Mohamed al-Khoja, chi è il capo milizia a capo delle prigioni dei migranti in Libia

18 Gennaio 2022 | di Ian Urbina

Il governo libico ha nominato come nuovo direttore generale del dipartimento immagrazione un comandante della milizia che precedentemente gestiva una delle peggiori prigioni per migranti del Paese, dove lo strupro, i pestaggi e le estorsioni erano all’ordine del giorno.

Il 23 dicembre scorso Mohamed al-Khoja è stato promosso da vice direttore a direttore della Direzione per il contrasto all’immigrazione clandestina (DCIM, organismo sotto il controllo del Ministero dell’interno libico), dove sarà responsabile della supervisione dei circa quindici centri di detenzione per migranti in Libia.

Ogni anno, grazie anche all’aiuto dei finanziamenti dell’Unione europea, le autorità libiche utilizzano queste strutture per la detenzione di decine di migliaia di migranti, molti dei quali vengono intercettati e arrestati mentre stanno cercando di attraversare il Mediterraneo a bordo di barconi. Le prigioni sono il risultato dei tentativi dell’Unione europea di arginare il flusso di migranti verso le proprie coste in arrivo da Africa e Medio Oriente. Per anni la stessa Ue ha inviato milioni di euro alla Libia per l’addestramento e l’equipaggiamento della Guardia costiera libica, che di fatto viene usata per respingimenti per procura dalla stessa Ue.

Perché la nomina di al-Khoja riguarda l’Ue

In un momento in cui avvocati per i diritti umani di Africa e Medio oriente, legislatori e ricercatori chiedono all’Unione europea di riconsiderare il proprio ruolo e il proprio coinvolgimento nelle violazioni dei diritti umani in Libia, la nomina di Al-Khoja sembra andare in una direzione opposta, visto il passato dell’uomo: per anni, infatti, è stato direttore del carcere Tariq al-Sikka di Tripoli, luogo in cui sono stati documentati crimini ripetuti contro migliaia di migranti detenuti.

Hussein Baoumi è un ricercatore di Amnesty International. L’ong ha ripetutamente documentato le violazioni dei diritti umani al Tarik-al-Sikka, anche sotto la direzione di Al-Khoja. Tra i crimini commessi all’interno del centro ci sono detenzione arbitraria, tortura e lavori forzati. «La sua nomina dimostra il modello di impunità in Libia – ha dichiarato Baoumi -. Individui sospettati a ragione di essere coinvolti in crimini contro il diritto internazionale sono nominati in posizioni di potere dove possono nuovamente commettere reati anziché finire sotto inchiesta».

Altre organizzazioni sono arrivate a conclusioni simili. Nel 2019, l’organizzazione Global Initiative Against Transnational Organized Crime (GITOC) ha sottolineato come Al-Khoja abbia usato la struttura di detenzione dei migranti come centro di addestramento per i combattenti della sua milizia. I migranti detenuti ad Al-Sikka sono stati impiegati – in completa violazione del diritto internazionale – per pulire e conservare armi e munizioni, stando a un report del 2019 di Human Rights Watch. Alcuni reporter di Associated Press nel 2019 hanno riferito come Al-Khoja fosse uno degli uomini che si celavano dietro al sistema per dirottare verso la sua milizia milioni di dollari destinati in teoria a nutrire i migranti in una struttura delle Nazioni unite a Tripoli.

Al-Khodja e al-Bija insieme a roma nel 2017

Nel 2017 c’era anche Mohammed al-Khoja nella delegazione di funzionari libici inviata a Roma per una visita istituzionale. Al tour ha partecipato anche il comandante della Guardia costiera libica e oggi responsabile dell’Accademia navale di Zawiya, Abdel Rahman al-Milad detto al-Bija. Le foto della visita di Bija al centro di accoglienza di Mineo, in Sicilia, l’11 maggio 2017, sono state pubblicate da Avvenire oltre due anni dopo, quando il guardacoste libico era finito sotto sanzioni delle Nazioni unite. Da lì è scoppiato l’ultimo dei casi riguardanti il finanziamento e la formazione della Guardia costiera libica.

Secondo diverse ricostruzioni giornalistiche, al-Khoja è anche il referente di diverse società di catering e pulizie che lavorano all’interno dei centri di detenzione. Si tratterebbe di società di facciata, il cui scopo è accaparrarsi gli appalti e distrarre il denaro che ricevono per finanziare altre attività della milizia di al-Khoja.

Cronache dall’inferno dei centri di detenzione

Quest’anno, Amnesty International ha intervistato alcuni migranti detenuti ad Al-Sikka che hanno detto di essere stati costretti a lavorare in settori come edilizia e agricoltura. Un altro report di Amnesty International pubblicato nel 2020 ha evidenziato altre criticità del carcere di Tariq al-Sikka, riportando il racconto di un migrante che ha visto due amici morire di tubercolosi per mancanza di cure adeguate. Lo scorso anno Sally Hayden, sul Guardian, ha inoltre scritto di come alcuni migranti detenuti siano stati letteralmente usati da Al-Khoja per la costruzione di un rifugio per i proprio cavalli.

Wolfram Lacher, esperto di Libia del German Institute for International and Security, ha commentato: «La sua nomina suggerisce che il sistema abusivo dei centri di detenzione, che si basa sulla violenza e l’estorsione, continuerà senza alcuna speranza di riforme».

Secondo le Nazioni unite stanno avvenendo «crimini contro l’umanità» all’interno dei campi di detenzione libici, dove i migranti trattenuti sono in continuo aumento. Nel 2021, 32.425 persone sono state catturate in mare dalla Guardia costiera libica, spesso aiutata da Frontex, l’agenzia di pattugliamenti delle frontiere dell’Unione europea, che individua i profughi in fuga verso l’Europa anche attraverso droni e aerei di sorveglianza. Una volta tornati in Libia, molti di questi migranti finiscono detenuti in modo del tutto arbitrario.

Questa settimana, le autorità libiche hanno fatto irruzione con la forza in due tendopoli allestite dai migranti per protesta, una delle quali si trovava fuori dalla sede dell’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i Rifugiati (Unhcr). All’interno vi erano più di 600 migranti e la maggior parte di essi sarebbero poi stati trasferiti in un centro di detenzione, quello di Ain Zara, che è tra quelli che al-Khoja supervisionerà col suo nuovo incarico. Il Comitato Internazionale di Soccorso (International Rescue Committee) e il Comitato norvegese per i rifugiati (Norwegian Refugees Committee) hanno affermato di stare curando diversi migranti feriti dopo il raid, tra cui una persona che ha subito una ferita d’arma da fuoco.

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I finanziamenti europei

La nomina di Al-Khoja getta ulteriori dubbi sulla capacità o volontà dell’Unione europea di esercitare un controllo sul sistema di detenzione che ha contribuito a creare in Libia attraverso i suoi finanziamenti al Dcim. Per esempio, nel 2019, l’agenzia libica per il contrasto all’immigrazione irregolare ha ricevuto 30 fuoristrada appositamente modificati per intercettare i migranti nel deserto. I soldi dellUnione europea hanno inoltre permesso l’acquisto di dieci autobus per inviare i migranti alle prigioni dopo la loro cattura.

Mark Micallef, ricercatore della Global Initiative esperto di Libia, ha detto che non sarebbe saggio o etico togliere i soldi dell’Ue alle molte organizzazioni umanitarie che attraverso il loro lavoro salvano la vita di migliaia di migranti intrappolati nei centri di detenzione libici. Ha aggiunto che i funzionari europei potrebbero non avere molto controllo su ciò che accade nelle prigioni dei migranti in Libia però potrebbero fare maggiore pressione sul governo di Tripoli vincolando il sostegno finanziario alla Guardia costiera libica al loro miglioramento in termini di condizioni di detenzione.

L’Ue sembra tuttavia muoversi nella direzione opposta: nel solo mese di dicembre ha inviato alla Libia terminali informatici e radio di ultima generazione per equipaggiare un centro di comando responsabile dell’intercettazione dei migranti nel Mediterraneo. Nello stesso mese ha speso 1,2 milioni di euro per pezzi di ricambio per due navi ad alta velocità utilizzate dalla Guardia costiera libica.

L’ossessione per i confini

A metà dicembre, il presidente francese Emmanuel Macron ha chiesto poteri di emergenza per Frontex, sostenendo che il futuro dell’Europa dipende dalla sua capacità di controllare i propri confini. Questa considerazione è arrivata due giorni dopo la morte di ventisette migranti nella Manica durante un tentativo di attraversamento finito con un naufragio.

Secondo un rapporto del 2020 della Global Initiative (GITOC), uno dei maggiori problemi in Libia è che il governo centrale esercita solo un controllo formale sulle milizie. Nel report si legge che «i funzionari governativi sono costretti a formalizzare accordi ad hoc con ogni gruppo armato influente in una determinata area […] dove i siti di detenzione sono gestiti dalla milizia, [i migranti] ricevono una parvenza di legittimità tramite la presenza di funzionari del Direttorato per il contrasto all’immigrazione illegale (DCIM). Questo crea effettivamente un percorso per gli individui coinvolti nel crimine organizzato armato, come Al-Khoja e altri, per diventare parte dell’apparato statale ufficiale, sia esso militare, di intelligence o di governo».

L’ultima inchiesta di The Outlaw Ocean Project dava conto dell’uccisione di un giovane migrante proveniente dall’Africa Occidentale in una delle più note prigioni per migranti sotto la supervisione del DCIM, la cosiddetta Al Mabani. Nei giorni successivi alla pubblicazione dell’articolo, Papa Francesco ha detto che le politiche migratorie dell’Europa sono un «naufragio della civiltà». I legislatori europei, da Dublino a Istanbul, hanno chiesto di porre fine al partenariato dell’Ue con la Libia.

Corruzione e milizie

Negli ultimi anni il DCIM, diretto da Mabrouk Abd al-Hafiz, aveva chiuso alcune tra le prigioni più problematiche, salvo poi riaprirle o sostituirle con altre. Le organizzazioni umanitarie, così come gli stessi funzionari libici, hanno ammesso che la stessa Direzione per il contrasto all’immigrazione clandestina libica continua a non avere il pieno controllo dei centri di detenzione, quasi gestiti interamente da milizie.

In alcune interviste Al-Hafiz ha detto che la corruzione esiste sia tra le milizie che gestiscono le prigioni, sia all’interno della Guardia costiera libica. Al-Khoja è stato il vice di Al-Hafiz per un certo numero di anni, anche se, stando ad alcune ricostruzioni, pare che Al-Hafiz avesse cercato di contrastare lo stesso al-Khoja all’interno del DCIM.

Nonostante la nomina di Al-Khoja e la reazione negativa dei difensori dei diritti umani, il Ministro degli Esteri libico, Najla Mangoush, ha riorientato l’attenzione sull’Europa, dicendo che la Libia si è stancata di seguire gli ordini dell’Europa nel controllo delle migrazioni, respingendo l’idea che il suo Paese sia stato in qualche modo colpevole di maltrattare i migranti sotto la sua custodia. «Per favore, non puntate il dito contro la Libia – ha detto – e non dipingeteci come un Paese che abusa e non rispetta i rifugiati».

Foto: Un frame del video Dentro Tariq-al-Sikka che ritrae le condizioni di detenzione dei rifugiati nell’omonimo centro in Libia
Editing: Lorenzo Bagnoli
Traduzione: Allison Vernetti

Quale futuro per la Libia, avamposto del contrabbando nel Mediterraneo

7 Gennaio 2022 | di Lorenzo Bagnoli

La Libia doveva andare a elezioni il 24 dicembre. Il processo elettorale cominciato a novembre 2020, avrebbe dovuto portare stabilità a un Paese lacerato da dieci anni di guerra civile. La lista di candidati era di 98 persone, tra i quali spiccavano diversi nomi.

C’era l’attuale primo ministro ad interim Abdul Hamid Dabaiba (nominato a marzo 2021) il quale aveva promesso di non partecipare alle consultazioni, ma sembra uno dei più credibili garanti di unità. Il redivivo Saif al-Islam Gheddafi, figlio di Muhammar, che a luglio sembrava essere molto popolare, raccontava il New York Times Magazine, nonostante la condanna dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità e gli anni di latitanza dopo la liberazione, a seguito di un’amnistia concessagli nel 2017. Il maresciallo Khalifa Haftar, il capo delle forze armate dell’Esercito nazionale libico, sostenuto all’estero soprattutto da Egitto e Russia, che dal 2014, dopo una crisi politica simile a quella odierna, ha diviso la Libia in due blocchi. Fathi Bashagha, da Misurata, che è stato ministro dell’Interno ai tempi di Fayez al-Serraj e corre con il sostegno dei Fratelli Musulmani, che in Libia sono stati il partito a ispirazione islamica più forte emerso dopo la caduta di Gheddafi. Anche gli altri candidati sono per la stragrande maggioranza persone che già ricoprono ruoli di potere, che sia in Tripolitania (la Libia occidentale) o in Cirenaica (la Libia orientale). Segnale del pericolo reale che, alla fine, i protagonisti siano sempre gli stessi anche nella nuova Libia.

Non c’era però alcuna possibilità che la roadmap per le elezioni della vigilia di Natale (anniversario dell’indipendenza dall’Italia, nel 1951) potesse funzionare. C’era un clima di sfiducia già a novembre 2021, nel corso dell’ultimo incontro internazionale tenutosi a Parigi tra diverse fazioni concorrenti in Libia e alcuni dei principali capi di Stato europei. Alla fine, sulla carta, sono stati dei motivi burocratici che hanno spinto l’Alta Corte delle elezioni ad annullare le votazioni, riaggiornandole – con altrettanta sfiducia – al prossimo 24 gennaio. Nella pratica è stata la minaccia delle milizie a far propendere per il posticipo.

A dicembre 2021 l’Onu aveva inviato Stephanie Williams, diplomatica statunitense, a cercare di raddrizzare il percorso del voto. Quando sul Corriere della Sera Lorenzo Cremonesi il 21 dicembre le chiede se il rinvio del voto è un fallimento risponde così: «Un dato mi è chiaro: i libici non parlano più il linguaggio della guerra per risolvere le loro differenze interne. E questa mi sembra un’ottima premessa sulla via delle prossime elezioni». Vedremo se questo ottimismo durerà.

La geopolitica del contrabbando

Al di là degli ovvi interessi delle potenze straniere, in questi dieci anni l’instabilità della Libia è stata un fattore anche nella geopolitica del contrabbando. È il traffico di gasolio, infatti, il principale business economico di gruppi criminali come la Brigata al-Nasr di Zawiya, da sempre alleata con il governo di Tripoli.

Il gasolio a prezzo calmierato che circola nel Paese è diventato un bene da vendere illegalmente al mercato estero, che siano i Paesi confinanti quali Tunisia ed Egitto, o il resto dell’Europa, attraverso Malta e Italia. Negli anni dopo la caduta di Gheddafi, lungo le rotte di gasolio e migranti, è sempre più facile intercettare anche carichi di armi e di droga destinata alla Libia per uso interno, oppure come punto di stoccaggio. E non è solo nell’ovest del Paese, ma anche a Tobruk, la città più vicina al confine orientale con l’Egitto. Abbiamo raccontato le rotte del contrabbando sia su IrpiMedia, sia su Avvenire, nella serie Libyagate firmata insieme al collega Nello Scavo. Abbiamo raccontato degli interessi di cosa nostra e racconteremo ancora delle conseguenze di queste inchieste e di profili di imprenditori del mare come Paul Attard.

Questi personaggi che si muovono a cavallo tra Nord Africa ed Europa hanno avuto un ruolo nel rendere la Libia, dopo il 2011, sempre più centrale nello scacchiere del contrabbando del Mediterraneo. Il fattore che ha giocato a loro vantaggio è stata la guerra civile continua e la conseguente instabilità.

Dato che quasi ogni milizia libica ha un suo sponsor politico, l’andamento elettorale condizionerà anche le future alleanze criminali. Saranno sempre gli stessi gruppi a sfruttare le infrastrutture del contrabbando costruite tra Libia, Malta e Italia? Oppure saranno dei nuovi attori? La Libia riuscirà a trasformare le milizie in forze dell’ordine nazionali? Oppure resteranno sempre gruppi criminali con dei loro alleati nel sottomondo grigio-nero di contrabbandieri e organizzazioni mafiose d’Europa?

La questione Guardia costiera e i morti nel Mediterraneo

Al di là delle milizie e del loro futuro, c’è un’emergenza umanitaria che sarà dura da interrompere nel Mediterraneo. Oltre 1.800 migranti sono annegati tentando la traversata nel 2021, secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), a fronte di 67.480 sbarchi in Italia (contro i 34.134 del 2020 e i 11.471 del 2019). Dal 2014, il dato supera i 23.100 dispersi.

Le milizie che indossano i galloni dei guardacoste – tra cui la milizia al-Nasr – fanno un lavoro che è molto importante per i governi europei che hanno come priorità fermare gli sbarchi a ogni costo. Erroneamente considerata come un corpo monolitico, la Guardia costiera libica – finanziata e addestrata con fondi dell’Unione europea e italiani – è in realtà composta da forze differenti che finiscono per essere chiamate tutte con lo stesso modo.

Alcuni “capitoli” della Guardia costiera libica, spesso legate a milizie, si comportano come trafficanti di esseri umani, come dimostrano, tra le altre cose, le testimonianze di pestaggi a bordo; altri però svolgono soprattutto il ruolo di soccorritori in mare, soprattutto quando sono legati alla Marina militare libica, più che a delle milizie. E i numeri dicono che sono 31 mila, tra gennaio e dicembre, le persone recuperate – o «intercettate» come scrivono le Nazioni unite – dalla Guardia costiera libica: per quanto protagonista di episodi di tremende violenze contro i migranti, la Guardia costiera libica nel suo insieme è una presenza nel Mediterrano e con le sue imbarcazioni contribuisce a evitare diversi naufragi. Questo non toglie, come racconta Ian Urbina su IrpiMedia che esistano casi – di cui uno è stato pienamente documentato da The Outlaw Ocean Project – in cui le milizie che gestiscono i centri di detenzione abbiano torturato un migrante fino a ucciderlo all’interno di una di queste strutture. E chissà quanti sono i casi simili sottaciuti.

L’elemento strutturale più controverso in merito alla collaborazione Europa-Libia riguarda il fatto che una volta recuperati da un naufragio, i migranti vengono riportati in centri di detenzione dai quali cercheranno nuovamente di fuggire.

Questa attività di salvataggio per procura, secondo diversi legali specializzati nella tutela dei diritti umani, rappresenta una forma di respingimento. Tanto è vero che la Cassazione, a dicembre 2021, ha stabilito che, almeno per il diritto italiano, i naufraghi che si ribellano al tentativo di essere riportati in Libia stanno esercitando «legittima difesa».

Se sul piano del principio la decisione è assolutamente condivisibile, all’atto pratico rischia di diventare un’ulteriore disincentivo per tutte le navi commerciali che battono bandiera italiana a partecipare ad azioni di salvataggio. Ai comandanti infatti può toccare in sorte di dover rispondere al coordinamento del centro di salvataggio di Tripoli che può ordinare loro di portare i migranti in Libia. È una condizione assurda a cui i marittimi non dovrebbero essere sottoposti: da un lato rischiano di commettere un respingimento o di dover sedare una sommossa a bordo; dall’altro, però, se non eseguono l’ordine, rischiano di essere ingaggiati da qualche unità navale della Guardia costiera libica. E il paradosso è che assetti navali e addestramento dei guardacoste sono stati finanziati da Italia e Unione europea e resta il sospetto che – come già documentato anni fa – il centro di coordinamento di Tripoli continui a dipendere da Roma.

Finora l’unico momento in cui sono stati garantiti dei salvataggi senza il rischio di respingimenti è stato quando l’Italia ha unilateralmente deciso – tra ottobre 2013 e ottobre 2014 – di svolgere l’operazione umanitaria Mare Nostrum. Nessuno però ha più messo sul piatto un’opzione del genere: troppo costosa sia sul piano economico, sia (soprattutto) su quello del consenso.

In ogni caso, quello che succederà con le elezioni – se e quando ci saranno – cambierà gli equilibri che conosciamo. Anche quelli criminali, la cui immagine che ci è restituita dalle indagini della magistratura italiana – l’unica che ha provato dall’Europa a fare luce sulle attività transnazionali delle milizie – sta cominciando a ingiallirsi con l’andare del tempo.

Foto: ribelli rimuovono dei poster che ritraggono Mu’ammar Gheddafi in un’abitazione privata nella città di Misurata il 16 maggio 2011 nell’ambito della prima guerra civile libica – Etienne De Malglaive/Getty
Editing: Luca Rinaldi

Indagini, esposti, procedimenti giudiziari: Frontex sotto accusa

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Indagini, esposti, procedimenti giudiziari: Frontex sotto accusa
Ian Urbina

Intorno alle 17:00 del 4 febbraio, circa 70 miglia a nord della Libia, un aereo bianco da ricognizione con una telecamera montata sulla parte inferiore della fusoliera ha sorvolato un gommone che trasportava un centinaio di migranti disperati. Cercavano di attraversare il Mediterraneo per raggiungere l’Europa. Il video registrato dall’aereo è stato trasmesso in diretta a un ufficio di Varsavia in Polonia, sede del quartier generale di Frontex, l’agenzia dell’Unione europea per il pattugliamento delle frontiere.

Due ore più tardi, grazie a quelle immagini, una nave della Guardia costiera libica ha raggiunto i migranti e ha ordinato loro di fermarsi, nonostante fossero ben al di fuori delle acque libiche. I guardacoste, armati, hanno costretto i migranti a salire a bordo, li hanno picchiati selvaggiamente e li hanno riportati indietro nell’unico posto dove non volevano andare: i centri di detenzione della Libia.

Efficiente e brutale, il sistema che permette l’arresto in mare e la prigionia a terra di questi migranti è acclamato dai funzionari dell’Unione europea come uno dei frutti della collaborazione con la Libia, nel comune impegno per svolgere «operazioni di salvataggio a scopo umanitario» lungo la rotta del Mediterraneo. Per molti, però, il vero intento di questa campagna congiunta non è tanto salvare i migranti dall’annegamento, quanto impedire loro di raggiungere le coste europee.

Frontex nega di collaborare con la Libia

Da quando è emersa “l’emergenza immigrazione” nel 2015 e centinaia di migliaia di persone hanno attraversato il Mediterraneo, i funzionari europei si sono sempre più affidati ai libici per contenere il flusso degli sbarchi. Non solo l’Ue ha equipaggiato e addestrato la Guardia costiera libica, ma ha anche fatto pressione sull’organizzazione marittima delle Nazioni unite per fare in modo che riconoscesse una zona di ricerca e salvataggio (Search and rescue region, in inglese). In questo modo i libici possono intervenire anche più a largo delle loro acque territoriali. Il risultato di questa collaborazione è stato un calo precipitoso del numero dei migranti che raggiungono l’Europa: circa 20 mila migranti nei primi sette mesi di quest’anno, più di un milione in meno rispetto all’apice dei flussi nel 2015. Senza la ricognizione aerea di Frontex, la Guardia costiera libica cercherebbe i migranti a occhi chiusi in mezzo al mare.

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Frontex nega da tempo di cooperare direttamente con la Libia, uno Stato fallito gestito in gran parte da milizie. L’agenzia europea ha insistito che il suo unico scopo è quello di salvare vite in mare. Ha affermato che avvisa direttamente le autorità libiche riguardo le imbarcazioni di migranti solo se si tratta di una vera emergenza. Un portavoce di Frontex mi ha comunicato che «le convenzioni internazionali obbligano tutte le navi a fornire assistenza a coloro che si trovano in difficoltà […] [Frontex] non si è mai impegnata in nessuna cooperazione con le autorità libiche». Eppure numerose prove dimostrano il contrario.

Lo scorso anno, per esempio, Lighthouse Reports – piattaforma di giornalismo d’inchiesta europea (qui le serie con IrpiMedia #InvisibleWorkers e #EuArms, ndt) – ha documentato 20 casi in cui gli aerei di Frontex erano nelle vicinanze di imbarcazioni di migranti intercettati in seguito dalla guardia costiera libica. In una dozzina di questi, secondo Lighthouse Reports, è stata Frontex a identificare per prima i barconi. Per il diritto internazionale questo significa che Frontex era obbligata a notificare non solo la Guardia costiera libica, ma anche la nave più vicina – militari o mercantili – in modo che potesse intervenire per un salvataggio in caso di bisogno.

«Si può distinguere un modus operandi evidente – sostengono i giornalisti di Lighthouse Reports -. Prima vengono avvistate le imbarcazioni in difficoltà, poi ci sono scambi di comunicazioni tra diversi attori europei e la Guardia costiera libica. Non viene dato nessun avviso né alle navi commerciali che si trovano nei paraggi, né alle navi delle ong, nonostante possano essere le più vicine a imbarcazioni in difficoltà in mare aperto». I numeri reali possono essere molto più alti ma questi casi hanno già dimostrato che Frontex era presente e guardava mentre almeno 91 persone sono scomparse e si presume siano annegate».

«Il mio radar non funziona bene»

Lo stesso anno, il The Guardian in collaborazione con Lighthouse Reports, ha pubblicato le conversazioni tra un aereo della sorveglianza europeo e la Guardia costiera libica mentre quest’ultima cercava di intercettare due imbarcazioni di migranti. Un capitano della Guardia costiera libica si è rivolto così, via radio, al pilota dell’aereo: «Ok signore, il mio radar non funziona bene, non funziona bene, se rimane [sopra la barca] la seguo». Mentre cercava di guidare la Guardia costiera verso le imbarcazioni di migranti, quest’ultimo ha risposto: «Abbiamo circa cinque minuti di autonomia. Andremo sopra l’imbarcazione, il gommone e lo illumineremo con le nostre luci».

Al porto di Mitilene, città sull’isola di Lesbo (Grecia), dei funzionari di Frontex scortano i rifugiati arrivati da poco da altre isole greche su un traghetto con destinazione Turchia l’8 aprile 2016 – Foto: Etienne De Malglaive/Getty

Hussein Baoumi, ricercatore di Amnesty International Libia, ha affermato che non è sorpreso dalle continue negazioni di Frontex riguardo a una relazione formale con la guardia costiera libica: «Vogliono separarsi dagli aspetti più discutibili del contenimento di migranti – ha detto-. Non importa. Stanno cooperando. Sono complici diretti».

Le responsabilità europee

L’Ue ha negato anche l’esistenza di finanziamenti diretti ai campi di prigionia per i migranti in Libia, ammettendo però le loro condizioni disumane e chiedendo miglioramenti. Ma finora ha resistito agli appelli per porre fine al suo lavoro con la Libia e prendere provvedimenti per salvare chi si trova incarcerato nei centri di detenzione per migranti.

Ma se è vero che l’Ue non finanzia la costruzione di campi di detenzione o il loro personale, è altrettanto vero che i soldi europei vengono utilizzati per pagare praticamente tutto il resto del sistema disumano in cui i migranti sono regolarmente torturati, violati, detenuti illegalmente e a volte uccisi. Tramite i droni e gli aerei di Frontex, l’Ue è la prima responsabile dell’individuazione dei gommoni e, attraverso le autorità italiane e maltesi, della trasmissione di queste informazioni alla Libia. Successivamente, le barche acquistate dall’Ue e gestite dalla Guardia costiera libica catturano i migranti e li riportano sulla costa.

Un’inchiesta della testata giornalistica non-profit americana The Outlaw Ocean Project ha dimostrato che i fondi di Ue e Stati membri servono a finanziare, a volte passando per organizzazioni umanitarie, la maggior parte del sistema di detenzione dei migranti in Libia. La maggior parte di questi finanziamenti è in buona fede, persino nell’ottica di salvare la vita ai migranti. Ma non si può negare che l’Ue e i suoi Stati membri stia sostenendo finanziariamente il sistema il Libia con il quale migliaia di migranti vengono catturati e tenuti in condizioni orribili. E dato che Fortex è la punta della lancia, c’è maggiore attenzione sul suo ruolo e sulla legalità del suo intervento.

Politica Vs Frontex

Un rapporto del Parlamento europeo ha prodotto una lunga litania di accuse contro l’agenzia: avrebbe chiuso un occhio sulle violazioni dei diritti umani commesse dal personale della guardia costiera sia dei Paesi europei sia dei Paesi partner in Africa; avrebbe un sistema fallimentare per intervenire sulle denunce di cattiva condotta; il suo capo Fabrice Leggeri avrebbe mancato di agire per quattro anni nonostante le avvertenze da parte del responsabile per i diritti umani della sua stessa agenzia.

In un’intervista con The Outlaw Ocean Project di fine ottobre un alto funzionario di Frontex ha affermato che Leggeri si è impegnato per anni in una difesa di sè ipocrita, insistendo sul fatto che le «prove» di malagestione di Frontex siano state prodotte dall’Ue prima che lo stesso Leggeri potesse agire, il tutto senza riuscire a garantire che le denunce di questi potenziali abusi fossero indagate fino in fondo.

L’alto funzionario ha aggiunto che all’agenzia non erano più sicuri che Frontex stesse rispettando il suo obbligo più essenziale: assicurarsi che fossero rispettati i diritti delle persone più vulnerabili del mondo. Il funzionario ha affermato che in Europa rabbia e umori mutevoli sul tema dell’immigrazione hanno corroso l’indipendenza di Frontex dalla politica.

«L’influenza della politica è un problema quando si ha a che fare con diritti umani fondamentali – ha affermato il funzionario -. Anche se la sua partecipazione al rimpatrio dei migranti in Libia è indiretta, Frontex potrebbe violare la legge dell’Ue». «Non importava – ha ricordato la fonte interna a Frontex facendo riferimento alle reazioni di Leggeri e del suo entourage -. Non importava qualunque cosa dicessi loro. Non volevano capire». Leggeri ha rifiutato le ripetute richieste di intervista.

Dopo Mare Nostrum: otto anni di missioni di Frontex nel Mediterraneo

di Lorenzo Bagnoli

A dicembre, l’ong Human Rights at Sea ha pubblicato un rapporto curato insieme alla ricercatrice Farzaneh Shakerin intitolato Attraversare il Mediterraneo: ricerche ma non salvataggi. Riguarda tutto il bacino del Mediterrano, ma la rotta centrale, quella tra Libia e Italia per intendersi, è da otto anni la più pericolosa. Lo dimostrano i numeri: secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), tra il 2013 e il 2021 sono stati oltre 23 mila i migranti dispersi in mare nel tentativo di raggiungere l’Europa. Di questi, quasi otto su dieci sono scomparsi lungo la rotta del Mediterraneo centrale. È dentro questo contesto che si inseriscono tutte le decisioni politiche in merito all’impiego di Frontex e al pattugliamento dei confini europei.

«Dal 2014 – si legge in Attraversare il Mediterraneo: ricerche ma non salvataggi – l’Ue e i suoi Stati membri hanno perseguito la pratica di voltare le spalle ai migranti che attraversano il Mediterraneo diminuendo, limitando e allocando diversamente le forze navali ingaggiate nelle operazioni di ricerca e salvataggio». Questa prassi si è consolidata dopo Mare Nostrum, l’unica vera operazione umanitaria nel Mediterraneo condotta in solitaria dalla Marina Militare italiana, conclusasi a ottobre 2014 per la mancata volontà politica di rinnovarla. Da allora in avanti «Frontex si è fatta avanti per dare una mano all’Italia lanciando l’operazione congiunta Triton (novembre 2014- gennaio 2018). Al contrario di Mare Nostrum – continua il report -, che era concepito per condurre operazione di salvataggio, Triton aveva l’obiettivo di affrontare tratta e traffico di esseri umani, un mandato che ha motivato gli Stati membri dell’Ue e l’Ue a finanziare generosamente l’operazione». E quando nel 2015 gli arrivi sono aumentati, il direttore esecutivo di Frontex Fabrice Leggeri ha precisato che le operazioni di salvataggio «non rientrano nel mandato di Frontex e per quanto di mia comprensione nemmeno nel mandato dell’Unione europea».

Dopo Triton è stato il turno di Themis, una delle tre missioni di Frontex nel Mediterraneo ancora in corso. «L’aspetto interessante dell’operazione Themis è stata l’estensione del sistema di monitoraggio delle frontiere a Paesi esteri come Algeria, Tunisia, Libia ed Egitto, in virtù del fatto che le loro acque erano ritenute aree interessate dai flussi migratori del Mediterraneo», prosegue il rapporto. L’obiettivo di Themis era prevenire che i migranti prendessero il mare, costringendoli a restare nei Paesi rivieraschi africani. Salvare le vite di chi prendeva il mare, però, non è stato mai un obiettivo: «Uno studio dimostra che dal 2015 al 2019, su 118.128 persone salvate nel Mediterraneo centrale, solo 40.747, ovvero il 34,49%, sono state salvate da Frontex», aggiunge il rapporto di Human Rights at Sea. Dal canto suo, il Consiglio europeo fornisce invece i numeri delle persone salvate da Frontex, prima con Triton e poi con Themis: oltre 284 mila dal 2016.

Il salvataggio in mare non è un atto umanitario, ricorda il report di Human Rights at Sea, bensì un obbligo previsto dalla convenzione delle Nazioni unite sul diritto del mare (Unclos), firmata nel 1982 in Jamaica. Quando nel settembre 2020 la Commissione europea ha introdotto il Nuovo patto sulla migrazione e l’asilo, un documento programmatico che indica le linee guida per i prossimi cinque anni in materia di immigrazione, ha mantenuto un atteggiamento ambiguo in merito ai salvataggi, nota Human Rights at Sea.

Da un lato, il Nuovo patto chiarisce che è responsabilità degli Stati membri occuparsene, definendolo quindi il pattugliamento come compito comunitario e la ricerca e il salvataggio come compiti nazionali. Dall’altro però il Nuovo Patto specifica che «Frontex dovrebbe fornire un maggiore supporto operativo e tecnico nell’ambito delle competenze dell’Ue, così come il dispiegamento di risorse marittime agli Stati membri, per migliorare le loro capacità e quindi contribuire a salvare vite umane in mare». «Il paradosso di non avere un mandato specifico, ma comunque di impegnarsi autonomamente nel fornire supporto nell’ambito delle competenze dell’Ue, mette in dubbio la sincerità dell’obbligo legale di salvare vite in mare», è la conclusione del rapporto Attraversare il Mediterraneo: ricerche ma non salvataggi.

Foto: Vite salvate nelle operazioni dell’Ue nel Mediterraneo (2015-2021) – Consiglio europeo

Le violazioni del 2021

Quest’anno davanti alla Corte di giustizia dell’Unione europea, la principale autorità giudiziaria dell’Ue, sono stati presentati diversi casi esemplari. Il primo è stato presentato a maggio e sostiene che Frontex abbia ignorato a lungo i suoi obblighi di segnalare e fermare gli abusi ai danni dei richiedenti asilo che cercano di raggiungere l’Europa. Si prende il caso di due migranti – un ragazzo congolese di 17 anni di nome Jeancy Kmbenga e una donna del Burundi che ha chiesto di rimanere anonima – che facevano parte di un gruppo di 13 che è stato fermato dalle autorità greche dopo essere arrivato a Lesbo. Dicono di essere stati trasferiti con la forza su una nave della Guardia costiera greca e riportati in mare prima di essere abbandonati su una scialuppa di salvataggio, finendo poi di nuovo in Turchia.

Le accuse del secondo caso, presentato a ottobre, sono probabilmente ancora più gravi per Frontex. Secondo il procedimento, una famiglia siriana con quattro bambini piccoli tra 1 e 7 anni sarebbe stata deportata dalla Grecia nel 2016 senza avere accesso a una procedura di asilo e sarebbe stata riportata in Turchia su un volo organizzato da Frontex, con i quattro bambini piccoli separati dai loro genitori senza che i funzionari dell’agenzia lo impedissero. La famiglia è stata trattenuta in Turchia e ora vive nel nord dell’Iraq. Questi due procedimenti hanno portato per la prima volta Frontex davanti alla Corte di giustizia dell’Unione europea.

«C’è un problema con la mancanza di trasparenza»

Human Rights Watch in un rapporto pubblicato la scorsa estate, ha pesantemente accusato l’agenzia di pattugliamento delle frontiere europee: «Frontex ha ripetutamente fallito nell’intraprendere azioni efficaci quando le accuse di violazione dei diritti umani sono state portate alla sua attenzione – ha detto Eva Cossé, ricercatrice di Human Rights Watch per l’Europa occidentale -. La sua rapida trasformazione in un’agenzia con maggiori poteri, finanziamenti e responsabilità legali rende ancora più urgente che Frontex metta in atto strumenti efficaci per salvaguardare i diritti fondamentali».

Costituita nel 2004, l’agenzia ha ora un budget di più di mezzo miliardo di euro e impiega più di 1.400 persone, compresi circa 600 agenti. Il suo consiglio di amministrazione è composto da rappresentanti dei 25 Stati membri dell’Ue e da due membri della Commissione europea. In teoria, esistono una serie di procedure attraverso cui verificare le responsabilità di Frontex, ma raramente è stata sottoposta a una vera sanzione. Ottenere informazioni minime dall’agenzia, anche per un membro del Parlamento europeo, è difficile: «Abbiamo davvero problemi con la mancanza di trasparenza», ha commentato Tineke Strik, europarlamentare olandese.

In un report sulla storia di Frontex, Human Rights Watch ha notato che secondo il suo stesso statuto, l’agenzia ha il potere di sospendere o porre a termine le operazioni delle polizie di frontiera dell’Ue che hanno commesso abusi contro i migranti. Eppure in tutta la sua storia, afferma Human Rights Watch, non è mai stato fatto.

Leggeri, il direttore esecutivo di Frontex, ha ricevuto numerose richieste di dimissioni nei mesi scorsi. Recentemente un gruppo di manifestanti si è riunito fuori dagli uffici di Frontex a Bruxelles chiedendo l’abolizione dell’agenzia. In una lettera al suo staff, Leggeri, che ha lavorato al dipartimento immigrazione del ministero dell’Interno francese, ha definito le proteste una «campagna di odio» e ha promesso azioni legali.

Il ponte di comando della nave di soccorso norvegese Peter Henry Von Koss durante una missione di pattugliamento a guida Frontex nell’area a nord di Lesbo (Grecia) il 29 febbraio 2016 – Foto: Etienne De Malglaive/Getty

A giugno, Human Rights Watch ha inviato agli alti funzionari dell’agenzia quelle che, a suo dire, erano le prove di una gravi scorrettezze commesse o ignorate da Frontex in tre Paesi europei. Deve ancora ricevere una risposta. L’ong ha accusato Frontex di usare l’interpretazione letterale dei propri regolamenti come cinico capo espiatorio per evitare di assumersi la responsabilità per gli abusi che avvengono sia nel Mediterraneo sia nel Mar Egeo.

«Nel corso degli anni, Frontex ha fatto affidamento sul suo ruolo di coordinamento e sulla mancanza di autorità esecutiva per eludere la responsabilità dei diritti umani – scrive Human Rights Watch -. Nel dicembre 2020 il direttore esecutivo di Frontex Fabrice Leggeri ha detto al Parlamento europeo che non c’erano prove del coinvolgimento di Frontex negli abusi ai danni dei migranti nell’Egeo e che solo gli Stati membri avevano l’autorità di prendere decisioni operative, implicando che Frontex non poteva essere ritenuta responsabile».

L’indagine interna

Frontex, sotto pressione, ha ordinato un’indagine interna sul modo in cui conduce le operazioni. I suoi stessi ispettori hanno criticato in modo pungente i sistemi per segnalare i problemi interni. Hanno detto che l’agenzia ha bisogno di riconoscere i suoi fallimenti e hanno raccomandato di rivedere l’approccio dell’agenzia in merito alle proprie responsabilità. Lo scopo sarebbe identificare i timori sulle possibili violazioni dei diritti umani e agire di conseguenza. Hanno inoltre suggerito a Frontex di registrare il lavoro dei guardacoste degli Stati membri dell’Ue e di conservarlo per le proprie indagini.

Dopo anni si è anche ritirata dal Forum Consultivo di Frontex PICUM – Piattaforma per la cooperazione internazionale sui migranti senza documenti, un’organizzazione per i diritti dei migranti, perché ignorata ed emarginata dall’agenzia.

Su un altro fronte, a gennaio, l’Ufficio europeo per la lotta antifrode (Olaf) avrebbe aperto un’indagine su Frontex, secondo i media. Le accuse sarebbero di frode, respingimenti illegali e molestie sul posto di lavoro. Sia Frontex, sia OLAF hanno confermato che un’indagine è in corso, ma non hanno offerto ulteriori dettagli. «[Gli investigatori di OLAF] stanno operando con molta attenzione – ha detto Strik -. Ho parlato con loro in agosto e sperano di finire entro pochi mesi».

Il rapporto con la Libia

Il lavoro di Frontex con la Libia, naturalmente, fa parte di un piano europeo molto più grande e costoso per esternalizzare la gestione dell’immigrazione a Paesi terzi. L’Ue ha inviato miliardi a Paesi come Libia, Niger, Tunisia e altri, apparentemente per aiutarli a migliorare le condizioni al loro interno e quindi limitare la necessità di migrare. Ma decine di milioni di quei dollari sono andati a inasprire la legislazione sull’immigrazione e a dare potere alle forze dell’ordine in quei Paesi.

Per approfondire


Perché per i migranti climatici il Mediterraneo sarà sempre peggio

Dalla vicenda di Asso 28 alla traversata di Aliou Candé: gli effetti dell’esternalizzazione delle frontiere mediterranee viste da The Outlaw Ocean Project

A luglio, Amnesty International ha pubblicato il suo ultimo rapporto sullo stato dei migranti in Libia. Ha riportato che la Guardia costiera libica, a cui spesso arrivano segnalazioni di barconi in difficoltà da Frontex, accorre per intercettare i migranti, a volte sparando contro i gommoni o le barche, a volte provocando il ribaltamento dell’imbarcazione. Per esempio, a febbraio la Guardia costiera libica ha aperto il fuoco su un gommone, forandolo e facendolo affondare. Il rapporto dice che cinque persone sono annegate mentre i guardacoste filmavano con i loro cellulari.

Frontex è sicuramente consapevole delle preoccupazioni sulla Guardia costiera libica, nonostante si sia trovata regolarmente ad assisterla. Da anni si sa che la Guardia costiera libica, in realtà un insieme confuso di diverse autorità portuali di diverse città, lavora in comune accordo con le milizie del Paese, molte delle quali sono coinvolte nel traffico di esseri umani. Infatti, il capo dell’agenzia governativa libica che supervisiona la lotta all’immigrazione irregolare ha ammesso apertamente in una serie di interviste che la corruzione esiste tra i ranghi della Guardia costiera.

L’alto funzionario di Frontex che ha parlato con The Outlaw Ocean Project ha detto che già all’interno dell’agenzia era stato dichiarato che avere una qualunque relazione con la Guardia costiera libica sarebbe stato impensabile, in parte perché l’Europa «non aveva idea» della condotta dei sedicenti guardacoste libici. Era semplicemente troppo complesso avere relazioni con la Libia, un Paese che ancora deve uscire da anni di guerra civile. «È impossibile – conclude la fonte interna di Frontex – riuscire a stabilire chi è chi».

CREDITI

Autori

Ian Urbina

In partnership con

Editing

Lorenzo Bagnoli

Traduzione a cura di

Lorenzo Bagnoli
Marta Soldati
Allison Vernetti

Foto di copertina

Etienne De Malglaive/Getty