Trafficanti di uomini: la débâcle di indagini e processi

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Trafficanti di uomini: la débâcle di indagini e processi

Lorenzo Bagnoli
Lorenzo Bodrero

A Roma la Corte d’assise di appello deve pronunciarsi nel giro di qualche settimana sulle condotte di quattro cittadini eritrei condannati in primo grado per episodi di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina avvenuti nel 2014-2015. L’accusa pensava di portare a processo una delle più importanti organizzazioni di trafficanti di esseri umani operative tra Libia, Italia, Israele e Nord Europa, invece durante il dibattimento si sono sgretolati sia reato di organizzazione del traffico internazionale di esseri umani, sia l’associazione a delinquere. È rimasto il favoreggiamento, la parte più debole del capo di imputazione previsto dall’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione. Questa legge secondo la Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild) – network di associazioni che si occupano di temi come carcere, privacy, migrazione, dipendenze e diritti civili – andrebbe modificata «in modo tale da distinguere in maniera chiara quelli che sulla pelle dei migranti si arricchiscono da coloro che li assistono senza nessun beneficio economico».

La presunta rete di Mered “il Generale”

La storia dei quattro imputati eritrei nasce nel maggio 2015 quando i vigili romani sgomberano il campo di Ponte Mammolo, una baraccopoli spontanea nata nei pressi dell’omonima stazione metropolitana per offrire prima assistenza a quei migranti che non riuscivano (o non potevano) essere inseriti nel circuito di accoglienza riconosciuto. Nelle settimane successive gli inquirenti tengono sotto controllo il cellulare dell’eritreo Michael, nome di fantasia, e si convincono di aver individuato il cassiere della cupola dei trafficanti di cui fa parte Medhanie Yehdego Mered, noto come il Generale, considerato uno dei più importanti trafficanti di esseri umani attivi in Nord Africa. A partire dalla sua rete di contatti, ricostruiscono quella che ritengono essere una cellula romana che si occupa del trasporto dei migranti dall’Italia al resto d’Europa. Da qui arrivano a identificare, non senza qualche dubbio, i quattro cittadini eritrei coinvolti nel processo.

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Tra il 2013 e il 2015 circa Mered “il Generale” avrebbe fatto parte della presunta cupola di trafficanti di esseri umani a cui apparteneva anche Ermias Ghermay, dal 2015 indicato dagli inquirenti italiani come il responsabile delle stragi di Lampedusa dell’ottobre 2013, oggi ancora latitante. L’arresto del presunto Mered, l’8 giugno 2016, era stato presentato dall’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano come uno straordinario risultato di cooperazione tra forze di intelligence internazionali. È stata la prima volta in cui si è parlato dell’arresto di una «figura apicale» nel traffico di esseri umani.

Tre anni dopo, a luglio 2019, il presidente della Corte d’Assise di Palermo Alfredo Montalto ha stabilito che l’uomo recluso da tre anni in Sicilia si chiama in realtà Medhanie Tesfamariam Behre, falegname classe 1987. Per quanto abbia riconosciuto lo scambio di persona, lo ha condannato per favoreggiamento a cinque anni di carcere. L’errore è nato dal tracciamento del cellulare del presunto Mered, dal quale poi si è ricostruita l’unica conversazione con Michael e da quest’ultimo al resto del gruppo (anche queste poche e dall’attribuzione non univoca, secondo la sentenza). Michael, in un procedimento staccato e in rito abbreviato, è stato comunque condannato a nove anni di carcere perché nelle intercettazioni parlava di volumi di denaro importanti.

L’arresto del presunto Mered, l’8 giugno 2016, era stato presentato dall’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano come uno straordinario risultato di cooperazione tra forze di intelligence internazionali

La “cellula romana” legata a Mered “il Generale” a cui apparterrebbe lo stesso Michael insieme agli altri quattro cittadini eritrei gestirebbe, per gli investigatori, l’arrivo in Italia di migranti dal Sudan e dall’Eritrea e ne organizzerebbe il successivo trasferimento verso il resto d’Europa e Israele. La scoperta, potenzialmente, è assai rilevante dal punto di visto investigativo e penale poiché prefigura la transnazionalità del gruppo che agiva per scopo di lucro e con una catena di comando ben definita.

Il processo di primo grado ha in realtà ridimensionato la portata delle scoperte. Anzi, ha mostrato come l’indagine non fosse nemmeno cominciata con i migliori auspici: è stata infatti battezzata Agaish, termine che gli inquirenti inquirenti intendono come “cliente”, quando invece in tigrino – la lingua parlata tra Etiopia ed Eritrea – si traduce “ospite” o “colui che va accolto”. La battaglia legale è tutta qui, lungo una sottile linea dove, da un lato, l’accusa sostiene l’esistenza dell’interesse economico perseguito dagli imputati e, dall’altro, la difesa descrive il loro agire come mero aiuto offerto ai migranti.

Medhanie Yedego Mered, detto Il Generale

Medhanie Tesfamariam Behre, arrestato in Sudan scambiato per Mered

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Aiuto o profitto?

Secondo l’accusa gli imputati hanno ricevuto «flussi finanziari da qualsiasi Paese» utilizzando sia vettori legali come Western Union, Moneygram e Poste Italiane sia il sistema dell’hawala, informale e fuori dal circuito riconosciuto e tracciabile dei flussi di denaro, quindi in Italia considerato di per sé sospetto se non del tutto illegale.

L’«evidente profitto economico» sostenuto dai magistrati si scontra però con le stesse evidenze probatorie portate a processo. Le intercettazioni telefoniche e la testimonianza della Guardia costiera, polizia giudiziaria titolare delle indagini, evidenziano, infatti, come le somme ricevute dall’estero da alcuni degli imputati siano irrisorie: ammontano a poche decine o a poche centinaia di euro e sono state trasferite su carte o conti intestati agli stessi imputati, a dimostrazione della «buona fede e della natura lecita delle transazioni», sostiene la difesa.

Anwar, nome di fantasia, l’imputato che in primo grado è stato condannato a cinque anni per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, secondo i riscontri delle indagini avrebbe incassato in tutto 5 mila euro da sei persone. Soldi poi utilizzati per l’acquisto di cibo, vestiti e biglietti del bus da destinare ai rifugiati eritrei che stavano lasciando l’Italia. Non è chiaro, quindi, se abbia effettivamente avuto un guadagno. Gli altri condannati hanno ricevuto pene tra i due anni e i due anni e tre mesi, mentre per altri due imputati il processo si è chiuso con l’assoluzione.

Il sistema hawala

Hawala è una parola araba che significa “trasferimento” oppure “fiducia”. Indica un sistema informale di trasferimento del denaro. Si basa appunto sulla fiducia, come una sorta di cambiale. In alcuni Paesi, come Eritrea e Somalia, sono l’unico money transfer esistente. Il nome definisce tutti i sistemi informali, per quanto in realtà abbiano diciture diverse in Asia e Sudamerica. L’hawalader è il responsabile del servizio di trasferimento del denaro. Di solito possiede un’attività commerciale per la quale circolano molti contanti. L’informalità del sistema è l’elemento che lo rende pericoloso: di fatto, il sistema è abusivo e non è tracciabile, perciò si presta a movimentare anche proventi di attività illecite. L’ultima operazione sugli hawala, Cash away, è stata condotta dalla Guardia di finanza di Milano a marzo. Secondo le indagini, due hawalader egiziani con base operativa Milano avrebbero costruito un sistema di fatture false e società ad hoc attraverso cui movimentare tra Italia, Egitto, Spagna e Malesia circa 100 milioni di euro. Secondo le ipotesi investigative, il riciclaggio si concludeva con il trasferimento delle rimesse finanziarie a società fittizie localizzate in Repubblica Ceca, Malesia, Francia, Danimarca e Belgio.

Uno degli indagati è stato arrestato mentre stava acquistando un biglietto del bus per il fratello e dei suoi amici. Un altro, durante un’intercettazione, è esortato dai parenti di un migrante ad anticipare le somme necessarie per l’acquisto di vivande, vestiti e di un cellulare. Per somme più ingenti, come 1.500 euro ricevuti da un altro imputato e portate in aula quali prove del fine di lucro, il processo di primo grado ha evidenziato l’assenza di elementi che leghino il denaro ad azioni illecite.

L’«evidente profitto economico» sostenuto dai magistrati si scontra però con le stesse evidenze probatorie portate a processo

Questi e altri elementi hanno contribuito a far cadere in Corte d’Assise le accuse di associazione a delinquere e favoreggiamento della permanenza clandestina sul territorio italiano. Il favoreggiamento alla permanenza è infatti perseguibile solo quando si materializza un “ingiusto vantaggio” per gli imputati. Il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina si configura invece anche senza fini di lucro e sarà al centro del processo di secondo grado a carico dei quattro cittadini eritrei. Il tutto gira intorno all’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione, il quale punisce chiunque promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente.

«Il “trasporto” è inteso come “l’operazione di trasportare, il fatto di venire trasportato, e le modalità e i mezzi con cui si esegue” ed evidentemente non può comprendere al suo interno la locuzione “trasporto di stranieri”», afferma l’avvocata Tatiana Montella. Insieme a Raffaella Flore, Ludovica Formoso e Giuseppina Massaiu forma il team difensivo degli imputati. Nella memoria difensiva le avvocate precisano che il «trasporto nel territorio implica il trasporto verso uno Stato, ben diverso dal trasporto all’interno dello Stato stesso». Un tecnicismo giuridico la cui interpretazione stabilirà se prosciogliere gli imputati o confermare la condanna dai due ai quattro anni di reclusione chiesti dal pubblico ministero.

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«C’è un accanimento giuridico verso questo tipo di condotte»

«Le vittime hanno deciso lo sconfinamento verso un altro Paese in totale autonomia», spiega l’avvocata Montella, mentre la sentenza di primo grado ha indicato le condotte degli imputati come «altri atti» diretti a procurare l’attraversamento di confini interni all’Europa. Il riferimento dei giudici è all’assistenza prestata per l’acquisto di beni, di biglietti del treno e del bus, al pernottamento offerto dagli imputati alle vittime e alle indicazioni circa i percorsi migliori da intraprendere per raggiungere il resto d’Italia.

«Crediamo che ci sia una motivazione politica alla base dell’accanimento giuridico verso questo tipo di condotta», afferma Montella. Secondo l’avvocata «questo tipo di reato nasce, in teoria, per colpire i trafficanti ma nella realtà attacca coloro che per un motivo o per un altro intervengono nei vari passaggi che un migrante attraversa».

Sulla stessa linea, secondo il team difensivo, ricadono i processi alle navi delle Ong oppure il procedimento ai danni di Linea d’ombra, associazione di due attivisti triestini indagati per aver prestato soccorso medico a dei migranti, come ha riportato il 24 febbraio il quotidiano Avvenire. «Non è possibile configurare l’aiuto prestato – peraltro in molti casi a connazionali, amici e parenti – come funzionale al traffico di essere umani», continua Montella, «nella convinzione che spezzando la catena di solidarietà si vada a incidere sul fenomeno migratorio».

«Non è possibile configurare l’aiuto prestato – peraltro in molti casi a connazionali, amici e parenti – come funzionale al traffico di essere umani, nella convinzione che spezzando la catena di solidarietà si vada a incidere sul fenomeno migratorio»
Tatiana Montella, avvocata

Paradossale, per la difesa, è la tesi accusatoria nei confronti di Abramo, altro nome di fantasia, al quale un amico aveva chiesto se fosse disponibile a ospitare due ragazze minorenni appena sbarcate in Italia, una delle quali figlia di un altro amico. Quest’ultimo ha anche chiesto all’imputato di anticipare dei soldi per le ragazze (150 euro), di comprare loro dei biglietti del bus per la tratta Mazara – Roma e dei vestiti. Abramo lamentava di essere in Sicilia per lavoro (faceva il raccoglitore stagionale di uva) e di non avere tempo ma alla fine ha accettato.

La difesa ha inoltre contestato la condizione di irregolarità assegnata alle due ragazze minorenni eritree. Abramo infatti ha cominciato a prendersi cura di loro nel 2015, anno in cui erano in vigore speciali norme internazionali in deroga alla convenzione di Dublino III secondo cui le persone di nazionalità eritrea erano da considerarsi «in clear need for protection» e dunque destinatarie della protezione internazionale, e non migranti irregolari. Caduto lo status di irregolarità delle presunte vittime, sostiene la difesa, cade automaticamente il reato, visto che le attività di soccorso ed assistenza umanitaria prestate vanno intese «nei confronti di stranieri in condizioni di bisogno».

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Lo status di rifugiato, la Convenzione di Dublino e il programma di ricollocamento del 2015

La Convenzione di Dublino (1990) è un trattato internazionale sul tema del diritto di asilo e regola i criteri secondo i quali uno Stato membro valuta la domanda di protezione internazionale presentata da cittadini di Paesi terzi. Il relativo regolamento è denominato Regolamento di Dublino III e stabilisce, tra le altre cose, che lo Stato membro competente per l’esame della domanda d’asilo è quello Stato in cui il richiedente ha fatto ingresso nell’Unione europea. Negli anni a cui si riferiscono i fatti oggetto di questo articolo, l’Eritrea vive un periodo di severa repressione interna. Secondo le Nazioni unite una larga fetta della popolazione è soggetta a lavoro forzato e imprigionamento da parte del regime dittatoriale eritreo responsabile di «un pervasivo sistema di controllo utilizzato in assoluta arbitrarietà per mantenere la popolazione in uno stato di ansia permanente», costringendo centinaia di migliaia di cittadini a fuggire. Tra il 2014 e il 2015 sono state accolte quasi 50mila domande di protezione internazionale provenienti dall’Eritrea all’Italia (480mila in Europa). Per fronteggiare la crisi migratoria, nel 2015 il Consiglio europeo ha quindi istituito il programma di cosiddetto Relocation (ricollocamento) il quale stabiliva che il Paese di destinazione della domanda di protezione poteva essere differente da quello di primo arrivo, in deroga al regolamento Dublino III. Il meccanismo prevedeva che solo i Paesi di provenienza con un tasso di riconoscimento delle domande superiore al 75% potessero rientrare in questa deroga. Come precisa lo stesso Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione in una presentazione del 2015 redatta dal Gruppo di supporto logistico ed operativo per la relocation, «siriani, eritrei e iracheni sono le nazionalità che rientrano in tali parametri». Secondo l’ultimo rapporto di Easo, l’ufficio europeo a sostegno delle politiche dell’asilo, anche nel 2019 oltre otto richiedenti asilo eritrei su dieci, nel territorio europeo, hanno ottenuto una forma di protezione umanitaria (più di loro solo siriani e yemeniti). In quanto cittadini eritrei, la difesa sostiene quindi che i quattro imputati così come i connazionali a cui hanno prestato aiuto rientrino all’interno dell’articolo 31 della Convenzione di Ginevra del 1951, la legge fondamentale che definisce chi ha diritto allo status di rifugiato politico. Secondo la Convenzione, ogni Stato che sottoscrive il documento – tra cui l’Italia – non può avviare «sanzioni penali, per ingresso o soggiorno irregolare, a quei rifugiati che, provenienti direttamente dal paese in cui la loro vita o la loro libertà era minacciata, […] entrano o si trovano sul loro territorio senza autorizzazione, purché si presentino senza indugio alle autorità ed espongano ragioni ritenute valide per il loro ingresso o la loro presenza irregolari».

Cosa hanno in comune gli esiti processuali di Palermo e di Roma

Invece che una rete transnazionale di trafficanti di esseri umani, il primo grado del processo Agaish ha individuato al massimo dei “fiancheggiatori” di rifugiati eritrei che volevano lasciare l’Italia in un momento storico in cui per altro lo spostamento tra Paesi europei era previsto in deroga al regolamento di Dublino.

Il “declassamento” da trafficante a fiancheggiatore ricorda quanto si è verificato già durante il lungo dibattimento del processo Mered, tenutosi a Palermo. Nonostante la sentenza abbia confermato lo scambio di persona, visto che l’uomo in carcere comunque aveva intrattenuto conversazioni e dato indicazioni a connazionali che hanno preso la via del mare, Behre è stato condannato per favoreggiamento. Il processo d’appello è in corso e la prossima udienza è prevista per il 21 luglio.

Nella memoria depositata per il secondo grado, l’avvocato Michele Calantropo, difensore di Behre, scrive che l’unico contatto tra il suo assistito e due presunti trafficante «è riconducibile al pagamento del prezzo del viaggio dei suoi familiari». «Non è emerso alcun tipo di profitto, neppure come effetto mediato o indiretto dell’attività posta in essere», rileva.

Per approfondire

Lungo la rotta: storie di traffici, geopolitica e migranti

Dal Mediterraneo centrale, in questi anni, sono arrivate centinaia di migliaia di persone. Le politiche italiane ed europee hanno cercato di sigillare questa rotta, senza mai riuscirci. Una serie sulle dinamiche politiche e criminali tra Libia e Italia

In termini di errori di traduzione nel processo a Behre ce n’è stato uno particolarmente significativo che riguarda la parola Mesi: secondo la procura e secondo l’interpretazione del Tribunale, si tratta di una persona che Behre avrebbe aiutato ad andare in Libia, commettendo quindi un reato di favoreggiamento; secondo l’interpretazione dell’avvocato, è un avverbio di tempo e non un nome proprio.

Per quanto si ipotizzi l’esistenza di una cassaforte del gruppo a Dubai, non c’è traccia di soldi negli Emirati Arabi né nel processo Agaish, né in quello Mered. In Agaish il riferimento è solo uno, mentre nel fascicolo del processo Mered il nome della città emiratina torna. Senza il flusso economico, però, tutto l’impianto sul quale si regge la teoria dell’organizzazione criminale dall’alto profitto diventa più debole.

Per quanto si ipotizzi l’esistenza di una cassaforte del gruppo a Dubai, non c’è traccia di soldi negli Emirati Arabi né nel processo Agaish, né in quello Mered

Quando la procura di Roma diceva che il Mered in carcere era quello sbagliato

Verso la fine del 2016, il caso Mered ha acceso uno scontro tra la procura di Roma e quella di Palermo. Carlo Lasperanza, magistrato della Direzione distrettuale antimafia titolare delle indagini sulla cellula romana, si stava occupando del caso dopo alcune telefonate al numero di emergenza della Capitaneria di porto di parenti di migranti in partenza dalla Libia e diretti in Italia, preoccupati per il silenzio da parte di loro cari. Attraverso quelle indagini, nel 2014, la Dda capitolina ha fatto arrestare Seifu Haile, estradato dalla Svezia, Paese nel quale era arrivato dopo essere sbarcato nell’agosto di quell’anno a Taranto e aver trascorso qualche giorno proprio a Ponte Mammolo. Ha raccontato agli inquirenti di aver dovuto lavorare per Mered per potersi pagare il viaggio verso l’Italia.

Voleva solo scappare dalla «mezra», parola che in arabo vuol dire magazzino, ma che per i migranti tra il 2013 e il 2015 significa sostanzialmente la prigione controllata dai trafficanti. Le mezre dell’epoca sono state poi sostanzialmente sostituite da centri di detenzione, gestiti dal ministero dell’Interno di Tripoli e abusivi, in cui le condizioni umane in cui sono costretti a vivere i migranti sono spesso identiche. «Sono sicuro che molte persone in diverse parti del mondo, in Italia e in Europa, lavorano per Medhanie», diceva Seifu Haile nel giugno 2015 a Carlo Lasperanza. Su queste dichiarazioni è nata la convinzione che anche a Roma ci potesse essere una cellula del gruppo.

Il documento di identità di Medhanie Tesfamarian Bere

Seifu fin dai primi interrogatori ha mostrato maggiore sicurezza nell’identificare Medhanie Yedhego Mered, alias il Generale. In particolare, lo ha riconosciuto in una foto diventata poi iconica che lo ritrae appoggiato a una macchina, con indosso una maglietta blu con tre linee rosse parallele all’altezza del petto, parzialmente coperte dal catenaccio di un grosso crocifisso penzolante.

Quella foto non combaciava minimamente con quella diffusa dagli organi di polizia dell’uomo arrestato in Sudan e spacciato per il Generale. Infatti, dopo averla vista, «Seifu dichiarava di non aver mai visto [l’uomo arrestato] e soprattutto non essere il Medhaine», si legge nella sentenza di primo grado del processo Agaish. Così si è acceso lo scontro con Roma, a cui ha messo fine il Tribunale del riesame di Roma quando nel gennaio del 2017 ha respinto la richiesta di scarcerazione della difesa Behre dando ragione a Palermo.

Eppure, annota sempre la sentenza, durante il processo Agaish alla cellula romana il sergente della Guardia costiera, teste dell’accusa, ha dichiarato che quello in carcere a Palermo era proprio il Generale, contraddicendo mesi di dichiarazioni. Nel processo Mered era stato addirittura teste per la difesa che ne chiedeva la scarcerazione. Non solo: nell’ambito del processo Agaish, lo stesso Seifu ha detto di non aver mai avuto alcun contatto con gli imputati nemmeno quando è stato a Ponte Mammolo.

I limiti dell’approccio antimafia

Il problema che accomuna i procedimenti Agaish e Mered, riguarda l’applicazione della legislazione antimafia in un contesto che aveva bisogno di indagini molto meno invasive. La scelta è del tutto legittima visto che le Misure antitratta approvate nel 2003 estendono la legislazione antimafia a tutto il traffico di esseri umani. Sull’onda emotiva dei naufragi di Lampedusa del 2013, la procura di Palermo ha costituito un pool specializzato sui trafficanti di esseri umani. L’assunto è che i criminali che operano nel traffico di esseri umani appartengano a una loro mafia.

Ad oggi, però, i risultati investigativi dicono che il metodo non è adeguato. Non sempre a una sim corrisponde un solo proprietario. Le perizie sui saggi vocali, in fase probatoria, spesso si sono rivelate inconcludenti. Seppure stiano in Italia, spesso gli interpreti eritrei sono ancora condizionati dal regime vista la possibilità di ricattare i loro familiari in patria e questo incide notevolmente sulla qualità delle traduzioni. Condannare gli espatriati, nell’ottica repressiva di Asmara, è positivo per impedire che altri seguano l’esempio e provino a lasciare il Paese.

Ad oggi i risultati investigativi dicono che il metodo antimafia non è adeguato nel perseguimento delle reti dei trafficanti di uomini

Senza l’interpretazione adeguata, il linguaggio in codice, anche laddove esistesse, non risulta più comprensibile. Il vincolo associativo-familiare fondamentale nelle realtà mafiose, finora, non è mai emerso in nessuna indagine, come non è emersa una cupola dei trafficanti, né un «codice d’onore» o un sistema pseudo-valoriale in cui riconoscersi. A tenere insieme i presunti trafficanti è la necessità dei migranti inizialmente di lasciare la Libia per l’Italia e in una seconda fase di lasciare l’Italia per raggiungere altri Paesi europei.

I passaggi di denaro per l’acquisto di trasporti che violano le normative in materia di ingresso e uscita dalle frontiere, in più, non sono ad oggi sufficienti a dimostrare in tribunale importanti profitti economici. «Considerato lo svuotamento dei capi d’accusa occorso nel processo di primo grado – è la conclusione dell’avvocata Tatiana Montella -, credo si sia voluto forzare la mano inquadrando le condotte dei nostri assistiti come rilevanti penalmente, quasi a giustificare sia l’indagine stessa, sia una custodia cautelare da loro subita già molto lunga (18 mesi, ndr)».

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L'esito in Cassazione
Il 21 maggio 2022, la Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio le sentenze di primo e secondo grado comminate ai quattro imputati per favoreggiamento dell’emigrazine clandestina. «Assoluzione per tutti e Vittoria piena – ha commentato l’avvocato Tatiana Montella. Siamo riusciti a dimostrare che la solidarietà tra persone migranti esiste e ad offrire un giusto inquadramento della norma».

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi

Foto

Piervincenzo/Shutterstock

Errori giudiziari: come la prova tecnologica manda in carcere un innocente

Errori giudiziari: come la prova tecnologica manda in carcere un innocente

Riccardo Coluccini

La tecnologia è un incantesimo che nasconde meccanismi complessi, è facile quindi pensare che i nostri smartphone, pieni di app, siano diversi da un computer. Eppure, nel sistema operativo che li fa funzionare tutto si svolge in maniera simile ad un Pc: ci sono cartelle che contengono file e documenti, copie delle nostre chat, video e audio, e informazioni sull’utilizzo del dispositivo e sulla nostra posizione GPS. Un nuovo report dell’associazione statunitense Upturn svela che queste informazioni fanno gola alle forze dell’ordine americane anche in casi di reati minori, come semplici furti, possesso di marijuana o persino deturpamento del suolo pubblico, e per ottenerle usano tecnologie per l’estrazione forense dei dati senza sufficienti garanzie per i diritti degli indagati.

Anche in Italia molti di questi strumenti sono già acquistati da anni da Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza. Uno di quelli indicati nel report, venduto dall’azienda israeliana Cellebrite, è stato utilizzato anche sul cellulare del cittadino eritreo che la Procura di Palermo aveva scambiato e arrestato al posto di Medhanie Yehdego Mered, uno dei trafficanti di migranti più ricercati al mondo, conosciuto come “il Generale”. L’analisi del dispositivo, alla base delle accuse, avrebbe dovuto fornire prove a conferma della sua identità, ma nel 2019 la Corte d’Assise di Palermo ha confermato che la persona detenuta per tre anni era in realtà un innocente, Medhanie Tesfamariam Berhe, rivelando così un grave scambio d’identità che ha dato origine a uno dei più clamorosi errori giudiziari degli ultimi trent’anni.

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L’editoriale

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Software, algoritmi e intelligenza artificiale sono il futuro delle indagini, ma il diritto non è la sua tecnologia

Tutti vogliono mettere le mani sui nostri dati

«Per troppo tempo, il dibattito e la discussione pubblica su questi strumenti è stata dedicata ai casi più rari ed eccezionali in cui le forze dell’ordine non possono accedere ai dati dei cellulari,» si legge nel report di Upturn. Ed effettivamente, almeno negli Stati Uniti, una delle vicende che ha attirato l’interesse mondiale è stata l’attacco terroristico di San Bernardino avvenuto nel 2015: l’Fbi voleva accedere ai contenuti dell’iPhone 5C dell’attentatore e aveva chiesto ad Apple di creare una backdoor per indebolire la crittografia e permettere l’analisi dei file presenti. Lo stallo si è risolto solo grazie a quello che sembra essere stato l’intervento di alcuni hacker professionisti e non grazie ad un’azienda come riportato in precedenza.

Backdoor

In informatica, una backdoor è una porzione di codice che permette di bypassare i controlli e le misure di sicurezza di un sistema, fornendo così un accesso non autorizzato ai malintenzionati. Di solito è inserita di nascosto e nemmeno gli sviluppatori originari del sistema stesso se ne possono accorgere. Avere una backdoor in un sistema che usa la crittografia end-to-end, dove quindi solo le due parti che comunicano possono leggere i messaggi, permette a chiunque ne conosca l’esistenza di leggere il contenuto delle chat. Per avere un’analogia con il mondo materiale: è come se il fabbro che ci monta la porta di casa non sapesse che quella serratura ha un difetto di fabbrica messo lì appositamente dalle forze dell’ordine, le quali riescono ad aprirla con una chiave apposita.

La crittografia e i passcode per lo sblocco ci proteggono da occhi indiscreti ma potrebbero anche frenare le investigazioni delle forze dell’ordine o dell’autorità giudiziaria.

Nel caso Mered, le carte della relazione di consulenza tecnica ottenute da IrpiMedia mostrano le capacità del software Cellebrite UFED. L’analisi è stata svolta sul Samsung trovato addosso all’imputato al momento del suo arresto in Sudan a maggio 2016. Sono stati estratti dati relativi a tutte le chat presenti—da Viber a WhatsApp, inclusa anche Facebook Messenger—, tutti i file audio e video inviati, la cronologia delle telefonate effettuate sia con le app sia tramite il cellulare. Dai contatti estratti è stato possibile ricostruire la sua rete di relazioni e confrontarli anche con i tabulati ottenuti dagli operatori telefonici. Tra le foto estratte ci sono anche quelle per i festeggiamenti del compleanno di un minore.

Sono state analizzate anche le tracce della navigazione internet e le ricerche effettuate su YouTube, complete di orario e data—tra i termini di ricerca c’erano “sahra car in libiya” e “see in italiya” che sono video che guarderebbe qualunque persona prima di mettersi in viaggio, non necessariamente la cronologia di ricerca di un trafficante.

Uno screenshot delle carte del caso Mered che mostra i termini cercati su YouTube

Queste informazioni avrebbero dovuto confermare l’esistenza di contatti in Svezia, dove si trovavano la moglie e il figlio del vero trafficante, e le sue attività. Solo successive analisi del DNA del figlio e il confronto dell’impronta vocale di alcune intercettazioni hanno dimostrato inequivocabilmente che Berhe non era la persona che si stava cercando.

L’associazione Upturn conferma ampiamente le capacità di queste tecnologie nel proprio report, e sottolinea come negli USA le forze dell’ordine utilizzano questi strumenti per quasi ogni tipo di reato: graffiti, taccheggio, possesso di marijuana, prostituzione, vandalismo, incidenti d’auto, violazioni della libertà vigilata, piccoli furti, e qualunque altro reato collegato alle sostanze stupefacenti. Se c’è uno smartphone, possiamo stare certi che le forze dell’ordine cercheranno di copiare tutti i file e cartelle di sistema che contiene, compreso il recupero dei file cancellati.

Uno screenshot che mostra il funzionamento del software Axiom prodotto da Magnetic Forensic (fonte: report di Upturn)

Il mercato italiano

Upturn ha prodotto questo report inviando più di 100 richieste FOIA e utilizzando database governativi sulle spese. Tutti i documenti ottenuti sono consultabili online. Tra questi ci sono anche quelli sui pagamenti che permettono così di avere un quadro sui venditori a cui si rivolgono le forze dell’ordine statunitensi. Tra i nomi più citati ci sono Cellebrite, Magnet Forensics, Grayshift, MSAB, AccessData, e Oxygen Forensics.

La polizia ha delle linee guida in Europa?

Nel 2018 Privacy International, associazione britannica attiva sui temi dei diritti digitali e della sorveglianza, ha svolto una ricerca nel Regno Unito simile a quella di Upturn. Inviando richieste di accesso FOIA a 47 diverse forze di polizia britanniche, aveva mostrato l’assenza di linee guida a livello nazionale, conflitti sulle leggi che si applicano in questi casi di perquisizioni digitali e, ancora più grave, mancando dettagli sui tempi di conservazione le forze dell’ordine finivano con il conservare i dati estratti indefinitamente, anche se il sospettato risultava poi essere innocente.

In Italia, nel 2018 richieste di informazioni simili si sono scontrate contro il muro inaccessibile della riservatezza per motivi di pubblica sicurezza. Erano state inviate più di 30 richieste FOIA a Procure, Carabinieri, Guardia di Finanza, e dipartimenti del Ministero dell’Interno, dislocati su diverse città: Torino, Milano, Bologna, Roma, Palermo, Napoli. Queste richieste hanno mostrato la disparità di trasparenza tra l’Italia e gli altri stati: le attività svolte dalle forze dell’ordine in Italia sembrano godere di una particolare cortina di fumo a protezione.

Tra le richieste, vi erano: dettagli sulle linee guida, sulla raccolta centralizzata dei dati e sulle tecnologie in uso—molte delle domande erano state riprese dal modello di richiesta messo a disposizione da Privacy International.

La Guardia di Finanza è stata l’unica a rispondere fornendo alcuni dettagli parziali e un rimando generale ad un manuale operativo: esiste Ia qualifica di “Computer Forensics e Data Analysis”, attribuita a militari che hanno seguito uno specifico corso di formazione, e sono stati dotati di apparati specifici. Questi militari operano a supporto dei Reparti operativi nell’espletamento dei poteri di polizia giudiziaria ed economico-finanziaria. Non ci sono dettagli però sui tempi di conservazione, pur sottolineando come le «evidenze digitali […] non sono mai conservate centralmente». Le tecnologie e i prodotti acquistati non vengono indicati e si suggerisce di cercarli online nelle sezioni Amministrazione Trasparente.

In Italia non si hanno quindi dettagli sufficienti sull’utilizzo di questi sistemi da parte di tutte le forze dell’ordine né tantomeno sulle finalità di utilizzo dei dati estratti.

Negli Stati Uniti, si legge nel report, «poche linee guida menzionano eventuali limiti sulla durata di conservazione dei dati estratti, o su come tali dati possano essere utilizzati al di fuori dell’ambito dell’indagine in corso».

Molte di queste aziende sono le stesse che troviamo nelle gare d’appalto delle forze dell’ordine italiane: Oxygen Forensics acquistata dalla Polizia Postale di Roma, Cellebrite acquistata dalla Guardia di Finanza, Magnet Forensics per le attività della Polizia Giudiziaria. A fine 2019, il Raggruppamento Operativo Speciale (ROS) dell’Arma dei Carabinieri ha aggiudicato un appalto di circa un milione di euro all’azienda 4N6 srl, unica società partecipante nonché rivenditrice ufficiale di diverse delle aziende citate nel report di Upturn, per la fornitura di diversi strumenti per l’estrazioni forense di dati.

Tra le caratteristiche richieste nel disciplinare, oltre a quelle più comuni discusse sopra, c’è anche quella di creare una correlazione tra le informazioni delle reti WiFi a cui si è connesso lo smartphone, le celle telefoniche e le posizioni GPS, in modo da avere una mappa degli spostamenti. L’azienda fornisce al ROS il software Encase Forensics, per analisi ed estrazione dati dai computer Windows, Linux e Apple. Ma anche Axiom Computer per l’identificazione della navigazione web su browser e permettere così anche un’analisi delle attività online. Dall’offerta tecnica si legge che il software Axiom sfrutta anche degli algoritmi di intelligenza artificiale per la classificazione automatica delle immagini trovate sui dispositivi: le categorie si dividono in armi, documenti, screenshot, nudo, volti, mappe, automobili, edifici, droni e droga.

Nell’appalto sono inclusi anche i software Cellebrite UFED 4PC Ultimate e il dispositivo Cellebrite UFED Touch 2 per fare direttamente estrazione e analisi dei dati dagli smartphone. L’azienda allega anche una tabella di più di quattrocento pagine dove indica tutti i modelli di smartphone da cui è possibile estrarre i dati: sono circa undicimila diversi modelli e per oltre cinquemila di questi è possibile anche bypassare il codice di sblocco. Per i dispositivi di ultima generazione come iPhone 8, iPhone X e diversi Samsung, richiesti dal ROS, l’azienda rimanda al servizio Cellebrite Advanced Services che permette di avere assistenza diretta da parte di un team specializzato di dipendenti Cellebrite.

Uno screenshot dal catalogo 2019 di Cellebrite UFED Touch 2 ottenuto da Privacy International

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Quando usiamo i nostri smartphone molti dei contenuti che postiamo sui social o tramite altre app finiscono sui server delle aziende che li sviluppano: le nostre foto su Instagram, i percorsi di allenamento che tracciamo con le app per la corsa, e tutte le nostre chat non protette dalla crittografia sono di fatto conservate su computer che non sono nostri. Gli strumenti acquistati dal ROS permettono dunque di arrivare a quei dati — sia sfruttando le credenziali d’accesso (se fornite dall’indagato) oppure sfruttando altri file presenti sugli smartphone ma che sono nascosti ai nostri occhi: i cosiddetti token di autenticazione.

Se ogni volta che usiamo le app non siamo costretti a fare di nuovo l’accesso con username e password è proprio perché sono presenti sul nostro dispositivo dei codici che permettono di autenticarci, i token appunto. Chiunque entra in possesso di quel file può entrare nei nostri profili esattamente come se fossimo noi stessi a farlo.

E proprio questa possibilità era stata sfruttata sul dispositivo di Berhe: «la chiave di accesso token al profilo Facebook è stata estratta dalla copia forense del telefono cellulare analizzato», si legge nelle carte, e grazie a UFED Cloud Analyzer «è stato possibile effettuare una copia forense» del profilo Facebook dell’indagato.

Uno screenshot dell’offerta tecnica di 4N6 mostra le possibilità di accesso ai diversi account

Se in quel caso si è limitati al solo account Facebook, nell’offerta tecnica dell’azienda 4N6 si può leggere una lista di 57 app e servizi online da cui il ROS potrà estrarre i dati salvati in cloud: si va dai dati raccolti dai servizi Google fino ai backup di iCloud incluse le posizioni, le foto e la cronologia di Safari, ma anche i prodotti Microsoft come Office 365 e Outlook, e servizi come Amazon Alexa, Dropbox, Booking.com, Fitbit e OKCupid.

Il report di Upturn mostra quindi come le forze dell’ordine utilizzino strumenti per l’estrazione di dati dai dispositivi mobili decine di migliaia di volte e spesso senza sufficienti garanzie per l’indagato. E anche l’Italia non sembra fare eccezione. Se da un lato queste tecnologie sono uno strumento investigativo polivalente, che fornisce accesso a una vasta gamma di informazioni utili alle indagini, dall’altro mostrano come questa stessa mole di dati potrebbe essere utilizzata in modo scorretto senza una appropriata contestualizzazione dei fatti. Proprio nel caso Mered i dati estratti sembravano dipingere inequivocabilmente un quadro che però si è rivelato essere completamente sbagliato e non ha evitato un grave scambio di persona a cui è seguita la condanna di un innocente e una ingiusta detenzione di tre anni.

CREDITI

Autori

Riccardo Coluccini

Editing

Luca Rinaldi