Il limbo degli “El Hiblu 3”, tre vite in attesa di giudizio

11 Aprile 2023 | di Rita Martone

Il 25 marzo 2023 si sono svolte a Malta le manifestazioni in favore di Amara Kromah, Abdul Kader e Abdalla Bari, tre migranti africani intrappolati in un limbo giudiziario dal loro sbarco sull’isola, il 28 marzo 2019. All’epoca avevano rispettivamente 15, 16 e 19 anni. Kromah è diventato maggiorenne la vigilia di Natale 2021, ma dice che i suoi piani e sogni per la vita sono costantemente offuscati dal futuro incerto. Bari è diventato padre per la seconda volta; il suo primo figlio non è con lui ma è rimasto in Guinea, accudito dalla nonna. Kader, invece, studia inglese. I tre non sono costretti in un carcere, ma non sono nemmeno liberi; sono bloccati sull’isola in attesa di giudizio, con una condanna fino all’ergastolo che pende sulle loro teste per i nove crimini di cui sono accusati, tra cui spiccano atti di terrorismo, dirottamento e sequestro di persona con lo scopo di ricattare lo Stato. Secondo la loro tesi, invece, avrebbero impedito alla nave che li ha soccorso di riportarli in Libia.

Il giorno della manifestazione, diverse organizzazioni maltesi, laiche e religiose, che si occupano di diritti, migranti e corruzione si sono date appuntamento di fronte al tribunale di La Valletta per tornare a puntare i fari sulla vicenda. Si sono rivolti al procuratore generale per chiedere che vengano ritirate le accuse contro i tre della El Hiblu 1, gli “El Hiblu 3”. Da quando sono finiti sotto indagine è stato creato un coordinamento per chiederne la liberazione che ha anche realizzato un libro, Free the El Hiblu 3, in cui raccontano la loro versione dei fatti.

Le anomalie del viaggio della El Hiblu 1

È il 26 marzo del 2019 quando gli adolescenti Amara Kromah, Abdul Kader e Abdalla Bari, provenienti dalla Costa d’Avorio e dalla Guinea, salgono su un gommone insieme a circa 110 persone, tra cui 15 bambini. Sono in partenza da Gasr Garabulli, la città libica fondata dagli italiani nel 1938, una sessantina di chilometri a est di Tripoli. I campi di detenzione e i gruppi di trafficanti di uomini della città sono noti almeno dal 2016, quando Garabulli è stata la linea del fronte della guerra civile. Nei primi mesi del 2019 è da lì che partono i migranti diretti in Europa: i controlli alle frontiere si sono allentati con la crisi politica che vive l’allora Governo di accordo nazionale di Tripoli, oggi Governo di unità nazionale.

Il gommone sul quale sono a bordo Amara Kromah, Abdul Kader e Abdalla Bari dà immediatamente segni di cedimento, imbarca acqua dai lati e il motore spinge a fatica. Gli oltre 110 migranti a bordo devono essere recuperati, se non vogliono annegare.

Grazie al lavoro d’inchiesta della campagna Free El Hiblu Three e di diversi colleghi, si conoscono molti aspetti dell’operazione con la quale sono stati tratti in salvo alcuni naufraghi. Zach Campbell già nel settembre 2019 ha raccontato l’accaduto su The Atavist; l’anno seguente, insieme a Daniel Howden e Apostolis Fotidias, ha pubblicato sul Guardian le comunicazioni che proprio quel 26 marzo sono intercorse via radio tra i guardacoste libici e i militari dell’allora missione Sophia della Marina europea, impegnata nel coordinamento del recupero dei migranti che si trovavano a bordo di due gommoni. È infatti uno degli aerei della missione Sophia, identificato dal codice di chiamata Seagull 75, a segnalare ai libici i due natanti in difficoltà.

La comunicazione intercorsa tra l’aeromobile Seagull 75 in capo all’Operazione Sophia dell’Unione europea e la Guardia costiera libica il 26 marzo 2019 durante un soccorso prestato a due gommoni carichi di migranti nel Mediterraneo centrale. L’intervento dell’aereo è decisivo per permettere ai guardacoste libici di individuare le imbarcazioni in difficoltà. In uno dei due natanti c’erano a bordi i migranti salvati dalla El Hiblu. (Per approfondire il ruolo delle missioni europee nel Mediterraneo centrale, leggi Da Operazione Sophia a Irini, anatomia delle missioni navali europee)

Secondo la ricostruzione di Zach Campbell, i libici non riescono a intervenire e Seagull 75 chiede assistenza alla El Hiblu 1, una petroliera di proprietà turca battente bandiera di Palau, salpata da Istanbul e diretta a Tripoli, a bordo della quale il piccolo equipaggio – quattro marinai che vengono definiti «indiani» – risponde a un comandante turco e un primo ufficiale di nazionalità libica.

Meno di un mese prima, segnala l’agenzia di intelligence marittima Windward, El Hiblu 1 ha cambiato bandiera, da quella turca a quella di Palau, e in quel momento è operata da una società con una sola nave. Ha anche passato dodici giorni in un cantiere della parte asiatica del Bosforo «che è stato, in passato, legato a episodi di traffici di alto profilo», scrive Windward. Sono indicatori di rischio, dato che quello di Palau è uno dei “registri di comodo” dove le navi sono sottoposte a pochissimi controlli in termini di rispetto delle convenzioni internazionali. Il sindacato dei marittimi Itf l’ha segnato nel 2023 tra i quattro peggiori al mondo per salari non pagati e abbandoni di equipaggi.

A questo si aggiungono altre anomalie: dal 2017 fino al 22 marzo 2019, la El Hiblu 1 aveva sempre e solo navigato in acque turche e una petroliera piccola come la El Hiblu 1 normalmente non fa tappa nel porto libico di Tripoli. Resta quindi il dubbio del perché la nave si trovasse in quel momento nelle acque internazionali tra Malta e la Libia.

Forze di polizia maltesi a bordo del mercantile El Hiblu il 28 marzo 2019 durante le operazioni di sbarco dei 110 migranti a bordo – Foto: Matthew Mirabelli

«El Hiblu 1, El Hiblu 1, questo è l’aereo di pattugliamento – si legge nella trascrizione della comunicazione via radio tra il velivolo e la petroliera riportata da Zach Campbell -. Ci stiamo coordinando con la Guardia costiera libica. Signore, abbiamo bisogno che salviate quelle persone perché la motovedetta della Guardia costiera libica non funziona».

«Non riportateci in Libia»

L’equipaggio della El Hiblu 1 comunica ai naufraghi di spegnere il motore e di arrampicarsi sulla rete lungo il fianco della nave. Chi prende il mare ormai conosce le fattezze delle navi delle Ong e la El Hiblu 1 è diversa. Qualcuno chiede dove sia diretta la nave e un membro dell’equipaggio, un indiano, dice: «A Tripoli». Tanto basta per convincere sei migranti a rimanere sul gommone che si sta per inabissare. Nessuno sa cosa sia successo loro.

«Poi arrivò il primo ufficiale che disse: “Buone notizie!”. Disse proprio così: “Buone notizie, l’elicottero (aereo militare secondo altre ricostruzioni, ndr) mi ha indicato un punto d’incontro”. Giurò sul Corano che non ci avrebbe mai riportato in Libia. Disse che sarebbero arrivate due navi che ci avrebbero portato in Europa», spiega un testimone intervistato da Amnesty International che ha incontrato i sopravvissuti nei mesi seguenti.

Nader El Hiblu è il primo ufficiale libico della nave, a volte erroneamente identificato come comandante. Nelle testimonianze riportate nel libro per la campagna Free El Hiblu Three, Abdalla Bari spiega che Nader «parlava solo in inglese, ma uno di noi capiva e traduceva per gli altri». Il primo ufficiale è fratello di Salah El Hiblu, l’armatore della nave, il quale, contattato da IrpiMedia via email e Whatsapp, non ha risposto alle richieste di commento. La famiglia El Hiblu lavora in diversi settori tra Libia, Malta e Turchia: dal trasporto marittimo ai servizi di agenzia, fino al trasporto di prodotti petroliferi.

I misteri della Nehir/El Hiblu

Questa è la seconda puntata di una serie in due episodi sulle vicende della Nehir, fino al 2019 chiamata El Hiblu 1. Oggi la nave è sotto sequestro in Spagna, dopo essere stata intercettata con a bordo un carico di droga, come abbiamo raccontato nella puntata precedente.

È passato poco tempo da quando Nader El Hiblu ha giurato sul Corano, quando riceve una seconda chiamata dalla Missione Sophia per soccorrere un’altra imbarcazione in difficoltà. Riporta Zach Campbell: «Non posso procedere perché ho un grosso problema. Lasciatemi… non mi permettono di spostarmi dalla mia posizione, ok? Vogliono andare in Europa, in Spagna o in Italia», dice agli uomini a bordo dell’aeroplano della missione europea.

«Signore – è la risposta -, stiamo collaborando con la guardia costiera libica. Ci hanno detto di dirle che può trasferire queste persone a Tripoli».

«Riporto le persone a Tripoli?», chiede conferma El Hiblu.

«Signore – ribadiscono dall’aeromobile di Sophia -, stiamo coordinando… siamo sotto il coordinamento della Guardia costiera nazionale libica. Non andate a salvare l’altra barca. Potete procedere verso Tripoli».

«Se una nave viene incaricata di sbarcare le persone salvate in Libia si crea un potenziale conflitto tra l’equipaggio e le persone disperate, che potrebbero opporsi al rimpatrio – ha commentato nei giorni successivi all’incidente Guy Platten, il segretario della Camera internazionale dello shipping (Ics), l’organizzazione mondiale che rappresenta l’industria delle spedizione marittima -. Dato il numero di persone salvate in queste operazioni su larga scala, l’equipaggio della nave soccorritrice può facilmente essere sopraffatto perché in inferiorità numerica». «I comandanti delle navi mercantili – ha aggiunto – devono aspettarsi che le autorità di ricerca e soccorso degli Stati costieri provvedano a indicare lo sbarco in un luogo sicuro, sia per le persone soccorse, sia per i marittimi coinvolti nel salvataggio». In altri termini, assegnare Tripoli come porto di sbarco mette in pericolo tutti, anche gli equipaggi delle navi che soccorrono i naufraghi.

Per approfondire

Il mistero della cocaina scomparsa dalla petroliera Nehir

Secondo l’equipaggio, condannato a nove anni di carcere, a bordo c’erano oltre tre tonnellate. Gli inquirenti spagnoli ne hanno trovato la metà. Tutti i misteri della Nehir

Il primo ufficiale Nader El Hiblu descrive agli uomini di Sophia una situazione già molto difficile a bordo e chiede assistenza. Durante la notte, dopo un paio di manovre, la El Hiblu 1 riesce comunque a fare rotta verso la Libia. Sono le prime luci del mattino quando a bordo si inizia a vedere terra. Dopo una prima fase di gioia, scoppia la disperazione: un migrante sul telefono prende il segnale che gli indica una compagnia telefonica libica. Grida: «Libia! Libia!», scatenando la rabbia tra i passeggeri.

Dopo l’inizio delle proteste, l’equipaggio della El Hiblu 1 è asserragliato: «Hanno attaccato la cabina di pilotaggio, picchiando pesantemente sulle porte e sulle finestre e hanno minacciato di distruggere la nave», ricorderà Nader El Hiblu sbarcato a Malta all’Associated Press. Descriverà l’esperienza come «un orrore»: «Non mi importava della nave, ma dell’equipaggio».

Alla fine l’imbarcazione farà rotta verso Malta. Testimonianze raccolte dal Times of Malta però non indicano né l’uso della violenza durante l’operazione di “dirottamento”, né la presenza di armi a bordo. Secondo il giornale, la polizia maltese ha anche ipotizzato la possibilità che fosse aperto un fascicolo per traffico di esseri umani ai danni del comandante, di cui però ad oggi non c’è traccia.

«Ero sconvolto dall’inganno del comandante – testimonia invece Abdalla Bari nel libro del comitato Free The El Hiblu Three -, ma superai la rabbia per unirmi a coloro che cercavano di riportare la calma sulla nave. Quando la situazione si è placata, il comandante (qui forse si riferisce a Nader El Hiblu, ndr) è uscito dalla sua cabina per parlare con la persona che capiva e parlava inglese, mentre noi eravamo davanti alla folla a spiegare e aiutare». Secondo la sua testimonianza, sarebbero poi stati costretti a rimanere nella cabina del comandante come “ostaggi”, fino a quando la nave non è stata approcciata dalla Marina militare maltese.

Le reazioni post sbarco sono state molto dure verso i migranti. Matteo Salvini, che all’epoca dei fatti era ministro dell’Interno, descrisse l’accaduto come «un atto di pirateria» e un portavoce della Marina maltese parlò di una «nave pirata». Al contrario, secondo il diritto internazionale, un’acquisizione ostile di una nave deve avvenire in alto mare e a opera dell’equipaggio di un’imbarcazione diversa perché si qualifichi come atto di pirateria. In questo caso, la nave era stata rilevata nelle acque nazionali libiche (era a sei miglia dalla costa) e da persone sulla stessa nave, sottolinea il blog accademico Völkerrechtsblog, che pubblica dibattiti sul diritto internazionale.

I precedenti del caso El Hiblu 1

E se la El Hiblu avesse avuto fin dall’inizio il compito di riportare in Libia dei migranti recuperati in mare? Negli anni passati, ci sono state diverse navi mercantili coinvolte o nel traffico di esseri umani oppure in operazioni di salvataggio che avrebbero dovuto concludersi con il rimpatrio in Libia. Sono casi che possono offrire qualche chiave interpretativa per rispondere ai dubbi che restano intorno al caso El Hiblu 1, la cui storia è finita in Spagna, semi-affondata insieme a un carico di droga nel 2021.

Il primo caso: la Blue Sky M

31 dicembre 2014: il mercantile Blue Sky M parte dalla Turchia diretto a Rijeka, in Croazia. Quando si trova vicino all’isola greca di Corfù, nello Ionio, alcuni migranti che si trovano a bordo – sono 800 in tutto – chiamano le autorità elleniche per segnalare «uomini armati» a bordo. Il comandante richiamerà poco dopo per bloccare l’intervento e tranquillizzare le autorità greche. Qualche ora dopo, le autorità italiane troveranno la nave di fronte alle coste pugliesi, senza equipaggio e con il pilota automatico impostato per dirigersi verso l’Italia. Windward segnala che alcune delle anomalie della El Hiblu 1 si ripetono nel caso della Blue Sky M, in particolare il cambio di bandiera e la navigazione sempre e solo in Turchia prima dell’ultimo viaggio in Italia. IRPI aveva indagato per Correctiv sulla “flotta fantasma” di grosse navi mercantili impiegate per trasportare migranti verso l’Italia, nei primi mesi del 2015.

Il “dirottamento” della Vos Thalassa

8 luglio 2018: il rimorchiatore di supporto per le piattaforme petrolifere Vos Thalassa interviene a recuperare più di 60 migranti che stavano naufragando a bordo di una piccola imbarcazione di legno. Coordina le operazioni il centro di Roma, che chiede alla nave di andare a Lampedusa. Le autorità della Guardia costiera libica richiamano l’imbarcazione perché vogliono trasbordare i migranti a bordo della loro motovedetta e riportarli in Libia. La Vos Thalassa inverte la rotta, ma i migranti protestano e costringono le autorità italiane a intervenire con un trasbordo sulla nave Diciotti della Guardia costiera, che li riporta in Italia. A dicembre 2021, la Cassazione ha stabilito che l’intervento dei migranti è stato «per legittima difesa», ribaltando le conclusioni della Corte d’Appello di Palermo.

Gli ostaggi della Nivin

7 novembre 2018: una volta salvati dalla nave da carico per veicoli Nivin, impegnata solitamente lungo la rotta tra il porto libico di Al Khoms e Savona, i 79 naufraghi sono stati rassicurati dai soccorritori: li avrebbero portati in Italia. Invece il comandante della Nivin fa improvvisamente rotta verso Misurata, in Libia, come gli era stato ordinato dalla Guardia costiera libica, che aveva preso il coordinamento al posto dell’Italia. Tredici giorni dopo, le autorità libiche fanno irruzione nella nave costringendo i passeggeri a rientrare nei centri di detenzione per migranti irregolari. «Questa situazione è il risultato degli sforzi dell’Italia e dell’Unione europea per ostacolare le operazioni di salvataggio da parte delle organizzazioni non governative e dare potere alla Guardia costiera libica, anche quando l’Europa sa che la Libia non è un luogo sicuro», aveva commentato Judith Sunderland di Human Rights Watch. Anche l’equipaggio della Nivin, in buona parte europeo, era stato messo in pericolo dalla decisione di respingere i migranti in Libia.

I respingimenti del 2019

A dicembre 2019, l’organizzazione Forensic Architecture ha analizzato diversi respingimenti in Libia con modalità simili a quelle che si sono verificate con il caso El Hiblu. I nomi delle imbarcazioni sono Gesina Schepers, Lady Sham, BFP Galaxy, OOC Emerald, Maridive: in tutti i casi, le navi hanno sbarcato i migranti in Libia dopo l’intervento della Guardia costiera libica, subentrata nella gestione dei salvataggi. Tra luglio 2018 e maggio 2019, Forensic Architecture scrive che ci sono stati almeno 13 tentativi di respingimenti operati da mercantili di flotte private, undici dei quali realizzati con successo (in tre casi i respingimenti sono avvenuti in Tunisia).

La strage di Pasquetta

Pasquetta 2020: durante un naufragio, dodici migranti muoiono annegati. Altri 52 migranti sono tratti in salvo da tre navi private, partite dal porto di Marsa, a Malta, su ordine delle autorità dell’isola. Sono poi riportati a Tripoli. È il caso più evidente in cui l’intervento di salvataggio, con respingimento verso la Libia, è stato deciso fin dall’inizio dalle autorità maltesi. IrpiMedia se ne è occupata qui (1 e 2) e insieme ad Avvenire nel Libyagate (1, 2 e 3).

Lo sbarco a Malta e l’inizio della detenzione

Entrato in acque maltesi, il mercantile El Hiblu 1 viene perquisito dall’Unità C per le operazioni speciali della Marina maltese (Afm). Appena sbarcati al porto di La Valletta, Amara Kromah, Abdul Kader e Abdalla Bari vengono arrestati con le accuse che pendono ancora sulle loro teste. Detenuti in custodia cautelare per sette mesi, vengono rilasciati su cauzione nel novembre 2019. I tre, da allora, devono presentarsi ogni giorno alla stazione di polizia e partecipare alle udienze preliminari mensili, con le quali si decide se il processo è o meno da celebrare. Se venissero ritenuti colpevoli da una giuria a Malta, i tre potrebbero affrontare l’ergastolo.

«Questo caso ci preoccupa molto, perché rientra nei tanti casi di criminalizzazione della solidarietà – spiega Ilaria Masinara, campaign manager di Amnesty International Italia –. Un accanimento politico e giudiziario nei confronti dei migranti e di chi si occupa di migrazione e in questo caso in maniera abbastanza trasversale perché i ragazzi hanno una doppia veste. Sono persone che scappano da un contesto geografico pericoloso ma sono equiparabili anche a difensori di diritti umani. Perché quello che hanno fatto sull’imbarcazione è stato agevolare la comunicazione e far sì che l’intera imbarcazione non venisse riportata in luoghi di tortura. Insieme alla preoccupazione di una stretta sempre più repressiva nei confronti di queste persone, ci preoccupa ciò che sta succedendo a livello della giustizia a Malta».

Amnesty International ha lanciato un appello per la scarcerazione dei tre ragazzi, un appello che ha raccolto ad oggi migliaia di firme online. «Dal nostro appello si è mossa anche l’ex presidente della Repubblica maltese Marie Louise Coleiro Preca; si è attivato il Papa che ha voluto incontrare i ragazzi. Si sono mosse persone di altissimo livello. Nonostante ciò siamo in attesa che si pronunci il Procuratore generale. Da un momento all’altro ci aspettiamo la decisione che può essere quella di mandarli in giudizio oppure revocare il processo. In ogni caso c’è una carenza della giustizia che non comunica e che ha lasciato queste persone in un limbo», prosegue Masinara.

I tre giovani si sono sempre dichiarati innocenti, sostenendo di aver agito come mediatori per evitare il respingimento verso la Libia. Proprio in relazione ai respingimenti verso la Libia i giudici italiani hanno emesso sentenze di condanne verso comandanti di navi che, pur seguendo direttive di operazioni europee, hanno riportato in Libia migranti salvati da naufragi nel Mediterraneo. È il caso della sentenza di condanna del capitano del rimorchiatore Asso 28 (vedi box dell’articolo Migranti e gasolio, il cartello dei trafficanti coinvolto nella strage di Pasquetta).

Un processo senza fine

Fondata nell’ottobre 2021, la Commissione ElHiblu3 Freedom è un’alleanza indipendente di vari sostenitori dei diritti umani che chiedono a Malta di archiviare immediatamente il processo contro i tre giovani uomini. La Commissione ha un ruolo di monitoraggio, attenzione, diffusione e condivisione di pratiche e di saperi. Il tema centrale è quello della criminalizzazione della migrazione che è comune a tutti i Paesi d’Europa.

«L’idea di fare rete, di monitorare e studiare tali questioni è ciò che anima questa Commissione e la mia personale partecipazione» spiega a IrpiMedia Francesca Cancellaro, avvocato e membro della Commissione. «È vero che gli ordinamenti giuridici sono diversi ma è pur vero che le regole internazionali e i diritti fondamentali hanno una portata trasversale e devono trovare un’applicazione in tutti gli ordinamenti. Da questo punto di vista la Commissione ha il senso di tenere alta l’attenzione, monitorare quello che avverrà anche nelle fasi processuali successive e riuscire a creare una rete di sostegno e di impegno internazionale per evitare che queste vicende rimangano confinate nei territori a cui si riferiscono e non riescano a essere lavorate in modo condiviso. Il paradosso – secondo l’avvocato Cancellaro – è che per vedere rispettati i propri diritti fondamentali i tre ragazzi stanno rischiando condanne pesantissime e tutt’ora sono in un limbo giudiziario».

Un migrante è tratto in arresto immediatamente dopo lo sbarco dalla El Hiblu 1 il 28 marzo 2019. Agli arrestati sono contestati nove crimini tra cui terrorismo, dirottamento e sequestro di persona a scopo di ricatto – Foto: Jonathan Borg/Getty

Tempi così lunghi per un processo del genere non se ne sono mai visti a Malta. E ancora va deciso se rinviare a giudizio i tre indagati.

I membri della polizia maltese e i membri dell’equipaggio della nave mercantile sono stati ascoltati subito dopo lo sbarco della El Hiblu 1, l’accusa maltese ha impiegato invece due anni per chiedere ai sopravvissuti di testimoniare. Finora l’hanno fatto in sei, solo uno di loro nella sua lingua madre con l’ausilio di un interprete. Per loro è chiaro che Kromah, Kader e Bari sono innocenti e hanno contribuito a impedire che più di 100 persone fossero costrette a tornare in Libia.

«I ragazzi, che ho avuto occasione di conoscere a Malta durante un meeting organizzato dalla Commissione e tutte le realtà che stanno lavorando alla campagna, sono stati in detenzione dura per molti mesi e ci hanno raccontato che è stato difficile – prosegue Cancellaro -. Non è stata considerata in questa fase di detenzione la giovane età. Tutt’ora ci sono delle limitazioni, restrizioni, adempimenti che limitano la loro libertà di movimento».

I ragazzi infatti hanno l’obbligo di presentarsi alle autorità maltesi quotidianamente. La situazione è giunta a un punto cruciale. Adesso si aspetta la decisione definitiva del procuratore generale, a cui la Commissione ha indirizzato una lettera aperta per chiedere la chiusura del procedimento.

Foto: Il mercantile El Hiblu 1 attraccato a La Valletta durante le operazioni di sbarco dei 110 migranti a bordo, il 28 marzo 2019 – Matthew Mirabelli/Getty
Editing: Lorenzo Bagnoli

Calabria, la seconda porta per l’Italia

#MediterraneoCentrale

Calabria, la seconda porta per l’Italia

Carmen Baffi
Vincenzo Imperitura
Alfredo Sprovieri

Il naufragio avvenuto la notte fra sabato 25 e domenica 26 febbraio a 200 metri dalla spiaggia di Steccato di Cutro, in provincia di Crotone, ha messo sotto i riflettori una rotta migratoria finora praticamente ignorata dall’opinione pubblica. Eppure la Calabria è il secondo approdo in Italia, dopo l’isola di Lampedusa. Dalla Turchia alla Calabria, la traversata dura dai cinque ai sette giorni di navigazione, il doppio di quella che dal Nord Africa porta alla Sicilia. Il tratto in mare è solo l’ultima estenuante parte di un viaggio che per migliaia di persone è iniziato mesi prima.

Sulle spiagge calabresi sono arrivati migranti dalla Siria, dall’Afghanistan, dall’Iran, dal Pakistan e dall’Armenia: persone il più delle volte in fuga da una parte di pianeta in guerra da decenni. Sono anche arrivati cittadini ucraini, turchi, russi, egiziani, migranti a loro volta spesso coinvolti dai trafficanti nel trasporto degli altri profughi dalle coste meridionali della Turchia, trampolino di un continuo flusso di esseri umani a questa seconda porta d’ingresso in Italia.

L'inchiesta in breve
  • Per i migranti, la Calabria è la seconda porta d’accesso all’Italia. Nel 2022 gli arrivi sono stati più di 18mila, contro i 10mila del 2021. Anche prima della strage di Steccato di Cutro, la rotta dalla Turchia alla Calabria destava preoccupazioni: è molto più lunga e meno sorvegliata del triangolo tra Libia, Tunisia e Sicilia.
  • Il Governo Meloni ha dichiarato guerra agli “scafisti” ma in realtà già oggi tanti timonieri delle barche finiscono in carcere. Solo nel 2022 sono stati 61, secondo i dati del Tribunale di Locri. Su 29 procedimenti penali per traffico di esseri umani, il 65% è già a sentenza.
  • Ma gli scafisti non sono i trafficanti, per quanto il governo mescoli le responsabilità. E ci sarà mercato finché esisterà la domanda di oltrepassare i confini senza documenti. La rotta dalla Turchia alla Calabria, infatti, ha incrementato le partenze dopo che si sono ridotte le partenze verso la Grecia.
  • L’avamposto dell’accoglienza calabrese è Roccella Jonica, principale destinazione di chi sbarca in Calabria. L’arrivo di persone in stato di necessità è continuo, ma la struttura di prima accoglienza non è adeguata ai numeri.

Secondo i dati elaborati da Pagella Politica, nel 2022 in Calabria ci sono stati in tutto 18.092 sbarchi (tra autonomi, ovvero senza che le imbarcazioni di migranti siano state intercettate da altre navi, attraverso l’intervento della Guardia costiera o con l’aiuto delle ong), mentre in Sicilia, l’ingresso principale all’Europa, sono stati 78.586. Il tasso di crescita in Calabria è molto significativo, visto che nel 2021 gli approdi sono stati pochi più di 10 mila.

Dal primo sbarco nella Locride alla fine degli anni ‘90 a oggi, quasi niente in questo viaggio è cambiato. Medesima la rotta che collega le province sud orientali della Turchia a quelle della Calabria ionica così come identiche, ed estenuanti, continuano ad essere le modalità di questa traversata. Anche la zona di sbarco individuata dai trafficanti resta incatenata ai soliti posti: pochi chilometri di costa compresi tra Cirò e Le Castella e tra Monasterace e Palizzi, estremo pezzo meridionale delle province di Crotone e Reggio Calabria. Si tratta di un fenomeno radicato nel tempo, ma ogni anno affrontato dalle istituzioni alla stregua di una nuova emergenza in termini di sicurezza.

All’inizio fu Riace

Il primo luglio del 1998, un tecnico di laboratorio percorre in auto la strada che di solito dalla scuola in cui lavora lo riporta a casa. Solo all’apparenza si avvia un pomeriggio qualunque di un giorno qualsiasi della sua vita. A un certo punto della strada però vede qualcosa di inconsueto. Sulla spiaggia vicina a quella che 25 anni prima aveva restituito i famosi Bronzi, è approdato dalle coste turche un barcone carico di profughi curdi. Questo è l’inizio di una storia che conoscono tutti: quella di Mimmo Lucano e dell’accoglienza di Riace. Il borgo è uno dei tanti “paesi sdoppiati” della Ionica in cui il centro storico va verso lo spopolamento, mentre la vita si riorganizza a valle, lungo la costa. Le case vuote per ospitare i migranti non mancano. Lucano inizia poi a studiare alcune pratiche di accoglienza attuate in un altro Comune “sdoppiato”, Badolato. Da questo incontro nasce un percorso politico che lo porta a diventare sindaco nel 2004.

Per Riace, ottiene fondi regionali per la ristrutturazione delle case dismesse nel borgo e fornisce accoglienza e ospitalità ai rifugiati e ai richiedenti asilo che lavorano nel Comune attraverso laboratori artigiani e, nell’attesa dell’erogazione dei fondi, spendono per le proprie necessità una moneta locale creata ad hoc. Rieletto per un secondo mandato nel 2009, Lucano diventa sempre più conosciuto fino a quando, nel 2016, la rivista americana Fortune lo inserisce al quarantesimo posto fra i 50 leader più influenti al mondo. Nell’ottobre del 2017, però, la Procura di Locri lo iscrive nel registro degli indagati per truffa, abuso d’ufficio e peculato proprio nell’ambito della gestione del sistema d’accoglienza di Riace. Sostenuto da manifestazioni di solidarietà in tutta Italia, Lucano sarà comunque messo agli arresti domiciliari, sospeso dal ruolo di sindaco e subirà anche il divieto di dimora a Riace. Il 30 settembre 2021 il Tribunale di Locri lo condanna a 13 anni e 4 mesi di reclusione, praticamente raddoppiando le richieste del pubblico ministero e nel 2022 si apre il processo d’Appello a Reggio Calabria, con la procura generale che il 26 ottobre chiede 10 anni e 3 mesi per Lucano.

Qualunque sarà il suo verdetto finale, questo è comunque un processo giudiziario che porta con sé effetti incontrovertibili. Oggi a Riace arrivano alla spicciolata richiedenti asilo e rifugiati per i quali è scaduto il tempo di permanenza nelle strutture “ufficiali”. Cercano diritti basilari, soprattutto quello all’assistenza sanitaria. Per loro la destinazione è l’ambulatorio Jimuel, fondato nel 2017 dal medico anestesista Isidoro Napoli, per tutti Sisi. Insieme a lui una ventina di medici volontari, fra cui una cardiologa, due ginecologhe, un pediatra, un ecografista e diversi radiologi, presta la propria opera gratuita a chiunque ne abbia bisogno.

L’emergenza è in mare

Le barche che ingrossano la rotta turca sono nella maggioranza dei casi velieri monoalbero in vetroresina, rubati nei porti dell’Anatolia e poi guidati a motore. In condizioni ottimali potrebbero trasportare in sicurezza al massimo una ventina di persone e possono essere guidati per piccoli tragitti turistici anche senza disporre di una grossa esperienza nautica. Viaggiano invece per notti e giorni senza sosta, in media con dieci volte il carico di persone consentito, e non solo non possono contare su sufficienti presidi di salvataggio, ma spesso i migranti non sanno nemmeno nuotare.

L’emergenza c’è insomma, ma è in mare, ed è di natura umanitaria. È difficile stabilire quanti eventi di naufragio siano avvenuti nei decenni di navigazione al largo delle coste italiane, anche perché sullo specchio d’acqua che fa da scenario a questo evento mancano le ong, a differenza della rotta dalla Libia alla Sicilia. La prima strage di cui si ha conoscenza risale al 2007, quando annegarono in sette a largo di Roccella Jonica, ma tragedie meno eclatanti per il numero di persone coinvolte sono purtroppo frequenti.

Operazioni di prima accoglienza al Centro di Roccella Jonica – Foto: Carmen Baffi

Mohamed Nasim è afghano ed è approdato vicino Crotone a metà giugno, in una giornata di mare calmo. Era fra i pochi a parlare inglese, perciò alla mediatrice culturale e al personale della Guardia di finanza che l’hanno interrogato e verbalizzato ha ricostruito al dettaglio le tappe del suo viaggio. Racconta di essere partito dal suo Paese per l’Iran, dove è rimasto tre mesi, per poi raggiungere Istanbul, dove è rimasto circa nove mesi. Per organizzare il viaggio ha ricevuto i contatti necessari da altri connazionali già arrivati in Europa. Ha avuto un numero di telefono che ha contattato, poi ha versato circa 10 mila euro da un conto corrente iraniano a un altro. Racconta che tramite sua madre i soldi sono stati spostati sul conto corrente di un “garante terzo” in Turchia, il quale liquiderà i trafficanti solo dopo il suo arrivo in Italia, elemento che differisce da quanto accade lungo la rotta del Mediterraneo Centrale. Alla domanda sul come siano stati avvertiti del suo arrivo risponde: «Loro lo sanno».

Racconta di essere partito da Bodrum, l’antica Alicarnasso. Nell’antichità era sede della tomba di Mausolo, una delle sette meraviglie del mondo, oggi è un porto turistico frequentato dalla borghesia turca. Dell’organizzazione ricorda «un uomo grande e grosso» che ha requisito i cellulari e distrutto le Sim card, minacciando che altrimenti sarebbero stati scoperti dalle polizie europee. Prima di andarsene, ha ordinato a tutti di restare sottocoperta e di muoversi il meno possibile per evitare di ribaltarsi. Le stanze erano tre, ognuna delle quali con venti persone. Per i primi tre giorni, i migranti non hanno potuto mangiare. Qualunque imbarcazione in quelle condizioni, è da considerare a rischio naufragio. A dirlo è la logica prima che i regolamenti internazionali. Ed è la regola, lungo la rotta dalla Turchia alla Calabria.

Scafisti VS trafficanti

Dalla politica da anni viene riproposta una soluzione che finora non ha risolto nulla: la caccia allo scafista. La parola indica chi guida le imbarcazioni, ritenuti parte dell’organizzazione criminale anche quando si tratta di un migrante che ha accettato il compito solo per pagare di meno. Durante il Consiglio dei ministri organizzato a Cutro il 9 marzo, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha annunciato il decreto legge per «sconfiggere la tratta di esseri umani responsabile di questa tragedia». Per gli scafisti, il decreto introduce il reato di «morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina», con pene dai dieci ai 30 anni. «Il reato – ha aggiunto la presidente del Consiglio in conferenza stampa – verrà perseguito dall’Italia anche se commesso fuori dai confini nazionali».

Nelle parole della prima ministra non c’è distinzione tra trafficanti, cioè coloro che organizzano le traversate, e scafisti; né tra tratta di persone, reato previsto per chi forza o induce una persona a entrare in Italia illegalmente per sfruttarla, e traffico di esseri umani, che invece riguarda l’organizzazione dell’ingresso in Italia di persone prive di documenti. Per quest’ultima fattispecie, le pene per lo scafista sono già inquadrate dall’articolo 12 del Testo Unico Immigrazione. E già oggi nelle carceri di Locri e di Reggio Calabria sono diversi i detenuti, alcuni già condannati, per questo reato, circostanza che però non ha interrotto le partenze.

I presunti scafisti sono giovani, quasi tutti sotto i 30 anni. Al 29 di novembre del 2022, al Tribunale di Locri, competente per territorio nella zona con il maggior numero degli approdi di questa rotta, risultano 29 procedimenti penali svolti nel corso dell’anno con l’accusa di traffico di esseri umani. Di questi procedimenti, oltre il 65% è arrivato a sentenza con giudizio immediato, direttissimo o abbreviato e solo il 31% risulta in fase di indagini preliminari.

Dal 2009, le aggravanti previste per gli scafisti sono severe e di immediata verifica, come il favoreggiamento qualificato che scatta se le persone introdotte illegalmente in Italia grazie alla condotta dell’imputato siano più di cinque, e fanno sì che le pene e le multe comminate siano davvero significative: nei casi più estremi si arriva fino a 15 anni di carcere e un milione di euro di sanzione.

Secondo i dati della Procura le persone fermate o arrestate con questa accusa nella Locride sono in totale 61 nel 2022. La loro provenienza nel 2022 – a causa anche della guerra in Ucraina – è molto cambiata rispetto agli anni scorsi: vengono soprattutto dalla Turchia (34%) e dall’Egitto (21%), mentre in passato la nazionalità più frequente era ucraina. Nonostante i tentativi di coinvolgere le Direzioni distrettuali antimafia allo scopo di allargare le indagini e individuare i vertici delle organizzazioni, finora i risultati sono stati pochi.

Come è cambiata la migrazione dalla Turchia verso i Paesi europei

L’incremento delle partenze dalla Turchia si può spiegare per un concatenarsi di diversi fattori, spiega Luigi Achilli, ricercatore che insegna all’istituto universitario europeo (Eui) di Firenze che in questi anni ha lavorato sulla comparazione tra i traffici lungo il confine USA-Messico e lungo le rotte del Mediterraneo. «È come quando tappi una falla e l’acqua sgorga più forte da un’altra parte spiega. Negli scorsi anni, soprattutto quelli successivi alle crisi siriane, molti sono rimasti bloccati in Turchia e così ha ripreso vigore soprattutto la rotta del Mediterraneo centrale. Però in Libia le dinamiche sono cambiate e il business della migrazione si è trasformato in un business della detenzione». E la Libia è diventata un nuovo tappo.

Invece oggi in Turchia i controlli delle autorità di frontiera sono meno severi, soprattutto a seguito del terremoto dello scorso 6 febbraio, che ha provocato la morte di almeno 49 mila persone. Non ci sono grossi gruppi criminali, ma piccole organizzazioni che agiscono con il sostegno almeno di alcune autorità locali.

Nel 2016, l’Unione europea ha stretto un accordo con la Turchia affinché bloccasse i migranti sul proprio territorio, impedendo loro di prendere il mare. Finora la Grecia è stata nettamente la meta principale. Per ogni richiedente asilo respinto in Turchia dalle isole greche, l’accordo prevede anche che i Paesi europei avrebbero preso un richiedente asilo residente in Turchia. L’accordo ha portato fino al 2020 sei miliardi di euro nelle casse turche, a cui si è aggiunta la promessa di altri tre miliardi nel triennio 2021-2023. Evidentemente in questo momento è sufficiente per sigillare la rotta verso la Grecia, ma non verso l’Italia.

«Per le organizzazioni criminali – aggiunge Achilli – questo significa puntare sul viaggio che dalle coste sud orientali della Turchia arriva in Italia bypassando la Grecia, trovando qualcuno disposto a guidare le barche».
La guerra senza quartiere agli scafisti difficilmente sarà un deterrente per le partenze: «I trafficanti esistono e continueranno a esistere finché ci sarà criminalizzazione dell’immigrazione continua Achilli. Per la mia esperienza non bisogna guardare a sistemi verticistici e a grosse organizzazioni internazionali, ma a piccoli gruppi locali spesso composti a loro volta da migranti». Per quanto possano girare molti soldi in queste attività, invece che concentrarsi in organizzazioni verticistiche, si perdono in mille rivoli. «Per la criminalità organizzata – conclude – resta più conveniente il viaggio di una barca piena di cocaina invece che di persone povere».

Fame d’aria. La storia di Moussa, dall’Iran

A settembre è arrivata in Calabria una famiglia scappata dall’Iran senza documenti. Vista l’importanza della cifra sborsata in contanti per imbarcarsi in Turchia, i suoi componenti – padre, madre e due figli – pensavano di viaggiare senza troppe difficoltà tutti e quattro insieme. Invece la realtà li ha sopraffatti. Melina, Baar, Moussa e Agar sono arrivati a Roccella Jonica, in provincia di Reggio Calabria su una barca omologata per dieci persone. Moussa, 24 anni, è già ingegnere nel suo Paese. Ha seguito le orme del padre e con lui è partito sperando di costruire un nuovo futuro in Europa. Il sogno è quello di una nuova vita in Francia, magari, come tanti connazionali in fuga.

Il suo respiro però si è fermato prima. Moussa è morto per raggiungere l’Europa, destino comune a quasi 25 mila persone che secondo il rapporto Ismu dal 2014 al 25 settembre 2022 sono morti o risultano dispersi nelle acque del Mediterraneo. Nelle pause di un pianto disperato, la madre ha raccontato che il ragazzo nella barca soffriva di mancanza d’aria già da ore, che insieme al marito ha chiesto molte volte di poter far spostare il ragazzo sopra coperta, ma che non gli è stato concesso. Dice che gli è morto fra le braccia, che ha dovuto persino lottare per difendere il suo corpo senza vita e non farlo buttare in mare. Arrivati a Roccella, ha deciso insieme al marito di testimoniare contro i tre presunti scafisti fermati dalle forze dell’ordine. Hanno detto di volerlo fare perché «a nessun figlio può essere impedito di raggiungere la terra desiderata».

Gli operatori della Croce Rossa locale, con l’avallo della Prefettura e l’intercessione della parrocchia, hanno fatto il possibile per affidarli alle cure di una famiglia del posto. I tre cittadini iraniani hanno dunque lasciato il Porto dopo poche ore e in poco più di due settimane hanno ricevuto l’ok per celebrare i funerali per Moussa nella chiesa di Roccella, dove il padre ha letto in farsi alcuni versi prima della benedizione della salma, prima che un imam amico di famiglia, in diretta telefonica, pronunciasse la preghiera di affidamento a Dio prevista dal Corano.

La coppia durante il funerale è rimasta tutto il tempo accanto al feretro, nel centro della navata principale della chiesa, non smettendo quasi mai di guardare la foto del figlio sulla bara, un’immagine nella quale Moussa è ritratto con un maglione giallo e un cappotto blu, sorridente. I cittadini di Roccella hanno messo insieme i fondi per l’inumazione e la sepoltura e Padre Francesco Carlino celebrando la funzione ha inteso ringraziarli dicendo: «Perdonaci Moussa, perdonaci perché la tua morte interroga le nostre coscienze assopite e ci dice di gridare ai nostri politici che è giunta l’ora di mettere fine a questo quotidiano massacro di vite».

Il centro nevralgico della prima accoglienza calabrese

Il centro nevralgico dei soccorsi e della prima accoglienza in Calabria è il Porto turistico delle Grazie di Roccella Jonica, in provincia di Reggio Calabria. Qui i 1.200 migranti arrivati nel 2020 sono diventati più di cinquemila nel 2021. Numeri già superati nei soli primi sei mesi del 2022 e in crescita esponenziale dalla seconda metà di agosto in poi, quando in questa struttura di prima accoglienza hanno cominciato a susseguirsi arrivi con un media registrata, nel periodo di punta fra il 18 agosto e il 22 settembre, di 50 persone ogni 24 ore. Il bilancio finale nel 2022 di Roccella Jonica si è attestato su 86 eventi di sbarco e 6.994 persone accolte. Se si tiene conto dei circa 20 sbarchi autonomi registrati, per la Questura si tratta di circa novemila persone arrivate in un anno in un paese che conta soli seimila abitanti.

L’attività di questo centro è stata avviata dalla prefettura di Reggio Calabria il 25 ottobre del 2021 e si avvale della presenza di diversi enti, istituzioni, organizzazioni e realtà associative. Innanzitutto, la Croce Rossa Italiana con il Comitato Riviera dei Gelsomini, che ha allestito una tensostruttura che può ospitare circa 150 persone e che impiega giornalmente dodici fra operatori e volontari. Si occupano della distribuzione di generi di prima necessità e di conforto al momento dell’arrivo al porto delle persone migranti, alla distribuzione dei kit igiene e vestiario forniti dalla Prefettura e a tutte le attività di supporto per gli accolti fino al loro successivo trasferimento in altre strutture.

La rotta dalla Turchia alla Calabria

La via marittima che collega la Turchia alla Calabria è solo l’ultimo tratto di diverse rotte migratorie le quali convergono nel Paese che collega Europa e Asia. Nel grafico, le nazionalità dei 6.994 migranti arrivati a Roccella Jonica (RC) nel 2022

Tutti i giorni è presente anche il personale di Medici Senza Frontiere, ong che opera un’equipe composta da un medico, un infermiere e due mediatori culturali. È anche presente personale dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (UNHCR) e sono operative anche due unità Save The Children con compiti di supporto psicosociale, di informativa legale e ascolto. Sono presenti anche due professionisti dell’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo (EUAA, la vecchia EASO, ndr) con il compito di supporto nell’attività di informativa sull’asilo. Per quanto riguarda la sicurezza, le forze dell’ordine assicurano un presidio interforze h24 con tre equipaggi e, infine, con un team di undici unità, c’è anche Frontex, l’agenzia europea per il pattugliamento dei confini, a cui spetta il compito di intervistare i migranti, scambiare informazioni con le forze di polizia ed essere di supporto alla Polizia scientifica. Sono loro, con le difficoltà dettate dalla delicatezza dell’intervento e dalla scarsità di risorse a disposizione, a presidiare questa scalcinata porta d’Europa.

La giornata tipo al Porto delle Grazie inizia molto presto. Il primo approdo annunciato conta una cinquantina di persone da accogliere. Pochi uomini, di più le donne e tanti bambini, alcuni davvero piccolissimi. Una motovedetta della Guardia di finanza li ha intercettati a bordo di un’imbarcazione alla deriva subito dopo il sorgere del sole, a largo di Riace e appena dentro il limite delle acque territoriali. Li scorta in modo lento e vigile lungo la linea della costa, davanti a turisti e bagnanti che hanno imparato a considerare la scena come parte del paesaggio. Intanto al porto si mette in moto il meccanismo per l’accoglienza che, anche se ormai rodato, comporta sempre qualche nervosismo.

Le forze dell’ordine pattugliano entrambi i lati dello spazio adibito alla prima accoglienza. Lo spazio è off-limits per i giornalisti, ma sulle sue criticità si esprime chiara una relazione ispettiva del Siulp (Sindacato italiano unitario lavoratori polizia) di Reggio Calabria datata 5 luglio 2022. Un documento che parla di clima «assolutamente invivibile durante il periodo estivo, tanto da costringere i migranti a trascorrere la notte all’esterno», in una piccola pineta «attigua alle ridicole mura perimetrali, assolutamente inefficaci ed inefficienti, che favoriscono l’allontanamento arbitrario degli ospiti». 

Migranti radunati sulla banchina del Porto di Roccella Jonica – Foto: Carmen Baffi

Il rapporto, corredato di foto, mette in fila le numerose falle rilevate dal sindacato di polizia all’interno della tensostruttura e racconta anche di un tentativo di fuga di massa esacerbato dalle condizioni di invivibilità. «Esasperazione determinata da attese snervanti, da caldo asfissiante e dai ritardi alle operazioni di identificazione a loro volta alimentate dalla farraginosa difficoltà di reperire mediatori culturali. Mediatori che vedono un contratto rinnovato, ma non perfezionato dalla Corte dei conti con parallelo devastante effetto nelle realtà periferiche: costringere i locali utilizzatori di quel servizio – ufficio immigrazioni – a reperire volta per volta, in occasione di sbarchi, interpreti di varie lingue e dialetti e richiedere le necessarie autorizzazioni preventive in Prefettura per “contratti occasionali” di lavoro».

Secondo il Siulp di Reggio Calabria, impattanti sulla normale regolarità del servizio sono anche i miasmi causati dal mancato adeguamento fognario: vengono anche segnalate e puntualmente fotografate buche scavate con le mani per tentativi di fuga favorite dalla scarsa illuminazione, tutto in una forbice tra personale operante e ospiti migranti che si presenta troppo larga, con gli operatori della Polizia di stato e dei Carabinieri (uno ogni circa 15 ospiti, secondo il rapporto) «sottoposti a condizioni di lavoro disumane e indegne, con i colleghi costretti ad una esposizione continua al sole anche per più di 12 ore al giorno».

Negli ultimi mesi si accoda la serie di operazioni ispettive intraprese dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Il lavoro di monitoraggio della struttura ha fatto emergere che come a Lampedusa «si è in procinto di realizzare a Roccella Jonica un punto di crisi sul modello “hotspot”, per il quale sarebbero in corso di esecuzione le attività necessarie» e «una gestione che risponde come di consueto ad una logica emergenziale, informale e scarsamente strutturata, tanto da un punto di vista materiale quanto procedurale, che implica, naturalmente, la contrazione dei diritti delle persone ospitate all’interno della struttura».

Il clima di tensioni e stress è palpabile già al mattino del nostro arrivo, quando gli operatori chiamati a fare le pulizie dopo la notte – a garantire cioè che le panche e le brande occupate dai migranti arrivati la notte prima siano pronte per quelli che stanno arrivando – sollecitano ad alta voce l’aiuto dei mediatori culturali e degli agenti: è un’operazione che va fatta presto e bene, e non può permettersi resistenze. Dopo un po’ di discussioni si procede con i primi aiuti umanitari, le interviste e le foto, si prosegue con i tamponi e le visite mediche. Si impartiscono e ricevono ordini, file di persone esauste si spostano caracollando. Il caldo è davvero asfissiante, e solo la pineta attigua alla struttura riesce a dare qualche cono d’ombra di riparo, che in poco si riempie di colori e di voci.

Poco dopo le due del pomeriggio, approda un’altra imbarcazione: il termometro segna 38 gradi, l’umidità percepita è sfiancante. Il gruppo di nuovi arrivati, stipato su un piccolo veliero con bandiera statunitense, viene scortato fino alla banchina Sud, proprio davanti al tendone allestito dalla Croce Rossa. Qualche ora più tardi, la Guardia costiera scorta un nuovo veliero, poco più che un rottame, intercettato a oltre 70 miglia al largo della costa. Sono passate da poco le 18:00, non c’è stato nemmeno il tempo di ripulire il piazzale dalle coperte termiche e dai beni di prima necessità utilizzati per il gruppo precedente. Questa volta arrivano in 76, in prevalenza siriani, partiti dalla spiaggia di Abdeh, in Libano, un porto anomalo rispetto alla rotta consuetudinaria. Tra loro ci sono una ventina di bambini, tre hanno meno di un anno.

Il sole tramonta ma gli sbarchi non si fermano. Una motovedetta della Guardia di finanza sta trainando l’ennesimo piccolo veliero. Quando i due natanti rientrano, è da poco passata l’una del mattino. Il monoalbero viene svuotato dei suoi passeggeri poco alla volta, lentamente. Le luci sono fioche e riflettono i propri raggi dal mare nero. All’interno e all’esterno dell’imbarcazione i viaggiatori appaiono immobili, stipati letteralmente come tonni. Questa volta sono in 85: tanti adolescenti non accompagnati e diversi anziani che hanno fatto l’ultima parte del viaggio in coperta, viste le temperature più rigide della notte. I più piccoli vengono fuori dalla pancia della barca per ultimi, stretti al collo dei soccorritori, alle 2:30 del mattino.

Fino a notte tarda il piazzale del porto è ancora in piena attività: qui davvero non ci si riposa mai. La segnalazione dell’ennesimo barchino è arrivata dai mezzi aerei che monitorano questa porzione di Mediterraneo. Ad uscire questa volta sarà una pattuglia della Capitaneria. Manca qualche minuto alle tre del mattino, una nuova giornata di questa storia infinita sta per cominciare.

CREDITI

Autori

Carmen Baffi
Vincenzo Imperitura
Alfredo Sprovieri

Editing

Lorenzo Bagnoli

Video

Carmen Baffi

Infografiche & Mappe

Lorenzo Bodrero

Foto di copertina

Migranti in attesa di essere sbarcati al porto di Roccella Jonica
(Carmen Baffi)

La fortezza Europa colpisce ancora

27 Febbraio 2023 | di Antonella Mautone

Si torna a parlare di migrazioni. Il naufragio di Steccato di Cutro, in Calabria, con 62 morti accertati e molte decine di dispersi, è solo l’ultimo terribile episodio che ha riportato il tema al centro del dibattito pubblico e politico, in Italia come in Europa. I dati degli arrivi irregolari alle frontiere europee, dopo il forte rallentamento imposto dalla pandemia, sono tornati a salire nel 2022 e, pur restando ben lontani da quelli della cosiddetta crisi dei rifugiati del 2015-2016, hanno riportato l’argomento al più alto tavolo dei leader dell’Unione europea. La gestione dei flussi migratori, infatti, è stata uno dei punti principali di discussione del Consiglio europeo straordinario che si è tenuto lo scorso 9 febbraio a Bruxelles.

L’organismo riunisce i capi di stato e di governo dei 27 stati Ue più la presidente della Commissione Ue Ursula Von Der Leyen e il presidente del Consiglio stesso, Charles Michel, e ha il compito di orientare le politiche comunitarie. Il vertice di febbraio si è concluso con la decisione di «mobilitare immediatamente ingenti fondi e mezzi dell’Ue per sostenere gli Stati membri nel rafforzamento delle capacità e delle infrastrutture di protezione delle frontiere». «L’Unione europea – proseguono le conclusioni – rafforzerà la sua azione tesa a prevenire le partenze irregolari e la perdita di vite umane», si pone l’obiettivo di «ridurre la pressione sulle frontiere dell’Ue e sulle capacità di accoglienza», di «lottare contro i trafficanti» e «aumentare i rimpatri».

La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, durante il Consiglio europeo del 9 febbraio 2023 – Foto: NurPhoto/Getty

Nelle conclusioni del Consiglio europeo c’è anche un passaggio in cui vengono riconosciute «le specificità delle frontiere marittime». Stando alle ricostruzioni offerte dalla presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni nella conferenza stampa post vertice, questa parte di testo rappresenterebbe un successo per l’Italia. Un’ipotesi potrebbe essere che Meloni abbia chiesto maggiori sforzi per contenere gli arrivi dal Mediterraneo centrale e, contestualmente, abbia cercato di raccogliere consenso intorno al Piano Mattei, ovvero la trasformazione dell’Italia in un polo di ricezione per tutta l’Europa del gas proveniente dai Paesi africani mediterranei.

Insieme all’obiettivo energetico, il Piano Mattei intende rafforzare il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo per limitare i flussi migratori, contrastare la crescita del terrorismo e dare opportunità economiche ai Paesi africani. È la rielaborazione del 2023 dello slogan “aiutiamoli a casa loro”, che ha innervato le politiche europee dal summit europeo sulla migrazione di La Valletta, nel 2015, a cui parteciparono anche i Paesi africani.

Le cicliche promesse di sviluppo

Correva l’anno 2008 quando, all’ombra di una tenda a Bengasi, l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi siglava con il leader libico Gheddafi il trattato di «amicizia, partenariato e cooperazione» tra Italia e Libia. L’accordo, il cui valore avrebbe dovuto essere 200 milioni di dollari, segnava la collaborazione tra i due Paesi nel contrasto dell’immigrazione irregolare, attraverso il pattugliamento congiunto delle coste libiche. Allora fu il ministro degli interni Roberto Maroni a mettere sul tavolo il progetto di un’autostrada costiera che avrebbe attraversato tutta la Libia, dall’Egitto alla Tunisia; oggi promesse simili rivivono attraverso progetti di cooperazione come il Piano Mattei.

Ormai è sempre più esplicito il meccanismo di condizionalità degli aiuti europei, ovvero il fatto che la cooperazione con la sponda sud del Mediterraneo dipende dall’impegno di bloccare i flussi delle partenze. Questa strategia politica ha ormai fatto scuola. Eppure 15 anni dopo il Trattato di amicizia di Bengasi, Gheddafi è morto, dell’autostrada non c’è traccia, gli sbarchi proseguono. E quella che doveva essere una mossa escogitata sia per bloccare l’arrivo dei migranti via mare, sia per lasciare una minima traccia di influenza italiana nel Paese, sembra essere fallita.

La questione aperta delle Ong

Infine, tra i tanti temi che il documento finale del Consiglio europeo affronta, c’è anche quello delle operazioni di salvataggio. Sottolinea infatti «la necessità di una cooperazione rafforzata in ordine alle attività di ricerca e soccorso». Da questo punto di vista, l’Italia si è mossa in autonomia, cercando di fissare uno standard al quale anche i colleghi europei dovranno adeguarsi. Il 15 febbraio, infatti, la Camera ha approvato il Decreto Ong, voluto dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, capo di gabinetto di Matteo Salvini quando il leader della Lega era al vertice del Viminale. Il decreto afferma che una volta effettuato un salvataggio in mare ogni imbarcazione è tenuta a richiedere un porto di sbarco al Centro di coordinamento marittimo (Mrcc) e raggiungerlo nell’immediato, evitando perciò di effettuare altre operazioni di soccorso.

Aggiunge poi che «alle organizzazioni è richiesto anche di fornire informazioni dettagliate sull’operazione condotta» e soprattutto «informare le persone a bordo della possibilità di richiedere la protezione internazionale e, in caso di interesse, raccogliere i dati rilevanti da mettere a disposizione delle autorità». Non è piaciuto al Consiglio d’Europa (Coe), la principale organizzazione che si occupa di diritti umani in Europa, che tuttavia non è un organo dell’Unione europea. In una lettera firmata dalla commissaria Dunja Mijatovic due settimane prima dell’approvazione, si chiedeva al governo di prendere in considerazione delle modifiche al decreto «per assicurare che il testo sia pienamente conforme agli obblighi del Paese in materia di diritti umani e di diritto internazionale».

Non è andata così. Anzi, il decreto ha già sortito i primi effetti: il 17 febbraio la Capitaneria di porto di Ancona ha contestato alla nave Geo Barents dell’organizzazione Medici senza frontiere di non aver diffuso tutte le informazioni del Vdr (Voyage Data Recorder), una sorta di scatola nera che registra gli spostamenti delle imbarcazioni. Geo Barents, che fa base ad Augusta, avrebbe dovuto ripartire il 24 febbraio ma è stata raggiunta da un fermo amministrativo della durata di 20 giorni: non potrà lasciare il porto.

Il braccio di ferro tra Governo Meloni e ong s’inserisce all’interno di un nuovo clima da “emergenza sbarchi” sul quale insiste l’esecutivo: in soli tre mesi, è la tesi del Governo, è stato bloccato l’arrivo di 21 mila migranti da Libia e Tunisia. Piantedosi presenterà questi numeri agli altri ministri dell’Interno dei Paesi membri Ue convocati al Consiglio “Giustizia e affari interni” previsto giovedì 9 e venerdì 10 marzo. In vista di questo appuntamento, ha senso quindi fare ordine e provare a capire meglio quali sono gli attori che si muovono sulla frontiera marittima italiana, e quindi europea, in particolare con la Libia, dove la strategia di contrasto all’immigrazione irregolare segue le stesse linee guida da anni, a prescindere dal colore dei governi.

Pattugliare il Mediterraneo Centrale

Il 2017 è l’anno della firma del memorandum voluto dal governo di Paolo Gentiloni (dicembre 2016 – giugno 2018) e dal ministro dell’Interno Marco Minniti. Il 2 novembre scorso questi accordi sono stati automaticamente rinnovati per tre anni, così come a gennaio sono state rifinanziate le missioni militari in Libia: anche queste, come vedremo, comportano l’addestramento dei militari libici addetti al controllo delle frontiere del mare, nonostante le polemiche legate all’ormai ampiamente documentata violazione dei diritti umani che ciò comporta. Detto questo, è utile sapere quanti sono i nostri militari in Libia, cosa fanno e, soprattutto, se riescono davvero a controllare le frontiere. Spoiler: le frontiere, siano marittime o terrestri, non sono controllabili. Per diverse ragioni.

In questo momento l’Italia è presente nell’ex colonia con diverse missioni, sia propriamente italiane che sotto il cappello europeo o della bandiera delle Nazioni Unite. Dopo cinque anni, il 31 marzo 2020, si è conclusa la missione navale europea EUnavFor Med Sophia, che quell’anno ha visto fino a 270 unità di personale, un mezzo navale e due mezzi aerei impiegati. Il loro obiettivo era, ed è tuttora, monitorare e fermare il traffico e la tratta di esseri umani, anche mettendo fuori uso imbarcazioni e mezzi usati o sospettati di essere usati dai trafficanti in alto mare, in acque territoriali ed interne o nel territorio dello Stato costiero interessato. Tra gli obiettivi secondari troviamo anche il tentativo di frenare il traffico illegale di armi e di petrolio dalla Libia. 

Nel 2020 questa missione è poi stata sostituita da EUnavFor Med Irini. Entrambe sono state guidate dall’Italia, che aveva offerto di fornire comando e base operativa: «Una proposta accettata dagli altri Stati che partecipano alle operazioni – aveva dichiarato in un’intervista del 2020 l’allora comandante della missione, l’ammiraglio di divisione Fabio Agostini – perché ci è stato riconosciuto un ruolo importante di conoscenza e di trasferimento di esperienza dall’Italia a questa operazione».

Nel 2022, l’Italia ha messo a disposizione di Irini 406 unità di personale e un budget di oltre 40,3 milioni di euro. A differenza di Sophia, Irini ha cambiato l’ordine di priorità dei suoi obiettivi: quelli primari diventano far rispettare l’embargo delle armi imposto alle fazioni libiche e impedire l’esportazione illegale di petrolio dalla Libia, mentre passa in secondo piano tutto ciò che è legato ai flussi migratori. A gennaio 2023, secondo il report mensile prodotto dalla European External Action Service, di fatto, il ministero degli Esteri dell’Unione europea, su 8.376 navi cargo sospette, ne sono state indagate 230 «tramite chiamate radio», mentre cinque sono state abbordate dai militari europei, con il consenso dei comandati, su 425 raggiunte. I porti e i terminal petroliferi tenuti sotto osservazione sono stati 16. Dal 2020, le ispezioni condotte da Irini sono state circa 25 e sono stati tre i carichi trovati ritenuti in violazione dell’embargo

A fine novembre 2022, la Turchia ha denunciato le autorità europee di aver violato «le leggi marittime internazionali» a seguito dell’ispezione di una nave battente la sua bandiera. A ottobre 2022, tuttavia, Irini aveva bloccato un’altra nave turca, la Meerdijk, che aveva a bordo veicoli militari.

Armi ed energia: la presenza turca in Libia

Dall’ottobre 2022, la Turchia ha siglato un accordo triennale con il Governo di unità nazionale (Gun), la forza politica riconosciuta dalle Nazioni Unite che governa a Tripoli. Il patto concede l’esplorazione e lo sfruttamento degli idrocarburi nelle acque libiche e istituisce una zona economica esclusiva libica nel mar Mediterraneo. Questo patto ha provocato nuove tensioni nel Mediterraneo orientale, dove Egitto e Grecia sono sempre più insediate dalle mire espansionistiche di Ankara. L’indotto energetico ricavato sarà trasportato in Turchia tramite gasdotti ed oleodotti già esistenti o di prossima costruzione.

L’accordo rappresenta il ringraziamento del governo di Abdul Hamid Dabeiba per il supporto ricevuto dalla Turchia durante gli scontri di agosto 2022 con le forze fedeli a Fathi Bashaga, il rivale sostenuto dal governo di Tobruk, nella Libia dell’Est, che alla fine è uscito sconfitto. Nell’ultimo report del gruppo di esperti delle Nazioni Unite, datato maggio 2022, già si indicava come la Turchia fosse attiva nella formazione militare dei libici e come fosse stata protagonista di violazioni dell’embargo all’esportazione di armamenti in Libia. Le ispezioni di Irini hanno confermato il coinvolgimento di Ankara, accrescendo ulteriormente le tensioni con Onu e Unione europea.

Dai dati pubblicati dal Consiglio europeo, Sophia ha condotto all’arresto di 143 presunti trafficanti, alla distruzione di 545 navi e alla formazione di 477 guardacoste libici. Tuttavia è stata ritenuta da alcuni Paesi membri non meglio identificati un “fattore d’attrazione” per i migranti, ricorda l’Alto rappresentante agli affari esteri dell’Unione europea Josep Borrell nel discorso per l’estensione del mandato di Irini. Accuse che in quell’occasione Borrell ha rimandato al mittente, perché prive di fondamento. Eppure il timore che la missione sia un incentivo alle partenze è molto presente nei documenti europei.

Il Comitato politico e di sicurezza, ovvero l’organismo composto dagli ambasciatori degli Stati membri con base a Bruxelles presieduto dai rappresentanti del servizio europeo per l’azione esterna, nel documento con cui sigla la proroga della missione fino al 31 marzo 2023 scrive che Irini va riconfermata ogni quattro mesi «a meno che lo schieramento dei mezzi marittimi dell’operazione non produca sulla migrazione un effetto di attrazione». Per evitare ogni rischio, l’obiettivo dei Paesi membri è che siano i libici stessi a gestire gli interventi. Per questo Irini è impegnata anche nella formazione di guardacoste e militari della marina di Tripoli.

Mare sicuro. Ma per chi?

Oltre a Irini, l’Italia è impegnata anche in un’altra missione di pattugliamento dei mari solcati dai migranti. Il Dispositivo aeronavale nazionale approntato per la sorveglianza e la sicurezza dei confini nazionali nell’area del Mediterraneo centrale, noto come Mare Sicuro, è una missione che dal 2015 ha lo scopo di «prevenire e contrastare il terrorismo», di sorvegliare e proteggere le piattaforme petrolifere collocate nelle acque internazionali e le unità navali nazionali impegnate in operazioni di ricerca e soccorso, e di contrastare i traffici illeciti. Dal 2017 contribuisce all’attività di addestramento dei militari libici anche con una missione bilaterale di supporto della Marina libica. Una delle navi impegnate in questa missione è ormeggiata ciclicamente al porto di Tripoli, dove svolge compiti di supporto alla marina militare libica anche nell’ambito del progetto europeo Support to Integrated Border and Migration Management in Libya (Sibmmil).

Per approfondire

Come l’Italia ha costruito le forze marittime della Libia

Il Grande Muro del Mediterraneo è costruito su bandi di cui è difficile tenere traccia. Nel complesso, l’esternalizzazione è costata oltre un miliardo. E i risultati non sono soddisfacenti

A inizio 2022, Mare Sicuro è stata prorogata e incrementata (l’unica ad esserlo tra le missioni che operano in Libia) sia nel personale, 774 militari, sia nel costo, 95,4 milioni euro. Ad agosto, l’operazione ha cambiato nome in Mediterraneo Sicuro e la porzione di mare da pattugliare è stato aumentata di circa dodici volte: l’area coperta passa infatti da 160 mila a due milioni di chilometri quadrati circa. Stessi mezzi e stessi obiettivi per una missione che non si occupa solo più della Libia ma anche di diverse crisi come quella tra Grecia e Turchia, sul controllo delle aree energetiche e sulle isole.

Il corridoio del Mediterraneo centrale, per altro, resta caldo non solo per gli sbarchi: a febbraio, l’Ansa riporta che quattro pescherecci hanno rischiato di essere sequestrati da una motovedetta libica a 80 miglia da Tripoli. Per evitare il sequestro è dovuta intervenire la nave militare San Marco.

Gli stivali sul terreno in Libia

L’Italia partecipa con altre missioni alla formazione e all’assistenza delle sue guardie di frontiera, anche attraverso operazioni che apparentemente si occupano di tutt’altro. Nel 2018 l’operazione Ippocrate, nata per curare le forze libiche che combattevano l’Isis a Sirte, è stata accorpata alla missione MIASIT, Missione bilaterale di assistenza e supporto in Libia, (400 unità di personale, 69 mezzi navali, due mezzi aerei, finanziata con 40.218.658 euro di cui 17.000.000 esigibili nel 2023). Quest’ultima, anche se predisposta per prestare assistenza sanitaria (nel corso della missione sono state effettuate oltre 25 mila visite ambulatoriali/specialistiche presso l’ospedale civile e il Field Hospital di Misurata) e organizzare corsi di sminamento, dal 2018 supporta la Guardia costiera libica, ripristinando i mezzi aerei e gli aeroporti, compiti che originariamente appartenevano al dispositivo aeronavale nazionale Mare Sicuro. Compiti simili anche per il personale del Corpo della Guardia di finanza, che nel decreto Missioni, oltre ad essere addetti all’addestramento della Guardia costiera libica, devono «fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione clandestina e della tratta di esseri umani».

L’altra faccia della medaglia

I numeri delle missioni che supportano la cosiddetta Guardia costiera libica vanno letti sempre insieme a quelli delle persone che questa organizzazione ha il compito di fermare: migranti di tante nazionalità diverse, ma anche gli stessi cittadini libici, se si considera che, in un Paese di sette milioni di abitanti, l’Onu stima che almeno 800 mila necessitano di assistenza umanitaria. Le sofferenze di queste persone sono l’altra faccia della medaglia delle missioni che abbiamo descritto.

Secondo la ong Mediterranea, dal 2017 all’11 ottobre 2022 sono state 99.630 le donne, gli uomini e i bambini intercettati in mare e riportati in Libia, verso abusi e violenze. Ad attendere queste persone nel Paese africano, infatti, nella maggior parte dei casi, ci sono campi di detenzione dove per mesi, se non per anni, vengono picchiate e torturate, finché qualcuno non paga il loro riscatto.

E poi c’è chi, invece, non viene salvato, nemmeno dalla Guardia costiera libica. A metà febbraio, un barcone partito da Qasr Al Kayer con a bordo circa 80 persone è naufragato facendo 73 vittime. Secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazione, dall’inizio dell’anno, le morti nel Mediterraneo centrale solo almeno 130.

Foto: Volontari della Croce Rossa e personale della Guardia costiera rimuovono il corpo di uno degli almeno 62 migranti affogati al largo di Crotone il 26 febbraio 2023. Si stima che il barcone rovesciato a causa di una tempesta trasportasse circa 250 persone, 80 delle quali hanno raggiunto la spiaggia a nuoto – Kontrolab/Getty
Editing: Lorenzo Bagnoli, Paolo Riva

Il mare di sabbia tra Libia ed Egitto

Il mare di sabbia tra Libia ed Egitto

Fabio Papetti

La notte del 4 settembre scorso le autorità di Tobruk, città nell’Est della Libia, hanno trovato 287 migranti, tra cui novanta minorenni. Provenivano tutti dall’Egitto e si trovavano in un capannone nella campagna a sud della città. Stando ai loro racconti, erano in attesa dei trafficanti che li avrebbero portati in Italia. Dal capannone, i migranti sono stati portati in uno dei centri di detenzione sotto il controllo del Directorate for Combating Illegal Migration (DCIM), l’autorità libica preposta alla gestione dei flussi migratori che risponde al Ministero dell’interno di Tripoli.

Dopo alcuni giorni di prigionia, le autorità libiche hanno portato il gruppo al valico di confine di Emsaed. In perfetta simmetria, come in un riflesso sull’acqua, si fronteggiano la stazione libica e quella egiziana: è lì che i migranti sono stati rimpatriati.

Il progetto The Big Wall

Da quest’anno IrpiMedia collabora con ActionAid nella realizzazione di inchieste che nascono da The Big Wall, osservatorio sull’esternalizzazione della spesa per gestire i flussi migratori diretti all’Italia. Questo lavoro raccoglie anche spunti dalle richieste di accesso agli atti di Asgi – Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione.

Quando la Libia era parte dell’Impero dell’Italia fascista, qui sorgeva Forte Capuzzo, avamposto del Regio Esercito italiano. Il generale Rodolfo Graziani aveva costruito una recinzione di filo spinato a protezione del confine che terminava 286 chilometri più a sud, presso l’oasi di al-Jaghbub, antica città berbera confinante con l’Egitto, di cui restano ancora ampie tracce. Oltre, inizia il mare di sabbia del Sahara. La vicinanza con l’oasi egiziana di Siwa ne fa ancora oggi l’unica tappa intermedia raggiungibile dai migranti lungo la rotta del deserto.

È il crocevia della maggior parte dei traffici di persone che provengono dal territorio egiziano, ed è qui che con molta probabilità i vari componenti del gruppo hanno attraversato in tempi diversi il confine: la maggior parte di loro proveniva dalle aree di Assiut e Minya, zone centrali dell’Egitto bagnate dal Nilo. Trasportati nei furgoni dai trafficanti egiziani, i migranti hanno attraversato il deserto prima di fare tappa all’oasi libica. Hanno raccontato che durante il tragitto i loro passeur li hanno lasciati in condizioni misere, con una minima quantità di cibo e acqua per combattere il caldo.

Da al-Jaghbub sono stati consegnati ai trafficanti libici della zona: qui diverse tribù e diversi gruppi paramilitari si spartiscono gli affari. Alcuni sono affiliati all’Esercito nazionale libico (LNA – Libyan national Army in inglese), la forza militare che domina la regione orientale della Libia, la Cirenaica. Dalla città berbera, i migranti sono stati in seguito portati verso nord, fino ad arrivare a Tobruk, dove avrebbero dovuto aspettare per poter prendere una nave che li avrebbe portati in Italia.

L’economia sommersa dell’Esercito nazionale libico

L’Esercito nazionale libico è stato creato ufficialmente nel 2014 dal generale Khalifa Haftar alla vigilia della sua campagna denominata Karama (Dignità) contro i gruppi estremisti islamici presenti nell’est della Libia, principalmente a Benghazi. Dopo una serie di successi, i militari si sono guadagnati il supporto della popolazione e dell’esercito libico. Ma quando gli è stato chiesto di riconoscere il Governo di accordo nazionale (GNA in inglese) stanziato a Tripoli, Haftar ha negato l’appoggio, contribuendo a creare la divisione di oggi tra Est e Ovest. In questo modo Haftar ha avuto contro buona parte della comunità internazionale occidentale, ad eccezione in particolare della Francia, e non ha potuto accedere ai finanziamenti statali erogati dal governo dell’Ovest.

In mancanza di un approvvigionamento economico legale, il LNA ha dovuto escogitare metodi meno convenzionali per riempire i forzieri. Uno degli esempi più evidenti è avvenuto proprio nella città di Benghazi, dove l’esercito è stato accusato dagli abitanti di aver saccheggiato o del tutto occupato le loro abitazioni e preso controllo delle loro attività durante il conflitto avvenuto dal 2014 al 2017: ancora oggi ci sono proteste per reclamare i beni sottratti.

Insieme ai furti di proprietà, gli uomini del LNA si sono arricchiti attraverso traffici illeciti. Tra quelli maggiormente redditizi, prima di ottenere il controllo sulla tratta di esseri umani, c’è stato il traffico di petrolio. Già dall’inizio della campagna Karama uno dei maggiori finanziatori delle operazioni militari è stato Ali al-Gatrani, allora presidente della Commissione per il commercio e gli investimenti internazionali del parlamento libico di base a Tobruk, coinvolto nella rete del traffico di petrolio che si dirama nel Mediterraneo e arriva fino in Paesi come Italia e Malta. È infatti uno degli storici sostenitori degli uomini della Brigata al-Nasr, in particolare della mente del contrabbando di gasolio, Fahmi Slim Ben Khalifa.

Una volta consolidata la posizione dell’esercito in territorio libico, il traffico si è espanso ed è diventato sistemico grazie all’aiuto dell’Autorità per gli investimenti militari e pubblici, ente governativo che gestisce i soldi pubblici nella regione sotto il controllo di Haftar. Dai dati della NOC (acronimo di National Oil Company, la compagnia petrolifera libica) sono risultati carichi di carburante ordinati dall’Autorità e destinati a rifornire le navi militari a Benghazi e Tobruk in misura nettamente superiore rispetto alle necessità di navigazione delle imbarcazioni.

Secondo diversi analisti, il petrolio in eccesso sarebbe spedito illegalmente dalle città costiere dell’est per arrivare fino a Malta, e non solo. Oltre ai collegamenti con i porti egiziani e ciprioti, negli ultimi due anni i traffici si sono estesi fino all’Albania: lo scorso 15 settembre la Guardia costiera albanese ha infatti sequestrato un carico dal valore di oltre due milioni di dollari trasportato da una nave attraccata al porto di Durazzo e avente equipaggio misto libico e siriano, come ha riportato la testata online Libya Review.

La disponibilità di tanto petrolio è dovuta al controllo quasi egemonico del LNA sulle grandi riserve di giacimenti petroliferi che caratterizzano le zone a Nord-Est e Sud-Ovest del Paese. Dai vasti campi nel deserto da cui si estrae il greggio viene l’80% degli export totali del Paese verso l’Unione europea, per un valore stimato intorno ai 3,2 miliardi di dollari. Sebbene le forniture per l’estero debbano per legge essere regolate dalla NOC, i militari di Haftar hanno in realtà un controllo diretto sui vari pozzi presenti e sulla gestione di parte dell’export.

Il LNA fa affidamento sulle proprie truppe o su gruppi armati affiliati per gestire le risorse e per ricambiare la loro lealtà chiude un occhio sul traffico di petrolio che queste effettuano in maniera ormai costante, come evidenziato da Noria Research. Il predominio sull’area dove si producono i prodotti petroliferi libici garantisce ad Haftar un’enorme potere: ad aprile di quest’anno infatti, Haftar ha avviato un blocco della fornitura di petrolio che è durato fino alla fine di giugno, causando perdite in termini di miliardi di dollari alla NOC e a Tripoli. Dopo la crisi, Haftar ha avuto diverse concessioni dal governo dell’Ovest, una su tutte il cambio dell’allora direttore della NOC, Mustafa Sanalla, in favore di Farhat Bengdara, persona vicina al generale libico.

Diversi migranti tra i 287 che sono stati poi presi dalle autorità libiche nel capannone poco fuori la città hanno dichiarato ad Al Jazeera di aver pagato fino a 170 mila lire egiziane, circa 8.700 euro, per potersi procurare un posto per il viaggio.«La mia famiglia ha dovuto vendere i terreni che avevamo per farmi partire», dice un ragazzo ai giornalisti. Alcune famiglie hanno venduto i loro terreni e i loro beni per poter dare ai figli, anche minorenni, una possibilità per raggiungere le coste libiche, da cui poi partire per l’Europa. Nel tragitto sono stati derubati dei loro cellulari, soldi, beni in loro possesso e sono stati rinchiusi senza contatto con l’esterno. Non è raro che alcuni migranti vengano torturati, a volte fino alla morte.

Nel capannone nella campagna di Tobruk non sono arrivati tutti insieme: c’è chi ha affermato di essere stato lì solo per qualche giorno e chi invece ha detto di esserci rimasto per mesi. Tutto questo fa pensare che ci sia un’organizzazione più grande di semplici trafficanti isolati che gestisce la tratta orientale della Libia. L’organizzazione non governativa specializzata in violazioni dei diritti umani Libyan Crimes Watch Organization, intervistata da IrpiMedia, ha rivelato che la zona che va da Tobruk fino alla città di Derna (ad ovest rispetto a Tobruk) è controllata dagli “Uomini rana” libici, l’unità militare di sommozzatori appartenente alla Marina Militare Libica sotto il LNA guidata dal maggiore al-Tawati al-Manfi. Sarebbero proprio loro i trafficanti che stavano aspettando i migranti prima di essere presi dalla polizia locale.

A destra, il Maggiore al-Tawati al-Manfi, a capo della Marina Militare della Libyan national Army (LNA) – Foto: Facebook

Gli Uomini rana infatti entrano in contatto con i trafficanti che percorrono la rotta fino a Tobruk e da lì prendono il controllo delle operazioni. I migranti egiziani sono stati lasciati nel deposito e man mano che passavano i giorni vedevano arrivare altri connazionali nel deposito. Una volta raggiunto un numero sufficiente da rappresentare un profitto vantaggioso per i trafficanti, il gruppo sarebbe dovuto essere spostato sulla costa durante la notte. Qui i migranti avrebbero avuto davanti a loro diverse barche di piccole dimensioni, solitamente di gomma o legno, che possono contenere tra le venti e le trenta persone. Scortati dalle truppe di al-Tawati, uomini e bambini sarebbero saliti sulle imbarcazioni che li avrebbero portati ad un’altra nave più grande, una “nave madre” (in Libia generalmente chiamata bulldozer) che aspetta lontano dalla costa (la nave è impossibilitata ad attraccare per via del basso fondale).

La dinamica è identica a quella descritta dagli inquirenti italiani per le traversate del Mediterraneo cominciate dalle città dell’Ovest della Libia. Come sempre, le fasi di imbarco dalle navi più piccole alla nave madre sono tra le più delicate per il rischio di capovolgimenti: già ad aprile di quest’anno sono stati rinvenuti in una spiaggia nella vicina città di Shahat, a metà strada tra Tobruk e Benghazi, i corpi di chi aveva provato a imbarcarsi per i bulldozers, mentre l’ultima notizia in questo senso è del 27 agosto scorso, quando 27 persone imbarcatesi di notte con un gommone sono state capovolte dalle onde del mare, e di loro solo sette sono sopravvissute.

Una volta occupata tutta la nave, i migranti avrebbero visto gli Uomini rana prendere i soldi dai trafficanti locali, una percentuale per ogni persona salita a bordo, prima di essere lasciati andare in mare aperto e, inshallah, raggiungere l’Italia.

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Non si hanno informazioni precise sulle partenze ed è difficile stabilire se a bordo rimanga uno dei trafficanti per pilotare la nave. Secondo alcune testimonianze ottenute dalla Libya Crimes Watch Organization con i familiari delle vittime, i migranti sarebbero istruiti sul posto su come condurre l’imbarcazione e gli verrebbe dato un telefono con cui contattare le autorità internazionali per essere messi in salvo in caso di naufragio.

Dal 2021 si è visto un incremento nell’uso di barche da pesca in legno di dimensioni maggiori. Portare un carico più grande è un prerequisito fondamentale per aumentare i profitti che derivano dal traffico di esseri umani. Queste navi hanno una maggior stabilità e forniscono maggior possibilità di riuscita del viaggio in mare aperto rispetto alle piccole o medie imbarcazioni gonfiabili utilizzate dai migranti, soprattutto da chi viene dall’Ovest libico. Grazie anche ai diversi canali social, i migranti si scambiano informazioni sui punti migliori da cui poter partire per raggiungere l’Italia e avere a disposizione mezzi adeguati è un fattore che pesa sulla scelta del posto in cui andare. Secondo il report del Global Initiative against Transnational Organised Crime (GITOC), nel 2021 si è registrato il doppio del numero di barche di legno rispetto al triennio 2018-2020.

Come funzionano gli ingressi dei migranti irregolari in Libia via aereo

A Benina, aeroporto di Benghazi, i militari dell’Autorità per gli investimenti pubblici e militari sono attivi già dal 2018. Si presentavano all’aeroporto per prendere i migranti che provenivano da Egitto, Bangladesh e Siria e li facevano passare attraverso i controlli, generando a volte diverbi con la sicurezza interna dell’aeroporto. Una volta fuori, gli uomini della Commissione consegnavano ai migranti, previo pagamento in contanti, un foglio che aveva la funzione di visto per far attraversare i confini della zona Est della Libia. Sicuri del loro stato regolare nel Paese, i migranti si avviavano verso l’Ovest, direzione Tripoli, per trovare un modo di arrivare in Italia. Ma una volta fermati dalle autorità occidentali della Libia, gli veniva detto che questi visti non erano regolari perché ottenuti da un’autorità che non era riconosciuta dal governo di Tripoli.

Con questo pretesto, i migranti venivano presi sotto la custodia delle unità di sicurezza, buona parte delle volte milizie o gruppi paramilitari, per poi essere portati nei centri di detenzione. Per evitare questa fine, che rendeva poco affidabile il percorso, dal 2019 l’Esercito ha cambiato strategia. Adesso, per chi arriva con una compagnia aerea, i militari forniscono un trasporto speciale, che chiamano taxi, e portano i migranti verso Tobruk, ora il centro di maggior concentrazione di migranti e di attività legate al traffico di persone.

Una rotta particolarmente trafficata soprattutto dai migranti siriani è rappresentata dall’asse Damasco – Benina. Questa connessione è resa possibile dalla flotta aerea della Cham Wings, compagnia di volo di base in Siria e connessa con il regime di Bashar al-Assad.

Già nel 2012 la compagnia aerea ha ricevuto sanzioni da parte degli Stati Uniti per l’accusa di essere complice nella logistica dell’esercito siriano durante la guerra scoppiata nel 2011. La compagnia era accusata di trasportare militari, armi e altri equipaggiamenti fondamentali all’esercito governativo, oltre che essere una delle vie di trasporto usate dal gruppo Wagner, milizia privata connessa con il Cremlino e tutt’ora presente in Libia. Alle sanzioni degli USA sono seguite quelle dell’Unione europea a dicembre 2021, quando diversi voli sono finiti sotto i riflettori per aver portato migranti provenienti dall’Iraq a Minsk, in Bielorussia, di fatto aggirando i tentativi dell’Ue di limitare il numero di migranti iracheni che arrivava alle porte d’Europa alla fine dello scorso anno. Sebbene l’Europa avesse pressato con successo il governo iracheno per fermare i voli diretti verso Minsk, il tragitto aveva solo subito una variazione, e invece di arrivare direttamente dall’Iraq, i migranti facevano tappa in Siria per poi partire alla volta della Bielorussia.

Ad oggi, stando alle fonti dell’organizzazione Libya Crimes Watch Organization, la Cham Wings opererebbe voli diretti da Damasco a Benina, facilitando il traffico di persone dirette in Libia. I migranti siriani infatti si trovano a pagare circa 1.500 dollari per arrivare a Benghazi, e da lì tra i 300 e i 500 dollari per avere un falso visto dalle truppe della Commissione per gli investimenti pubblici e militari della Libia dell’Est che gli garantirebbe accesso al territorio nazionale.

Da qui si inizia a capire il motivo dietro l’aumento delle partenze dall’Est della Libia. In un momento delicato come la fine della guerra interna tra Est e Ovest della Libia finita nel 2020 che ha indebolito entrambe le fazioni, le forze del generale Haftar hanno trovato un nuovo sbocco economico capace di generare profitti per l’esercito e allo stesso tempo espandere ulteriormente il controllo militare sul territorio. Questo è stato reso possibile dall’Autorità per gli investimenti pubblici e militari, un’organizzazione militare ora sotto il Generale Maggiore Ramadan Bu Aisha, il cui scopo principale è il coordinamento delle attività economiche del LNA e l’incremento delle sue capacità di produzione e militari. In pratica questo si traduce nella ricerca di altre fonti di guadagno e nel controllo di nuovi mercati non ancora battuti.

L’impiego delle truppe dell’Esercito fedele ad Haftar per supervisionare il traffico dei migranti permette ai trafficanti di gestire indisturbati gruppi più grandi di persone e di conseguenza aumentare i profitti anche per i militari che prendono una quota.

Il 26 ottobre è stato un caso esemplare del trend, con due grandi imbarcazioni segnalate dall’ong Alarm Phone alla deriva tra le zone di ricerca e soccorso maltesi e italiane con a bordo oltre 1.300 migranti. Le due navi erano partite proprio da Tobruk, nella cui campagna erano stati trovati i 287 migranti egiziani. Questi numeri dall’Est sono il risultato di un cambiamento avvenuto negli ultimi anni e che ha visto moltiplicare e professionalizzare i protagonisti attivi lungo la rotta. Come in un lungo ingranaggio di produzione in cui ogni operaio mette al servizio la sua competenza per completare un prodotto, così i vari attori coinvolti nella tratta mettono al servizio il controllo del territorio, mezzi navali o terrestri per generare quello che per loro è un prodotto, una nave carica di persone, paganti, pronta a salpare.

Migrare dal Bangladesh

I migranti che arrivano nell’Est della Libia non sono solo egiziani. Tanti sono bengalesi: «Il Bangladesh è uno dei Paesi che maggiormente esportano forza lavoro nel mondo», afferma Benjamin Etzog, ricercatore presso il Bonn International Centre for Conflicts Studies (BICC), istituto di ricerca tedesco. «In qualche modo il Paese ne ha fatto una strategia economica e molte famiglie basano la loro sussistenza sulle rimesse, i soldi che i migranti inviano da Paesi esteri a casa», continua.

Per lasciare il Paese e garantirsi un lavoro una volta arrivati in territorio straniero, i migranti dal Bangladesh si affidano al dalal, termine che viene benevolmente tradotto come “agente di viaggio” o broker. Il dalal viene rappresentato come un facilitatore del viaggio che riesce a fornire documenti e biglietti aerei. È stimato che circa l’80% dei migranti dal Bangladesh si appoggiano al dalal, figura presente nel villaggio o nelle campagne e conosciuto dalla popolazione locale o, in certi casi, vicina alla famiglia del migrante. Il prezzo che viene proposto per il trasporto e i servizi offerti è talmente alto che la famiglia è costretta a vendere le proprie terre pur di dare una possibilità ai propri figli.

Una delle prime tappe più battute sul percorso che li porterà poi in Libia è Dubai, dove, assicurano i dalal, si può trovare un buon lavoro per mantenere la famiglia che rimane a casa. In questo caso i dalal fanno le veci di compagnie di reclutamento fittizie basate negli Emirati il cui solo scopo è vendere illegalmente i visti lavorativi. Con la promessa di un lavoro, i migranti pagano fino a cinque volte il prezzo necessario per arrivare a Dubai e una volta arrivati si trovano in una posizione vulnerabile e facilmente sfruttabile, costretti a prendere i lavori più estenuanti per paghe misere.

Sfruttati e di fatto in balia dei datori di lavoro locali, hanno davanti a sé una scelta: tornare indietro o proseguire verso un’altra meta che possa garantire condizioni di vita migliori. Ma una volta che si è partiti per garantire un futuro alla propria famiglia tornare indietro non è un’opzione. Si decide dunque di proseguire, e di tentare la fortuna in un altro posto. È così allora che dagli Emirati Arabi Uniti partono in aereo per arrivare in Libia. Questi spostamenti sono resi possibili dai collegamenti tra le varie agenzie di viaggio che gestiscono il business della tratta di esseri umani.

«Queste agenzie sono un’evoluzione del dalal e tramite un sistema tra la legalità del volo e l’illegalità della corruzione e falsificazione di documenti, portano i migranti fino in Libia, a volte passando per la Turchia», dice Etzog. Il migrante paga in media 4.000 euro, e gli viene assicurato il viaggio, il pernottamento e un posto di lavoro quando arriverà alla sua meta finale.

Rispetto agli anni 2020 e 2021 in cui le città con il maggior numero di migranti provenienti dal Bangladesh erano nell’Ovest del Paese, una su tutte Tripoli, nel 2022 Benghazi, nell’Est, è al primo posto con oltre 5.600 persone presenti. I migranti bengalesi sono il gruppo con maggiori risorse a disposizione grazie ai legami familiari sparsi nel mondo e perciò conviene ai trafficanti mantenere attive le rotte migratorie e fornire i mezzi adeguati per il raggiungimento dell’obiettivo, così da fornire un’offerta costante alla sempre presente domanda. Se i migranti invece non possiedono abbastanza soldi da potersi garantire un posto sulle navi allora il tempo che dovranno restare in Libia aumenterà, con il conseguente aumento dei rischi a cui saranno sottoposti.

Questo è stato il caso raccontato dalla BBC di alcuni migranti arrivati dal Bangladesh con la prospettiva di lavorare in una fabbrica di Benghazi per poter guadagnare circa 450 euro al mese e poter così inviare soldi alla famiglia. Persuasi e aiutati dai dalal, sono giunti all’inizio del 2020 nell’Est libico per poi essere immediatamente presi dai trafficanti e portati in prigione e alle famiglie è stato chiesto un riscatto. Chi non può pagare il riscatto rischia di subire ulteriori abusi e torture nei centri di detenzione e, nei casi più estremi, morire. Anche una volta pagato il riscatto il migrante non sempre viene liberato, e prima di poter andare viene trattenuto dai suoi sequestratori per lavorare forzatamente in una fabbrica o in uno stabilimento, con con razioni misere di cibo e controllato a vista da guardie armate.

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Autori

Fabio Papetti

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Lorenzo Bagnoli

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Foto di copertina

Una foto scattata il 2 luglio 2022 all’esterno del palazzo del governo della fazione dell’Est della Libia, a Tobruk, a seguito del saccheggio e delle proteste da parte della popolazione locale
(Getty)

Come l’Italia ha costruito le forze marittime della Libia

Come l’Italia ha costruito le forze marittime della Libia

Lorenzo Bagnoli
Fabio Papetti

Dal primo gennaio alla fine di settembre 2022 oltre 16.600 migranti sono stati riportati indietro dalle forze marittime della Libia occidentale. Le “operazioni” sono state più di 160, in netta crescita rispetto al passato. La parola “operazione” in questo contesto può assumere due significati: salvataggio, oppure intercettazione di una barca con a bordo un gruppo di migranti. In entrambi i casi il finale è lo stesso: i passeggeri ritornano in Libia per essere nuovamente incarcerati in un centro di detenzione, in attesa di pagare di nuovo il proprio riscatto e tentare nuovamente la fortuna.

Il report dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) del 24 ottobre afferma che nelle prigioni ufficiali ci sarebbero oltre 3.500 persone su circa 43 mila richiedenti asilo e rifugiati nel Paese.

Il progetto The Big Wall

Da quest’anno IrpiMedia collabora con ActionAid nella realizzazione di inchieste che nascono da The Big Wall, osservatorio sull’esternalizzazione della spesa per gestire i flussi migratori diretti all’Italia. Questo lavoro raccoglie anche spunti dalle richieste di accesso agli atti di Asgi – Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione.

Le foto dell’articolo sono realizzate dalla fotogiornalista Sara Creta, che da anni segue inchieste e reportage sui migranti.

Sono numeri che testimoniano una crescita nell’attività delle forze marittime libiche. “Risultati” che senza il contributo dell’Italia e di altri Paesi europei, la Libia non avrebbe mai potuto raggiungere. Solo l’Italia infatti ha fornito almeno 12 navi e gestisce gli affidamenti delle gare per la loro manutenzione e la fornitura di equipaggiamenti specifici. Organizza i corsi di formazione degli equipaggi e guida il progetto per la creazione di un centro di coordinamento delle operazioni di salvataggio (in inglese Maritime rescue coordination center – Mrcc). Sono questi i mattoni con i quali l’Italia ha costruito il Grande Muro delle frontiere esterne in Libia. Un muro la cui costruzione è stata spinta dal Memorandum of Understanding tra il governo italiano e quello libico, entrato in vigore a febbraio del 2017 e in attesa di automatico rinnovo (per altri tre anni) il 2 novembre. L’accordo ha disegnato i confini della collaborazione per il controllo delle frontiere.

Lo scorso anno ActionAid ha lanciato The Big Wall, il Grande Muro, un osservatorio sulle politiche di contenimento dei flussi migratori, che l’Italia, con il sostegno dell’Unione europea, ha messo in piedi a partire dal 2015. Il progetto ha rivelato che l’Italia si è impegnata a spendere quasi un miliardo di euro per spingere le frontiere sempre più a Sud, allo scopo di evitare nuove partenze e rendere meno visibile il fenomeno migratorio all’opinione pubblica europea.

La Guardia costiera libica durante un’operazione di intercettazione nel Mediterraneo centrale – Foto: Sara Creta

Un gruppo di migranti a bordo di un vascello della Guardia costiera libica a seguito di un’operazione di intercettazione nel Mediterraneo centrale – Foto: Sara Creta

Uno scorcio del centro di detenzione di Tajoura. Qui, secondo l’Onu, nel luglio 2019 una bomba sganciata da un aereo straniero a supporto della fazione guidata da Khalifa Haftar ha ucciso 53 persone e ferite 130 – Foto: Sara Creta

Quest’anno IrpiMedia e ActionAid hanno cercato di capire come siano stati spesi i soldi del Muro nel Mediterraneo centrale, la rotta seguita dai migranti per raggiungere l’Italia da Libia, oggetto di questa inchiesta, e Tunisia, protagonista della prossima. L’obiettivo di fondo, stando ai documenti, è stabilizzare i Paesi per interrompere i flussi migratori e combattere l’immigrazione alla radice. Evidentemente, però, i due Paesi nordafricani sono tutt’altro che stabili e gli aiuti economici hanno semmai alimentato, invece che pacificato, le divisioni interne. La logica del Grande Muro alimenta la ricattabilità dell’Italia e dei suoi partner europei: mettendo queste risorse in mano ai Paesi nordafricani si diventa dipendenti dalla loro politica interna nella gestione delle frontiere d’Europa.

Mattone su mattone

I mattoni del Grande Muro sono bandi di gara che rispondono a strategie disegnate da convenzioni spesso sconosciute all’opinione pubblica. Le fonti di finanziamento sono sia italiane, sia europee. Non le amministra un’unica cabina di regia e il risultato è una spesa frammentata su diverse stazioni appaltanti: Polizia, Guardia di Finanza, Marina Militare ed Invitalia, l’agenzia che ha tra le sue funzioni l’implementazione di progetti europei. Poche di queste pubblicano i bandi di gara completi e in ogni caso il processo di finanziamento non è trasparente. Da anni molte ong chiedono una diversa condivisione dei dati, alla luce delle ripetute violazioni dei diritti umani dei migranti e delle morti in mare.

La mancanza di trasparenza ha anche una conseguenza più politica: senza dati completi è impossibile valutare quanto questi progetti abbiano realizzato i loro scopi. C’è un’espressione in inglese che descrive questo scenario: «muddle through», tirare avanti raggiungendo qualche risultato, ma ben al di sotto delle aspettative e delle promesse iniziali.

La Libia è uno Stato sovrano in punto di diritto, ma nei fatti il controllo delle sue frontiere, il suo esercito e la sua integrità territoriale sono a brandelli. «I gruppi armati libici e i loro leader hanno preso il ruolo che un tempo era di élite politiche e imprenditori corrotti, diventando così uno strumento fondamentale per qualsiasi sviluppo del Paese», scrive il ricercatore Emadeddin Badi in un articolo pubblicato dall’Ispi l’8 luglio.

Un conflitto senza soluzione
In Libia ci sono due governi, uno a Tripoli sostenuto dalle Nazioni unite e uno a Tobruk, sostenuto dal parlamento libico, che si contendono il potere. Il primo è guidato dal premier Abdul Hamid Dabaiba (traslitterato anche come Dbeibah), il secondo da Fathi Bashagha. In agosto la capitale Tripoli è tornata contesa tra le bande armate che sostengono l’una o l’altra fazione. Bashagha da giugno chiede al presidente del Consiglio sostenuto dalle Nazioni unite di cedere il passo. Dbeibah avrebbe dovuto governare fino allo scorso dicembre, quando avrebbero dovuto svolgersi delle elezioni che invece non si sono mai tenute.

L’instabilità si riflette anche sui migranti: insieme alla crisi economica in Tunisia, è tra i principali push factor che hanno spinto le partenze di quest’estate. Da oltre un anno, alcuni migranti hanno organizzato un movimento, Refugees in Libya, per denunciare gli episodi di repressione e gli arresti arbitrari che subiscono. Chiedono all’Italia di non rinnovare l’accordo con la Libia. Grazie all’aiuto di una rete di attivisti internazionali, il gruppo ha costruito un proprio blog.

Anche le forze marittime sono frammentate e contaminate dai gruppi armati di varia appartenenza. Ci sono formazioni che rispondono a signori della guerra per la maggior parte fedeli personalmente a Dbeibah. Poi ci sono la Guardia costiera libica (Gcl) e l’Amministrazione generale della sicurezza costiera (di cui Gacs è l’acronimo inglese), che sono affiliate al ministero della Difesa e al ministero dell’Interno di Tripoli. La differenza è che le prime sono forze “private”, che rispondono direttamente all’ufficio del presidente, le secondo invece sono “ufficiali” e quindi rispondono alla catena di comando dei ministeri di riferimento.

Anche nelle forze ufficiali sono tuttavia presenti soggetti di ben altra natura, come la brigata al-Nasr, considerata dalle Nazioni Unite un’organizzazione di trafficanti di esseri umani e contrabbandieri di gasolio. La brigata costituisce anche la Gcl di Zawiya, ovest della Libia. Gli uomini di al-Nasr sono guardie e ladri allo stesso tempo, interessati alle forniture italiane per imporre il proprio potere in mare. Per loro e per altre forze marittime della Libia la promessa di effettuare salvataggi dei migranti è stata negli anni una moneta di scambio.

Il cimitero del Mediterraneo centrale

A cinque anni dall’inizio della cooperazione, dalla Libia si continua a partire e morire annegati: il tasso di mortalità del 2021 è stato del 4,7%, quello del 2017 era il 2,6%. Il dato indica la percentuale di persone annegate e disperse sul totale di chi è partito quell’anno

L’opacità dei flussi di denaro

L’instabilità permanente della Libia è stata presentata ufficialmente come la principale causa dei ritardi nella realizzazione dei progetti per controllare le frontiere terrestri e marittime della Libia. Il Support to Integrated Border Management and Migration Management in Libya, acronimo Sibmmil, avrebbe dovuto concludersi nel 2020 ma solo nel corso del 2022 ha cominciato a ottenere alcuni dei risultati previsti. Ha come obiettivi principali il rafforzamento sia delle capacità di salvataggio in mare, sia del controllo del confine marittimo.

Tra il 2017 e il 2022, secondo la Ragioneria di Stato, dei 32 milioni di euro da gestire dei fondi europei dedicati a questo progetto, l’Italia ne ha spesi 27,2. La dotazione prevista totale è di circa 44,5 milioni di euro, di cui l’Italia ha fornito di tasca propria circa 2 milioni. Il ministero dell’Interno è l’ente attuatore di Sibmmil, che rappresenta uno dei principali mattoni sui quali si regge The Big Wall.

Sibmmil alle frontiere terrestri: l’accordo con l’Oim

Tra i beneficiari del fondo c’è anche l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), agenzia associata alle Nazioni Unite che si occupa di migranti, richiedenti asilo e rifugiati. È tra le poche organizzazioni che riescono ad accedere – con grande difficoltà – ai centri di detenzione libici.

Oim ha ricevuto un pezzo dei 44 milioni del progetto Sibmmil, 12 milioni di euro, a seguito di un accordo triangolare con Commissione europea e ministero dell’Interno italiano. Spiegano dall’agenzia delle Nazioni Unite che non si tratta di accordi nuovi. La convenzione tra Oim e il Viminale, ottenuta dall’Associazione studi giuridici per l’immigrazione (Asgi) con una richiesta di accesso agli atti, prevede per l’Oim il coinvolgimento soprattutto nell’assistenza medica dei migranti che arrivano dalle frontiere desertiche meridionali, dove il progetto per la realizzazione delle frontiere è più indietro.

Assistenza e protezione sono due delle principali missioni dell’Oim, ma non sono le uniche azioni richieste all’agenzia delle Nazioni Unite. C’è anche la «verifica dei pubblici ufficiali libici che partecipano all’addestramento affinché siano esclusi coloro che hanno commesso abusi e violazioni dei diritti umani e quindi non possano essere ritenuti affidabili e credibili nella promozione e nell’applicazione degli standard internazionali». Sembra un tentativo di evitare di finire di nuovo al centro delle polemiche, come accaduto dopo le rivelazioni del 2019 di Avvenire: il quotidiano cattolico ha scoperto che tra i guardacoste libici che hanno partecipato ai percorsi formazione in Italia c’era anche Abdel Rahman al-Milad detto Bija, accusato di traffico di migranti e contrabbando di gasolio.

Asgi non ha tuttavia potuto avere accesso agli allegati che contengono i dettagli della convenzione Oim-Viminale perché rientrano «nel più ampio quadro delle attività e dei rapporti di cooperazione internazionale di Polizia con la Libia» e di conseguenza rientra in questioni di politica estera coperte da segreto che le richieste di accesso agli atti non possono penetrare.

Dei 27,2 milioni di euro spesi dall’Italia è stato possibile tracciarne poco meno di quattro-quinti, circa 20 milioni, tra appalti già completati e altri in corso di assegnazione nel periodo 2019-2022. Le principali voci di spesa sono 8,3 milioni per nuovi mezzi marini (20 barche veloci di diverse lunghezze); 3,4 per mezzi terrestri (30 fuoristrada, 14 ambulanze e dieci minibus); 5,7 per ricambi e manutenzione degli assetti navali; un milione in attività di addestramento e un milione per 14 container.

Milioni di euro per il Big Wall

Dei 44,5 milioni di euro stanziati dall’Europa, l’Italia ne ha gestiti più di 32. Di questi, ne abbiamo tracciati circa 27

Il bando di gara prevede tra le unità mobili anche la sede dell’Mrcc, il centro di coordinamento dei salvataggi in mare. Un Mrcc svolge funzioni fondamentali sia per rendere efficaci i soccorsi, ma anche per dare legittimità dal punto di vista del diritto internazionale a queste operazioni, senza il quale rischiano di essere considerati come “respingimenti per procura” da parte dell’Italia. Attraverso il progetto quindi, l’Unione europea – sotto la spinta italiana – conta di fornire alla Libia il principale strumento per gestire in autonomia il recupero dei migranti in mare.

Della missione ha parlato il 7 luglio 2021 l’ormai ex ministro della Difesa Lorenzo Guerini durante le Commissioni riunite Esteri e Difesa di Camera e Senato. Guerini ha descritto i due indirizzi intrapresi dalle forze armate italiane in Libia: il primo riguarda un maggiore coinvolgimento della missione europea Irini (pattugliamento delle acque antistanti la Libia) nell’addestramento e nel monitoraggio delle autorità marittime libiche; il secondo riguarda «lo sviluppo di una capacità di comando e controllo dei propri mezzi da parte della Marina libica», vale a dire la gestione delle operazioni di pattugliamento, recupero e soccorso.

Su questo Guerini è stato chiarissimo: «A partire dal 3 luglio 2020 l’attività è condotta in piena autonomia dalla marina libica presso proprie infrastrutture a terra e senza coinvolgimento alcuno del personale della Difesa italiano».

Migranti intercettati nel Mediterraneo Centrale attendono in condizioni di sovraffollamento a bordo di una nave della Guardia costiera libica nella base navale di Abu Sita – Foto: Sara Creta

Dalla Libia, però, arrivano informazioni diverse. Una fonte che fino al 2021 è stata molto vicino alla sala di coordinamento delle operazioni di salvataggio di Tripoli, che parla in forma anonima in quanto non autorizzata a rilasciare interviste, sostiene che in realtà i guardacoste libici siano tuttora informati via e-mail principalmente dall’Italia (in misura molto minore da Spagna o Malta) ogni volta che c’è da gestire un’operazione di salvataggio. Secondo la fonte, anche la nave militare italiana impegnata ufficialmente in quell’area in una missione di «supporto tecnico» è coinvolta nella trasmissione delle email ai libici.

Il mistero sull’effettivo ruolo degli italiani a Tripoli si lega all’imbarazzo sul progetto Sibmmil: con tutti i soldi spesi il centro di coordinamento dovrebbe essere pienamente in funzione, ma la stessa natura dei partner libici – milizie più che ufficiali di un apparato statale – rende impossibile avere il pieno controllo sull’implementazione del progetto.

Il supporto a Gacs e Guardia costiera

Sia la Gacs, sia la Gcl hanno «limitate capacità operative», si legge nel rapporto di monitoraggio sulle attività della marina libica curato dai militari della missione Irini lo scorso dicembre, un documento confidenziale.

La Gacs è una forza di polizia che fino al 2019 circa ha avuto mandato di operare strettamente entro le acque territoriali libiche. Nel 2021 ha partecipato a 14 operazioni di recupero in mare ed è stata coinvolta in un progetto pilota ancora in corso con Frontex e il ministero dell’Interno italiano per rafforzare la propria capacità di salvataggio. L’intento è inserirla all’interno di un sistema di monitoraggio delle frontiere marittime nel quale la Gacs possa avere uno scambio di informazioni con le altre polizie di frontiera europee. Lo scopo va anche oltre l’immigrazione: la Gacs dovrebbe contribuire a fermare anche navi mercantili e pescherecci che muovono prodotti di contrabbando, armi o che pescano senza rispettare le regole. L’Italia ha fornito e svolto la manutenzione su un totale di sette motovedette tra i 28 e i 35 metri fornite alla Gacs e un’altra ventina di imbarcazioni tra i nove e i dodici metri, per una spesa complessiva di oltre nove milioni di euro.

Un video promozionale della Gacs pubblicato su Youtube l’8 giugno mostra le motovedette cedute dagli italiani anche al loro interno: i loghi del Cantiere Navale Vittoria, i monitor, le bussole elettroniche e le bussole satellitari Furuno, i sistemi di navigazione, tutto è stato fornito alla Libia attraverso gare d’appalto bandite dalla Polizia e dalla Guardia di Finanza. Nel video, il direttore della Gacs Al-Bashir Bannour dichiara: «Ringraziamo i nostri partner italiani per sostenerci da anni con la costruzione, la fornitura di pezzi di ricambio, di manutenzione e la formazione dei lavoratori».

Il video esplicita il ricatto delle forze marittime libiche all’Europa: «Secondo le stime ufficiali il numero dei migranti è raddoppiato – spiega la voce narrante – e la Gacs non ha la forza per ridurre gli sbarchi ma può combattere i trafficanti». Più avanti spiega che la possibilità di contrastare il fenomeno è condizionata dalla mancanza di mezzi «che limita l’efficacia delle forze di sicurezza costiere». «Il Ministero dell’Interno – prosegue il video – spera che queste nuove navi aiutino ad aumentare la capacità degli equipaggi» grazie a «nuovi strumenti» e «sistemi di propulsione per affrontare le condizioni in alto mare».

La Guardia costiera, invece, è la forza marittima che, insieme alla Marina Militare, dipende dal ministero della Difesa. Secondo il report di monitoraggio della missione europea Irini – punto di contatto dei militari sia per la formazione, sia per lo scambio di informazioni – la Gcl e la Marina Militare dispongono di 26 navi, 17 delle quali sono state donate o riparate dall’Italia. La spesa complessiva, tra soldi già spesi e da spendere nell’arco del 2022, supera i tre milioni di euro, dal 2018 a oggi. Le motovedette Ubari, Ras Al Jadar, Sabratha, parte delle 26 complessive della flotta libica, sono state protagoniste di scontri con le ong o di violenze sui migranti.

Cosa sappiamo del centro di coordinamento dei salvataggi

Il 2 dicembre 2021, la nave della Marina Militare San Giorgio ha ormeggiato ad Abu Sitta, base militare della Marina libica, per consegnare dieci container. Le casse mobili sono abitabili: servono per la creazione del centro di coordinamento dei salvataggi e di una sorta di accampamento. In attesa della collocazione migliore, la struttura sarà mobile e si troverà all’interno di uno dei container. In prospettiva, l’Unione europea vorrebbe arrivare a finanziare due Mrcc fissi, uno in Libia e l’altro in Tunisia, Paese che ancora non ha dichiarato alla comunità internazionale i confini della sua zona di ricerca e soccorso.

Secondo quanto riferisce la fonte in Libia, il container con le attrezzature del centro di coordinamento libico si trova nel porto commerciale da diverso tempo. Gli italiani avrebbero già fornito alcuni computer e un’antenna, ma parte del materiale ancora non sarebbe arrivato. Quindi, riferisce, al momento le operazioni sarebbero gestite da un appartamento in un bell’edificio storico poco lontano da piazza dei Martiri, nel centro di Tripoli.

Il mancato utilizzo del centro di controllo nel container sarebbe da imputare a una forte competizione interna tra Marina e Guardia costiera, entrambe sotto il Ministero della Difesa di Tripoli, per la gestione delle operazioni di salvataggio e presumibilmente anche dei fondi europei e dei mezzi messi a disposizione dall’Europa. Più della sala di controllo mobile, i guardacoste libici sperano quindi di spostare il cuore delle base a Tajoura, città al confine orientale di Tripoli, già in passato sede di un centro di coordinamento, per ritagliarsi maggiore autonomia dalla Marina.

Due uomini della Marina italiana nella base navale di Abu Sita a Tripoli – Foto: Sara Creta

Insieme ai container, sono arrivate ad Abu Sitta anche delle apparecchiature radio e radar fornite dalle aziende italiane Gem Elettronica srl e Elman srl, parte del pacchetto per il centro di coordinamento dei soccorsi. Nessuna azienda italiana coinvolta ha voluto commentare le nostre richieste di chiarimento sull’implementazione del Mrcc. Dal fascicolo tecnico risulta che possono essere collegati con un sensore che si trova nella base di Abu Sitta.

Gem Elettronica, di proprietà al 30% di Leonardo spa, è stata coinvolta nella fornitura di radar per le frontiere terrestri di Tripoli già dal 2013. Elman srl nel maggio 2021 ha pubblicato sul proprio sito un comunicato in cui annunciava la sua partecipazione al progetto per realizzare il centro di coordinamento dei salvataggi in Libia. La Marina Militare ha solo confermato di aver preso parte alla missione Sibmmil per la realizzazione dell’Mrcc ma non ha fornito ulteriori chiarimenti rispetto alla messa a terra dei container.

L’altro muro: fondi europei senza trasparenza

Durante le ricerche, IrpiMedia ha chiesto più volte accesso alle informazioni riguardanti gli sviluppi del Mrcc. Le risposte o non sono arrivate oppure «per motivi di sicurezza» ne sono state omesse alcune. Vale soprattutto per i fondi europei dedicati all’esternalizzazione delle frontiere in Africa, i quali «sono al di fuori del controllo del parlamento europeo» secondo la parlamentare europea Özlem Demirel e la sua assistente Ota Jaksch. Il parlamento riceve un report annuale, un file che si può trovare facendo una semplice ricerca su internet, e le informazioni contenute non sono specifiche di ogni operazione o progetto.

Inoltre, non vengono menzionati i beneficiari di tali fondi. «La commissione stila il programma del fondo senza chiedere ai parlamentari di esprimere un parere – continua Jaksch -. Ciò che il fondo segue sono gli interessi che vogliono raggiungere i singoli Stati membri, e questo era così fin dall’inizio». L’unico strumento a disposizione dei parlamentari per chiedere maggiori informazioni alla Commissione e al Consiglio sono le interrogazioni, «ma hanno un limite di 200 parole e di tre domande massimo. Noi dobbiamo già sapere qualcosa per conto nostro e poi solo allora possiamo provare a chiedere qualcosa e sperare di avere una risposta», concludono Jaksch e Demirel.

Quando lo Stato sragiona

Esiste uno schema ricorrente nella cooperazione tra Paesi europei e paesi governati da regimi autoritari oppure da esecutivi molto deboli. C’è spesso una “ragion di Stato” che spinge a stringere accordi anche quando è difficile capire chi sia davvero l’interlocutore e quali siano i suoi obiettivi. Finanziamenti e progetti di cooperazione sono il mezzo per raggiungere il proprio scopo. Finora la strategia non ha funzionato in Libia: per quanto le forze marittime libiche siano più efficienti, il contesto in cui operano è molto instabile. E questa analisi non tiene conto del fattore dello stato di diritto: gli stessi militari formati dall’Europa sono accusati di traffico di esseri umani e contrabbando e non si è nemmeno certi che esista una vera catena di comando tra l’Est e l’Ovest del Paese, come sarebbe previsto in uno Stato unitario.

Navi appartenenti alla General Administration for Coastal Security (GACS) nel porto di Tripoli – Foto: Sara Creta

Una guardia del centro di detenzione Shara Zawya a Tripoli – Foto: Sara Creta

Un ufficiale della Guardia costiera libica a bordo della nave Fezzen – Foto: Sara Creta

L’Italia ha cercato di guidare il processo europeo in Libia perché il Paese è il cuore del “Mediterraneo allargato”, uno spazio geopolitico sul quale anche Giorgia Meloni è già impegnata (ne è la riprova il suo discorso alla Camera, in cui ha parlato del «nostro ruolo strategico nel Mediterraneo»).

Eppure, quando si parla delle dirette conseguenze delle missioni europee sui flussi migratori, già negli anni passati alcuni alleati avevano mostrato molte riserve rispetto all’efficacia delle iniziative europee a traino italiano. Nel 2017, quando la Gran Bretagna era ancora parte dell’Unione europea, i parlamentari della Camera dei Lord hanno prodotto un report in cui hanno definito «fallita» la missione Sophia, quella che nel 2020 è diventata Irini. Il documento sottolineava che la missione europea di sostegno alla creazione di un sistema di frontiere integrato, Eubam, non aveva nel proprio mandato combattere l’immigrazione irregolare, che per gli inglesi era invece l’obiettivo principale della loro partecipazione. Definiva poi «una grande sfida» formare una guardia costiera rispettosa dei diritti umani.

Il punto è vero oggi quanto allora: a fine marzo 2022 la Germania ha deciso di non partecipare più ai corsi di addestramento dei libici a causa del «comportamento inaccettabile» di questi ultimi. Secondo Mark Micallef, esperto di Libia presso il Global Initiative Against Transnational Organized Crime (GITOC), le forze libiche non sono da considerare come un’unità omogenea. Al contrario, sono in continua opposizione e solo una parte sta cercando di migliorare le capacità di ricerca e soccorso. Eppure la spesa per l’esternalizzazione delle frontiere in Libia continua senza tregua.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Fabio Papetti

Ha collaborato

Antonella Mautone

Foto

Sara Creta

Editing

Giulio Rubino

Infografiche

Lorenzo Bodrero

In partnership con