare che a Zawiya, uno dei centri del contrabbando, i trafficanti indossano anche i panni della Guardia costiera libica.

L’ultima evoluzione è stata a marzo 2019 quando, su proposta dell’allora ministro dell’Interno italiano Matteo Salvini, Operazione Sophia è stata privata dei suoi mezzi navali per il timore che i migranti potessero essere portati in Europa, Italia prima di tutti. Questa situazione surreale – una missione navale senza natanti – ha rafforzato l’impiego di droni e aerei per sorvolare le acque libiche. La presenza in mare dei mezzi europei è stata sostituita dalla Guardia costiera libica.

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L’appoggio della Guardia costiera libica

Finora le ricostruzioni giornalistiche hanno sempre puntano il dito contro l’Italia, Paese europeo che per primo ha cominciato la collaborazione con i libici per realizzare il centro di coordinamento dei salvataggi di Tripoli. In realtà, però, la strategia è europea. Lo rivela un’inchiesta del 12 marzo pubblicata dal Guardian e prodotta da Migration newsroom, collettivo di giornalisti di cui fa parte anche IrpiMedia.

Per sorvegliare efficacemente la propria zona di competenza infatti, la Guardia costiera libica è comunque dipendente dai mezzi aerei europei

Il 26 marzo 2019, durante una giornata di scarsa visibilità in mare, Seagull 75, un aereo di Operazione Sophia, nota due gommoni in difficoltà, sgonfi e stracarichi di persone a bordo. Come sempre accade in queste circostanze, chi fa l’avvistamento deve coordinarsi con un Mrcc, i centri di coordinamento delle operazioni di salvataggio, affinché l’imbarcazione più vicina possa prestare soccorso nei tempi più rapidi possibili. Ogni Mrcc, in base agli accordi con l’International maritime organization (Imo), struttura sovranazionale delle Nazioni unite che si occupa di diritto marittimo, ha una zona di competenza definita Srr, Search and rescue region. Gli Mrcc che si spartiscono la rotta del Mediterraneo centrale sono quello di Roma, quello di Malta e dal suo riconoscimento nel giugno 2018 anche quello di Tripoli. Dipende in che Srr ricade l’evento. In alcuni casi, ovviamente, i confini marittimi delle regioni si mescolano.
Il problema delle operazioni di salvataggio coordinate dal Mrcc di Tripoli è che si concludono con un ritorno in Libia e conseguente rientro nei centri di detenzione libici, dove è ormai evidente la violazione dei diritti dei migranti.

«Sono a nove miglia nautiche dalla vostra prua», comunica Seagull 75 a una motovedetta della Guardia costiera libica. «I radar non funzionano – replicano dalla motovedetta – se state sopra la barca, vi seguiamo». Seagull 75 esegue. «Non vi vediamo provate voi a cercare le nostre luci», aggiungono. Un minuto dopo: « Virate a sinistra di circa 10 gradi. È a circa tre miglia nautiche a prua». Il carburante è agli sgoccioli, l’aereo deve fare ritorno alla base. «Guardia costiera libica, ti contatteremo tramite Fhq (Force headquarter, centro di coordinamento degli assetti navali, a bordo della nave principale della missione, detta flagship, ndr), passo». Prima di chiudere, la motovedetta libica chiede a Seagull 75 di confermare la posizione, visto il malfunzionamento del radar: «Tre-quattro-zero-tre nord, zero-uno-quattro-tre-uno» chiede la guardia costiera. «Confermo», chiude Seagull 75. Secondo quanto è stato possibile ricostruire dai giornalisti, le coordinate a cui si trova il gommone lo indicano a Nord della Srr libica: 34°03’Nord, 014°31′ Est.

La comunicazione intercorsa tra l’aeromobile Seagull in capo all’Operazione Sofia dell’Unione Europea e la Guarda costiera libica il 26 marzo 2019 durante i soccorsi prestati a due gommoni carichi di migranti nel Mediterraneo centrale.

La motovedetta libica recupererà i migranti a bordo del gommone e li riporterà poi a terra, in Libia, un Paese che non è considerato dalle agenzie Onu «porto sicuro». Solo nel 2020, è successo almeno a 1.700 persone (dati dell’Organizzazione mondiale delle migrazioni di febbraio). Molti di loro, torneranno nuovamente a ingrossare le file dei detenuti nei centri (almeno 5mila, secondo le ultime stime del direttorato libico che li gestisce), i luoghi dove secondo qualunque organizzazione internazionale ci sono continue violazioni dei diritti umani.

Il coinvolgimento dei vertici di Frontex

L’assistenza europea alla Guardia costiera libica rischia quindi di configurarsi come “respingimento per procura”, violazione dell’articolo 33 della Convenzione di Ginevra: «Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche». Scegliere di finanziare i guardacoste libici ha delle ovvie conseguenze sia di natura politica, sia di natura giuridica.

Lo sanno gli stessi vertici di Frontex, l’agenzia europea che si occupa del pattugliamento dei confini. «Lo scambio diretto di informazioni operative con l’Mrcc in Libia in merito a casi di ricerca e salvataggio può innescare interventi della guardia costiera libica. – scrive il 22 febbraio 2019 il direttore esecutivo dell’agenzia Fabrice Leggeri in una lettera destinata al Direttorato generale per gli affari interni e le migrazioni (Dg Home) della Commissione europea – La nascita di una guardia costiera libica è finanziata, come sapete, dall’Unione Europea. Tuttavia, la Commissione e in generale le istituzioni potrebbero trovarsi di fronte a questioni di natura politica a seguito degli scambi operativi di informazioni relativi alla Sar (zona di ricerca e salvataggio, ndr)».

La funzionaria a cui Leggeri si riferisce, spiega l’articolo del Guardian, è Paraskevi Michou, il funzionario di grado più alto che si occupa di immigrazione.

La lettera del direttore esecutivo dell’agenzia Frontex, Fabrice Leggeri, al Direttorato generale per gli affari interni e le migrazioni (Dg Home) della Commissione europea
La lettera di risposta del Direttorato generale per gli affari interni e le migrazioni (Dg Home) a Frontex
Scegliere di finanziare i guardacoste libici ha delle ovvie conseguenze sia di natura politica, sia di natura giuridica

La risposta di Michou perviene a Frontex un mese dopo. Cerca di rassicurare il direttore dell’agenzia e osserva: «[Molti] dei recenti avvistamenti di migranti nella Srr libica sono stati fatti da velivoli [di Operazione Sophia] e sono stati notificati direttamente al centro di salvataggio libico responsabile della propria area». La collaborazione sembra avallata a livello politico. Il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna, il ministero degli Esteri della Commissione, Peter Stano sottolinea ai colleghi del Guardian che Operazione Sophia «non ha il diritto di esercitare alcun controllo e autorità sulla Guardia costiera libica e sulle unità o sul personale della sua marina».

La Commissione europea cerca di rilanciare la sua presenza nel Mediterraneo centrale, nella speranza di poter giocare un ruolo per la pacificazione della Libia. La situazione è paradossale: l’Europa non rispetta il diritto internazionale e dall’altro non riesce nemmeno a ricoprire un ruolo davvero di primo piano come pacificatore dell’area. Così suona come una doppia sconfitta: sia sul piano etico, sia su quello strategico.

L’articolo del Guardian è stato scritto da Daniel Howden, Apostolis Fotiadis e Zach Campbell, membri del consorzio collaborativo Migration Newsroom. L’inchiesta del 12 marzo è stata pubblicata anche da Mediapart (con Tomas Statius) ed El Diario (con Pol Pareja).

Migration Newsroom è un consorzio di giornalisti, di cui fa parte anche IrpiMedia, che si occupa di immigrazione. Il progetto è coordinato da Lighthouse reports.

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Autori

Lorenzo Bagnoli
Migration Newsroom

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Giulio Rubino

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Lungo la rotta: storie di traffici, geopolitica e migranti

Lungo la rotta: storie di traffici, geopolitica e migranti

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L‘Italia è il Paese europeo più esposto al fenomeno dell’immigrazione irregolare e, di conseguenza, al suo contrasto. I provvedimenti italiani hanno modellato l’approccio europeo, introducendo strategie antimafia e collaborazioni tra autorità europee e libiche per catturare i trafficanti di uomini. Su carta, è l’obiettivo numero uno dell’azione europea. In termini di condanne, però, nonostante gli sforzi, i risultati sono ancora scarsi: a finire in carcere, di solito, sono gli “scafisti”, i migranti che guidano i barconi, e altri membri di poca importanza. Mai, invece, i vertici delle varie organizzazioni.

 Dalla caduta di Gheddafi, nell’ottobre del 2011, in Libia si è formata una nuova classe dirigente criminale, che ha costruito il proprio potere economico e d’intimidazione sul contrabbando di uomini e gasolio. Alcune delle milizie coinvolte controllano l’ovest del Paese, vicino al confine con la Tunisia: da qui partono i migranti e qui ha sede il più importante impianto petrolifero di Eni nel Paese, a Mellitah.

Quest’area, la Tripolitania, dal 2016, è stata più vicina al Governo di accordo nazionale (Gna), formazione sostenuta dall’Onu, a cui si oppone il generale dell’Esercito nazionale libico Khalifa Haftar, la cui roccaforte storica è in Cirenaica, est della Libia. Gna e Enl sono i principali attori del conflitto civile che sta consumando il Paese da anni.

Il naufragio da cui tutto ebbe inizio

Accadde il 3 ottobre del 2013: un barcone stracarico di persone si ribaltò a largo di Lampedusa. I morti accertati furono 366. Fu il primo naufragio di queste dimensioni in acque italiane, una data spartiacque. La comunità cattolica scoprì la «vergogna», sussurrata con rabbia da Papa Francesco nel microfono. La politica italiana, dopo i balbettii iniziali, riuscì a lanciare la prima e unica missione umanitaria condotta dalla Marina militare fino ad oggi: Mare Nostrum. E l’opinione pubblica scoprì i trafficanti di uomini. Accusato di essere il mandante di quella strage, il criminale dietro il viaggio della morte, è un etiope, Ermias Ghermay, dal giugno 2018 sotto sanzioni delle Nazioni Unite.

In questo contesto così frammentato, il Governo italiano, con il supporto dell’Unione europea e della sua agenzia di pattugliamento dei confini Frontex, ha formato ed equipaggiato la Guardia costiera libica. Lo scopo: fermare i trafficanti di uomini e gasolio. Il problema, però, è che le stesse milizie formate dagli italiani sono quelle che comandano il contrabbando, in particolare nella città di Zawiya.

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La mafia di Zawiya

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Il gruppo che detiene il controllo del traffico di migranti e gasolio nella città di Zawiya agisce come un’organizzazione mafiosa e gode di importanti appoggi nel mondo politico libico

Sulla rotta mortale del Mediterraneo centrale

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Le rotte e i costi delle migrazioni

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Lorenzo Bagnoli
Carmen Baffi
Lorenzo Bodrero
Vincenzo Imperitura
Migration Newsroom
Alfredo Sprovieri
Ian Urbina

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Lorenzo Bodrero

Qual è il ruolo dell’Italia nelle operazioni della guardia costiera libica?

13 Novembre 2019 | di Lorenzo Bagnoli

Abdallah Toumia è il volto più noto della guardia costiera libica. Ammiraglio, una vita in marina – ha cominciato ai tempi di Gheddafi –, chi lo conosce dice che non c’è niente da ridire sulla sua professionalità. È lui che ha firmato il Memorandum of understanding del 23 agosto 2016 con la forza europea Eunavfor Med, dove si stabiliva che la missione chiamata Operazione Sophia si occupasse di formare i militari e i guardacoste libici.

È lui che, vestito con un tradizionale caftano viola, ha risposto alle domande dei giornalisti italiani nel giugno 2018, durante una conferenza organizzata dalla guardia costiera italiana a Roma sul progetto di costruire un centro di coordinamento per il soccorso marittimo a Tripoli: il Libyan maritime rescue coordination center (Lmrcc). Il primo passo era ottenere il riconoscimento di una zona di ricerca e soccorso (Sar) sotto l’autorità libica entro la quale la marina del paese avesse il compito di coordinare le operazioni di salvataggio. L’area designata si spinge fino circa a 130 miglia a nord del golfo della Sirte.

Servitore dello stato con un curriculum rispettabile, Toumia sembra l’uomo giusto per rappresentare i guardacoste libici all’estero, durante i summit con i loro omologhi europei. Dalle missioni Onu all’operazione Sophia, dall’Italia agli altri paesi e agenzie europee: tutti sostengono ufficialmente la necessità di dotare la Libia di un centro per gestire i suoi 1780 chilometri di costa. Tuttavia, come ha fatto notare al parlamento europeo il deputato spagnolo Juan Fernando López Aguilar – presidente della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (Libe) – «bisogna definire la Libia per quello che è: non un porto sicuro, non un luogo sicuro per le operazioni di sbarco».

A dispetto di questo, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite riconosce di risoluzione in risoluzione il miglioramento delle capacità d’intervento della guardia costiera libica, se non altro per i circa 40mila recuperi di migranti in mare avvenuti negli ultimi tre anni. «Il nostro governo è impegnato a salvare le vite dei migranti e rispettare i diritti umani», ha spiegato Toumia a Repubblica a margine dell’incontro romano. I crimini commessi dai suoi uomini, dice, sono solo «voci» dei mezzi di informazione, falsità.

Per ora la flotta libica dispone di (almeno) sei mezzi forniti dall’Italia, due motovedette di classe Corrubia e quattro classe 500 (ne erano previste dieci). Ma il numero delle imbarcazioni è destinato ad aumentare velocemente: il 4 novembre 2019, in occasione del 57° anniversario della sua fondazione, la marina di Tripoli ha festeggiato con la consegna di altre dieci motovedette dall’Italia (dalle foto postate sui social se ne vedono chiaramente sei). Obiettivo: fare di Tripoli una marina del tutto indipendente. Ma è davvero così?

Una missione impossibile

Nessuna autorità nazionale libica ha il pieno controllo sugli uomini che la compongono. Le appartenenze sono sempre “doppie”: nessuno è “solo” un guardacoste, ciascuno ha legami, spesso di natura tribale, con le milizie locali. Gli ufficiali di carriera sono pochi. Costruire una catena di comando lineare, come prevede il progetto Lmrcc, nelle condizioni in cui si trova adesso la Libia è una missione impossibile.

Questa doppiezza traspare nello stesso Toumia: basta leggere le sue dichiarazioni ai mezzi di informazione, in particolare a quelli libici. Appena diffusa la notizia delle sanzioni Onu contro Abd al Rahman al Milad, detto Bija, il capo della guardia costiera di Zawiya, Toumia ha criticato aspramente le Nazioni Unite. Bija, per altro, il 15 ottobre 2019 sarebbe stato riconfermato nel suo ruolo proprio dal comando centrale di Tripoli, come riporta l’Espresso. L’ammiraglio non ha condannato i suoi uomini neanche quando l’Onu, nel 2016, ha denunciato il caso di un guardacoste di Misurata – parte anche del consiglio militare cittadino – che usava una sua imbarcazione, la Luffy, per trafficare armi, senza che i colleghi facessero alcun controllo.

Non ha detto niente neanche sui colpi sparati dalle motovedette contro le organizzazioni non governative in diverse occasioni. Com’è successo la mattina del 7 agosto 2017, quando la motovedetta Sabratha, una classe Bigliani che è stata della guardia di finanza italiana, ha sparato dei colpi intimidatori in aria in direzione della nave della ong spagnola Proactiva Open Arms. La stessa motovedetta già nel 2010 aveva sparato contro un peschereccio italiano a trenta miglia dalle coste libiche perché sospettato di tratta di esseri umani o pesca di frodo. A bordo della motovedetta c’erano anche dei finanzieri italiani per un’azione di addestramento prevista dal cosiddetto accordo di amicizia voluto dal governo Berlusconi nel 2008 e richiamato dal Memorandum of understanding del 2017, firmato dal governo Gentiloni. I militari italiani non avevano alcun potere d’intervenire in quanto semplici “osservatori”. L’ultimo incidente risale al 26 ottobre 2019, giorno in cui la nave Alan Kurdi dell’ong Sea-Eye è stata minacciata da due motoscafi veloci battenti bandiera libica, uno dei quali armato con una mitragliatrice. Gli uomini a bordo non avevano alcun simbolo distintivo. Il comando navale militare di Tripoli ha negato ogni coinvolgimento, ma non è stato in grado di identificare i banditi.

L’ammiraglio Toumia è tra i sostenitori della tesi secondo cui le navi di soccorso siano un fattore di attrazione per i migranti, nonostante sia ormai acclarato da numerosi studi che questo fattore non esiste. Toumia parla di un quadro generale, ma la sua competenza si ferma in Tripolitania: i principali comandi sotto il suo controllo si trovano a Zuara, Sabratha, Zawiya, Al Khoms, Tripoli e Misurata. “Non c’è una singola nave di Tripoli che si spinga più a est”, commenta Claudia Gazzini dell’International crisis group.

Nonostante questo, la Libia aveva mandato la richiesta all’International maritime organization (Imo) – l’agenzia Onu che si occupa di dirimere le controversie marittime internazionali – perché fosse attribuita un’area di competenza alla sua guardia costiera, un riconoscimento che è avvenuto a maggio 2018. Si è chiusa in questo modo la prima fase dell’Lmrcc project, che ha dato a Toumia un ruolo centrale al livello internazionale. Marina militare e guardia costiera in Libia sono un unico corpo e rispondono al ministero della difesa, le cui deleghe sono sempre rimaste nelle mani del premier Serraj. Mentre gli incarichi politici sono noti – in cima, al di sopra di Toumia, c’è il capo di stato maggiore della marina, Abdul Hakim Abu Hawliyeh –, quelli più operativi non sembrano affidati a nessuno. L’unico rappresentante vero è appunto l’ammiraglio Toumia.

Motivi pratici e politici

Assegnare alla Libia una zona Sar è importante per due motivi. Il primo è di ordine pratico e si legge spesso nei documenti ufficiali italiani: la guardia costiera di Roma afferma di essere coinvolta in operazioni di salvataggio in un’area pari al 51 per cento del Mediterraneo, complice il poco impegno di Malta e le Sar mai riconosciute a Tunisia ed Egitto. Il secondo è più politico: assegnare una zona di competenza ai libici significa che la guardia costiera libica può essere ritenuta responsabile dei soccorsi nell’aerea e si può legittimare in questo modo il ritiro dei mezzi di soccorso europei. Inoltre, in questo modo sono i libici a riportare i migranti in Libia, un paese considerato non sicuro. Se lo facesse qualsiasi altra nave straniera, si tratterebbe di un respingimento in violazione di una serie di norme internazionali a partire dalla Convenzione di Ginevra del 1951. L’Italia è già stata sanzionata nel 2011 per aver riportato in Libia dei richiedenti asilo. Il problema però è che l’Italia assiste e coordina i libici.

Questo aiuto non è un mistero. Tra le cinque azioni previste nel progetto per costruire il centro di coordinamento si leggono “azione 2: search and rescue (guidata dalla guardia costiera italiana)” e “azione 5: cooperazione con guardia costiera libica (guidata da centro di coordinamento italiano, Mrcc italiano e Operazione Sophia)”. In pratica, fino al 2021, quando dovrebbe chiudersi il progetto Lmrcc, l’Italia “assisterà” i colleghi libici nella gestione della zona di competenza. Ma qual è il limite tra “assistenza” e “intervento”?

«Non saprei dire un momento esatto, ma di certo dall’estate 2018 è stata sempre più presente la guardia costiera libica», racconta Tamino Böhm, capo delle missioni aeree di SeaWatch. La conquista del mare da parte della guardia costiera libica è stata graduale. Con l’ingresso dell’Lmrcc project nella “fase di implementazione” è chiaro che insieme ai guardacoste esiste un coordinamento, ma non è chiaro operato da chi: «Il centro che i libici dicono di gestire nei fatti non risponde mai alle chiamate», dice Böhm. La sede è l’aeroporto Bin Ghashir di Tripoli – Castel Benito ai tempi dell’occupazione fascista italiana. Una delle zone dove i combattimenti sono più intensi e che ormai è sostanzialmente in disuso. Salem Elkabir, dipendente della Libyan civil aviation authority, è l’unico nome che si legge tra i responsabili delle comunicazioni a terra.

Tasselli

L’implementazione si concluderà nel luglio 2021, quando ci sarà il disimpegno dell’Italia. Tuttavia, lo scambio di informazioni con l’operazione europea Sophia è già avanzato. Secondo i dati della missione, le ricognizioni aeree europee hanno permesso di recuperare (e riportare in Libia) 19.775 persone nel 2017, 12.852 nel 2018 e 7.021 nel 2019 (dati al 30 ottobre).

Durante alcuni interventi, il centro di coordinamento libico ha lasciato indizi in merito a una possibile partecipazione italiana nella fase operativa. Durante un salvataggio nell’estate del 2019, il file compilato dal centro di coordinamento di Tripoli – il Libyan national coordination center, come è chiamato nel documento che Internazionale ha potuto consultare – riportava nella casella della data la dicitura «giu 2019». «Giu» sta per «giugno»? Il documento è stato compilato in italiano?

In partnership con: Internazionale | Foto: Marina Militare

Il vertice al Cara di Mineo con il “re degli scafisti” libico

6 ottobre 2019 | di Lorenzo Bagnoli

A maggio 2017, il capo della Guardia costiera di Zawiya, in Libia, ha fatto parte di una delegazione venuta in visita al Cara di Mineo. Il guardacoste Abd al-Rahman Milad detto al-Bija era però già sospettato di essere un trafficante di esseri umani. Lo ha rivelato l’Avvenire, che ha pubblicato le foto dell’incontro. Un mese dopo quel meeting, le Nazioni Unite hanno messo al-Bija sotto sanzioni (passaporto sospeso e beni congelati). Il guardacoste è uno degli ingranaggi di un sistema criminale che gestisce traffico di migranti e contrabbando di gasolio.

Un sistema indagato anche in Italia: a largo di Zawiya, come rivela l’operazione “Dirty Oil” della Guardia di Finanza (ottobre 2017), i guardacoste facevano lavorare senza impedimenti solo le navi – dirette in Italia – di due trafficanti di gasolio maltesi coi quali il clan di al-Bija era in affari. Dopo le sanzioni Onu, il nostro uomo non si era più fatto sentire finché, a settembre, non è apparso in un’inchiesta delle procure di Palermo e Agrigento.

Avvenire-Bija

L’inchiesta de L’Avvenire in cui è stata pubblicata la foto dell’incontro di Bija al Cara di Mineo.

L’inchiesta – che scaturisce dalle testimonianze di alcuni migranti, che lo chiamano “Bengi” (fonetico) – ha portato al fermo in Italia di tre presunti “kapò” del centro di detenzione di al Nasr, a Zawiya: picchiavano migranti per ottenere soldi, in cambio della possibilità, un giorno, di lasciare la Libia. I testimoni indicano Bengi/Bija come l’incaricato a raccogliere i migranti sulla spiaggia per decidere chi possa partire.

Incrociando le evidenze dell’indagine siciliana con nuove testimonianze, è possibile individuare i vertici dell’organizzazione: il superiore di al-Bija è il capo della struttura detentiva. I migranti lo chiamano “Ossama ”. Fonti confidenziali lo identificano in Ossama Milad Rahuma, cugino di al Bija (nome nuovo in Italia). Giulia Tranchina, avvocato di base a Londra, specializzata in diritto d’asilo, è in contatto con altri operatori e migranti passati per Zawiya. Tre diverse persone raccontano che i torturatori di Ossama vengono da diversi Paesi: due marocchini, un pachistano, un bengalese, alcuni egiziani. Uno, un certo Mohammed, è “la sua mano destra”. Il fratello risulta tra i fermati dalle procure di Palermo e Agrigento. L’altro vice, anche lui Mohammed, è un poliziotto libico. “L’ho visto spesso indossare la giacca dell’Oim (Organizzazione internazionale delle migrazioni)”, dice una fonte di Zawiya.

Il particolare torna anche nell’inchiesta siciliana: dentro la prigione ci sarebbe un container Oim dove si svolgerebbero alcuni dei pestaggi. L’agenzia delle Nazioni Unite ha smentito a Redattore sociale ogni coinvolgimento. Le stesse procure siciliane scrivo- no che “non è dato sapere” se il container Oim “fosse in disuso e utilizzato dalla criminalità locale”.

Il boss dell’intera filiera criminale è Mohamed Koshlaf, alias al-Qasab, sotto sanzioni come al Bija. Appartiene al suo stesso gruppo tribale e ha acquisito potere come comandante della brigata Shuhada al-Nasr, formazione che ha sempre sostenuto il governo di Tripoli di Fayez al-Serraj. Guida anche il servizio di sicurezza della raffineria, le Petroleum facility guards, e decide quanto gasolio immettere nel mercato nero. A dicembre 2018 l’Alto commissariato Onu ai diritti umani aveva chiesto che il centro al Nasr fosse escluso da quelli riconosciuti dall’esecutivo libico. Ma non esistono liste di centri ufficiali.

In partnership con: Il Fatto Quotidiano | Foto: Marina Militare

Zawiya, viaggio nel lager libico su cui indagano le procure di Agrigento e Palermo

3 ottobre 2019 | di Lorenzo Bagnoli

Un’ex base militare, a dieci minuti dal mare, trasformata in prigione. I detenuti sono divisi in enormi hangar, una volta usati come depositi. In uno stanno donne e bambini. Negli altri due stanno gli adulti: da una parte migranti dell’area subsaharina, dall’altra quelli del Corno d’Africa. Il primo è l’hangar dei pestaggi, il secondo quello “ufficiale”. A giugno 2019, la struttura conteneva 850 persone, una sopra l’altra. Fuori, un grande cortile nel quale si allunga un campo da calcio, perennemente popolato da bambini, poco oltre un container. Tutt’intorno una recinzione in muratura, color sabbia e bordata di blu. Ogni tanto c’è pure qualche disegno, persino uno schizzo di Spongebob. La interrompe un pesante cancello blu, dal quale si accede alla struttura. A pochi passi, svetta la raffineria di Zawiya, famosa per essere stata luogo di smistamento del gasolio di contrabbando fino almeno all’agosto del 2017.

Qui dentro, al centro di detenzione di al-Nasr, comanda un uomo di nome Ossama: un libico basso di statura, stempiato, con i capelli corti e brizzolati. Il carceriere del centro di detenzione di Zawiya. Il suo nome completo, in Libia, lo conoscono tutti: Ossama Milad Rahuma, il cugino del guardacoste libico più noto in Italia, al Bija.

Questa fotografia emerge dall’incrocio di due fonti: l’ultima indagine sui trafficanti di esseri umani condotta dalla Procura di Agrigento con il supporto della Direzione distrettuale antimafia di Palermo e da un reportage di Euronews dello scorso giugno. La prima è basata sulle parole di cinque migranti, arrivati a Lampedusa a inizio luglio, tratti in salvo dal veliero Alex di Mediterranea che con le loro testimonianze hanno innescato l’indagine. Il risultato ottenuto, al momento, è la carcerazione di due ragazzi egiziani e uno guineano nati tra il 1993 e il 1997, accusati di aver fatto parte a vario titolo del gruppo di Ossama. Caporali, probabilmente, che aiutavano i secondini in cambio di un trattamento migliore. Almeno fino a quando uno dei tre, Suarez il guineano, ha litigato con il boss della struttura per i suoi metodi eccessivamente crudeli. Forse è stato questo uno dei motivi che li ha spinti a scappare.

Una rara immagine di Ossama “il libico” in uno scatto pubblicato da Avvenire. Foto: Avvenire.

Il personaggio più controverso, però, è l’uomo che selezionava sulla spiaggia i migranti che potevano partire. I testimoni lo chiamano Abdou Rahmane, detto Bengi (fonetico). In realtà sembri si tratti di Abdelrahamen Milad detto al Bija, il capo della Guardia costiera di Zawiya, incaricato proprio di decidere quali barconi intercettare e quali no, secondo diverse inchieste del Panel di esperti sulla Libia delle Nazioni Unite. I guardacoste, sostengono ancora le indagini dell’Onu, fanno parte di un’associazione criminale al cui vertice – almeno fino al 2017 – c’era Mohammed Koshlaf, miliziano capo della brigata Shuhada al Nasr responsabile della sicurezza della raffineria di Zawiya, da sempre considerato il gestore del centro. Un altro particolare che risuona nell’indagine della Dda di Palermo e della Procura di Agrigento. In Italia il nome di Ossama invece non era mai stato legato al clan di Zawiya finora.

Nelle parole dei migranti ricorre spesso un ruolo di presunti operatori dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) in Libia. Il container all’interno del cortile, infatti, ha sulla parete il logo dell’agenzia dell’Onu. Sentito da Redattore sociale, il portavoce dell’agenzia Flavio Di Giacomo ha ricordato però che l’Oim non ha missioni permanenti dentro le strutture di detenzione libiche. La stessa procura ipotizza che sia “in disuso e utilizzato dalla criminalità locale”. Al suo interno i migranti ricordano che c’era spesso un sudanese, tale Yassine, che indossava la pettorina blu dell’Oim. Non risulta a Di Giacomo che nessun operatore dell’agenzia in Libia abbia questo nome. L’uomo è descritto come il collaboratore di Mohamed il libico, l’uomo in mimetica che guida i giornalisti di Euronews nel centro di Zawiya. Dentro quel container, raccontano i migranti, avvenivano alcuni dei pestaggi più feroci. Il riscatto per pagare la struttura e imbarcarsi – ricorda la migrante Evelyn Muftaa – è di 4.500 dinari libici, circa 3.150 euro.

I migranti sono arrivati a Zawiya dopo odissee di mesi. Ayaba Placide Cyriaque, camerunese, prima aveva provato a vivere in Nigeria. Poi in Niger e Algeria (dove è arrivato dopo un mese di viaggio). Da lì è poi rientrato in Niger dove per 32 euro un tizio, tale Mama Ibrahima detto Aladì, lo ha portato a Sebha, nella zona meridionale della Libia, dove viene prelevato da altre persone – qui i dettagli si fanno un po’ confusi – e portato in un carcere gestito da due libici e due nigeriani. I gestori di queste tratte sono sì “trafficanti”, ma è altrettanto evidente che con questo termine si definiscono in realtà categorie molto diverse: si vai dai criminali in cerca di finanze per l’acquisto di armi, alle vecchie guide turistiche rimaste senza lavoro,  fino ai “passeur” che conducono chiunque voglia nel deserto a bordo di pick-up o “moto-ape”, come le definisce l’ordinanza della procure di Palermo e Agrigento. Le ultime due partecipano all’economia delle migrazioni di massa, pur senza avere la stessa responsabilità, anche dal punto di vista penale, delle organizzazioni a delinquere.

L’esatta ubicazione del centro di detenzione di Zawyia / IrpiMedia

A Sebha, Cyriaque è finito in un carcere gestito da due libici e due nigeriani. Ritorna nei racconti dei migranti l’internazionalità delle cellule criminali che gestiscono i centri per migranti e ritornano soprattutto alcune nazioni d’origine dei carcerieri. Queste due caratteristiche lasciano ipotizzare che ci sia una sorta di regia nella gestione delle strutture, fatto mai comprovato in nessuna occasione.

L’ordinanza offre anche uno spaccato di chi sono gli “acquirenti” dei detenuti. A volte li indica come “liberatori” – perché i primi carcerieri avevano modi ancora più disumani; altre volte invece come semplici “clienti” di questo assurdo mercato degli esseri umani, di cui le gang criminali e le milizie sono i principali “fornitori”. Nulla che si potrà mai nemmeno vedere in Italia: le uniche tracce sono nei ricordi, indelebili, dei migranti. Cyriaque è venduto da Mohamed il libico a un connazionale, Shibakshi, che lo impiega come bracciante agricolo. Lo paga una miseria e lo tiene sotto costante sorveglianza armata. Almeno fino a quando non riesce ad andare da un terzo libico per imbarcarsi verso l’Italia.

Mohammed Rashid è un ragazzo ghanese. Racconta agli inquirenti di essere omosessuale e di aver lasciato il suo Paese a novembre 2017 dopo essere stato ingiustamente accusato di un reato, solo per fargli pagare il suo orientamento sessuale. Raggiunge Agadez, in Niger, dove lo acquista un trafficante ghanese: Kofi. Rashid lo paga 4.600 dinari per arrivare a Zawiya, dove poi lavora come muratore per il suo trafficante. Non è chiaro dal racconto del migrante, ma potrebbe essere che in questo modo stesse estinguendo il debito contratto con Kofi. Ma è solo un’ipotesi. Il fatto certo è che dopo cinque mesi Rashid viene portato a Zuwara da Kofi, per un altro lavoro. A quel punto, però, il trafficante ghanese torna in patria: la spiegazione di Rashid è che il committente del lavoro che Kofi stava facendo, non pagava. A quel punto viene di nuovo venduto all’organizzazione di Ossama, fino al momento in cui non è stato riuscito a pagare la sua “liberazione”.

L’ordinanza offre anche uno spaccato di chi sono gli “acquirenti” dei detenuti. A volte li indica come “liberatori” – perché i primi carcerieri avevano modi ancora più disumani; altre volte invece come semplici “clienti” di questo assurdo mercato degli esseri umani, di cui le gang criminali e le milizie sono i principali “fornitori”

Un terzo migrante, Mekki Sedek Diallo, camerunese, quando arriva in Libia dall’Algeria, viene fermato “dai ribelli al regime” a Sabratha. La milizia armata – dalle parole del racconto impossibile distinguere anche solo lo schieramento a cui potrebbe appartenere – lo conduce “in un centro Oim” che fonetico suona “Gaiat”: una struttura che pare inesistente e che di certo non è sotto il controllo dell’agenzia delle Nazioni Unite. Qui la stessa “polizia libica” lo vende a un’altra cellula criminale: gli Asma Boys. Il loro nome ricorre nelle testimonianze raccolte in particolare tra il 2015 e il 2017 dall’associazione Medici per i diritti umani (Medu) con la loro clinica mobile.

Spiega un investigatore italiano a Repubblica che gli Asma Boys non hanno una struttura piramidale, né un unico capo: sono una gang giovanile che assomiglia a una paranza camorrista. Pagano una forma di pizzo sul loro guadagno alle milizie in cambio di protezione. Guadagnano soprattutto rivendendo i migranti ad altre bande, come accade per ben due volte a Diallo. La prima volta viene venduto a due carcerieri, un guineano e un nigeriano, che lo tengono in prigione per mesi, fino all’arrivo di un certo Abdoulasile, libico, che lo “compra” per farlo lavorare come muratore, anche in questo caso sotto continua minaccia armata e sottopagato. Quando Diallo scappa lo intercettano ancora una volta gli Asma Boys che lo rivendono alla polizia. Da qui finisce al centro di Tajoura, famoso per essere stato bersaglio delle bombe gettate da Haftar sulla Tripolitania, proprio all’inizio di luglio. Per fortuna di Diallo era riuscito a evadere qualche mese prima, approfittando di un’alluvione. Quando è arrivato a Zawyia è finito in mano ai suoi ultimi carcerieri. In quella struttura accanto alla raffineria, circondata da un muro invalicabile, interrotto solo dal pesante cancello blu. La prigione di Ossama.

In partnership con: Open Migration | Foto: Zawyia / Wikimedia

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