Bologna non è una città per studenti

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Bologna non è una città per studenti

Alice Facchini

«Vivo a Bologna da due anni e mezzo, ma ho dovuto lasciare la casa dove abitavo perché era in condizioni pessime. Mi sono messo alla ricerca di una doppia con un amico: abbiamo iniziato a a luglio e ancora non abbiamo trovato niente». Luigi, 20 anni, di Caserta, è al terzo anno di giurisprudenza. Per arrotondare lavora in un bar. Ogni giorno spende qualche ora per la ricerca di una alloggio. Un ricerca estenuante: l’amico, alla fine, ha desistito ed è tornato a Palermo, la sua città natale, «piuttosto che dannarsi l’anima qui, senza un posto dove stare». Dal 19 settembre Luigi ha trovato sistemazioni temporanee a casa di amici o della sua ragazza: «Le mie cose sono da lei, io giro solo con una piccola valigia – racconta -. Sto continuando a cercare una casa, ma adesso è ancora più difficile: la maggior parte delle stanze sono già occupate, e comunque ci sono ancora molte persone senza un alloggio. Affidarsi agli annunci sui social network o alle agenzie immobiliari è quasi impossibile, bisogna andare per conoscenze: sto aspettando un colpo di fortuna».

Convivere ogni giorno con questo pensiero è pesante: «Non riesco ad essere sereno e concentrato: io so dove starò questa settimana, ma non so cosa accadrà la prossima», confessa Luigi. Bologna non è la sola città italiana in questa situazione, ma è una di quelle dove l’assenza di alloggi per studenti è più evidente.

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L’inchiesta sugli studentati in Europa

Questa inchiesta fa parte della nuova stagione di #CitiesForRent, serie investigativa su chi sono i proprietari delle città in Europa. La puntata su Bologna apre un ciclo sugli studentati, a cui parteciparanno anche Tagesspiegel (Germania), Apache (Belgio), Mediapart (Francia),

Per colpa della mancanza di case in affitto, a Bologna ci sono studenti universitari che sono stati costretti a passare qualche notte in stazione. Gli universitari sono circa 68 mila, di cui uno su due è fuorisede e le case a loro disposizione sono sempre meno. Secondo i dati di inizio dicembre di Inside Airbnb, un progetto indipendente finalizzato a capire l’impatto di Airbnb sulle città, sono al contrario cresciuti gli appartamenti messi sul mercato della locazione breve. Lo dimostrano gli annunci disponibili in città, 3.895, più che raddoppiati negli ultimi cinque anni.

Da marzo a ottobre 2022, circa 400 appartamenti sono finiti per la prima volta su Airbnb: si trovano soprattutto nel centro storico e nella prima periferia.

Il mercato degli affitti brevi è inoltre in mano a pochi: si stima che il 4% dei proprietari riscuota quasi un terzo delle entrate totali e il 57% abbia più di un annuncio a suo nome. Anche altre ricerche concordano su quanto convenga affittare ai turisti: la ricerca di HousingBo, laboratorio permanente sulla condizione abitativa studentesca coordinato dalla Fondazione per l’innovazione urbana, indica che a Bologna il ricavo medio di una casa affittata sul tradizionale mercato della locazione è di circa 13 mila euro l’anno, mentre, a parità di metri quadri e di zona, per un affitto breve la cifra sale a 16.650 euro (togliendo le commissioni di Airbnb, si arriva a 16.155 euro). La società di consulenza Nomisma parla di una differenza ancora maggiore tra le due tipologie di affitto: circa settemila euro l’anno.

Il numero di host Airbnb a Bologna e i prezzi medi per tipologia

Ci sono anche altre fonti che confermano questo trend. I dati di Idealista, sito web che si occupa di analisi del mercato immobiliare, mostrano che l’offerta di appartamenti in affitto condiviso in Italia è diminuita del 43% nell’ultimo anno, in linea con la forte riduzione dello stock di alloggi in locazione: a Bologna il calo è stato addirittura del 53%. Da settembre, poi, l’ateneo ha optato per un ritorno totale in presenza di lezioni ed esami, abbandonando la didattica a distanza: questo ha aumentato ulteriormente la richiesta di alloggi.

«Nell’ultimo anno abbiamo avuto un centinaio di colloqui con studenti, italiani e stranieri – spiega don Matteo Prosperini, direttore di Caritas Bologna -. Si tratta di universitari che si sono rivolti a noi perché non trovano casa, perché hanno bisogno di aiuto per pagare le spese dell’affitto, o per avere accesso alle mense e alle eccedenze alimentari. Di solito provengono da famiglie povere, a loro volta assistite da Caritas in altre città: anche se hanno accesso alle borse dell’ente per il diritto allo studio, a volte questo non basta a supportarli in tutti i loro bisogni». Non c’è un’emergenza di studenti che dormono sistematicamente in stazione, precisa, «però questa situazione è emblematica di un problema che non possiamo ignorare».

Obiettivo regolamentare Airbnb

Regolamentare le piattaforme degli affitti brevi è un problema per ogni amministrazione comunale. A Bologna, il Comune sta intensificando i controlli insieme alla Guardia di finanza, per individuare quali case presenti su Airbnb non sono registrate come strutture turistiche. Insieme ad altre 15 città, ha chiesto alla Commissione europea una regolamentazione più stringente sugli affitti brevi.

Comitati cittadini e associazioni propongono soluzioni da tutta Italia: «Si potrebbe vietare Airbnb nelle zone già troppo turisticizzate e definire un numero massimo di giorni l’anno in cui poter affittare, o un numero massimo di annunci che può avere il singolo, oppure istituire un sistema di permessi massimi concedibili in città – spiega Alice Corona di Ocio Venezia, Osservatorio civico sulla casa e la residenza che monitora la situazione abitativa nella Venezia insulare -. Attenzione però: è inutile che il comune regolamenti, se poi non ha strumenti di controllo e di sanzione. Per questo serve una normativa nazionale, che obblighi Airbnb a pubblicare dati affidabili e credibili, sui quali poi mettere in atto una regolamentazione».

Domanda alta, offerta limitata: la conseguenza è che aumentano i prezzi. Secondo i dati 2022 del gruppo di consulenza, gestione e tutela della rendita immobiliare SoloAffitti, in città il prezzo medio è di 450 euro per una stanza singola e 325 per una doppia, contro una media italiana di rispettivamente 324 e 209 euro: nell’ultimo anno c’è stato un aumento del 29%, il più alto d’Italia, che ha portato Bologna a essere seconda solo a Milano.

Le occupazioni degli studenti in lotta per il diritto alla casa

Lo scorso ottobre, Bologna è stata attraversata da una serie di occupazioni studentesche, nate per portare l’attenzione sull’emergenza abitativa. Il 5 ottobre, la prima è stata quella del laboratorio universitario di autogestione Luna che con il supporto dello sportello per il diritto all’abitare dell’Adl Cobas, ha occupato uno stabile di via Capo di Lucca 22, in pieno centro storico ribattezzato Casa Vacante: un complesso di otto appartamenti e due laboratori, per un totale di 650 metri quadri. L’edificio, che era disabitato dal 2016, è di proprietà dell’Azienda pubblica di servizi alla persona di Bologna (Asp), società partecipata al 97% dal Comune di Bologna che si occupa di fragilità sociali ed economiche con varie forme di supporto, che lo ha messo in vendita nel piano di alienazione 2021-23 a un prezzo di 850 mila euro.

«Per rispondere alla tragica mancanza di alloggi, impiegare il patrimonio pubblico inutilizzato o dismesso sarebbe un buon punto di partenza – commenta Luca Tonini del laboratorio Luna -. Ecco che l’occupazione abitativa diventa una pratica di riappropriazione dello spazio, contro un modello di sviluppo voluto da privati e piattaforme». I dati forniti da Asp mostrano che attualmente, nell’area della città metropolitana, sono 387 gli immobili vuoti di proprietà dell’azienda: di questi, 62 sarebbero già pronti per essere affittati, altri 96 hanno bisogno di ristrutturazioni, mentre 229 non hanno una destinazione d’uso abitativa.

«Stiamo mettendo in campo azioni e investimenti per rendere utilizzabili più spazi possibili – spiega l’amministratore unico di Asp Città di Bologna, Stefano Brugnara-. Patrimonio vuoto vuol dire meno entrate per l’azienda e meno soluzioni per le persone che stanno cercando faticosamente un alloggio. Quest’anno il tasso di redditività del nostro patrimonio è passato da essere negativo a positivo: stiamo facendo la nostra parte per rispondere alla domanda abitativa che c’è in città». Nel 2022 per la prima volta Asp ha più entrate che spese per gli immobili di sua proprietà.

“Casa Vacante”, in via Capo di Lucca 22, è un’occupazione del laboratorio universitario di autogestione Luna. Lo stabile di Asp Bologna, vuoto da anni, si trova in piena zona universitaria, nel centro cittadino – Foto: Michele Lapini

Il 24 novembre gli occupanti di Casa Vacante hanno lasciato l’immobile dopo aver trovato un accordo con il Comune, affinché l’immobile non sia più venduto ma destinato a «progetti innovativi di abitare collaborativo». Cosa significhi esattamente ancora non è chiaro. Dal canto loro, le associazioni che hanno partecipato alle occupazioni vorrebbero essere incluse nella nuova gestione del patrimonio, insieme ad altre realtà dal basso. «Vogliamo una procedura pubblica, chiara nei suoi intenti e che si svolga entro la fine dell’anno», dice Luca Tonini.

La seconda occupazione è stata quella del Beyoo Laude Living, studentato di lusso nel quartiere della Bolognina, a pochi passi dalla stazione. Il 19 ottobre il Collettivo universitario autonomo (Cua) è entrato nell’edificio, proprio pochi giorni prima che la struttura venisse inaugurata. Anche in questo caso, l’occupazione è stata interrotta dopo aver raggiunto un accordo con la proprietà: l’impegno era quello di avviare un protocollo d’intesa con l’università e con l’Er.Go, l’agenzia regionale per il diritto allo studio, per destinare parte dell’immobile agli universitari in stato di necessità. Ma per il momento le parti non si sono incontrate.

Il 26 ottobre, dopo aver lasciato il Beyoo Laude Living, il Cua ha occupato un altro stabile del Quattrocento vicino a piazza Maggiore, casa Felicini Giovannini. La palazzina di tre piani è in comproprietà tra l’Università di Bologna e un privato. L’asta per la sua riassegnazione nel 2019, dopo anni di abbandono, è andata deserta. La legge sul Cofinanziamento statale per alloggi e residenze per studenti universitari, la 338 del 2000, impedisce che un edificio con un vincolo storico possa essere utilizzato per edilizia pubblica studentesca.

Il 17 novembre l’edificio è stato sgomberato dalle forze dell’ordine. Il rettore dell’Università di Bologna, Giovanni Molari, ha dichiarato di essere dispiaciuto «che i nostri reiterati tentativi di convincere gli occupanti a lasciare l’abitazione non abbiano sortito alcun effetto. Quando si tratta di dialogare su un tema come le politiche abitative, che ci sta a cuore più che mai, noi ci siamo e ci saremo sempre. Ma per dialogare occorre essere in due».

Occupazione dello studentato privato Beyoo da parte del Collettivo Universitario Autonomo. Il palazzo si trova nel quartiere popolare della Bolognina. Le sue camere hanno prezzi esorbitanti – Foto: Michele Lapini

Tra le rivendicazioni del Cua c’è che l’università si faccia garante degli affitti concordati, che blocchi la vendita di immobili di sua proprietà e che venga stilato un protocollo di intesa con le strutture private, come il Beyoo Laude Living, per la destinazione di parte delle stanze all’emergenza abitativa. Secondo Federico Antibo del Cua, le richieste degli occupanti sono state ignorate per settimane: «Dopo lo sgombero siamo andati a bussare alle porte del rettore per chiedere un tavolo di trattativa e ribadire le nostre rivendicazioni. Quelle porte sono, come sempre, rimaste chiuse». In città, oggi restano alcune occupazioni che però non nascono come abitative: quella del Cua alla facoltà di Lettere, quella del collettivo Cambiare Rotta all’ex laboratorio di chimica in via Filippo Re, e la nuova occupazione del collettivo InfestAzioni in via Stalingrado 31.

Gli studentati pubblici non bastano

Per aumentare l’offerta, entro il 2025 è prevista la realizzazione di tre nuovi studentati pubblici a Bologna, per un totale di 572 posti letto. Altri due progetti con 180 posti complessivi sono in attesa di approvazione. «Ci sono molti luoghi a potenziale vocazione studentesca, ma purtroppo gli edifici che hanno le caratteristiche giuste per costruire studentati non sono tanti, per via dei vincoli della legge 338», spiega Federico Condello, prorettore agli studenti dell’Università di Bologna.

«Quest’anno per la prima volta abbiamo anche stanziato un contributo per l’affitto: l’obiettivo è aiutare i fuorisede che non riescono a ottenere la borsa di studio perché si trovano nella fascia di reddito immediatamente superiore, ma che non hanno condizioni economiche agiate». Si tratta di 600 contributi del valore di mille euro ciascuno per l’anno accademico 2022-2023: ne beneficeranno gli studenti fuori sede con un Isee compreso tra i 24.335 euro (soglia prevista per le borse di studio dell’Er.go, l’agenzia regionale per il diritto allo studio) e i 28 mila euro. «Le domande si chiuderanno a dicembre, ma le richieste sono già molte più di 600», racconta Condello.

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L’industria degli studentati

In Europa le case per fuori sede sono sempre più care. Tanto da mettere a repentaglio il diritto allo studio. A dettare legge sono gli investitori privati, con il pubblico che fatica a contenere i rincari

Anche chi ha diritto a un alloggio in uno studentato pubblico, comunque, non sempre lo ottiene. Per chi ha un Isee inferiore ai 24.335 euro, Er.go ha a disposizione 1.673 posti, a fronte di circa 2.800 idonei (di questi, solitamente, un terzo rinuncia per vari motivi). Quest’anno, Er.Go ha stipulato un accordo decennale con Fondazione centro europeo università e ricerca (CEUR), organizzazione che dispone della rete di residenze Camplus College tra Italia e Spagna, per assegnare posti letto a prezzi calmierati a studenti in stato di necessità. Si parte con 72 a 245 euro al mese, con l’obiettivo di aumentare l’offerta.

A chi risulta idoneo ma non assegnatario di alloggio, Er.go chiede di firmare un contratto di locazione e presentare la dichiarazione di domicilio entro metà novembre, altrimenti perderà la borsa di studio da fuorisede, che prevede un contributo più alto per coprire anche parte delle spese di affitto: una scadenza per molti troppo ravvicinata, visto che il tempo per trovare una stanza a Bologna in media è di sette settimane, ma chi ha minore disponibilità economica ci mette anche molto di più. E poi c’è la questione del pagamento della borsa di studio da parte dell’ente: nonostante Er.go sia tra i pochi organismi per il diritto allo studio a versare la somma senza ritardi, la prima rata comunque non arriva prima di inizio novembre. «Nel frattempo lo studente come si mantiene? – si chiede Federica Laudisa dell’Osservatorio regionale per l’università e per il diritto allo studio di Ires Piemonte, intervenuta il 7 novembre al convegno Il diritto allo studio, presente e futuro -. Solo chi ha già determinate possibilità economiche riesce ad attendere di ricevere i soldi della borsa».

Gli attori privati e gli studentati di lusso

In tutta Italia sono sempre più numerosi gli studentati privati. Si rivolgono alle fasce più abbienti di universitari e offrono servizi come palestra, sala cinema, sala yoga, spazi di studio e coworking. A Bologna, il settore ha attirato diversi investitori: c’è Camplus, storica rete di residenze gestita dalla Fondazione CEUR; la catena olandese The Social Hub e Beyoo Laude Living, edificio di proprietà della società per la gestione degli investimenti M&G, con sede a Londra. Anche Livensa Living, parte del colosso immobiliare spagnolo Temprano Capital, ha annunciato che sbarcherà in città nel 2025.

Questi progetti hanno spesso una destinazione d’uso turistica, invece che residenziale: questo comporta per la proprietà maggiori oneri fiscali, ma anche una gestione più flessibile, che permette di mettere a disposizione le stanze ai turisti e non solo agli studenti, specialmente in estate, quando i corsi e gli esami sono finiti e i fuori sede tornano a casa.

Oltre agli studentati di lusso, a Bologna stanno nascendo anche nuove agenzie che prendono in affitto la casa dai proprietari, in alcuni casi la ristrutturano e la ammobiliano, e poi la affittano per periodi più o meno brevi. Tra le più utilizzate c’è Dove vivo, Housing Anywhere e Spota Home. Anche qui i prezzi si aggirano attorno ai 700 euro al mese per una singola.

Per regolamentare il mercato serve la politica

«Per rispondere alla mancanza di alloggi, servono misure modellanti rispetto al mercato degli affitti», spiega Stefano Di Lorenzo, segretario di Sinistra universitaria Bologna e studente di italianistica. «C’è bisogno di un intervento coraggioso della politica – aggiunge – che finora invece ha varato una serie di misure di sostegno al welfare, che non risolvono il problema alla radice, ma vanno solo a tamponare una situazione di disagio economico».

Il Comune di Bologna ha stanziato 1,3 milioni di euro per dare contributi ai proprietari e incentivarli a stipulare nuovi contratti a canone concordato: nel concreto si tratta di una riduzione media tra il 18% e il 20% del canone mensile di affitto, somma che verrà compensata dal Comune direttamente al proprietario. E poi c’è il contributo per l’affitto, pari a tre mensilità del canone fino a 1.500 euro, aperto anche ai non residenti a Bologna (come gli studenti) con Isee inferiore a 17.154 euro, oppure con Isee superiore ma entro 35 mila euro e che dimostrino un calo di reddito superiore al 25% nell’ultimo anno. Nel 2022 sono state ricevute 10.971 domande, con una crescita dell’11% rispetto al 2021.

«A breve nascerà l’Osservatorio metropolitano sull’andamento del mercato degli affitti e delle locazioni turistiche», spiega Emily Clancy, assessore alla casa del Comune di Bologna. «L’osservatorio metterà insieme Comune, Città metropolitana, Regione, università, Acer (che gestisce gli alloggi popolari, ndr), Fondazione Innovazione Urbana, sindacati di proprietari e inquilini e associazioni: insieme studieremo la situazione abitativa in città e pubblicheremo periodicamente dei report. L’anno prossimo poi vorremmo dare vita all’Agenzia sociale per la casa, con la quale il Comune si farà regista del mercato della locazione», conclude Clancy.

Il 12 marzo è anche stato approvato lo stop all’alienazione di patrimonio residenziale pubblico. Nonostante tutto, regolamentare il mercato privato e mettere un tetto massimo alla rendita immobiliare non è semplice: «Spesso il Comune non può agire in mancanza di norme nazionali – afferma Clancy -. Per questo stiamo interloquendo con il governo: tra le proposte c’è quella di istituire strumenti più adeguati per i Comuni e di dare impulso alla nascita di soggetti come le housing association di stampo nordeuropeo, che si potrebbero inserire nel vuoto tra stato e mercato: si tratta di cooperative che si occupino di costruire e gestire alloggi di edilizia sociale». Le housing association sono enti non profit a metà tra le case popolari e le proprietà private affittate a prezzo di mercato che mettono a disposizione alloggi di edilizia sociale convenzionata.

La legge sugli studentati e il “federalismo demaniale”

Legge 338/2000: prevede il cofinanziamento da parte dello Stato per interventi rivolti alla realizzazione di alloggi e residenze per studenti universitari.

Decreto legge 69/2013: reca disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia. Tra queste, l’art. 56 bis stabilisce il cosiddetto “federalismo demaniale” e prevede una procedura semplificata per il trasferimento di proprietà, a titolo non oneroso, dei beni gestiti dall’Agenzia del demanio e dei beni già in uso e non più necessari del ministero della Difesa, a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni.

Gli spazi vuoti e la rigenerazione fallita

Esiste poi ancora uno stock di immobili, anche pubblici, che è lasciato sfitto. La rete D(i)ritti alla città ha mappato gli spazi vuoti urbani: a Bologna ci sono circa 600 edifici vuoti, per oltre un milione di metri quadri inutilizzati. Uno su quattro ha destinazione d’uso residenziale, il 67% sono di proprietà privata e il 33% di proprietà pubblica. La scorsa estate la rete ha presentato una delibera di iniziativa popolare sui beni comuni, che chiede la restituzione alla collettività dei beni immobili pubblici dismessi, per trasformarli in luoghi di socializzazione, spazi di produzione culturale indipendente, luoghi di studio e formazione, abitazioni ad affitto parametrato al reddito, luoghi per lo sport popolare, per la medicina di comunità e la partecipazione attiva di persone in condizioni di fragilità, mercati contadini, negozi di vicinato, laboratori artigianali. Per motivazioni tecnico-formali, la segreteria generale del Comune ha però bloccato il processo di approvazione.

Tra gli spazi pubblici inutilizzati ci sono anche le ex aree ferroviarie e le ex aree militari dismesse, coinvolte nei processi di rigenerazione.

«Le aree militari dismesse sono di proprietà pubblica e devono essere destinate nella loro interezza a funzioni pubbliche, salvaguardando gli edifici storici e incrementando il verde già esistente – spiega Mauro Boarelli di D(i)ritti alla città -. Se la funzione prevalente cambia, quelle aree vengono di fatto privatizzate. Gli amministratori danno per scontato che il recupero di queste aree dismesse passi obbligatoriamente attraverso vaste operazioni immobiliari. Questo schema è dettato come l’unica strada possibile ed è organizzato intorno ad una parola magica, “valorizzazione”, utilizzata impropriamente nel senso esclusivo di attribuire ai beni un valore economico e ricavarne un guadagno, la cui fetta più grande però non andrà ai soggetti pubblici, ma agli investitori privati».

Nel 2013, il Comune di Bologna avrebbe potuto fare domanda per il trasferimento gratuito di aree del demanio statale, come le ex caserme, agli enti territoriali, grazie al provvedimento di cosiddetto “federalismo demaniale”, previsto dall’art. 56 bis del decreto legge 69 del 2013. Ma ha perso questa occasione, e il 31 dicembre del 2016 è scaduto il termine per presentare le richieste.

Gli striscioni fuori dallo stabile occupato dal Collettivo Universitario Autonomo in via Oberdan – Foto: Michele Lapini

Su 21 progetti di rigenerazione urbana avviati a Bologna, per oltre un milione di metri quadrati, oggi ben il 59% è rimasto inattuato o non completato: lo mostra uno studio della società di consulenza Nomisma, presentato lo scorso 20 ottobre al convegno Why Emilia organizzato dall’Associazione nazionale costruttori edili (Ance) dell’Emilia-Romagna. La proprietà di queste aree è di vari enti, privati e pubblici: c’è la Cassa depositi e prestiti, il Demanio, le Ferrovie, la Regione e il Comune, ma anche diverse società per azioni e società a responsabilità limitata.

«Il problema è che queste aree costano troppo, e dunque rigenerare non è conveniente, perché aggiungendo il costo di costruzione, il prezzo finale al cliente sarebbe troppo alto – spiega l’amministratore delegato di Nomisma, Luca Dondi -. C’è poi un tema di funzioni che sono state decise per quelle aree: il terziario a uso ufficio è molto rilevante, ma non è un settore che oggi tira molto».

In ogni caso, secondo Dondi, la rigenerazione non sarebbe comunque sufficiente per rispondere al grande problema della mancanza di case, soprattutto per studenti, a cui si assiste oggi a Bologna.

«Dobbiamo non solo rigenerare, ma integrare la produzione di case e costruire nuovi edifici: questo comporterà dei mal di pancia, perché avrà un certo impatto ambientale, ma l’emergenza abitativa in questo momento è più urgente – afferma Dondi -. Negli anni passati la produzione edilizia a Bologna è stata inferiore a quella di Modena: abbiamo bisogno di ben altri numeri».

Sul tema interviene anche Raffaele Laudani, assessore all’urbanistica del Comune di Bologna, secondo cui «la rigenerazione urbana ha fallito perché prevale una logica finanziaria, anche quando si tratta di attori pubblici, che sono più interessati a tenere alti i valori delle aree che alla trasformazione vera e propria. Questi terreni costano troppo, e nessuno li compra: oggi le risorse pubbliche non bastano per fare gli interventi abitativi di cui ci sarebbe bisogno, e anche i privati sono restii a investire, perché è difficile trovare una sostenibilità economica». La soluzione, secondo Laudani, non sta nel consumo di suolo, ma nel trovare nuove strade per rimettere in gioco le grandi aree dismesse. «Il Comune sta cercando di trovare modalità per fare interventi che siano al tempo stesso incisivi dal punto di vista sociale, e attraenti per i privati».

La Bologna del futuro avrà ancora posto per gli studenti?

Gli studenti sono un’enorme ricchezza per una città come Bologna: la ricerca del laboratorio HousingBo mostra che ogni studente fuorisede spende in media 887 euro al mese (compreso l’affitto), e porta un grande valore aggiunto sia in termini occupazionali sia economici. Ogni 14 studenti fuori sede si genera un’unità di lavoro a tempo pieno, e ogni giorno gli studenti fuori sede generano un valore aggiunto di circa un milione 200 mila euro. Allontanare gli studenti dal centro storico per lasciare posto ai turisti significherebbe quindi non solo trasformare l’identità della città, ma anche scoraggiare l’arrivo di nuovi universitari, perdendo di fatto un’importante fonte di guadagni.

«Bologna può ancora decidere cosa fare del proprio centro storico, che non è ancora completamente turistificato – commenta Nicola De Luigi, ricercatore sociale dell’Università di Bologna che ha condotto l’indagine HousingBo -. Siamo in tempo per non diventare la nuova Firenze d’Italia».

La turistificazione rischia di portare a uno snaturamento del centro, che diventa un prodotto di consumo orientato alle necessità dei turisti, invece che degli abitanti. «La sfida oggi è: come costruire una città che accolga tutti? Riusciremo ad andare verso un modello di città policentrica, dove i diversi centri sono collegati tra loro in modo efficiente?».

Anche il terzo Rapporto sul mercato immobiliare nelle grandi città di Nomisma mette in guardia: oggi Bologna rischia quello che viene definito «l’effetto abbandono». La domanda di case in affitto «è in costante crescita ed è rappresentata in primis da studenti e a seguire lavoratori non residenti e giovani coppie o single. Ormai risulta evidente come tale concorrenza abbia spinto il mercato verso la saturazione». La ricerca sulle abitudini abitative di Changes Unipol, elaborata da Ipsos, mostra che oggi a Bologna solo una persona su cinque, in caso di cambio casa, vorrebbe trasferirsi in centro.

«Da qualche anno stiamo assistendo alla volontà di trasformare Bologna in una città turistica», conclude Mattia Fiore, dottorando in sociologia dell’università di Bologna, che si occupa di trasformazioni urbane e dell’impatto di studenti e turisti sul tessuto della città.

«L’arrivo di Ryanair, il parco giochi del cibo Fico, la nomina dei portici come patrimonio Unesco… sono tutti tasselli del puzzle, è così che l’esplosione di Airbnb trova un senso. Le scelte politiche degli ultimi anni hanno favorito i processi di turistificazione e gentrificazione che vediamo oggi. Questi tuttavia non sono inevitabili: è venuto il momento che Bologna scelga che tipo di città vorrà essere nel suo futuro».

CREDITI

Autori

Alice Facchini

Editing

Lorenzo Bagnoli

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Con il sostegno di

Stars4Media

Foto di copertina

Uno scorcio di via Zamboni, a Bologna
(Michele Lapini)

A caccia dei titolari effettivi

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A caccia dei titolari effettivi

Lorenzo Bagnoli

La Galleria Vittorio Emanuele è soprannominata il “salotto di Milano”. Un salotto con la pianta a croce, come una chiesa. Fin dalla sua costruzione è infatti uno snodo sacro per commerci e incontri della borghesia cittadina. Nel 2018 il Comune di Milano ha emanato un bando per assegnare lo Urban Center, spazio eventi che occupava, fino ad allora, la vetrina più vicina all’ingresso che affaccia su piazza della Scala. Si trattava di uno spazio pubblico da affidare in gestione a dei privati. Su proposta del consigliere David Gentili, il Consiglio Comunale ha introdotto una mozione anti-corruzione per pretendere che i partecipanti rendessero esplicito chi fosse il titolare effettivo della nuova proprietà, pena l’esclusione dalla gara. Nessuna amministrazione pubblica si era mai spinta a tanto. E alla fine anche quella milanese è dovuta tornare sui suoi passi: l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) ha infatti fermato l’iniziativa, affermando che il Comune si stava arrogando un potere al di là della sua competenza.

Al di là dell’esito (lo spazio è stato assegnato a Moncler, azienda italiana del tessile) il problema di sapere esattamente chi si sta appropriando di parti importanti della città esiste. Secondo una ricerca di Transparency International pubblicata ad agosto 2020, negli ultimi cinque anni Milano ha attratto 6,8 dei 12,9 miliardi dei fondi esteri interessati al settore immobiliare italiano. Le strutture societarie delle entità coinvolte nelle compravendite sono spesso molto articolate, con sistemi di scatole cinesi e sedi in paradisi fiscali. Molto di rado i reali proprietari sono noti. Molto spesso accanto ai pochi nomi che si riescono a scoprire ce ne sono molti altri completamente nascosti, fra quote di minoranza e investitori piccoli e grandi.

Il motivo di tutta questa complessità è il vantaggio fiscale di cui si può beneficiare in certe giurisdizioni che, di per sé, non è illegale. Indicare però chi siano i beneficiari effettivi che guadagnano da un certa compravendita è fondamentale per due motivi: capire le intenzioni di chi investe e riscuotere le tasse.

Se il beneficiario non è noto, da un lato ci potrebbero essere infiltrazioni criminali all’interno dei veicoli di investimento (anche con quote minoritarie); dall’altro, c’è un tema di sconti fiscali che sono sì previsti dalle legge, ma che non è detto per questo che siano equi e corretti. Sul fronte dei vantaggi tributari, per esempio, convenzioni e accordi contro le doppie tassazioni offrono esenzioni dal pagamento delle tasse per soggetti residenti all’estero. Ma quando il beneficiario ultimo di un’operazione è ignoto, non è neanche possibile accertare se abbia diritto o meno a tali agevolazioni. Così come fare certe domande non è permesso all’amministrazione comunale della città, è impossibile per la stessa Agenzia delle Entrate a volte.

Rispetto invece all’infiltrazione criminale nei fondi con titolare effettivo nascosto all’estero, il rischio c’è, ma al momento non è stato rilevato da indagini specifiche. L’avvocata Valeria Genesio di Agedi Italia afferma che «questo pericolo al momento non lo sento», anche in virtù delle normative antiriciclaggio e della tracciabilità in tutto il mondo delle operazioni di alcuni dei principali attori venuti a Milano. Che le proprietà immobiliari siano un strumento di riciclaggio è un fatto assodato, ma che la ripulitura del denaro in immobili avvenga attraverso fondi e veicoli d’investimento di base all’estero sarebbe in effetti una novità per l’Italia. I segnali però che l’ambiente vada tenuto monitorato sono tanti e provengono anche da città “modello” per lo sviluppo immobiliare di Milano.

Lo shopping dei fondi sovrani

Negli anni intorno ad Expo, a Milano sono arrivati anche i fondi sovrani a investire nell’immobiliare. A ogni investimento pubblico è sempre seguita la polemica di quale possa essere, oltre il profitto, il motivo per cui spingersi fino all’Italia, a prescindere da chi sia l’investitore.

La Qatar Investment Authority (Qia) è dal 2015 proprietaria al 100% del progetto di Porta Nuova, il nuovo distretto tra Piazza della Repubblica, Stazione Garibaldi, Piazza XXV Aprile e Piazza Einaudi. È dove sorge piazza Gae Aulenti, uno dei nuovi poli attrattivi della città, con le sue torri e la sua fontana. È uno spazio polifunzionale che senza ombra di dubbio ha cambiato il volto della città. Il Paese è il principale nemico regionale dell’Arabia Saudita ed è uscito solo all’inizio del 2021 da un embargo politico, economico e logistico messo in atto dalla coalizione anti-Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto, dal 2017. È un Paese spesso criticato dalle organizzazioni internazionali per l’abuso sui diritti umani e che secondo alcuni analisti sta cercando, anche attraverso il suo fondo sovrano, di raccogliere consensi per diventare una potenza egemone a livello regionale.

All’inizio anche Sofaz, il fondo sovrano dell’Azerbaijan, è entrato a Milano acquistando Palazzo Turati, ossia la sede della Camera di Commercio di Milano. Il Paese è guidato da Ilham Aliyev, dittatore che nel 2020 ha anche invaso l’enclave del Nagorno-Karabakh, a maggioranza armena, e scatenato una guerra contro il Paese rivale. Già durante l’Expo del 2015 l’allora primo ministro Matteo Renzi era stato criticato per l’incontro con Aliyev. Nel 2019 è stato poi nuovamente ceduto a un fondo americano, senza che sia stato precisato quale.

L’ultimo fondo sovrano con possedimenti a Milano è Adia, cioè l’autorità d’investimento di Abu Dhabi. Nel 2018 ha acquistato una vecchia sede dell’Inps, in via Melchiorre Gioia, vecchia sede dell’Inps. Il progetto è farci il più sostenibile tra i grattacieli della città, con un investimento complessivo di oltre 270 milioni di euro.

Tutti i fondi sovrano hanno perfezionato le loro operazioni attraverso Coima Sgr, società di gestione del risparmio tra le più attive a Milano.

Nel rapporto di valutazione del rischio curato dalla National Crime Agency, l’agenzia britannica che si occupa di criminalità organizzata, si legge per esempio che «elite straniere corrotte continuano a essere attratte dal mercato immobiliare, specialmente a Londra, allo scopo di mascherare i profitti della loro corruzione». In pratica, a Londra, una delle città prese dal sindaco di Milano Giuseppe Sala come esempio, si continua a riciclare denaro sporco tramite le operazioni immobiliari.

Per prevenire il rischio, uno degli strumenti da implementare è proprio un registro dei titolari effettivi di una società. Dal 2019 il Parlamento italiano ha recepito la direttiva europea che ne richiede l’introduzione, ma non sono ancora stati emanati i decreti attuativi. Alcune delle recenti compravendite di importanti edifici di Milano indicano invece quanto sarebbe utile disporre già di uno strumento del genere e quanto questo aiuterebbe a sgombrare il campo da possibili equivoci sulla guida di certe operazioni.

Il palazzo del Credito italiano, in piazza Cordusio

La cessione del Palazzo del Credito italiano è stata la più significativa operazione immobiliare di Milano privato su privato, nel luglio 2015, come segnala Transparency International. Prezzo d’acquisto: 354 milioni di euro; valore dell’investimento per il rifacimento dei 55 mila metri quadri: 440 milioni di euro. Il Palazzo del Credito Italiano – realizzato dall’architetto Luigi Broggi tra il 1901 e il 1902 – è stato per anni la sede di Unicredit in quello che da sempre è il cuore finanziario di Milano, piazza Cordusio.

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I volti dei suoi acquirenti si perdono dietro un muro di scatole offshore. Gli investitori Quinbin Wang e Guangchang Guo, quest’ultimo soprannominato il Warren Buffett della Cina, sono le persone fisiche che stanno dietro alla proprietà di una holding con sede alle Isole Vergini Britanniche, Fosun International Holdings Limited. Quest’ultima è la società madre che controlla altre due società intermedie, entrambe con sede a Hong Kong, attraverso cui si arriva alla Fosun International Limited, l’acquirente del Palazzo del Credito italiano.

Fosun è un gruppo finanziario gigantesco nato nel 1992 con interessi molto diversificati. È proprietario, tra il resto, del Club Méditerranée, brand francese di resort di lusso, di quote del Cirque du Soleil, di un hedge fund londinese, di marchi di alta moda. Tra i suoi azionisti, dal 2015, c’è anche Jack Ma,il proprietario di Alibaba, il gigante dell’e-commerce cinese. Il gruppo ha anche un settore farmaceutico che sta distribuendo il vaccino BioNtech in Cina.

Guangchang Guo è stato anche al centro delle cronache in Cina, poco dopo l’acquisto del palazzo di piazza Cordusio. A fine del 2015 è infatti misteriosamente scomparso per quattro giorni, salvo poi riapparire a Shanghai circondato da poliziotti. Il miliardario ha dichiarato di essere stato impegnato con la polizia cinese nell’ambito di una complessa operazione, senza aggiungere altro. Secondo la ricostruzione di diversi media, l’uomo d’affari si sarebbe visto costretto a collaborare alla campagna anticorruzione iniziata dal presidente cinese Xi Jinping in quel periodo. Guangchang aveva infatti avuto relazioni d’affari con Wang Zongnan, businessman condannato a 18 anni di carcere sempre nel 2015.

Nell’ex palazzo del Credito Italiano gestito da Fosun avrà sede The Medelan, dal nome celtico della Milano preromana, uno spazio misto per uffici e negozi. “Investor”, secondo quanto riporta il sito, è Fidelidade, compagnia assicurativa portoghese controllata all’85% da Fosun attraverso un’altra matrioska di società che finisce alle Isole Vergini Britanniche. Il resto di Fidelidade è di proprietà dello Stato portoghese. Per lo sviluppo immobiliare, Fidelidade ha affidato la costituzione di un fondo immobiliare a DeA Capital Real Estate SGR, ex IDeA Finmit, ovvero la società del Gruppo DeAgostini dalla quale il fondo di Hong Kong ha acquistato il palazzo nel luglio 2015. Il fondo immobiliare che gestisce l’operazione si chiama Fondo Broggi, di cui Fidelidade è il primo quotista. Secondo il cronoprogramma iniziale, il progetto dovrebbe concludersi entro la fine del 2021 e nonostante l’emergenza Covid abbia costretto a una lunga chiusura, i gestori del progetto immobiliare promettono ritardi minimi.

In definitiva, l’operazione che contribuirà a disegnare il nuovo profilo di piazza Cordusio vede la partecipazione di capitali occulti. Qingbin Wang e Guangchang Guo sono di certo il volto “pubblico” della Fosun, ma le molteplici intermediarie e i fondi di investimento che partecipano all’operazione possono nascondere qualsiasi cosa. Non basta il profilo internazionale di Fosun a scacciare questi sospetti.

La strana svendita del Grand Hotel Puccini

La famiglia proprietaria del Grand Hotel Puccini nel 2010, i Gabbai, aveva un leasing con Unicredit a copertura dei 16 milioni di euro spesi per l’acquisto dell’albergo di corso Venezia 33, riporta il Corriere della Sera il 2 novembre 2015. La società dei Gabbai ha però smesso immediatamente di pagare finendo in causa, due anni dopo, con la banca. La sentenza a favore di Unicredit era scontata, ma le lungaggini con cui la stessa banca ha iniziato il processo hanno prodotto, alla fine, il fallimento della società proprietaria dell’albergo. Prima che Unicredit potesse rivalersi sull’immobile forte della sentenza a suo favore, l’albergo è stato rivenduto al prezzo stracciato di 3,5 milioni di euro: una perdita di valore di 13 milioni nel giro di cinque anni, mentre tutta la città vedeva già le quotazioni immobiliari che cominciavano il rialzo, dopo anni di crisi.

In questo caso la questione non è la trasparenza societaria, ma chi ha fatto da consulente all’operazione: uno studio di commercialisti guidato da Pasquale “Lino” Guaglianone, condannato per aver fatto da tesoriere per i Nar, i Nuclei armati rivoluzionari, e immortalato dagli inquirenti mentre incontra Paolo Martino, referente della cosca dei De Stefano a Milano. All’epoca il Corriere parlava di una «seconda consulenza» dello studio di Guaglianone a favore di clienti cinesi che avrebbero cercato di acquistare il grand hotel. Il sospetto era che il consulente stesse facendo il doppio gioco in modo da ottenere la svendita dell’immobile.

Chi alla fine lo ha acquisito è stato prima il fondo Kona di BNP Paribas il quale poi nel 2019 lo ha rivenduto a una società delle Isole Cayman, la First Sponsor Limited. Quest’ultima è controllata da tre società di Singapore, ciascuna delle quali sorretta a sua volta da altre controllanti. La catena societaria è tanto frammentata che è difficile stabilire la persona fisica che è titolare effettiva del gruppo. Di certo, la quota più consistente è di proprietà della famiglia Kwek, la più ricca famiglia di Singapore, con origini cinesi. Con First Sponsor, gestiscono uffici e alberghi di lusso tra Cina, Paesi Bassi, Australia e Germania. Nel bilancio si legge che prevedono per il Grand Hotel Puccini una trasformazione in ostello della gioventù, in modo da diventare un importante struttura ricettiva.

Data la fitta rete di nomi dietro First Sponsor, non è possibile sapere chi abbia deciso questo sviluppo per l’immobile di corso Buenos Aires. Sta di fatto che per completare l’acquisto il gruppo di Singapore ha dovuto attendere la fine del processo contro la vecchia proprietà Gabbai avvenuto nel 2019, quando la Corte di Cassazione ha confermato la condanna per peculato della vecchia società proprietaria dell’albergo per non aver versato, tra gennaio e giugno 2013, le tasse di soggiorno raccolte all’amministrazione comunale. Ora che le lungaggini legali italiane si sono chiuse, però, è dentro First Sponsor Limited che, a seguito dell’emergenza Covid, sono nati dei contrasti. Verso la fine del 2020 uno dei nomi dei proprietari dei veicoli finanziari di First Sponsor, Kwek Leng Peck, ha infatti lasciato le aziende di famiglia in disaccordo con un investimento in Cina proprio nel settore alberghiero. Secondo analisti finanziari citati da Bloomberg, la crisi potrebbe essere stata acuita dalla crisi economica che il gruppo dovrà affrontare dopo la pandemia.

Kryalos, la forma di Blackstone a Milano

Si scrive Kryalos, si legge Blackstone. La società – del tutto italiana nella formazione e nella dirigenza – è stata scelta come «operating partner» nel settore immobiliare in Italia da Blackstone, multinazionale della finanza di base a New York. Dal 2019 il 35% delle quote di Kryalos sono di proprietà di Blackstone che controlla Kryalos Investment attraverso due veicoli lussemburghesi a loro volta controllati al 100% dalla società delle Isole Cayman Brep Investment 9q Lp Limited, uno dei fondi di Blackstone. Kryalos è l’ultima società di asset management di cui Blackstone è diventata socia, ma è presente a Milano già da tempo.

Secondo lo studio di Transparency International Kryalos è il secondo gruppo più attivo in Italia negli ultimi cinque anni con investimenti in Italia per oltre 980 milioni di euro, a Milano soprattutto. Il gruppo internazionale di Blackstone ha sede a Londra e tra le ultime sedi aperte, dopo Abu Dhabi e Parigi, c’è anche Milano. Ha chiuso il 2020 con un portafoglio di asset da 7,9 miliardi di euro, in aumento del 20% sull’anno precedente. Per Kryalos, il settore privilegiato degli investimenti immobiliari è quello uffici, che copre il 44% del totale. Tra le ultime operazioni in corso, Kryalos ha realizzato l’acquisto di un immobile nel Business District Bicocca, nuovo distretto destinato agli uffici nella periferia nord della città e la cessione del Palazzo delle Poste (edificio storico di piazza Cordusio che sta di fronte a quello acquistato dalla Fosun International, sede di Starbucks, JP Morgan e della stessa Kryalos). Quest’ultimo era di proprietà di un fondo gestito da Kryalos con Blackstone come socio al 100% il quale ha ceduto l’immobile per 246,7 milioni al fondo Milan Trophy RE Fund 3, la cui società di gestione è sempre Kryalos, ed è «sottoscritto da un club deal di investitori della divisione Private Banking di Mediobanca», come si legge nel comunicato stampa.

Secondo lo studio di Transparency International Kryalos è il secondo gruppo più attivo in Italia negli ultimi cinque anni con investimenti in Italia per oltre 980 milioni di euro, a Milano soprattutto

Fuori dall’Italia il fondo americano ha investito in modo deciso anche nell’abitare privato. «Nel giro di pochissimo tempo investitori privati e gestori di patrimoni come Blackstone sono diventati i più grossi proprietari/locatori al mondo, con l’acquisto di migliaia e migliaia di unità abitative tra Nord America, Europa, Asia e Sudamerica», diceva nel 2019 il presidente del gruppo di lavoro delle Nazioni Unite su diritti umani e imprese Surya Deva. Il modello di business di cui Blackstone è capofila ha trasformato la casa in un mero bene finanziario, quando invece dovrebbe essere anche un diritto. È stato l’innesco, dice l’Onu, del processo di “finanziarizzazione” dell’abitare: «I proprietari – aggiunge il professor Deva – sono diventati corporazioni senza faccia che creano scompiglio per i diritti degli inquilini alla sicurezza e contribuiscono alla crisi globale della casa».

In una lettera inviata alla società, il gruppo di esperti delle Nazioni Unite ha contestato a Blackstone le operazioni di lobbying per evitare che passassero norme per calmierare gli affitti in California e alcune operazioni con cui ha acquistato interi complessi immobiliari con la promessa di offrire maggiori servizi, invece ha sfrattato gli inquilini più poveri e alzato i canoni d’affitto. Alcuni di questi progetti contestati sono peraltro stati già rivenduti, come il complesso di Ostrovo in Repubblica Ceca, dove gli inquilini secondo quanto riscontrato dagli esperti erano a maggioranza rom. A Madrid Blackstone ha comprato anche case di edilizia residenziale pubblica alzando in seguito l’affitto tanto da «costringere molti a lasciare le proprie abitazioni», annotano gli esperti. A Copenhagen la presenza di Blackstone a partire dal 2012 ha stravolto il mercato, raddoppiando affitti da 700-900 corone mensili a seguito di interventi di ristrutturazione. In Svezia, tra il 2009 e il 2017 gli affitti sono aumentati tra il 59 e l’84%, a seconda delle tipologie. Da quando Blackstone è entrata in maggioranza di una società pubblica che gestisce 21mila appartamenti a Stoccolma, con gli interventi di ristrutturazione «gli affitti sono aumentati del 50%» mentre «il prezzo delle azioni è cresciuto del 279% dal 2014».

Blackstone ha risposto che la lettera delle Nazioni Unite contiene «numerose accuse false, significativi errori materiali e conclusioni imprecise». L’azienda ha precisato che il mercato, a prescindere dal suo intervento, ha visto negli ultimi dodici anni la riduzione delle nuove case del 50% negli Usa e del 90% in Spagna. Blackstone ha poi precisato che gli interventi di ammodernamento hanno migliorato le condizioni abitative degli inquilini, permesso a famiglie che prima non avrebbero potuto permetterselo di stare in un’abitazione più nuova e che l’azienda è sempre stata attenta a rispondere alle esigenze degli inquilini.

Per ora, a Milano e in generale in Italia, l’intervento di Blackstone si concentra su poli della logistica e uffici. Due immobili in gestione a Kryalos a Milano sono invece a uso residenziale, ma con numeri piccoli.

L’uomo del cambiamento, Manfredi Catella

Se c’è un uomo simbolo degli investimenti della nuova Milano, di sicuro è Manfredi Catella. È il nome sempre presente nelle più importanti aggiudicazioni dei progetti immobiliari milanesi. La sua società si chiama Coima Sgr ed è tra le vincitrici dello Scalo Romano, uno dei progetti più ambiti della città. L’ex scalo ferroviario, da decenni in disuso, diventerà la sede del Villaggio Olimpico durante Milano-Cortina 2026. L’area pubblica è stata ceduta a una cordata tra Coima, Prada Holding (società di proprietà della casa di moda di Miuccia Prada che gestisce anche la vicina Fondazione Prada, museo realizzato in un’ex distilleria) e la francese Covivio, per 180 milioni di euro per 200 mila mq. Oltre al villaggio olimpico, alla nuova sede della multiutility A2a, ci saranno residenze, studentati e un parco di 100 mila mq, sui 20 ettari a disposizione. Intorno a quest’area nascerà Symbyosis, nuovo distretto del terziario milanese il cui sviluppo sarà guidato da Covivio. Il futuro è d’obbligo, ma il condizionale altrettanto: per quanto ci sia estremo ottimismo nel settore, quello che si sta valutando oggi sono solo rendering. Gruppi antagonisti storici, come il collettivo OffTopic, contestano l’operazione perché  considerano il verde pubblico una pecetta per coprire cemento e gentrificazione di un quartiere popolare.

Catella è anche dietro a Porta Nuova, la rinnovata area dove sorge uno dei landmark della nuova Milano, il Bosco Verticale, 28.700 metri quadri di appartamenti di lusso a pochi passi da corso Como, arteria della movida milanese. Coima Sgr è una società che fa sviluppo, quindi trasforma un’area e poi la vende. Nasce nel 2015 come distaccamento della Sgr italiana di Hines, società di sviluppo americana che è il principale attore delle compravendite immobiliare in Italia dal 2015, con 1,39 milioni di investimenti. Prima di acquisire Coima, è stato Catella a dirigere il ramo italiano di Hines, a partire dal 2005. In un’intervista del 2010 riportata nel suo blog quattro anni dopo dal giornalista dell’Espresso Vittorio Malagutti, Catella diceva: «Dopo la scomparsa di mio padre, sei anni fa, mi sono rimasti tre mentori: mia moglie, Gerald Hines e Ligresti». Ligresti è da intendersi Salvatore Ligresti, il costruttore più conosciuto della Milano degli anni Novanta deceduto nel 2018. Lo chiamavano «il vicerè», vista la sua propensione a mettere le mani su tutto ciò che contava in città.

La questione fiscale

Il boom delle diverse tipologie di fondi immobiliari, considerati dagli analisti del settore l’unico strumento possibile per garantire investimenti a lungo termine, si porta dietro alcune preoccupazioni di investigatori e ispettori dell’Agenzia delle entrate. Valgono per i fondi che hanno una struttura transnazionale. La prima e la più importante riguarda le identità degli investitori. La seconda riguarda il regime fiscale di comodo di cui – per legge – godono.

Costruire un’architettura fiscale semplice e chiara è sempre stata una delle precondizioni per rendere l’Italia un Paese attrattivo. Per aumentare l’interesse del comparto immobiliare, non ci sono imposte dirette sui fondi immobiliari. Sono le persone fisiche che ottengono dei ricavi sui quali si appkica l’aliquota normalmente del 26%. Un fondo immobiliare trasforma le cessioni di immobili in cessioni di partecipazioni in una società, con il risultato di ottenere un impatto fiscale molto basso. Chi è residente all’estero, inoltre, può spesso beneficiare di convenzioni tra il Paese di residenza e l’Italia per evitare regimi di doppia tassazione. Chi abusa di questi strumenti, però, potrebbe arrivare a disegnare uno schema in cui è totalmente esentato, arrivando a una totale evasione del fisco.

La tassazione è croce e delizia degli investitori in fondi immobiliari da sempre. «La rilevanza del fattore fiscale – si legge nel resoconto dell’audizione del marzo 2015 alla Commissione parlamentare per il controllo sull’attività degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza sociale di Luca Zucchelli, dirigente della Banca d’Italia – ha fatto sì che i fondi immobiliari riservati e speculativi sono stati non di rado utilizzati impropriamente». Quest’uso «improprio», segnalato a partire dal 2005, in pratica riguarda la costituzione di diversi fondi che avevano in realtà un reale proprietario unico al solo scopo di ottenere una condizione fiscale più vantaggiosa. Da allora la normativa è cambiata, ma gli usi impropri, questo come altri, sono rimasti. Nel 2017, sempre Banca d’Italia scrive di 4,2 milioni di euro di commissioni chiesti per un errore nella valutazione della normativa da parte della società di gestione. La materia, insomma, si presta a malinterpretazioni.

«La rilevanza del fattore fiscale ha fatto sì che i fondi immobiliari riservati e speculativi sono stati non di rado utilizzati impropriamente»

Luca Zucchelli, dirigente della Banca d'Italia

Il problema diventa tanto più difficile da risolvere quanto più è opaca la struttura finanziaria e quanto più sconosciuto è il quotista del fondo. Nel caso di contenziosi fiscali lunghi ed estenuanti, sia l’Agenzia delle entrate sia il contribuente può risolvere la questione attraverso uno strumento che è definito “accertamento con adesione”. I dati dell’ultimo bollettino degli accertamenti fiscali del bimestre gennaio-febbraio indicano che dopo i controlli il gettito recuperato è stato di 1,1 miliardi (-34% rispetto al 2020). Non esistono dati al dettaglio ma una parte certamente riguarda anche operazioni immobiliari. Si tratta di accertamenti quindi che si sono risolti con il contribuente che ha accettato di pagare.

Per gli investimenti superiori ai 30 milioni di euro esiste anche un istituto che si chiama “interpello per nuovi investimenti”, per cui è previsto un accordo ad hoc tra chi riscuote e il contribuente. In pratica l’Agenzia delle entrate, a porte chiuse, stabilisce con un grosso contribuente quale sia la cifra corretta da versare al fisco, a fronte dell’indotto che si prevede possa creare l’investimento di partenza. L’interpello è tra le voci inserite all’interno del pacchetto per la “cooperative compilance”, il regime di adempimento collaborativo: in pratica è una forma di incentivo a risolvere le questioni con il fisco italiano. Introdotto nel 2017, il primo gruppo a farne uso è stato Ferrero, l’azienda della Nutella. Quell’anno Il Sole 24 Ore ha celebrato il fatto che fosse aumentato il gettito fiscale a cui ha contribuito la società, ma va registrato che Ferrero continua comunque a mantenere la propria sede principale in Olanda, dove la tassazione per le società è agevolata. Le misure che prevedono una collaborazione tra fisco e contribuente permettono sì maggiore «certezza fiscale», ma alla fine si adeguano alla competizione fiscale che permette ai gruppi sufficientemente ricchi di disegnarsi una tassazione su misura, in Italia e non solo.

Anche le operazioni immobiliari, dato il loro ammontare, possono risolversi in questo modo. Il problema, ancora una volta, è il possibile abuso: l’ammontare stabilito non è “scrutinabile”, resta un accordo tra le due parti, non se ne conosce l’entità. Nemmeno è noto quanto di frequente se ne faccia uso. Banalizzando, il timore è che il sistema fiscale complesso dei fondi immobiliari alla fine sia una forma di incentivo ad accordi di questo genere.

Già al tempo dei Paradise Papers, il database di documenti riservati dello studio legale Appleby del 2017 aveva rivelato come i colossi del settore immobiliare si rivolgessero a grandi società di consulenza fiscale per evitare di pagare più tasse. Il Guardian, in un’inchiesta, aveva raccontato come Blackstone si fosse fatta assistere in alcune operazioni milionarie, in particolare nell’acquisto di un business park a ovest di Londra: un’operazione da 480 milioni di sterline. Come sottolinea lo stesso Guardian, non c’è nulla di illegale, ma è altrettanto un fatto che la creazione di questo sistema di veicoli finanziari che passa dalle isole del Canale al Lussemburgo ha avuto come unico effetto la riduzione del gettito da pagare in Gran Bretagna. Eppure l’evasione attraverso operazioni immobiliari non è un tema molto studiato: l’ultima ricerca a livello Ocse è un report del 2007 in cui si legge che «il settore immobiliare è stato identificato come settore importante per facilitare evasione fiscale e riciclaggio».

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CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli

In partnership con

Arena for Journalism in Europe

Editing

Giulio Rubino

Infografiche & Illustrazioni

Moritz Wienert per Cities for Rent
Lorenzo Bodrero

Con il sostegno di

IJ4EU
Rosa-Luxemburg Stiftung

Milano, la città che aspetta il 2030

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Milano, la città che aspetta il 2030

Lorenzo Bagnoli
Alice Facchini

A Milano «corre l’anno 2030» dal 1996. All’epoca lo cantavano gli Articolo 31, il gruppo rap di J-Ax, nato nella periferia della città, nel quartiere dormitorio di Pioltello. La canzone, 2030, era già un ricordo malinconico degli anni Novanta, di «quando il mondo era l’arca/e noi eravamo Noè/era difficile ma possibile/non si sapeva dove e come/ma si sapeva ancora perché». Quel ritornello, 24 anni dopo, ha ancora qualcosa da dire.

Oggi l’orizzonte temporale del 2030 è diventato il traguardo da raggiungere per la trasformazione della città, secondo il sindaco Giuseppe Sala. Il piano di gestione del territorio è intitolato Milano 2030 perché, dice il sindaco, «a Milano non si improvvisa». Nel mondo del primo cittadino, a differenza dei confusi anni Novanta degli Articolo 31, il futuro arriverà a Milano (il “dove”) con un piano ben preciso (il “come”). Lo ha illustrato il 4 aprile 2019 a San Patrignano, invitato dalla presidentessa della fondazione (ed ex sindaca della città) Letizia Moratti al Sustainable Economy Forum della comunità di recupero per tossicodipendenti. Dopo aver riconosciuto alla sua predecessora una visione a tratti comune con la sua (l’Expo 2015 di cui Sala è stato commissario, in fondo, è un’idea di Moratti), ha parlato delle tre linee direttrici della Milano del 2030: lo sviluppo urbano («non siamo contro il fatto di costruire», purché sia attento all’ambiente), il sistema di mobilità e il verde pubblico. Ha poi parlato dell’idea di fondo che permea l’anima milanese: «L’idea di una trasformazione non radicale ma che non si ferma mai della città». Il motivo? L’unico “perché” pare essere che i milanesi abbiano l’attitudine al «fare», che la trasformazione sia inevitabile: «C’è un falso mito sul modello Milano che dice come questo sia stato un modello di rincorsa di crescita e di turismo, – dichiara Sala in un intervento del 14 aprile 2021 organizzato dalla Triennale di Milano -. È stato anche questo, ma è stato anche una grande voglia di cambiamento e di analisi del futuro». Futuro a prescindere, un nuovo mito per sostituire il vecchio.

Il Covid ha però messo in subbuglio le carte, per quanto, secondo analisti del mercato, non abbia ridotto il flusso di investimenti sulla città. Silvia Mugnano, professoressa di sociologia dell’ambiente e del territorio dell’Università Bicocca, sostiene che Milano durante la pandemia abbia dimostrato di essere abitata soprattutto da cittadini temporanei. «Questo – prosegue – ha significato un cambio anche nel mercato immobiliare: le case si stanno svuotando, ci sono molti appartamenti disponibili per l’affitto, ma i prezzi non scendono. Simbolo del fatto che gli investitori, nonostante la crisi, reggono». Gli “investitori” sono la benzina del cambiamento senza se e senza ma di cui parla Sala. Nel mercato abitativo in particolare, questi investitori sono i proprietari degli immobili o gli sviluppatori dei progetti immobiliari.

Secondo Mugnano ne esistono di due categorie: i fondi immobiliari – italiani ma soprattutto internazionali – che hanno in gestione i maggiori progetti di riqualificazione urbana della città e i piccoli investitori, che nel mattone vedono la forma più semplice ed efficace di risparmio. Nonostante i lockdown a ripetizione, nessuno di loro ha del tutto interrotto i cantieri: «È come se ci si stesse preparando a una nuova fase di esplosione del mercato immobiliare, che coinciderebbe con le Olimpiadi invernali del 2026». Eppure, secondo la professoressa, oggi la città è inginocchiata: il blocco degli sfratti e dei licenziamenti ha congelato la situazione, «ma quando si tornerà alla normalità bisognerà vedere cosa succede in un contesto come quello milanese, dove c’erano già problemi all’accesso alla casa. E allora non si capisce se si continui a costruire perché il treno in corsa non si può più fermare, o perché davvero ci si aspetta una grande rinascita». Lo avevano detto gli Articolo 31 che nel 2030 non si sarebbe più saputo il “perché”.

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Mugnano parla della Milano post Covid-19 come la «città da 15 minuti»: un concetto di urbanistica proposto con insistenza dalla giunta guidata dal sindaco Sala secondo cui il futuro delle metropoli consisterebbe nell’essere composte da quartieri tutti autosufficienti, dove gli abitanti in 15 minuti a piedi o in bici abbiano tutti i servizi necessari. L’idea è stata lanciata qualche mese fa dal direttore scientifico della Sorbona, Carlos Moreno, e applicata al contesto di Parigi, per poi essere copiata anche da Milano. «L’amministrazione sta provando a replicare questo modello, anche se la residenzialità a 15 minuti mette un po’ in discussione il valore aggiunto del vivere in città, che consiste proprio nell’eterogeneità e nell’avere la possibilità di attraversare zone anche molto diverse, ognuna con un’offerta peculiare di beni e servizi», continua Mugnano.

L’evoluzione di Milano

Prima che il Covid-19 arrivasse a sconvolgere il volto della città, Milano ha attraversato tre fasi: anni Novanta, primi anni Duemila, dopo il 2015.

A fine anni Novanta, ci sono stati i grandi progetti di riqualificazione urbana e riconversione delle ex aree industriali, in un’ottica di un policentrismo urbano legato al rilancio di questi territori attraverso l’industria creativa e culturale. È stato l’apice dell’era dei “palazzinari” (i più famosi dei quali sono Salvatore Ligresti e Silvio Berlusconi), l’onda lunga della “Milano da bere” cominciata negli anni Ottanta. «L’idea centrale che stava alla base di queste trasformazioni era quella dell’industria culturale della conoscenza, la stessa che oggi viene usata per la zona dell’ex Expo», afferma Mugnano. I concetti, in fondo, ritornano anche in epoche che sembrano tanto distanti. È così che i quartieri periferici di Bovisa, Bicocca e Barona (le cosiddette tre B) «sono diventati nuovi poli universitari, con un mix abitativo di abitanti temporanei e residenti stabili. Si è creato così un policentrismo urbano che vede centri culturali sparsi in tutta la città. La conseguenza, oltre alla riqualificazione di queste aree, è stata la gentrificazione di alcuni quartieri».

«Il Covid ha significato un cambio anche nel mercato immobiliare: le case si stanno svuotando, ci sono molti appartamenti disponibili per l’affitto, ma i prezzi non scendono. Simbolo del fatto che gli investitori, nonostante la crisi, reggono»
Silvia Mugnano, professoressa di sociologia dell’ambiente e del territorio dell’Università Bicocca

Gli esempi sono zone della movida, come Isola, chiamata così perché inizialmente staccata dal resto della città; il set principale del Salone del Mobile, la zona di via Savona-via Tortona, oppure quelli che un tempo erano quartieri di case di ringhiera come i Navigli. A metà Novecento erano i bastioni dove abitava la classe operaia, in quella che all’epoca era la prima periferia. La vita si svolgeva nel cortile privato, sotto lo sguardo di chi stava al ballatoio. Oggi, in parte, sono diventati gli snodi del distretto del design o della movida milanese.

Poi sono arrivati i grandi investitori internazionali. Fin dai primi anni Duemila, la città ha cercato di attrarre nuovi residenti, nuovi lavoratori, e anche nuovi capitali stranieri. Milano cercava un posto in Europa e non più solo in Italia. Questo ha cambiato completamente lo skyline, ma anche le dinamiche sociali all’interno della città. I quartieri dei grattacieli, Porta Nuova e CityLife, sono completamente nuovi, concepiti da archistar, architetti di fama mondiale che dalla riconversione di questi spazi hanno creato nuove icone architettoniche. «Si tratta di un modello molto più europeo di riqualificazione urbana: c’è stato un cambio di passo, si è alzata l’asticella e Milano è entrata a far parte della competizione immobiliare a livello internazionale – spiega Mugnano –. Il rovescio della medaglia è che questo ha comportato un certo appiattimento, con alcuni quartieri milanesi che cominciano ad assomigliare ad altri quartieri di grandi metropoli europee. Potremmo definirla una globalizzazione del paesaggio».

In questa fase, alcuni investitori tradizionali «sono stati tagliati fuori dalla competizione (come è accaduto per CityLife), mentre altri ne hanno approfittato per fare uno scaling-up e iniziare a operare su un piano più internazionale», aggiunge Mugnano. Era una fase di espansione, almeno fino alla crisi economica del 2008.

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Milano, insomma, ha fatto da apripista in Italia ai processi di finanziarizzazione del mercato immobiliare, con tutti i vantaggi ma anche le distorsioni che ne sono derivati. In che modo si è posta la politica nei confronti di questi cambiamenti? «L’amministrazione si è comportata come un giano bifronte – commenta Mugnano –. Da un lato ha messo in campo strumenti innovativi di marketing urbano, per attrarre capitali, eventi, ma anche una tipologia specifica di popolazione: giovani, talenti, con elevato capitale culturale. La tendenza è legata all’attrazione delle università e delle eccellenze milanesi (come moda e design) che si portano dietro l’interesse di giovani con una certa estrazione sociale. Dall’altro lato, assecondare questo processo ha creato disuguaglianze molto forti: diversi quartieri di edilizia residenziale pubblica sono stati lasciati a se stessi, come San Siro, Corvetto, Gratosoglio. Certo, ci sono stati dei tentativi di ricucire queste due facce della città, con progetti di urbanismo tattico nelle periferie, e di abitare sociale e alternativo. Eppure non si è ampliata l’offerta abitativa dell’edilizia residenziale pubblica, e questo è un segnale del fatto che non si stanno facendo investimenti in questo senso».

Quest’ultima fase storica è esplosa con Expo 2015 che è stata «un’operazione di successo, una vetrina fondamentale per l’Italia», sostiene l’avvocata Valeria Genesio di Agedi Italia, atelier di servizi immobiliari con sedi anche nel Principato di Monaco, Francia, Lussemburgo e Russia. Le Olimpiadi invernali di Milano-Cortina 2026, il prossimo evento nell’agenda internazionale cittadina, «sono una scia, l’occasione per portare il turismo internazionale anche a Cortina e per mettere mano alle infrastrutture, che è una delle carenze che abbiamo», prosegue. Chi è del settore come Genesio, infatti, non è preoccupato per l’andamento del mercato: «L’emergenza Covid ha avuto un effetto sospensivo – continua – ma nella ripresa si stanno sviluppando i trend che erano in atto», ad esempio lo sviluppo di segmenti del settore immobiliare come gli studentati e il “senior living”, una sorta di residence con servizi destinati agli anziani.

Il motivo principale è che questa crisi non è stata sistemica come quella del 2008, ma un’improvvisa frenata di un treno che in realtà era già in corsa. Secondo Genesio, Expo è stato un innesco fondamentale per la ripresa del mercato immobiliare milanese, anche Cortina potrebbe esserlo, ma il contesto è già in continua crescita. La corsa è ripresa se non per qualche segmento che è più in difficoltà, come il mercato degli affitti per gli uffici (ma è solo questione di tempo) o gli affitti a brevissimo termine (segmento, per altro, in cui il boom secondo Genesio era stato eccessivo). L’altra faccia della medaglia è l’analisi che propongono i ricercatori, come Emanuele Belotti dello Iuav di Venezia, che a Il Fatto Quotidiano ha dichiarato che Milano, come altre città europee, va considerata quasi come una «città-rifugio per i capitali internazionali, un fatto che può concorrere a spiegare la relativa tenuta dei valori immobiliari anche nelle fasi di crisi». Una circostanza che fa sembrare che la crisi sia scongiurata, ma che vale (forse) solo per quella economica e non per quella sociale.

Gli investimenti pubblico-privati e la finanziarizzazione della città

Il maxi evento di rilancio del brand Milano, l’Expo del 2015, è stato possibile grazie a finanziamenti pubblici. Durante il suo mandato, il sindaco Sala ha cercato di usare il rinnovato brand milanese per attrarre più investimenti privati da impiegare nella trasformazione della città. Per sviluppare aree industriali o infrastrutturali dall’alto potenziale, ormai dismesse, l’amministrazione ha creato «nuovi strumenti di pianificazione, che insistono su aree specifiche del territorio urbano, e che si caratterizzano per essere molto flessibili», spiega Veronica Conte, borsista di ricerca presso l’Università Bicocca ed esperta di trasformazioni urbane e finanziarizzazione del mercato immobiliare.

Il problema è però capire fino a quando gli investitori privati svilupperanno queste aree in sintonia con il pubblico. Oltre al citato scalo ferroviario di Porta Romana, Veronica Conte ricorda che c’è lo spazio Mind-Milano Innovation District, area che sorge dove un tempo c’erano i padiglioni di Expo. Il progetto è una sorta di città nella città, un polo scientifico all’avanguardia, con tanto di residenze e la nuova sede dell’ospedale Galeazzi (inaugurazione prevista nel 2025): «La nuova destinazione ha fatto tantissima discussione a livello metropolitano: quella è un’area fortemente strategica, da cui si potrà capire chi sono i nuovi attori protagonisti del mercato immobiliare milanese».

Come funziona un fondo immobiliare

I fondi immobiliari sono enti finanziari che investono non meno di due terzi del loro patrimonio in beni immobili, diritti reali immobiliari e partecipazioni in società immobiliari. Possono essere di due generi: “chiusi” oppure “aperti”. Nel primo caso, i fondi raccolgono le sottoscrizioni solo durante l’emissione e il diritto al rimborso è previsto solo a una certa scadenza. Nel secondo caso, entrata e uscita dal fondo hanno meno vincoli. La durata di un fondo immobiliare è per legge tra i dieci e i trent’anni. Il loro scopo è trovare investitori a lungo termine, o nel mercato dei piccoli risparmiatori (il cosiddetto retail), più trasparente perché i fondi sono obbligati a quotarsi in Borsa, oppure tra investitori qualificati, i cui fondi non sono invece quotati e di conseguenza non hanno alcun obbligo di comunicazione. Il ritorno per gli investitori sta in dividendi e alla scadenza del fondo nella redistribuzione del patrimonio, come stabilito dal prospetto informativo.

Le tendenze osservate negli ultimi anni mostrano come i grandi operatori immobiliari si starebbero spostando sempre di più al di fuori della circonvallazione, verso un territorio metropolitano più esteso, e verso nuovi segmenti del real estate, in particolare lo student housing e il senior living. «Fino a prima della pandemia, Milano da un lato attraeva molti giovani, che avevano difficoltà di accesso alla casa, e dall’altro aveva una popolazione sempre più anziana, che necessitava spazi di vita idonei – racconta Conte –. Ora l’emergenza sanitaria ha mescolato molto le carte ed è difficile fare previsioni per il futuro. Comunque, la conseguenza più rischiosa della finanziarizzazione del mercato immobiliare resta sempre la stessa: il pericolo è che in questi processi, dove i grandi investitori hanno grandi expertise e grandi fondi, il pubblico non assuma il ruolo di guida e gli attori finanziari abbiano un impatto molto forte sulla governance del territorio, che potrebbe perdere di vista il bene comune. I processi di finanziarizzazione portano infatti a una decontestualizzazione della pianificazione urbana, che risponde sempre più a bisogni globali e sempre meno alle necessità della comunità».

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Già nel 2006 il professor Luca Gaeta del Politecnico di Milano scriveva del fenomeno della finanziarizzazione. Non lo definiva solo con la comparsa di fondi, banche e assicurazioni nel controllo di pezzi di mercato finanziario, ma soprattutto riconosceva già 14 anni fa come la finanziarizzazione fosse legata alla «concentrazione degli asset immobiliari nel portafoglio di istituzioni finanziarie, che compiono scelte di sviluppo, di investimento e di gestione orientate da una logica reddituale». È un fenomeno che si lega indissolubilmente alla maggiore disponibilità di strumenti finanziari, anche solo per l’acquisto di una casa. Ciò che ne deriva è che i beni immobiliari finiscono per concentrarsi nelle mani di chi vuole metterli a reddito e non solo esserne proprietario.

Scrivono Marianna Filandri e Gabriella Paulì su Quaderni di Sociologia del 2019 che «il mercato immobiliare non si configura più esclusivamente come luogo dove viene soddisfatto il bisogno abitativo delle famiglie ma piuttosto come mercato dove si riproducono interessi finanziari di gruppi diversi». È stato un fenomeno lento, a cui hanno contribuito «sia l’evoluzione del sistema bancario sia la conseguente liberalizzazione del mercato del credito. In questo processo si inseriscono a pieno titolo – anche sul piano politico-culturale – la nascita e la diffusione dei fondi immobiliari».

«Il mercato immobiliare non si configura più esclusivamente come luogo dove viene soddisfatto il bisogno abitativo delle famiglie ma piuttosto come mercato dove si riproducono interessi finanziari di gruppi diversi»
Marianna Filandri e Gabriella Paulì

Il 13 aprile 2021 Arcipelago Milano, storica rivista fondata dall’ex costruttore e membro del comitato antimafia del Comune Luca Beltrami Gadola, ha pubblicato una lettera aperta al sindaco Sala. La firmano in 26 esponenti dei sindacati degli inquilini, operatori dei laboratori di quartiere, professori del Politecnico. Sono alcuni degli attori che hanno permesso al centrosinistra di tornare a vincere a Milano con Giuliano Pisapia e di restare al potere ancora oggi. Arcipelago Milano è una realtà culturale che fa dibattito, in città, dal 2009.

Nel documento si legge: «Sindaco, la pandemia rivela la verità del Modello Milano: le politiche che da una parte arricchiscono i ricchi, dall’altra lasciano vuoto il frigorifero di un numero sempre maggiore di poveri, privi di risorse». E più avanti: «Quale Idea di Città realizzano le istituzioni che fanno appello alla solidarietà mentre decidono di non attivare nuove politiche redistributive e di giustizia sociale?». Per quanto il mercato – come dicono gli addetti ai lavori – continui a funzionare, c’è un pezzo di città che sente una mancanza di senso nella Milano da qui al 2030. Trova una visione, ma nel senso del marketing, e non del «perché».

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Alice Facchini

In partnership con

Arena for Journalism in Europe

Editing

Giulio Rubino

Infografiche & Illustrazioni

Moritz Wienert per Cities for Rent
Lorenzo Bodrero

Ha collaborato

Francesco Floris

Con il sostegno di

IJ4EU
Rosa-Luxemburg Stiftung

Quiz: Quanto bene conosci il mercato immobiliare europeo?

Città in affitto: indagine sui proprietari

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#CitiesForRent

Milano, in Italia, gode della fama di città in continua trasformazione. Si è rifatta il trucco con l’esposizione universale del 2015 e da allora continua a proporsi come la più europea – e di conseguenza la più moderna – tra le città italiane. La metamorfosi di ogni centro urbano almeno a partire dalla crisi del 2008, però, non avviene senza traumi. Guidata da enormi investimenti privati gestiti da fondi immobiliari, è il settore della casa quello che subisce gli stravolgimenti più importanti, con l’ingresso nel mercato di nuovi attori che guadagnano dall’affitto e non più dalla vendita del mattone.

L’Italia – e con lei Milano – conserva ad oggi la sua dimensione di Paese di proprietari di casa, ma fatica a offrire soluzioni degne per colmare la richiesta di abitazioni in affitto che è sempre più pressante. Il flusso di miliardi destinato a finanziare operazioni immobiliari confluisce su uffici e logistica, più che sul comparto residenziale. E gli investitori che si propongono assumono sempre più spesso il volto di fondi di investimento dietro cui è difficile sapere chi sia il vero burattinaio.

Città in affitto è una serie d’inchiesta che comincia dalla mappatura delle condizioni del mercato della locazione in Europa, con Milano come termine di paragone italiano, per poi indagare sulle dinamiche finanziarie che stanno trasformando le città europee.

La domanda di appartamenti, in Europa, ha prodotto un aumento esponenziale dei flussi di denaro tra il 2007 e il 2020: da 7,9 miliardi di euro investiti complessivamente, si è passati a 66,9 miliardi, secondo il centro studi specializzato Real Capital Analytics. Le città sono sempre più nelle mani dei privati che investono nelle loro trasformazioni, con strategie che non sempre combaciano con gli interessi del pubblico. La serie è parte del progetto europeo Cities for Rent: Investigating Corporate Landlords Across Europe progetto coordinato da Arena for Journalism in Europe con il sostegno di IJ4EU e in parte dalla fondazione Rosa Luxemburg, che ha finanziato parte della ricerca. Al progetto, durato sette mesi, hanno partecipato 25 giornalisti che hanno analizzato il mercato immobiliare di 16 città europee.

L’inchiesta #CitiesForRent ha vinto lo European Press Prize Innovation Award 2022.

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Laura Carrer
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Matteo Civillini

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Gazeta Wyborcza (Polonia)
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Lorenzo Bagnoli
Giulio Rubino

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Moritz Wienert per Cities for Rent
Tagesspiegel
Lorenzo Bodrero

Ha collaborato

Francesco Floris

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