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Da Operazione Sophia a Irini, anatomia delle missioni navali europee
#MediterraneoCentrale
Lorenzo Bagnoli
Migration Newsroom
Non è mai stata davvero una questione di numeri, quanto, piuttosto, della loro percezione. Gli sbarchi dei migranti in partenza dalla Libia sono diventati un problema per le conseguenze che hanno innescato, prima fra tutte l’ascesa delle destre europee. Lo ammette in un’intervista al Guardian Mario Giro, viceministro dell’Interno all’epoca di Marco Minniti. Trattare direttamente con milizie e trafficanti è stato «un errore, punto e basta». «A quel tempo – aggiunge – era chiaro che tutti in Italia e in Europa, a destra e a sinistra, erano ossessionati dalla questione dei migranti. E tutti volevano una soluzione rapida e immediata in nome del tentativo di tenere sotto controllo l’opinione pubblica».
Da questo peccato originale nascono le missioni europee lungo il Mediterraneo centrale, i mattoni con cui si è alzato il muro della Fortezza Europa. Dal 2015 in avanti i mandati di queste missioni, che fossero condotti dall’agenzia di pattugliamento delle frontiere Frontex o da coordinamenti delle marine militari europee, sono state variazioni su uno stesso tema: fermare i traffici dalla Libia e «disarticolare» i gruppi criminali che si occupano di traffico di uomini, gasolio e armi.
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In questi cinque anni trascorsi dall’inizio delle iniziative europee, il ruolo della Commissione e degli Stati membri è stato sempre più defilato, a causa dei continui fallimenti, sia diplomatici, sia operativi.
«A quel tempo era chiaro che tutti in Italia e in Europa, a destra e a sinistra, erano ossessionati dalla questione dei migranti. E tutti volevano una soluzione rapida e immediata in nome del tentativo di tenere sotto controllo l’opinione pubblica»
Obiettivo principale di Irini sarà mettere in atto l’embargo delle Nazioni Unite sulla fornitura di armi in Libia: lo stesso che avrebbe dovuto perseguire anche Operazione Sophia.
Il traffico di armi in Libia: il caso Bana
Questa nuova missione però non parte sotto i migliori auspici. Infatti nonostante il 19 gennaio di quest’anno il vertice di Berlino abbia rinnovato l’embargo, solo cinque giorni dopo una nave carica di armamenti turchi è arrivata in Libia. Lo ha dimostrato un’importante inchiesta di Bbc Africa Eye condotta da Benjamin Stick, tra i collaboratori del collettivo Euarms di cui IrpiMedia fa parte, insieme ai suoi colleghi.
La Bana, così si chiama l’imbarcazione, era scortata da due fregate della marina militare turca ed era ufficialmente diretta in Tunisia. Secondo le accuse della Dda di Genova, ultimo porto in cui la nave ha fatto scalo ed è stata successivamente sequestrata, il carico di armamenti è stato effettivamente scaricato al porto di Tripoli. Sempre a Genova, il 19 febbraio 2020, il comandante della Bana Jouseff Tartiussi, 55 anni, libanese, è stato arrestato con l’accusa di traffico di armi. Secondo stralci dell’inchiesta riportati dal Secolo XIX, a bordo del suo cargo c’erano almeno dieci agenti turchi, a conferma del coordinamento dell’operazione con Ankara.
Il tragitto della nave Bana dal 3 gennaio al 1 febbraio 2020 in cui è evidenziato il lasso di tempo in cui il trasponder viene disattivato al largo della Libia / IrpiMedia
La Bana, che fino al 2019 si chiamava Sham I, era finita già nelle indagini del Panel di esperti delle Nazioni Unite sulla Libia per un carico di 300 pick up Toyota e Landcruiser antiproiettili arrivati nel porto di Tobruk, Libia orientale, il 16 gennaio del 2017. Anche questi mezzi sono classificati come armamenti militari, il cui commercio in Libia è vietato dall’embargo dell’Onu. Quel carico è stato consegnato agli alleati del generale Khalifa Haftar, il nemico dell’ultimo “cliente” della Bana, il Gna di Tripoli: un segno di come gli schieramenti cambiano velocemente in Libia.
Nonostante il cambio di nome, armatore dell’imbarcazione già all’epoca era Med Wave Shipping Sa, il cui indirizzo è a Beirut, ma la sede operativa, secondo il Panel dell’Onu è ad Amman. Nel 2015 la nave è finita sotto sanzioni del Dipartimento del Tesoro americano, perché il proprietario del tempo, Merhi Ali Abou Merhi, è un imprenditore libanese ritenuto dagli Stati Uniti un finanziatore di Hezbollah.
I fallimenti di Operazione Sophia
Dalla sua creazione, l’Operazione Sophia ha cambiato più volte il suo mandato. All’inizio, il suo scopo principale era fermare i trafficanti di uomini. Lo ricorda lo stesso ufficio stampa in un comunicato a seguito di un salvataggio avvenuto nell’ottobre 2015, all’avvio di quella che le marine europee definivano «la fase due della missione»: «L’operazione navale europea nel Mediterraneo contro contrabbandieri e trafficanti di uomini chiamata Eunavfor Med operazione Sophia è stata lanciata il 22 giugno 2015 con l’obiettivo principale di arrestare i trafficanti e quindi prevenire la perdita di vite umane».
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Quest’ultimo aspetto si è totalmente perso con l’Operazione Irini ed è sempre stato accidentale anche all’interno di Operazione Sophia. Il contesto politico europeo è stato sempre ostile ai salvataggi: già la prima missione militare del Mediterraneo, Mare Nostrum, a conduzione solo italiana, era stata portata a conclusione da un lato per i costi e dall’altro perché ritenuta un pull factor, un fattore di attrazione per i migranti. L’argomento segnerà in modo costante il dibattito sulla presenza in mare delle Ong in particolare a partire dal 2015.
Anche senza considerare i salvataggi nel suo mandato, il giudizio su Sophia da parte dei governi europei è stato molto duro, in particolare da parte di Londra. La Camera dei Lord inglese l’ha definita una missione fallita. «Giudicata in base al mandato – si legge nell’introduzione – la missione navale europea, Operazione Sophia, ha fallito il raggiungimento del suo obiettivo di “contribuire a smantellare il modello di business dei trafficanti di esseri umani e dei contrabbandieri nel Mediterraneo centrale meridionale”».
Nel tentativo di risultare più efficiente e venire incontro alle esigenze della società petrolifera nazionale libica, uno dei pochi motori economici del Paese, Operazione Sophia negli anni seguenti, fino alla conclusione del 2018, ha cercato di concentrarsi sul contrasto ai trafficanti di gasolio. Anche in questo caso, però, i risultati non sono stati all’altezza. Basti pensare che a Zawiya, uno dei centri del contrabbando, i trafficanti indossano anche i panni della Guardia costiera libica.
L’ultima evoluzione è stata a marzo 2019 quando, su proposta dell’allora ministro dell’Interno italiano Matteo Salvini, Operazione Sophia è stata privata dei suoi mezzi navali per il timore che i migranti potessero essere portati in Europa, Italia prima di tutti. Questa situazione surreale – una missione navale senza natanti – ha rafforzato l’impiego di droni e aerei per sorvolare le acque libiche. La presenza in mare dei mezzi europei è stata sostituita dalla Guardia costiera libica.
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L’appoggio della Guardia costiera libica
Finora le ricostruzioni giornalistiche hanno sempre puntano il dito contro l’Italia, Paese europeo che per primo ha cominciato la collaborazione con i libici per realizzare il centro di coordinamento dei salvataggi di Tripoli. In realtà, però, la strategia è europea. Lo rivela un’inchiesta del 12 marzo pubblicata dal Guardian e prodotta da Migration newsroom, collettivo di giornalisti di cui fa parte anche IrpiMedia.
Per sorvegliare efficacemente la propria zona di competenza infatti, la Guardia costiera libica è comunque dipendente dai mezzi aerei europei
«Sono a nove miglia nautiche dalla vostra prua», comunica Seagull 75 a una motovedetta della Guardia costiera libica. «I radar non funzionano – replicano dalla motovedetta – se state sopra la barca, vi seguiamo». Seagull 75 esegue. «Non vi vediamo provate voi a cercare le nostre luci», aggiungono. Un minuto dopo: « Virate a sinistra di circa 10 gradi. È a circa tre miglia nautiche a prua». Il carburante è agli sgoccioli, l’aereo deve fare ritorno alla base. «Guardia costiera libica, ti contatteremo tramite Fhq (Force headquarter, centro di coordinamento degli assetti navali, a bordo della nave principale della missione, detta flagship, ndr), passo». Prima di chiudere, la motovedetta libica chiede a Seagull 75 di confermare la posizione, visto il malfunzionamento del radar: «Tre-quattro-zero-tre nord, zero-uno-quattro-tre-uno» chiede la guardia costiera. «Confermo», chiude Seagull 75. Secondo quanto è stato possibile ricostruire dai giornalisti, le coordinate a cui si trova il gommone lo indicano a Nord della Srr libica: 34°03’Nord, 014°31′ Est.
La motovedetta libica recupererà i migranti a bordo del gommone e li riporterà poi a terra, in Libia, un Paese che non è considerato dalle agenzie Onu «porto sicuro». Solo nel 2020, è successo almeno a 1.700 persone (dati dell’Organizzazione mondiale delle migrazioni di febbraio). Molti di loro, torneranno nuovamente a ingrossare le file dei detenuti nei centri (almeno 5mila, secondo le ultime stime del direttorato libico che li gestisce), i luoghi dove secondo qualunque organizzazione internazionale ci sono continue violazioni dei diritti umani.
Il coinvolgimento dei vertici di Frontex
L’assistenza europea alla Guardia costiera libica rischia quindi di configurarsi come “respingimento per procura”, violazione dell’articolo 33 della Convenzione di Ginevra: «Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche». Scegliere di finanziare i guardacoste libici ha delle ovvie conseguenze sia di natura politica, sia di natura giuridica.
Lo sanno gli stessi vertici di Frontex, l’agenzia europea che si occupa del pattugliamento dei confini. «Lo scambio diretto di informazioni operative con l’Mrcc in Libia in merito a casi di ricerca e salvataggio può innescare interventi della guardia costiera libica. – scrive il 22 febbraio 2019 il direttore esecutivo dell’agenzia Fabrice Leggeri in una lettera destinata al Direttorato generale per gli affari interni e le migrazioni (Dg Home) della Commissione europea – La nascita di una guardia costiera libica è finanziata, come sapete, dall’Unione Europea. Tuttavia, la Commissione e in generale le istituzioni potrebbero trovarsi di fronte a questioni di natura politica a seguito degli scambi operativi di informazioni relativi alla Sar (zona di ricerca e salvataggio, ndr)».
La funzionaria a cui Leggeri si riferisce, spiega l’articolo del Guardian, è Paraskevi Michou, il funzionario di grado più alto che si occupa di immigrazione.
La risposta di Michou perviene a Frontex un mese dopo. Cerca di rassicurare il direttore dell’agenzia e osserva: «[Molti] dei recenti avvistamenti di migranti nella Srr libica sono stati fatti da velivoli [di Operazione Sophia] e sono stati notificati direttamente al centro di salvataggio libico responsabile della propria area». La collaborazione sembra avallata a livello politico. Il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna, il ministero degli Esteri della Commissione, Peter Stano sottolinea ai colleghi del Guardian che Operazione Sophia «non ha il diritto di esercitare alcun controllo e autorità sulla Guardia costiera libica e sulle unità o sul personale della sua marina».
La Commissione europea cerca di rilanciare la sua presenza nel Mediterraneo centrale, nella speranza di poter giocare un ruolo per la pacificazione della Libia. La situazione è paradossale: l’Europa non rispetta il diritto internazionale e dall’altro non riesce nemmeno a ricoprire un ruolo davvero di primo piano come pacificatore dell’area. Così suona come una doppia sconfitta: sia sul piano etico, sia su quello strategico.
Migration Newsroom è un consorzio di giornalisti, di cui fa parte anche IrpiMedia, che si occupa di immigrazione. Il progetto è coordinato da Lighthouse reports.
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