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Trafficanti di uomini: la débâcle di indagini e processi
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Lorenzo Bagnoli
Lorenzo Bodrero
A Roma la Corte d’assise di appello deve pronunciarsi nel giro di qualche settimana sulle condotte di quattro cittadini eritrei condannati in primo grado per episodi di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina avvenuti nel 2014-2015. L’accusa pensava di portare a processo una delle più importanti organizzazioni di trafficanti di esseri umani operative tra Libia, Italia, Israele e Nord Europa, invece durante il dibattimento si sono sgretolati sia reato di organizzazione del traffico internazionale di esseri umani, sia l’associazione a delinquere. È rimasto il favoreggiamento, la parte più debole del capo di imputazione previsto dall’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione. Questa legge secondo la Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild) – network di associazioni che si occupano di temi come carcere, privacy, migrazione, dipendenze e diritti civili – andrebbe modificata «in modo tale da distinguere in maniera chiara quelli che sulla pelle dei migranti si arricchiscono da coloro che li assistono senza nessun beneficio economico».
La presunta rete di Mered “il Generale”
La storia dei quattro imputati eritrei nasce nel maggio 2015 quando i vigili romani sgomberano il campo di Ponte Mammolo, una baraccopoli spontanea nata nei pressi dell’omonima stazione metropolitana per offrire prima assistenza a quei migranti che non riuscivano (o non potevano) essere inseriti nel circuito di accoglienza riconosciuto. Nelle settimane successive gli inquirenti tengono sotto controllo il cellulare dell’eritreo Michael, nome di fantasia, e si convincono di aver individuato il cassiere della cupola dei trafficanti di cui fa parte Medhanie Yehdego Mered, noto come il Generale, considerato uno dei più importanti trafficanti di esseri umani attivi in Nord Africa. A partire dalla sua rete di contatti, ricostruiscono quella che ritengono essere una cellula romana che si occupa del trasporto dei migranti dall’Italia al resto d’Europa. Da qui arrivano a identificare, non senza qualche dubbio, i quattro cittadini eritrei coinvolti nel processo.
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Tra il 2013 e il 2015 circa Mered “il Generale” avrebbe fatto parte della presunta cupola di trafficanti di esseri umani a cui apparteneva anche Ermias Ghermay, dal 2015 indicato dagli inquirenti italiani come il responsabile delle stragi di Lampedusa dell’ottobre 2013, oggi ancora latitante. L’arresto del presunto Mered, l’8 giugno 2016, era stato presentato dall’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano come uno straordinario risultato di cooperazione tra forze di intelligence internazionali. È stata la prima volta in cui si è parlato dell’arresto di una «figura apicale» nel traffico di esseri umani.
Tre anni dopo, a luglio 2019, il presidente della Corte d’Assise di Palermo Alfredo Montalto ha stabilito che l’uomo recluso da tre anni in Sicilia si chiama in realtà Medhanie Tesfamariam Behre, falegname classe 1987. Per quanto abbia riconosciuto lo scambio di persona, lo ha condannato per favoreggiamento a cinque anni di carcere. L’errore è nato dal tracciamento del cellulare del presunto Mered, dal quale poi si è ricostruita l’unica conversazione con Michael e da quest’ultimo al resto del gruppo (anche queste poche e dall’attribuzione non univoca, secondo la sentenza). Michael, in un procedimento staccato e in rito abbreviato, è stato comunque condannato a nove anni di carcere perché nelle intercettazioni parlava di volumi di denaro importanti.
L’arresto del presunto Mered, l’8 giugno 2016, era stato presentato dall’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano come uno straordinario risultato di cooperazione tra forze di intelligence internazionali
La “cellula romana” legata a Mered “il Generale” a cui apparterrebbe lo stesso Michael insieme agli altri quattro cittadini eritrei gestirebbe, per gli investigatori, l’arrivo in Italia di migranti dal Sudan e dall’Eritrea e ne organizzerebbe il successivo trasferimento verso il resto d’Europa e Israele. La scoperta, potenzialmente, è assai rilevante dal punto di visto investigativo e penale poiché prefigura la transnazionalità del gruppo che agiva per scopo di lucro e con una catena di comando ben definita.
Il processo di primo grado ha in realtà ridimensionato la portata delle scoperte. Anzi, ha mostrato come l’indagine non fosse nemmeno cominciata con i migliori auspici: è stata infatti battezzata Agaish, termine che gli inquirenti inquirenti intendono come “cliente”, quando invece in tigrino – la lingua parlata tra Etiopia ed Eritrea – si traduce “ospite” o “colui che va accolto”. La battaglia legale è tutta qui, lungo una sottile linea dove, da un lato, l’accusa sostiene l’esistenza dell’interesse economico perseguito dagli imputati e, dall’altro, la difesa descrive il loro agire come mero aiuto offerto ai migranti.
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Aiuto o profitto?
Secondo l’accusa gli imputati hanno ricevuto «flussi finanziari da qualsiasi Paese» utilizzando sia vettori legali come Western Union, Moneygram e Poste Italiane sia il sistema dell’hawala, informale e fuori dal circuito riconosciuto e tracciabile dei flussi di denaro, quindi in Italia considerato di per sé sospetto se non del tutto illegale.
L’«evidente profitto economico» sostenuto dai magistrati si scontra però con le stesse evidenze probatorie portate a processo. Le intercettazioni telefoniche e la testimonianza della Guardia costiera, polizia giudiziaria titolare delle indagini, evidenziano, infatti, come le somme ricevute dall’estero da alcuni degli imputati siano irrisorie: ammontano a poche decine o a poche centinaia di euro e sono state trasferite su carte o conti intestati agli stessi imputati, a dimostrazione della «buona fede e della natura lecita delle transazioni», sostiene la difesa.
Anwar, nome di fantasia, l’imputato che in primo grado è stato condannato a cinque anni per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, secondo i riscontri delle indagini avrebbe incassato in tutto 5 mila euro da sei persone. Soldi poi utilizzati per l’acquisto di cibo, vestiti e biglietti del bus da destinare ai rifugiati eritrei che stavano lasciando l’Italia. Non è chiaro, quindi, se abbia effettivamente avuto un guadagno. Gli altri condannati hanno ricevuto pene tra i due anni e i due anni e tre mesi, mentre per altri due imputati il processo si è chiuso con l’assoluzione.
Il sistema hawala
Hawala è una parola araba che significa “trasferimento” oppure “fiducia”. Indica un sistema informale di trasferimento del denaro. Si basa appunto sulla fiducia, come una sorta di cambiale. In alcuni Paesi, come Eritrea e Somalia, sono l’unico money transfer esistente. Il nome definisce tutti i sistemi informali, per quanto in realtà abbiano diciture diverse in Asia e Sudamerica. L’hawalader è il responsabile del servizio di trasferimento del denaro. Di solito possiede un’attività commerciale per la quale circolano molti contanti. L’informalità del sistema è l’elemento che lo rende pericoloso: di fatto, il sistema è abusivo e non è tracciabile, perciò si presta a movimentare anche proventi di attività illecite. L’ultima operazione sugli hawala, Cash away, è stata condotta dalla Guardia di finanza di Milano a marzo. Secondo le indagini, due hawalader egiziani con base operativa Milano avrebbero costruito un sistema di fatture false e società ad hoc attraverso cui movimentare tra Italia, Egitto, Spagna e Malesia circa 100 milioni di euro. Secondo le ipotesi investigative, il riciclaggio si concludeva con il trasferimento delle rimesse finanziarie a società fittizie localizzate in Repubblica Ceca, Malesia, Francia, Danimarca e Belgio.
L’«evidente profitto economico» sostenuto dai magistrati si scontra però con le stesse evidenze probatorie portate a processo
Questi e altri elementi hanno contribuito a far cadere in Corte d’Assise le accuse di associazione a delinquere e favoreggiamento della permanenza clandestina sul territorio italiano. Il favoreggiamento alla permanenza è infatti perseguibile solo quando si materializza un “ingiusto vantaggio” per gli imputati. Il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina si configura invece anche senza fini di lucro e sarà al centro del processo di secondo grado a carico dei quattro cittadini eritrei. Il tutto gira intorno all’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione, il quale punisce chiunque promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente.
«Il “trasporto” è inteso come “l’operazione di trasportare, il fatto di venire trasportato, e le modalità e i mezzi con cui si esegue” ed evidentemente non può comprendere al suo interno la locuzione “trasporto di stranieri”», afferma l’avvocata Tatiana Montella. Insieme a Raffaella Flore, Ludovica Formoso e Giuseppina Massaiu forma il team difensivo degli imputati. Nella memoria difensiva le avvocate precisano che il «trasporto nel territorio implica il trasporto verso uno Stato, ben diverso dal trasporto all’interno dello Stato stesso». Un tecnicismo giuridico la cui interpretazione stabilirà se prosciogliere gli imputati o confermare la condanna dai due ai quattro anni di reclusione chiesti dal pubblico ministero.
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«C’è un accanimento giuridico verso questo tipo di condotte»
«Le vittime hanno deciso lo sconfinamento verso un altro Paese in totale autonomia», spiega l’avvocata Montella, mentre la sentenza di primo grado ha indicato le condotte degli imputati come «altri atti» diretti a procurare l’attraversamento di confini interni all’Europa. Il riferimento dei giudici è all’assistenza prestata per l’acquisto di beni, di biglietti del treno e del bus, al pernottamento offerto dagli imputati alle vittime e alle indicazioni circa i percorsi migliori da intraprendere per raggiungere il resto d’Italia.
«Crediamo che ci sia una motivazione politica alla base dell’accanimento giuridico verso questo tipo di condotta», afferma Montella. Secondo l’avvocata «questo tipo di reato nasce, in teoria, per colpire i trafficanti ma nella realtà attacca coloro che per un motivo o per un altro intervengono nei vari passaggi che un migrante attraversa».
Sulla stessa linea, secondo il team difensivo, ricadono i processi alle navi delle Ong oppure il procedimento ai danni di Linea d’ombra, associazione di due attivisti triestini indagati per aver prestato soccorso medico a dei migranti, come ha riportato il 24 febbraio il quotidiano Avvenire. «Non è possibile configurare l’aiuto prestato – peraltro in molti casi a connazionali, amici e parenti – come funzionale al traffico di essere umani», continua Montella, «nella convinzione che spezzando la catena di solidarietà si vada a incidere sul fenomeno migratorio».
Paradossale, per la difesa, è la tesi accusatoria nei confronti di Abramo, altro nome di fantasia, al quale un amico aveva chiesto se fosse disponibile a ospitare due ragazze minorenni appena sbarcate in Italia, una delle quali figlia di un altro amico. Quest’ultimo ha anche chiesto all’imputato di anticipare dei soldi per le ragazze (150 euro), di comprare loro dei biglietti del bus per la tratta Mazara – Roma e dei vestiti. Abramo lamentava di essere in Sicilia per lavoro (faceva il raccoglitore stagionale di uva) e di non avere tempo ma alla fine ha accettato.
La difesa ha inoltre contestato la condizione di irregolarità assegnata alle due ragazze minorenni eritree. Abramo infatti ha cominciato a prendersi cura di loro nel 2015, anno in cui erano in vigore speciali norme internazionali in deroga alla convenzione di Dublino III secondo cui le persone di nazionalità eritrea erano da considerarsi «in clear need for protection» e dunque destinatarie della protezione internazionale, e non migranti irregolari. Caduto lo status di irregolarità delle presunte vittime, sostiene la difesa, cade automaticamente il reato, visto che le attività di soccorso ed assistenza umanitaria prestate vanno intese «nei confronti di stranieri in condizioni di bisogno».
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Lo status di rifugiato, la Convenzione di Dublino e il programma di ricollocamento del 2015
La Convenzione di Dublino (1990) è un trattato internazionale sul tema del diritto di asilo e regola i criteri secondo i quali uno Stato membro valuta la domanda di protezione internazionale presentata da cittadini di Paesi terzi. Il relativo regolamento è denominato Regolamento di Dublino III e stabilisce, tra le altre cose, che lo Stato membro competente per l’esame della domanda d’asilo è quello Stato in cui il richiedente ha fatto ingresso nell’Unione europea. Negli anni a cui si riferiscono i fatti oggetto di questo articolo, l’Eritrea vive un periodo di severa repressione interna. Secondo le Nazioni unite una larga fetta della popolazione è soggetta a lavoro forzato e imprigionamento da parte del regime dittatoriale eritreo responsabile di «un pervasivo sistema di controllo utilizzato in assoluta arbitrarietà per mantenere la popolazione in uno stato di ansia permanente», costringendo centinaia di migliaia di cittadini a fuggire. Tra il 2014 e il 2015 sono state accolte quasi 50mila domande di protezione internazionale provenienti dall’Eritrea all’Italia (480mila in Europa). Per fronteggiare la crisi migratoria, nel 2015 il Consiglio europeo ha quindi istituito il programma di cosiddetto Relocation (ricollocamento) il quale stabiliva che il Paese di destinazione della domanda di protezione poteva essere differente da quello di primo arrivo, in deroga al regolamento Dublino III. Il meccanismo prevedeva che solo i Paesi di provenienza con un tasso di riconoscimento delle domande superiore al 75% potessero rientrare in questa deroga. Come precisa lo stesso Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione in una presentazione del 2015 redatta dal Gruppo di supporto logistico ed operativo per la relocation, «siriani, eritrei e iracheni sono le nazionalità che rientrano in tali parametri». Secondo l’ultimo rapporto di Easo, l’ufficio europeo a sostegno delle politiche dell’asilo, anche nel 2019 oltre otto richiedenti asilo eritrei su dieci, nel territorio europeo, hanno ottenuto una forma di protezione umanitaria (più di loro solo siriani e yemeniti). In quanto cittadini eritrei, la difesa sostiene quindi che i quattro imputati così come i connazionali a cui hanno prestato aiuto rientrino all’interno dell’articolo 31 della Convenzione di Ginevra del 1951, la legge fondamentale che definisce chi ha diritto allo status di rifugiato politico. Secondo la Convenzione, ogni Stato che sottoscrive il documento – tra cui l’Italia – non può avviare «sanzioni penali, per ingresso o soggiorno irregolare, a quei rifugiati che, provenienti direttamente dal paese in cui la loro vita o la loro libertà era minacciata, […] entrano o si trovano sul loro territorio senza autorizzazione, purché si presentino senza indugio alle autorità ed espongano ragioni ritenute valide per il loro ingresso o la loro presenza irregolari».
Cosa hanno in comune gli esiti processuali di Palermo e di Roma
Invece che una rete transnazionale di trafficanti di esseri umani, il primo grado del processo Agaish ha individuato al massimo dei “fiancheggiatori” di rifugiati eritrei che volevano lasciare l’Italia in un momento storico in cui per altro lo spostamento tra Paesi europei era previsto in deroga al regolamento di Dublino.
Il “declassamento” da trafficante a fiancheggiatore ricorda quanto si è verificato già durante il lungo dibattimento del processo Mered, tenutosi a Palermo. Nonostante la sentenza abbia confermato lo scambio di persona, visto che l’uomo in carcere comunque aveva intrattenuto conversazioni e dato indicazioni a connazionali che hanno preso la via del mare, Behre è stato condannato per favoreggiamento. Il processo d’appello è in corso e la prossima udienza è prevista per il 21 luglio.
Nella memoria depositata per il secondo grado, l’avvocato Michele Calantropo, difensore di Behre, scrive che l’unico contatto tra il suo assistito e due presunti trafficante «è riconducibile al pagamento del prezzo del viaggio dei suoi familiari». «Non è emerso alcun tipo di profitto, neppure come effetto mediato o indiretto dell’attività posta in essere», rileva.
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In termini di errori di traduzione nel processo a Behre ce n’è stato uno particolarmente significativo che riguarda la parola Mesi: secondo la procura e secondo l’interpretazione del Tribunale, si tratta di una persona che Behre avrebbe aiutato ad andare in Libia, commettendo quindi un reato di favoreggiamento; secondo l’interpretazione dell’avvocato, è un avverbio di tempo e non un nome proprio.
Per quanto si ipotizzi l’esistenza di una cassaforte del gruppo a Dubai, non c’è traccia di soldi negli Emirati Arabi né nel processo Agaish, né in quello Mered. In Agaish il riferimento è solo uno, mentre nel fascicolo del processo Mered il nome della città emiratina torna. Senza il flusso economico, però, tutto l’impianto sul quale si regge la teoria dell’organizzazione criminale dall’alto profitto diventa più debole.
Per quanto si ipotizzi l’esistenza di una cassaforte del gruppo a Dubai, non c’è traccia di soldi negli Emirati Arabi né nel processo Agaish, né in quello Mered
Quando la procura di Roma diceva che il Mered in carcere era quello sbagliato
Verso la fine del 2016, il caso Mered ha acceso uno scontro tra la procura di Roma e quella di Palermo. Carlo Lasperanza, magistrato della Direzione distrettuale antimafia titolare delle indagini sulla cellula romana, si stava occupando del caso dopo alcune telefonate al numero di emergenza della Capitaneria di porto di parenti di migranti in partenza dalla Libia e diretti in Italia, preoccupati per il silenzio da parte di loro cari. Attraverso quelle indagini, nel 2014, la Dda capitolina ha fatto arrestare Seifu Haile, estradato dalla Svezia, Paese nel quale era arrivato dopo essere sbarcato nell’agosto di quell’anno a Taranto e aver trascorso qualche giorno proprio a Ponte Mammolo. Ha raccontato agli inquirenti di aver dovuto lavorare per Mered per potersi pagare il viaggio verso l’Italia.
Voleva solo scappare dalla «mezra», parola che in arabo vuol dire magazzino, ma che per i migranti tra il 2013 e il 2015 significa sostanzialmente la prigione controllata dai trafficanti. Le mezre dell’epoca sono state poi sostanzialmente sostituite da centri di detenzione, gestiti dal ministero dell’Interno di Tripoli e abusivi, in cui le condizioni umane in cui sono costretti a vivere i migranti sono spesso identiche. «Sono sicuro che molte persone in diverse parti del mondo, in Italia e in Europa, lavorano per Medhanie», diceva Seifu Haile nel giugno 2015 a Carlo Lasperanza. Su queste dichiarazioni è nata la convinzione che anche a Roma ci potesse essere una cellula del gruppo.
Seifu fin dai primi interrogatori ha mostrato maggiore sicurezza nell’identificare Medhanie Yedhego Mered, alias il Generale. In particolare, lo ha riconosciuto in una foto diventata poi iconica che lo ritrae appoggiato a una macchina, con indosso una maglietta blu con tre linee rosse parallele all’altezza del petto, parzialmente coperte dal catenaccio di un grosso crocifisso penzolante.
Quella foto non combaciava minimamente con quella diffusa dagli organi di polizia dell’uomo arrestato in Sudan e spacciato per il Generale. Infatti, dopo averla vista, «Seifu dichiarava di non aver mai visto [l’uomo arrestato] e soprattutto non essere il Medhaine», si legge nella sentenza di primo grado del processo Agaish. Così si è acceso lo scontro con Roma, a cui ha messo fine il Tribunale del riesame di Roma quando nel gennaio del 2017 ha respinto la richiesta di scarcerazione della difesa Behre dando ragione a Palermo.
Eppure, annota sempre la sentenza, durante il processo Agaish alla cellula romana il sergente della Guardia costiera, teste dell’accusa, ha dichiarato che quello in carcere a Palermo era proprio il Generale, contraddicendo mesi di dichiarazioni. Nel processo Mered era stato addirittura teste per la difesa che ne chiedeva la scarcerazione. Non solo: nell’ambito del processo Agaish, lo stesso Seifu ha detto di non aver mai avuto alcun contatto con gli imputati nemmeno quando è stato a Ponte Mammolo.
I limiti dell’approccio antimafia
Il problema che accomuna i procedimenti Agaish e Mered, riguarda l’applicazione della legislazione antimafia in un contesto che aveva bisogno di indagini molto meno invasive. La scelta è del tutto legittima visto che le Misure antitratta approvate nel 2003 estendono la legislazione antimafia a tutto il traffico di esseri umani. Sull’onda emotiva dei naufragi di Lampedusa del 2013, la procura di Palermo ha costituito un pool specializzato sui trafficanti di esseri umani. L’assunto è che i criminali che operano nel traffico di esseri umani appartengano a una loro mafia.
Ad oggi, però, i risultati investigativi dicono che il metodo non è adeguato. Non sempre a una sim corrisponde un solo proprietario. Le perizie sui saggi vocali, in fase probatoria, spesso si sono rivelate inconcludenti. Seppure stiano in Italia, spesso gli interpreti eritrei sono ancora condizionati dal regime vista la possibilità di ricattare i loro familiari in patria e questo incide notevolmente sulla qualità delle traduzioni. Condannare gli espatriati, nell’ottica repressiva di Asmara, è positivo per impedire che altri seguano l’esempio e provino a lasciare il Paese.
Ad oggi i risultati investigativi dicono che il metodo antimafia non è adeguato nel perseguimento delle reti dei trafficanti di uomini
Senza l’interpretazione adeguata, il linguaggio in codice, anche laddove esistesse, non risulta più comprensibile. Il vincolo associativo-familiare fondamentale nelle realtà mafiose, finora, non è mai emerso in nessuna indagine, come non è emersa una cupola dei trafficanti, né un «codice d’onore» o un sistema pseudo-valoriale in cui riconoscersi. A tenere insieme i presunti trafficanti è la necessità dei migranti inizialmente di lasciare la Libia per l’Italia e in una seconda fase di lasciare l’Italia per raggiungere altri Paesi europei.
I passaggi di denaro per l’acquisto di trasporti che violano le normative in materia di ingresso e uscita dalle frontiere, in più, non sono ad oggi sufficienti a dimostrare in tribunale importanti profitti economici. «Considerato lo svuotamento dei capi d’accusa occorso nel processo di primo grado – è la conclusione dell’avvocata Tatiana Montella -, credo si sia voluto forzare la mano inquadrando le condotte dei nostri assistiti come rilevanti penalmente, quasi a giustificare sia l’indagine stessa, sia una custodia cautelare da loro subita già molto lunga (18 mesi, ndr)».
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L'esito in Cassazione
CREDITI
Autori
Lorenzo Bagnoli
Lorenzo Bodrero
Editing
Luca Rinaldi
Foto
Piervincenzo/Shutterstock