SSA, i nuovi predoni della Libia

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SSA, i nuovi predoni della Libia

Fabio Papetti

«Tutte le strade sono aperte per Tripoli e, se Allah vorrà, ci entreremo nei prossimi giorni». Così ha affermato l’11 luglio Fathi Bashagha, primo ministro eletto dalla Camera dei rappresentanti, il parlamento dell’est della Libia di base a Tobruk. Il suo piano è riprendere Tripoli e formare un unico governo che ponga fine al periodo della grande divisione territoriale in cui si trova la Libia dal 2014, anno in cui il generale dell’Esercito nazionale libico (LNA) Khalifa Haftar appoggiò il primo governo dell’est in opposizione al governo di Tripoli appoggiato dalle Nazioni unite. Adesso Bashagha ha intenzione di prendere la capitale libica e destituire Abdul Hamid Dabaiba (traslitterato anche come Dbeibah) , nominato presidente ad interim del Governo di unità nazionale (GNU) dal marzo 2021.

I media internazionali parlano di tentativi di accordi anche tra Haftar e Dabaiba passati ad esempio dalla destituzione del vecchio presidente della National Oil Corporation (NOC), la compagnia petrolifera statale. Di certo il premier di Tripoli si trova in una posizione sempre più scomoda: il GNU avrebbe dovuto gestire un governo transitorio fino al voto previsto per dicembre 2021 ma le elezioni non si sono tenute. Il mancato voto di allora si ripercuote sull’instabilità di oggi.

Tutti vogliono le SSA

Da quando è salito al potere nell’est della Libia, Bashagha ha avuto come obiettivo quello di riprendere posto a Tripoli. La capitale oggi è controllata da diversi gruppi paramilitari. Tra questi, nell’ultimo anno si è fatto notare l’Apparato di supporto alla stabilità (SSA nell’acronimo inglese): è emerso come uno dei gruppi più potenti pur essendo stato formato poco più di un anno fa. «L’SSA ha avuto una crescita senza precedenti – afferma un ricercatore che conosce bene le milizie libiche e che preferisce restare anonimo per evitare ripercussioni sul proprio lavoro -. Le unità sul territorio sono sempre più violente e più onnipresenti». È quasi impossibile, spiega il ricercatore, evitare l’SSA: sono partiti dalle città di Zawiya, Tripoli e Warshafanah ma ormai sono presenti anche a Gharyan (città a sud della capitale) e in tutti i principali snodi da cui passa l’immigrazione. L’SSA sono le milizie che controllano la parte maggioritaria del traffico degli esseri umani.

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Un video di presentazione delle SSA

Inizialmente l’SSA è stato costituito per decreto presidenziale da Fayez al-Serraj, presidente del governo delle Nazioni unite che ha preceduto quello di Dabaiba, il Governo di accordo nazionale (GNA). Serraj aveva attribuito alla milizia il ruolo di guardia presidenziale privata, benché un’unità del genere già esistesse. L’SSA è stata finanziata con 40 milioni di dinari libici, circa 8,7 milioni di euro. Lo scopo reale dell’SSA era però destabilizzare Fathi Bashagha, che di quel governo è stato ministro degli interni libico tra 2018 e il 2021. Ex pilota diventato commerciante di pneumatici, dopo la caduta di Gheddafi Bashagha ha cominciato la sua conquista del potere a partire dalla sua città, Misurata, e da due milizie che gli erano fedeli. Fa parte della Camera dei Rappresentanti dal 2014. Nel 2020 è stato sospeso, secondo Bloomberg, con l’accusa, all’epoca, di «aver incoraggiato le proteste contro la corruzione».

Gli esperti di Libia dell’Onu nel loro ultimo rapporto sulla situazione nel Paese scrivono che sia Bashagha sia Dabaiba «stanno producendo sforzi » per «ottenere il supporto dell’Apparato, dimostrando l’importanza che (la milizia) ha guadagnato dalla sua creazione l’11 gennaio 2021». Bashagha ha infatti nominato ministro dell’Interno del suo governo Issam Busriba, fratello di Hassam. Quest’ultimo è il comandante dell’Apparato a Zawiya, città costiera dell’ovest della Libia. Il consolidamento nell’occidente libicoè uno dei passaggi fondamentali per Bashagha per ambire al potere.

Cosa succede nell’oriente della Libia

Il controllo delle frontiere marittime e le relative operazioni di intercettazione delle navi partite dalle coste ovest della Libia non sono coordinate in maniera unitaria e nello scenario marittimo si trovano contemporaneamente quattro unità: la guardia costiera, la marina, l’Amministrazione generale di sicurezza costiera (Gacs) e l’SSA. Ognuna di queste in rivalità con le altre con lo scopo di acquisire maggior controllo sul territorio, e quindi maggiori tornaconti economici e politici nello scenario libico. I loro punti di approdo principali sono Tripoli e Zawiya, centri territoriali del potere delle milizie dove si riportano i migranti intercettati. Tuttavia ad est lo scenario è più confuso.

Dalla seconda metà del 2021 i numeri delle partenze dalle coste orientali sono aumentati drasticamente ed è cambiata la provenienza dei migranti che si imbarcano per l’Italia. Se prima dall’est della Libia partivano soprattutto egiziani, adesso le nazionalità in maggioranza sono afghani e bangladesh che partono da Benghazi e da Tobruk in una varietà di imbarcazioni, dal peschereccio con a bordo 450 persone arrivato il 17 maggio scorso sulle coste di Pozzallo alle piccole barche approdate in Calabria nello stesso mese. Secondo i dati del ministero degli interni italiano aggiornati al 12 luglio sono arrivati in italia 30.958 migranti dall’inizio dell’anno, di cui oltre cinquemila dal Bangladesh, la nazionalità di maggioranza, e circa 3.700 dall’Afghanistan, tutti attraverso la rotta nel Mediterraneo. Quello che non è chiaro è chi opera le attività in mare nell’est del Paese.

Dalle testimonianze delle diverse ong sentite risulta che la zona sia fuori dal loro campo d’azione, e che sulla zona siano presenti diverse unità militari, compreso Frontex, le unità della missione delle marine militari europee Irini e la marina militare turca. Il report della missione Irini aggiornato a novembre 2021 afferma che le unità della GCL e della marina operano solo nella zona ovest, ma allo stesso tempo afferma che le autorità portuali di Benghazi operino missioni SAR nella zona est coordinate dal MRCC italiano. Non è chiaro a quali unità faccia riferimento il report, ma sappiamo che recentemente la Gacs ha aperto in tutto dieci distaccamenti da Zawiya (ovest) a Tobruk (est), compreso il capitolo di Benghazi, segno dunque di un’espansione delle capacità operative della polizia marittima libica.

A questo si aggiunge la volontà di aprire nuovi distaccamenti dell’SSA sempre in territori orientali. Se a questo quadro si uniscono le considerazioni del report Irini secondo cui le attività compiute in mare «hanno mostrato una mancanza di coordinazione tra l’MRCC libico (stanziato a Tripoli) e le unità orientali», il contesto generale inizia a delinearsi. Da un punto di vista più generale sembra prevalere il contesto di una Libia divisa in due opposte fazioni e territori che istituzionalmente non collaborano tra di loro. Dall’altro, le diverse unità militari, alcune composte da una varietà di gruppi tribali e brigate, sembrano ignorare il macro-contesto per infiltrarsi tra i pori delle divisioni territoriali per raggiungere i loro scopi personali. Infatti, si nota che la Gacs vuole asserire la propria presenza a est per aggiudicarsi una posizione di potere così da rivaleggiare con le unità della guardia costiera libica.

I training con la Turchia sono uno strumento valido per raggiungere questo obiettivo: cooperando con uno stato forte come quello turco la Gacs si assicura un potente alleato che potrebbe tornare utile nel futuro, come lo è stato anche in passato durante la guerra, soprattutto se si considera che la marina militare turca è già presente nelle acque orientali libiche.

Ghenewa, il signore di Tripoli

L’attuale leader del gruppo è Abdel Ghani al-Kikli, detto Ghenewa. Dal 2016 varie milizie sotto il suo comando sono stato integrate all’interno del Ministero dell’Interno. La loro principale area di influenza è la cintura urbana intorno a Tripoli, in particolare il quartiere di Abu Salim. Al-Kikli ha aumentato la presa nella città sfruttando il periodo di instabilità avvenuto prima dell’insediamento nel 2021 del consiglio presidenziale del Governo di unità nazionale (GNU). La costituzione della nuova autorità ha imposto alle bande rivali di prendere una posizione: riconoscere o combattere il governo voluto dalle Nazioni unite. Inizialmente la brigata di Ghenewa di stanza ad Abu Salim si è dichiarata contraria ma alla fine il capo del gruppo paramilitare ha deciso di appoggiare il GNU con tutte le sue truppe. Questa presa di posizione ha fatto automaticamente schierare le altre bande rivali dalla parte dell’opposizione. Nei mesi che sono seguiti ci sono stati ulteriori scontri conclusi con la vittoria delle milizie che avevano appoggiato il nuovo governo. In teoria il GNU era la nuova autorità con cui relazionarsi, ma in pratica la forza militare delle milizie che avevano appoggiato il consiglio presidenziale avevano già stabilito il proprio dominio sulla città.

Uno dei mezzi blindati in dotazione alle SSA – Foto: Facebook

Milizie dell’SSA – Foto:Facebook

Già dal 2013-2014 le forze di al Kikli hanno iniziato a controllare i dintorni di Tripoli, imponendo il proprio dominio e agendo come una mafia locale, chiedendo soldi in cambio di protezione e infiltrandosi negli apparati bancari. Nello stesso periodo sono comparsi report di varie organizzazioni, governative e non, nei quali si denunciava Ghenewa per gli abusi inflitti alla popolazione locale e migrante. Già nella seconda metà del 2014 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite lo ha citato come protagonista insieme ad altri gruppi armati dell’escalation di violenze seguite dall’operazione Fajr (Alba), campagna militare durata da luglio a dicembre 2014 e avente come obiettivo le milizie rivali di Tripoli e Zintan. Qui al-Kikli è stato accusato, tra le altre cose, di aver attaccato in maniera indiscriminata posizioni civili, saccheggiando e distruggendo le infrastrutture locali. Negli anni che seguono, rapimenti, detenzioni arbitrarie, torture e uccisioni spregiudicate sono solo alcune delle accuse mosse nei suoi confronti. Nel 2015 sono stati documentati casi di rapimenti e uccisioni sommarie nel quartiere di Abu Salim da parte delle forze di al-Kikli verso chi si opponeva allo strapotere della milizia.

Nell’agosto 2018 un gruppo armato riconducibile a Ghenewa ha attaccato il centro per rifugiati interni Tariq Al-Mattar a Tripoli che ospitava più di 500 persone, derubando gli abitanti e rapendo 77 persone, tra cui un minorenne. Nel 2019 un report della Global initiative against transnational organized crime (GITOC) afferma che la milizia di Abu Salim controlla l’area e il centro di detenzione al suo interno come fosse un mini Stato. Numerose erano le testimonianze di torture, violenze sessuali, privazioni dei diritti e uccisioni risultate dalle pratiche violente delle guardie, il tutto legittimato dall’integrazione delle forze di al-Kikli nei reparti del Ministro dell’Interno.

Dunque, quando nel 2021 è stato nominato a capo dell’SSA, il gruppo armato di Ghenewa aveva già permeato l’apparato di sicurezza istituzionale della Libia. La nomina non ha fatto altro che aumentare il livello di influenza di al-Kikli. Sotto la sigla SSA si è così riunito un numero cospicuo di militari e miliziani già noti nel panorama nazionale e internazionale per violazioni dei diritti umani. Al fianco di Ghenewa, infatti, è stato una presenza costante e componente fondamentale delle forze e delle attività dell’SSA Ali Mohammed Abu Zriba, detto Busriba, particolarmente attivo nella zona di Zawiya, a ovest di Tripoli. È la zona dove comanda il Battaglione dei Martiri di Abu Surra e la Brigata al-Nasr.

Quest’ultima è tristemente nota per ospitare membri come Mohammed Koshlaf, braccio destro di Abu Zriba, accusato in diversi report, sia delle ONG che delle Nazioni Unite, di violazione dei diritti umani avvenute nei centri di detenzione sotto il suo controllo.

Altro membro della brigata al-Nasr è Abd al-Rahman Milad detto Bija, accusato di essere uno dei principali trafficanti di vite umane in Libia e incarcerato fino ad aprile 2021. Il traffico di prodotti petroliferi è invece una delle attività principali di Busriba stesso, grazie alla quale si stimano ogni mese guadagni milionari e traffici che si diramano dal nord Africa, tra Tunisia e Chad, fino ad arrivare a Malta. Questo apparato di distribuzione nell’ombra è aiutato dalla raffineria di Zawiya, già protagonista delle indagini sul contrabbando di carburante lungo l’asse Libia-Malta-Italia, accanto a cui ha stabilito diversi centri di detenzione illegali per migranti.

Una delle navi in dotazione alle SSA per il pattugliamento delle coste libiche – Foto: Migrant Rescue Watch

Un gruppo di migranti è intercettato e trasportato verso la Libia dalle milizie SSA – Foto: Migrant Rescue Watch

Di questi centri se ne conoscono quattro: il principale al-Maya, al-Nasr, Abu Salim e un quarto dalla posizione non meglio identificata. A dicembre 2021 sono stati confermati sei casi di tortura dentro il centro di al-Maya, tre dei quali sono risultati nella morte delle persone soggette alle violenze.

I “nuovi arrivati” nel controllo delle frontiere

Al momento, Busriba supporta Fathi Bashargha, mentre al-Kikli appoggia la fazione di Dabaiba. Sebbene questa possa sembrare una mossa contraddittoria, in realtà esemplifica quella che è la natura di questa nuova milizia: sfruttare la molteplicità dei suoi dipartimenti dislocati sul territorio per avere un guadagno netto in termini di potere e assicurarsi matematicamente la vittoria in campo politico. Appoggiando entrambi i contendenti si garantisce un posto privilegiato nella scelta del futuro governo, diventano dunque la forza militare che può decidere il prossimo leader.

«La SSA è simile a un cancro – spiega il ricercatore che chiede l’anonimato -, si è sviluppata in fretta e ha attecchito in diversi tessuti sociali, non si parla di un’unità militare con delle infiltrazioni maligne, ma di un vero e proprio virus, una versione più potente di milizia» del tutto diversa dalla guardia costiera libica o dall’Autorità generale per la sicurezza costiera (Gacs).

Europa vs Turchia, la partita sulle forze marittime della Libia

Alla metà di aprile del 2019 le forze del generale Khalifa Haftar, ad est, opposte al governo di Tripoli, ad ovest, hanno iniziato l’offensiva in Tripolitania, conquistando Sirte, Jufra e altre città lungo l’avanzata. In quei giorni il governo di Tripoli guidato da Fayez al Serraj aveva bisogno di alleati che potessero supportarlo militarmente. Da parte europea la risposta ha tardato ad arrivare, complice anche una spaccatura interna che vedeva il presidente francese Emmanuel Macron supportare il generale Haftar. È così che a soccorrere il governo di unità nazionale libico arriva la Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Verso la fine di giugno 2020 le forze libiche supportate dalla Turchia riescono a riprendere la Tripolitania.

Dall’intervento in Libia la presenza turca è divenuta sempre più costante, fino a proporsi come alleato principale del Paese nord africano. In questo modo la Turchia ha potuto da un lato espandere la sua sfera d’influenza nel Mediterraneo e allo stesso tempo ha acquistato una leva strategica sull’Europa. Il cambio di tendenza risulta evidente se si notano le operazioni di training delle forze armate libiche.

Fino a metà del 2021 la missione delle marine militari europee Irini portava avanti training per la guardia costiera libica e le forze della Gacs, cioè le due entità ufficiali preposte al controllo delle frontiere marittime, una dipendente dal ministero della Difesa, l’altra dell’Interno. Nel report aggiornato a fine novembre 2021 di Irini si legge che le forze europee non coordinano più i training, «complice anche il fatto che sono le stesse forze libiche a non voler più mettere a disposizione le loro truppe negli addestramenti», afferma Matteo de Bellis, ricercatore presso Amnesty International.

Dal 2022 si vedono sui siti delle autorità libiche foto e video di corsi presenziati da istruttori turchi. «Si preferisce la cooperazione con chi chiude gli occhi di fronte a tutto», conclude De Bellis. La Turchia continua ad avanzare, ma ai tempi dettati dalla Libia. La guardia costiera libica ha infatti rifiutato la proposta turca di equipaggiamenti perché non vengono considerati della stessa qualità di quelli europei che arrivano attraverso le diverse missioni internazionali. E la Gacs ha accettato gli addestramenti turchi per assumere maggior importanza nel sistema militare libico e far concorrenza alla GCL. Ognuno ha il suo tornaconto.

La flotta

Negli ultimi report sull’andamento del training dei guardacoste libici a cura della missione delle marine militari europee Irini sono state conteggiate in tutto sei navi adoperate dall’SSA per le operazioni in mare, di cui quattro note: la Alqayid Saqar, le Alqayid 1 e 2 e la Alqayid Alharbi. Le prime tre vengono dalla Turchia e sono state fabbricate da cantieri con base a Istanbul. Secondo le ricerche di IrpiMedia, la Alqayid Saqar e la Alqayid 1 potrebbero essere state acquistate dall’SSA nel mercato internazionale di barche di seconda mano, mentre la Alqayid 2, fotografata nel porto di Istanbul già con scritte arabe che corrisponderebbero allo stile delle imbarcazioni libiche, fa supporre che l’SSA abbia commissionato la costruzione della nave. La Alqayid Alharabi è invece appartenuta alla guardia costiera ellenica. Viene chiamata dai migranti la “nave Sabratha” per via del modello diverso rispetto alle solite imbarcazioni che partono da Tripoli.

In questo modo hanno l’opportunità di posizionarsi come la forza regolatrice capace di influenzare l’andamento della politica libica. Al Kikli appare come l’uomo pronto a schierarsi con chiunque lo possa aiutare a espandere il proprio controllo. Questo atteggiamento si è già visto nel periodo precedente all’insediamento del GNU a Tripoli e nelle sue attività nella zona orientale. Adesso che Bashagha ha intenzione di rientrare a Tripoli, la situazione ricorda gli eventi avvenuti quasi dieci anni fa, con Ghenewa che afferma di appoggiare Dabaiba mentre un’altra unità dell’SSA supporta Bashagha. Al-Kikli ha già fatto trasparire l’ambizione di allargare la propria sfera di influenza oltre gli attuali confini politici e una tendenza a destreggiarsi tra opposte fazioni.

CREDITI

Autori

Fabio Papetti

Editing

Lorenzo Bagnoli

Foto di copertina

L’organizzazione marittima dell’ONU sta facilitando i crimini nel Mediterraneo?

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L’organizzazione marittima dell’ONU sta facilitando i crimini nel Mediterraneo?

Ian Urbina
Joe Galvin

Le decine di migliaia di rifugiati che  attraversano il mar Mediterraneo ogni anno vengono catturati dalla Guardia costiera libica finanziata dall’Unione Europea e mandati in carceri violente dove omicidi, estorsioni e stupri sono frequenti. 

Uno dei motivi per cui la Guardia costiera è diventata così efficace nelle sue attività è dovuto al fatto che nel 2018 la Libia ha ampliato la zona di pattugliamento fino al mare aperto. Ricevendo il riconoscimento delle Nazioni Unite di una zona di ricerca e salvataggio in mare (Search and rescue region, Srr, in inglese, suddivisa in diverse zone Sar, Search and rescue, ndr), le autorità libiche hanno esteso la loro giurisdizione a quasi cento miglia al largo della costa libica in acque internazionali, a metà strada verso le coste italiane. 

La conseguenza del rafforzamento della Srr è che alle navi di soccorso umanitario come quelle di Medici Senza Frontiere viene impedito di raggiungere per primi i migranti per recuperarli e trasportarli in porti sicuri, che si trovano di solito in Europa. Al contrario, con l’aiuto di aerei e droni finanziati dall’Unione Europea che volano sopra le imbarcazioni dei migranti, la Guardia costiera libica li raggiunge più velocemente, riportandoli nelle prigioni in Libia, il paese dal quale i migranti sono appena fuggiti. 

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Mappa che indica le dimensioni della zona di soccorso della Libia riconosciuta dall’Imo – Foto: https://eu-libya.info/ 

L’IMO all’Europarlamento

Parlamentari e sostenitori del diritto umanitario stanno ponendo nuove richieste al Parlamento europeo e all’Organizzazione marittima internazionale (IMO), l’agenzia marittima delle Nazioni Unite che ha formalmente riconosciuto la zona di ricerca e salvataggio libica. I critici ritengono che la zona Sar libica violi la relativa convenzione delle Nazioni Unite e abbia aggravato le violazioni dei diritti umani e la violazione della legge di non respingimento (il principio di non-refoulement, ndr), secondo cui è vietato dirottare chi fugge in zone di guerra in altri luoghi dove è probabile che siano torturate o lese in altro modo 

Un gruppo di 18 europarlamentari ha scritto nel maggio 2021 al Parlamento europeo: «C’è l’intenzione di sospendere la registrazione della “zona di ricerca e salvataggio” libica presso l’Organizzazione marittima internazionale, in quanto non è conforme né alle norme internazionali né agli obblighi dei singoli Stati di rispettare il diritto d’asilo e il diritto del mare?» (qui la risposta del 2 agosto 2021).

Secondo la convenzione SAR delle Nazioni Unite del 1979, gli Stati possono istituire le proprie zone di ricerca e salvataggio in mare, a patto che siano rispettati certi obblighi. Per creare o espandere una zona di ricerca e salvataggio, un paese deve prima «stabilire centri di coordinamento dei soccorsi (Maritime rescue coordination center, Mrcc è la sigla in inglese più diffusa per identificarli, ndr)» che siano «operativi 24 ore su 24 e con personale costantemente addestrato con una conoscenza a scopi lavorativi della lingua inglese». Le persone salvate in quelle zone devono essere riportate in un porto sicuro, secondo le regole della convenzione. 

La definizione di “porto sicuro”
L’inglese place of safety (POS) di cui si parla ogni volta che un’ong aspetta di poter accedere a un porto, in italiano si traduce “porto sicuro”. Si tratta del luogo nel quale si concludono le operazioni di salvataggio di un gruppo di naufraghi. Affinché sia considerato sicuro, un porto deve poter garantire oltre ai servizi fondamentali (cibo, acqua, cure mediche, riparo) deve poter garantire di poter raggiungere la destinazione finale. Per i migranti, quindi, deve essere un porto nel quale è permesso presentare una richiesta di asilo. Secondo diversi studiosi, questa definizione si deduce “in negativo”, visto che non è mai chiarita in questo modo nelle convenzioni dell’IMO.

Il mistero del Centro di coordinamento dei salvataggi in mare in Libia

Quando l’IMO ha riconosciuto la zona di ricerca e salvataggio della Libia nel 2018, questi obblighi non sono però stati rispettati. Secondo le Nazioni Unite, la Libia non aveva un proprio centro di coordinamento dei salvataggi in mare, con personale 24 ore su 24 che parlasse inglese e i porti del paese non erano (e non sono ancora) classificati come “porti sicuri”. Quando i migranti vengono “salvati” o arrestati nella zona di ricerca e salvataggio della Libia, la Guardia costiera li porta nelle prigioni dove l’ONU ha affermato che avvengono «crimini contro l’umanità». 

L’IMO non è stata affatto l’artefice principale dell’ampliamento della zona di ricerca e salvataggio della Libia. Questa responsabilità grava sulle spalle dell’UE e dell’Italia, le quali hanno spinto per la sua istituzione, pur mettendo in chiaro che i requisiti fondamentali della convenzione non sono stati soddisfatti. 

Nel 2016, la Guardia Costiera italiana è stata invitata dalla Commissione europea a sostenere le autorità libiche nell’identificare e dichiarare questa zona. In una presentazione del 2017 all’IMO, l’Italia ha chiarito che la Libia non aveva un centro di coordinamento dei soccorsi, promettendo invece che ne sarebbe stato creato uno. Gli anni passarono e tale centro non fu costruito. Nel 2021, rispondendo alle domande del Parlamento europeo, la Commissione europea ha continuato a parlare delle sue aspirazioni di costruire un «centro di coordinamento dei soccorsi funzionale», e un rapporto interno dell’UE risalente a gennaio 2022 chiarisce che il centro non è ancora in grado di soddisfare i suoi obblighi fondamentali. 

Prima che l’IMO lo annunciasse, non esisteva ufficialmente una zona di ricerca e salvataggio libica. Erano l’Italia e le organizzazioni umanitarie a occuparsi prevalentemente di rintracciare le imbarcazioni dei migranti nel Mar Mediterraneo. Ma la nuova zona di ricerca e salvataggio ha dato alla Guardia costiera libica il potere di ordinare alle navi – che siano mercantili privati o navi di soccorso umanitario – di riportare i rifugiati nel paese da cui sono fuggiti. Questo ha sollevato diverse questioni legali: come si può ordinare alle navi di consegnare i rifugiati in porti considerati non sicuri? Perché l’IMO dovrebbe annunciare una zona che facilita tali violazioni legali e non soddisfa le condizioni della convenzione che l’IMO stessa dovrebbe sostenere? 

«Da una parte c’è la legge e dall’altra le attuali politiche in contraddizione con la legge stessa», ha dichiarato Laura Garel portavoce dell’organizzazione umanitaria SOS Méditerranée.

 Il caso australiano e le risposte dell’IMO

Non è solo nel Mediterraneo che esiste questa contraddizione. In uno studio pubblicato nel 2017, la professoressa Violeta Moreno-Lax, specialista in diritto internazionale delle migrazioni, ha documentato come l’Australia sia costantemente venuta meno agli obblighi della convenzione del 1979 relativa alle zone di ricerca e salvataggio. Lo studio sottolinea come l’Australia abbia militarizzato la sua risposta alla migrazione via mare, concentrandosi sulla «deterrenza, l’intercettazione e il ritorno forzato delle imbarcazioni» invece di condurre «reali missioni di ricerca e salvataggio», permettendo una regolare violazione della convenzione. 

In risposta, l’IMO dice di avere un avere potere minimo o responsabilità minimi per la sanzione di zone di ricerca e salvataggio in mare. Natasha Brown, una portavoce dell’IMO, ha scritto a The Outlaw Ocean Project via e-mail che l’organizzazione «non approva le zone di ricerca e salvataggio» ma semplicemente «diffonde le informazioni». Ha aggiunto che «non c’è nessuna disposizione nella convenzione di ricerca e salvataggio che ci permetta di valutare o approvare le informazioni fornite».

Tuttavia, l’Organizzazione marittima internazionale gioca chiaramente un ruolo nel decidere se annunciare e riconoscere queste zone. Nel dicembre 2017, per esempio, la Libia ha ritirato provvisoriamente la sua domanda iniziale dell’IMO per determinare la sua zona, «dopo un’implicazione dell’IMO che in assenza di un centro di coordinamento dei soccorsi, i requisiti fondamentali per la zona SAR non sarebbero stati soddisfatti», hanno scritto Peter Muller e Peter Smolinski nel Journal of European Public Policy

È stato chiesto se per salvaguardare la propria reputazione e assicurare che la convenzione non sia violata l’IMO esamina qualsiasi informazione che riceve dai paesi per verificare che i criteri della convenzione siano soddisfatti, Brown, la portavoce dell’IMO, ha confermato che la sua organizzazione «chiarisce o conferma i punti tecnici» prima di annunciare formalmente una zona di ricerca e salvataggio. Ha aggiunto che la convenzione dovrebbe essere modificata affinché l’IMO si assuma un ruolo maggiore nella verifica delle informazioni che rilascia.


L’IMO «rimuova» la zona SAR della Libia

In passato, l’IMO si è occupata del fatto che l’organizzazione o le sue regole siano usate in modo da facilitare i crimini. Nel 2015, Koji Sekimizu, l’allora segretario generale dell’IMO, ha chiarito che la sua organizzazione deve aiutare a impedire che i migranti siano inviati in porti considerati non sicuri. Durante una riunione sulla migrazione attraverso il Mediterraneo, ha sottolineato che i governi firmatari erano obbligati a coordinare e cooperare con le navi di soccorso per garantire che le persone salvate in mare fossero riportate in un “porto sicuro”. 

«Questi obblighi si applicano indipendentemente dallo status delle persone in difficoltà in mare, compresi i migranti potenzialmente illegali – ha detto Sekimuzu -. Queste questioni sono chiaramente di competenza dell’Organizzazione marittima internazionale se mettono in discussione la corretta applicazione delle norme internazionali». 

Molti studiosi, avvocati, difensori dei diritti e parlamentari dicono che questo è esattamente ciò che sta accadendo: l’IMO sta permettendo l’impropria «applicazione dei regolamenti internazionali» così come le violazioni del diritto umanitario e marittimo. Si dice che l’IMO abbia l’autorità e il dovere di risolvere il problema cancellando la zona di ricerca e salvataggio libico, il che impedirebbe complicità della Guardia Costiera libica che rivendica una giurisdizione estesa nella consegna illegale dei migranti ai luoghi di abuso. 

«È urgente che l’IMO, come autorità marittima dell’ONU, rimuova la zona di ricerca e salvataggio libica dai registri ufficiali», si legge in una lettera aperta del 2020 firmata da decine di europarlamentari, organizzazioni umanitarie, attivisti, avvocati e accademici. La lettera spiega che l’IMO ha creato un sistema che «è stato usato opportunisticamente per creare un accordo fittizio che permette a diversi Stati, e all’UE, di rinunciare ai propri doveri previsti dal diritto internazionale, dalla legge del mare e dalle convenzioni sui diritti umani». 

La lettera fa riferimento allo status di porto non sicuro della Libia e alle violenze commesse dalla Guardia costiera libica. Descrive anche l’uso della regione Srr della Libia per «criminalizzare» le ong  impegnate in missioni di salvataggio come Medici Senza Frontiere. 

«Poiché crediamo che l’IMO non apprezzi che gli Stati usino le sue procedure in maniera strumentale per minare la legge del mare, la sicurezza marittima, i diritti umani e il diritto internazionale, i sottoscritti chiedono che il riconoscimento formale della zona di ricerca e salvataggio libica sia revocato», si legge. In risposta alla lettera, l’IMO ha scritto che non era «autorizzato a rimuovere o annullare cancellarsi» dalla zona. 

Addestrare o no la Guardia costiera libica?
Ad aprile 2021, rispondendo a un’interrogazione dell’eurodeputata della Lega Susanna Ceccardi in tema di addestramento della Guardia costiera libica, la commissaria agli affari interni Ylva Johansson ha spiegato che «nel periodo 2014-2020, l’UE ha destinato alla Libia circa 700 milioni di EUR, di cui 59 milioni di EUR per aumentare la capacità operativa della guardia costiera libica e dell’amministrazione generale per la sicurezza costiera». «Il sostegno – prosegue la risposta – comprendeva formazione tecnica su argomenti come le competenze in materia di navigazione e diritti umani; ne hanno beneficiato 105 membri dell’amministrazione generale per la sicurezza costiera». 

Secondo Ceccardi, «la Commissione europea finalmente riconosce l’importanza delle operazioni della guardia costiera libica e, quindi, la legittimità delle azioni della stessa». La sua posizione è condivisa all’interno del gruppo parlamentare Identità e Democrazia, mentre altri gruppi parlamentari chiedono di revocare la zona SAR. 

Dal canto suo, la Commissione continua nel suo sostegno economico, nonostante le critiche. A fine marzo la Germania ha deciso di non prendere più parte alle missioni di addestramento dei guardacoste di Tripoli: «Il governo della Germania non può giustificare in questo momento la formazione della Guardia costiera libica da parte dei soldati tedeschi alla luce degli inaccettabili comportamenti mantenuti da alcuni individui della Guardia costiera libica nei confronti di rifugiati e migranti e anche delle organizzazione non governative», ha dichiarato ad Associated Press il ministro degli Esteri Andrea Sasse il 30 marzo. (L.Ba.)

Pressioni sull’IMO

Questa pressione sull’IMO non proviene solo dall’esterno delle Nazioni Unite. In un rapporto del 2019, l’organizzazione “sorella” dell’IMO, l’Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha invitato l’organizzazione marittima ad assumersi la responsabilità per il suo ruolo nel facilitare le violazioni della Guardia costiera libica. L’IMO «dovrebbe riconsiderare la classificazione della zona di ricerca e salvataggio libica fino a quando la guardia costiera libica non dimostri di essere in grado di condurre operazioni di ricerca e salvataggio senza mettere a rischio la vita e la sicurezza dei migranti», ha scritto l’ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite. 

Dalla creazione della zona di ricerca e salvataggio libica, la Guardia costiera libica è diventata molto più efficace nel catturare i migranti. Secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per la migrazione, nel 2021 sono stati arrestati più di 32.000 migranti che cercavano di attraversare il Mediterraneo, rispetto agli 11.891 arrestati in mare nel 2020. Questi migranti vengono portati a riva e messi in prigioni per migranti, dove si verificano una miriade di abusi. 

«Ci sono video dei campi di concentramento in Libia, i campi di concentramento dei trafficanti», ha detto Papa Francesco in un’intervista televisiva a Che tempo che fa, descrivendo come “criminale” il trattamento dei rifugiati che attraversano il Mediterraneo e chiedendo ai paesi dell’UE di accettare un numero maggiore di migranti. 

Le conseguenze per le navi commerciali in navigazione nel Mediterraneo centrale

Il riconoscimento da parte dell’IMO della zona di ricerca e salvataggio della Libia crea problemi legali anche agli armatori e agli operatori di navi private. Se il comandante di una nave privata salva i migranti in acque internazionali (come è richiesto dalla legge) e a quel comandante viene poi ordinato dalla guardia costiera libica di riportare quei migranti al porto di Tripoli, il comandante dovrebbe obbedire a questi ordini? 

A causa dell’annuncio dell’IMO della zona di ricerca e salvataggio libica, i comandanti della Guardia costiera libica possono affermare – come fanno abitualmente – di avere una giurisdizione riconosciuta da parte delle Nazioni Unite anche se in teoria i migranti sono già in acque internazionali. Di conseguenza, i comandanti delle navi mercantili pensano di essere legalmente obbligati a obbedire agli ordini della guardia costiera libica di consegnare i migranti. 

Tuttavia, così facendo, questi comandanti di navi mercantili stanno commettendo un crimine. Ciò è stato reso evidente nel 2021 in seguito alla condanna a un anno di carcere per un capitano italiano che ha fatto esattamente come gli era stato detto dalla Guardia costiera libica, riportando i migranti a Tripoli in violazione del diritto umanitario che vieta il non respingimento. Questa situazione si è creata perché la guardia costiera libica ha rivendicato, con la tacita approvazione dell’IMO, un’ampia giurisdizione su gran parte del Mediterraneo. 

L’IMO ha cercato di offrire indicazioni in merito ai comandanti, ma l’organizzazione non è riuscita a risolvere la contraddizione legale che ha contribuito a creare. L’IMO avverte i comandanti delle navi del loro obbligo legale di salvare i migranti in mare, dicendo loro di obbedire agli ordini dati dal paese, come quelli della Libia, che rivendicano la giurisdizione su una zona di ricerca e salvataggio. Ma lo stesso documento dell’IMO dice anche che i migranti devono essere portati in un “porto sicuro” ufficialmente riconosciuto. Secondo le affermazioni dell’ONU, la Libia non lo è. 

I paesi che fanno parte della convenzione possono proporre emendamenti per evitare ulteriori abusi dei regolamenti e perché l’IMO abbia un ruolo più chiaro nel verificare le informazioni che pubblica legate alle zone di ricerca e salvataggio. Questi emendamenti sono a loro volta votati nelle conferenze convocate dall’IMO. È richiesta una maggioranza qualificata con due terzi dei paesi votanti per la loro adozione. 

E c’è un precedente. Nel suo studio del 2017, Moreno-Lax constata che «a seguito di ripetuti episodi di non conformità agli obblighi di ricerca e salvataggio», la convenzione di ricerca e salvataggio è stata modificata per rendere più chiari gli obblighi dei paesi di effettuare salvataggi. 

«L’IMO deve opporsi all’abuso delle procedure da parte degli Stati per scopi strumentali, per il bene del sistema giuridico internazionale nel suo complesso –  spiega Yasha Maccanico, un ricercatore di Statewatch, un’organizzazione che monitora le libertà civili in Europa -. La zona di ricerca e salvataggio libica si prende gioco del diritto del mare». 

(L’articolo in inglese è stato pubblicato da The Outlaw Ocean Project a febbraio 2022)

CREDITI

Autori

Ian Urbina
Joe Galvin

Editing

Lorenzo Bagnoli

Traduzione

Allison Vernetti

Foto di copertina

In partnership con

The Outlaw Ocean Project

Il centro di Al-Mabani è chiuso, ma le milizie sono ancora impunite in Libia

21 Aprile 2022 | di Ian Urbina, Joe Galvin

C’è una nuova rivalità politica in Libia: il Governo di unità nazionale della Libia (Gun) presieduto da Abdulhamid Dabeiba è sfidato a Est da Fathi Bashagha, primo ministro nominato dalla Camera dei rappresentanti di Tobruk, che ne pretende le dimissioni. Dopo le fallite elezioni dello scorso dicembre, la tensione torna a salire, con le milizie che sostengono l’uno e l’altro leader che stanno riguadagnando terreno. La situazione è diventata talmente complessa che la compagnia petrolifera Noc ha dovuto dichiarare lo stop dei principali impianti il 19 aprile. Alla crisi politica fa il paio la solita situazione umanitaria: l’Organizzazione internazionale delle migrazione ha dichiarato che dall’inizio del 2022 sono stati riportati in Libia dalla Guardia costiera nazionale oltre 4mila migranti (di cui 122 minori), con 95 morti annegati e 381 dispersi. The Outlaw Ocean Project, nel pezzo che segue – pubblicato in inglese a fine febbraio – spiega cosa è successo a uno dei principali centri di detenzione del Paese. Una chiusura che preannunciava l’instabilità tra le milizie. 

 

SSenza nessuna spiegazione da parte del governo, senza fanfare da parte dei gruppi d’aiuto, né copertura da parte di media nazionali o stranieri, la prigione per migranti più conosciuta della Libia, Al-Mabani, è stata ufficialmente chiusa il 13 gennaio 2022.
Durante la sua apertura, per circa 12 mesi, la prigione è stata l’emblema dell’incomprensibile natura del sistema di detenzione della Libia. Stupri, estorsioni e omicidi sono stati frequenti (e ben documentati) all’interno della prigione.
La prigione di Al-Mabani era importante per il mondo non solo perché l’ONU ha dichiarato che al suo interno stavano avvenendo crimini contro l’umanità, ma anche perché la sua esistenza e crescita sono il risultato delle politiche dell’Unione Europea volte a impedire ai migranti di attraversare il Mediterraneo e raggiungere le coste europee.
Dal punto di vista giornalistico parlando, la chiusura di Al-Mabani potrebbe sembrare un risultato. Un team di giornalisti ha denunciato gli abusi subiti nella prigione e il governo ha immediatamente chiuso quel posto. Ma la storia più importante è meno incoraggiante.

Le milizie restano impunite

La chiusura silenziosa di Al-Mabani mostra la natura sempre mutevole dell’incarcerazione in Libia e come tale transitorietà renda quasi impossibile la protezione dei detenuti. I centri di detenzione per migranti aprono, chiudono e riaprono da una settimana all’altra. Gli spostamenti dei detenuti non sono tracciabili: 3mila persone vengono prelevate da una prigione e, misteriosamente, solo 2500 di loro scendono dall’autobus che li trasporta all’altra. Gli operatori umanitari hanno bisogno di mesi per avere i permessi per visitare le prigioni come Al-Mabani — solo per ricominciare i negoziati da capo quando i detenuti vengono spostati in una prigione appena creata. La conseguenza: le milizie possono, sicure di essere impunite, far sparire, torturare e detenere i rifugiati per un tempo indeterminato.

La chiusura di Al-Mabani mostra anche come funzionano effettivamente il potere e la gestione della società in Libia; ciò che determina il modo in cui i detenuti vengono trattati, dove vengono trattenuti, per quanto tempo e se vengono rilasciati ha meno a che fare con la legge o gli imperativi umanitari e più con l’appoggio economico e i pagamenti.

Perché Al-Mabani è stata chiusa: una guerra tra milizie

Probabilmente Al-Mabani non è stata chiusa perché i giornalisti internazionali hanno rivelato che le guardie al suo interno hanno commesso crimini, come l’omicidio di Aliou Candé, oltre a estorsioni e torture di molti altri migranti. Probabilmente Al-Mabani è stata chiusa a seguito di una lotta politica tra due uomini in lizza per gestire la Direzione per il contrasto all’immigrazione clandestina (DCIM, organismo sotto il controllo del Ministero dell’interno libico), che gestisce il flusso di migranti catturati. La detenzione dei migranti in Libia è un grande business e per i detenuti tutto ha un prezzo: protezione, cibo, medicine. Il più costoso di tutti: la libertà.
Quando il direttore di Al-Mabani, il Generale Al-Mabrouk Abdel-Hafiz ha perso il suo posto di comando al DCIM, la prigione – gestita dalla milizia che predilige- è andata in rovina. Il giorno dopo Al-Mabrouk ha perso il lavoro e Al-Mabani ha pubblicato il suo ultimo post su Facebook. Quando il nuovo direttore Mohammed al-Khoja ha preso il controllo al DCIM, il lucrativo flusso dei migranti prigionieri è stato reindirizzato alla prigione di Al-Sikka. Questa struttura era stata precedentemente gestita dallo stesso Al-Khoja. Una portavoce delle Nazioni Unite ha confermato che molti dei detenuti di Al-Mabani sono stati trasferiti ad Al-Sikka. E il bottino va al vincitore.

Mohammed al-Khoja, al centro, con il ministro degli esteri libico Najla Mangoush a gennaio – Foto: Twitter / pbs.twimg.com

La chiusura di Al-Mabani fa anche parte di una più ampia spinta del governo libico di spostare i centri di detenzione ufficiali fuori da Tripoli. Le fughe da parte dei detenuti sono molto più difficili se la prigione di trova nel bel mezzo del nulla. Anche le pressioni da parte dei gruppi di aiuto e dei giornalisti sono meno probabili dato che il governo limita fortemente i movimenti al di fuori della capitale. 

Cosa succedeva all’interno del centro di detenzione

Aperta all’inizio del 2021, Al-Mabani, che in arabo significa “gli edifici”, era nota per la sua brutalità. Nessun giornalista è mai entrato nella struttura, ma i migranti che sono fuggiti hanno raccontato che cosa succedeva al suo interno, a volte anche fornendo filmati girati con i telefonini. La violenza ha raggiunto il suo apice all’interno di Al-Mabani a ottobre durante una sparatoria di massa sui migranti in fuga. L’episodio è avvenuto pochi giorni dopo che le autorità avevano radunato e detenuto arbitrariamente circa 5 mila migranti di Gargaresh, una baraccopoli dove abitano nelle vicinanze. Federico Soda, direttore in Libia dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, ha affermato: «Alcuni dei nostri collaboratori che hanno assistito all’incidente descrivono i migranti feriti che giacciono a terra in una pozza di sangue». Sei persone sono state uccise, altre due dozzine sono state ferite. 

Lo scorso dicembre, The Outlaw Ocean Project ha pubblicato un’inchiesta su Al-Mabani e sul più ampio sistema carcerario ombra che l’UE ha contribuito a creare (qui la traduzione su IrpiMedia). L’articolo ha raccontato la storia di Aliou Candé, un rifugiato climatico della Guinea-Bissau, che è stato arrestato dalla guardia costiera libica finanziata dall’UE nel Mediterraneo, rimandato ad Al-Mabani e infine ucciso dalle sue guardie. 

Questo reportage ha sicuramente giocato un ruolo nella chiusura di Al-Mabani, ma i suoi contenuti più importanti riguardano il modo in cui il sostegno economico europeo passa per governo libico, come questo finanziamento produca crimini contro l’umanità e come l’UE continui a sostenere economicamente questi abusi attraverso il suo sostegno alla Guardia Costiera libica.

Lo schema è chiaro: le milizie gestiscono i centri di detenzione finché possono, poi questi vengono chiusi quando gli intermediari del potere – le milizie reggenti – cambiano oppure quando i media se ne occupano troppo. Per esempio, la prigione di Al-Mabani è stata creata solo per prelevare i detenuti da un’altra prigione notoriamente violenta, Tajoura, dopo che questa aveva iniziato ad attirare troppa attenzione. È stata bombardata nel 2019, e gli investigatori hanno rivelato che tra i migranti uccisi c’erano alcuni che erano stati costretti a svolgere opere militari come l’assemblaggio di armi. «Le chiusure dei singoli centri o la centralizzazione della centri detentivi dei migranti servono a poco per combattere l’abuso sistematico di rifugiati e migranti, evidenziando la necessità di sradicare gli abusi del sistema di prigionia nel suo complesso», ha scritto Amnesty in un rapporto del 2021.

Cosa si dice nelle istituzioni europee del sostegno alla Libia

L’UE è stata lenta ad assumersi le responsabilità del suo ruolo. A gennaio, The Outlaw Ocean Project ha presentato i dettagli della sua indagine alla Commissione per i diritti umani del Parlamento europeo, e ha delineato l’ampio sostegno dell’UE all’apparato di controllo dell’immigrazione in Libia. I rappresentanti della Commissione europea si sono opposti alla nostra descrizione della crisi. «Non stiamo finanziando la guerra contro i migranti – ha detto Rosamaria Gili, direttore per la Libia del Servizio europeo per l’azione esterna -. Stiamo cercando di instillare una cultura dei diritti umani», ha spiegato.

Eppure, solo una settimana dopo, Henrike Trautmann, un rappresentante della Commissione europea, ha detto ai legislatori che l’UE stava per fornire altre cinque navi alla Guardia Costiera libica per rafforzare la sua capacità di intercettare i migranti in alto mare. 

Più navi significa più arresti. Nel 2021, oltre 32mila migranti sono stati arrestati dalla Guardia Costiera libica e riportati nelle prigioni libiche per migranti. Con il sostegno aggiuntivo dell’UE, è probabile che quel numero aumenterà nel 2022. «Sappiamo che il contesto libico è tutt’altro che ottimale per tutto questo – ha ammesso Trautmann -. Pensiamo che sia pur sempre meglio continuare a sostenere questo che lasciarli al loro destino».

Foto di copertina: Palizzolo/Getty
Traduzione: Allison Vernetti
Editing: Lorenzo Bagnoli
In partnership con: The Outlaw Ocean Project

Migranti e gasolio, il cartello dei trafficanti coinvolto nella strage di Pasquetta

#PiratiDelMediterraneo

Migranti e gasolio, il cartello dei trafficanti coinvolto nella strage di Pasquetta

Lorenzo Bagnoli

Il 13 aprile 2020 era il lunedì di Pasquetta. All’ora di pranzo la Armed Force Malta, la marina militare maltese, ha diffuso un messaggio telex a tutte le imbarcazioni che stavano navigando nella zona di Search and rescue (Sar) dell’isola. Si chiama Sar l’area marittima sotto la responsabilità di un Paese rivierasco per il coordinamento delle operazioni di salvataggio di chi rischia il naufragio. Questa responsabilità è ratificata agli Stati dall’International Maritime Organization, l’agenzia Onu che si occupa di navigazione, a patto che sottostiano ad alcune convenzioni internazionali. «Tutte le navi che transitano nell’area devono tenere alta la guardia e assistere se necessario», recitava il messaggio. Alcuni gommoni con a bordo in tutto 64 migranti partiti da Garabulli, 50 chilometri a est di Tripoli, stavano affondando. Nel messaggio le autorità maltesi aggiungevano che non avrebbero permesso lo sbarco sull’isola a chi avesse recuperato i migranti, a causa delle restrizioni Covid.

Durante quel naufragio, avvenuto a 25 miglia dalle coste di Lampedusa, sono morte in tutto dodici persone. Sono le vittime di quella che verrà poi ricordata come “strage di Pasquetta”. Gli altri 52 naufraghi sono stati riportati in Libia, nel centro di detenzione di Tariq al Sikka a Tripoli, riporta il Times of Malta. Quest’ultimo viaggio verso il Paese nordafricano costituisce un respingimento, contestato da organizzazioni umanitarie e politiche. Sia in Italia sia a Malta sono in corso delle indagini per accertare le responsabilità del naufragio e la violazione delle convenzioni internazionali in materia di asilo politico.

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A coordinare lo scambio di informazioni tra le autorità maltesi e quelle libiche è stato Neville Gafà, ex membro del gabinetto del primo ministro maltese fino a gennaio 2020. Primo ministro era il suo amico di sempre Joseph Muscat, costretto a dimettersi a seguito delle rivelazioni che hanno accostato membri del suo staff all’imprenditore ritenuto mandante dell’omicidio di Daphne Caruana Galizia, Yorgen Fenech. Neville Gafà ha precisato a IrpiMedia di aver agito «come consulente esterno», per conto del gabinetto del primo ministro, che all’epoca era già Robert Abela, il successore di Muscat. Da quando Abela è al governo, tuttavia, Gafà non ha più ricoperto incarichi pubblici. È stato scelto come consulente «perché tra il 2014 e il 2020 ho continuato a viaggiare e ho mantenuto le relazioni diplomatiche tra Malta e Libia».

Secondo Gafà l’operazione di salvataggio (a suo parere è scorretto chiamarlo «respingimento») «è avvenuta nelle acque libiche». Dal 2016 prima l’Italia poi l’intera Unione europea hanno finanziato la creazione di un centro di coordinamento delle operazioni di salvataggio in Libia. I centri di coordinamento, la cui sigla in inglese è Mrcc, sono responsabili della gestione pratica del salvataggio all’interno della zona Sar di loro competenza. L’effettiva esistenza e capacità d’intervento del Mrcc di Tripoli è stata contestata da organizzazioni internazionali come l’Associazione studi giuridici per l’immigrazione (Asgi) secondo cui in pratica ogni recupero in mare dei guardacoste libici è un respingimento per conto delle autorità europee che li finanziano.

«Il mio unico scopo era riportare i migranti a terra sani e salvi», dichiara Gafà, che difende l’operato della guardia costiera libica e ritiene che chi critica la gestione dei centri di detenzione «dovrebbe andare a vedere con i propri occhi come i migranti sono trattati». Di fronte ai giudici maltese che lo hanno sentito nell’ambito del processo scaturito a seguito della strage di Pasquetta, Gafà ha aggiunto di aver condotto altre operazioni simili: solo tra luglio 2018 e gennaio 2019 53 migranti sono stati riportati in Libia con le stesse modalità.

La condanna del comandante di Asso28 e le polemiche sui centri di detenzione

Per la prima volta un tribunale italiano ha condannato il comandante di una nave privata per aver riportato dei naufraghi – potenziali richiedenti asilo – in Libia. Lo riporta Avvenire il 14 ottobre. La sentenza è del tribunale di Napoli e la nave coinvolta è la Asso28, rimorchiatore che lavora alla piattaforma petrolifera Sabratha controllata dalla Mellitah Oil & Gas, società compartecipata da Eni e Noc, la società petrolifera nazionale libica. L’episodio è avvenuto alla fine di luglio 2018: la Guardia costiera libica ha coordinato un’operazione di salvataggio nei pressi della piattaforma. Il recupero dei 101 naufraghi coinvolti è stato svolto da Asso28, la quale poi era stata costretta a consegnare i migranti ai guardacoste libici, i quali poi li avevano riportati indietro. Le motivazioni spiegheranno come mai il comandante è stato ritenuto colpevole, nonostante fosse stato costretto.

Una volta riportati in Libia, i migranti vengono detenuti nei centri che dipendono dal Direttorato per combattere l’immigrazione irregolare, organismo affiliato al Ministero dell’Interno del governo di Tripoli. Se le organizzazioni umanitarie internazionali considerano questi centri dei luoghi di tortura, alcuni pubblici ufficiali in carica e non come Gafà li considerano invece pienamente legittimi e riconosciuti dalla comunità internazionale. «L’organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) sta facendo un lavoro eccellente in Libia e non si può dire da un lato che lavorano bene e dall’altro dichiarare che le condizioni nei centri sono disumane», ha dichiarato Gafà a IrpiMedia.

In realtà però l’Oim, come le Nazioni unite da cui l’agenzia dipende, non considera la Libia un porto sicuro proprio per le condizioni in cui versano i migranti. L’agenzia non è poi responsabile dei centri, ma è presente ai punti di sbarco per offrire primaria assistenza ai migranti fino al momento in cui vengono trasferiti nelle strutture di detenzione. L’Oim ritiene la detenzione dei migranti «arbitraria» e definisce le condizioni di prigionia «inaccettabili e disumane».

La flotta fantasma

È stata un’inchiesta del quotidiano Avvenire, svolta in contemporanea anche da Guardian e New York Times, a scoprire che il respingimento – illegale secondo la Convenzione di Ginevra sui diritti umani – non è stato condotto dalla Guardia costiera libica, come accade di solito, ma da un peschereccio partito da Malta senza nome e senza codice Imo, il numero identificativo di tutte le navi al di sopra di una certa lunghezza, entrambi cancellati con una mano di vernice.

La nave fantasma con i 52 superstiti del naufragio diretta in Libia è la Dar Al Salaam 1, un peschereccio registrato in Libia dal febbraio 2020 che secondo quanto emerso in dibattimento sarebbe stato ingaggiato «tre o quattro volte» dal governo maltese per simili operazioni. Ne è proprietaria da oltre dieci anni la società di un armatore maltese, Carmelo Grech, accusato e scagionato per contrabbando di sigarette con la Libia. Almeno dallo scoppio della rivoluzione che ha rovesciato il regime di Gheddafi nel 2011 Grech è coinvolto in diverse attività con il Paese nordafricano, anche di rifornimento di cibo e viveri, ha raccontato nel 2015 al Malta Independent. All’epoca diceva che non sarebbe rientrato in Libia dopo essere stato arrestato con l’accusa, a suo parere inventata, di trasportare 300 mila euro in contanti. Il suo nome e il suo ruolo nella vicenda sono emersi subito, ma Grech non ha voluto rispondere ai giornalisti.

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Secondo quanto ricostruito dalle inchieste giornalistiche e in tribunale, insieme alla Dar al Salaam 1, il 13 aprile hanno lasciato il porto di Valletta anche altri due pescherecci: la Salve Regina e la Tremar, entrambi in funzione di “supporto”. Una donna intervistata dal Guardian rammenta di tre imbarcazioni e che l’equipaggio «ci ha detto di essere egiziano e di lavorare in mare per conto di Malta». Dopo l’operazione di recupero, la Tremar si è messa in attesa di istruzioni mentre la Salve Regina con a bordo acqua e cibo per i migranti ha scortato la Dar Al Salaam 1 fino alla Libia.

Armatori e comandanti collegati alla Tremar – finora poco indagati – sono riconducibili a un presunto cartello di trafficanti di prodotti petroliferi. Le imbarcazioni che hanno utilizzato sono citate nei rapporti del gruppo di esperti delle Nazioni unite che indaga sui traffici in Libia. Compaiono nelle indagini condotte dalla Procura antimafia di Catania sul contrabbando di gasolio. Questi personaggi tra loro sono legati dall’appartenenza non a una stessa associazione criminale, ma semmai a un cartello. A differenza delle associazioni, i cartelli possono essere geometrie criminali altamente conflittuali. Le varie componenti, per quanto interdipendenti l’una con l’altra, si contendono il primato sugli altri.

Dal 2015 appartengono al cartello imprenditori che le procure italiane ritengono abbiano collaborato con uomini di cosa nostra e, secondo gli ultimi sviluppi investigativi, di ‘ndrangheta e camorra. «Non ho mai incontrato Amer Abdelrazek, non lo conosco», ha dichiarato il consulente del governo maltese Neville Gafà a IrpiMedia. Ha precisato che non era suo compito individuare imbarcazioni private da coinvolgere nell’operazione di salvataggio.

L’omicidio di Daphne Caruana Galizia

Daphne Caruana Galizia è stata uccisa da un’autobomba il 16 ottobre 2017. Tra 2015 e 2016 ha scritto della faida che si era scatenata tra i trafficanti di gasolio di Malta. Gli esecutori materiali dell’omicidio provengono da un milieu criminale locale, sul quale ha indagato un gruppo di polizie internazionali coordinate da Europol. A questo ambiente appartengono anche diversi contrabbandieri di prodotti petroliferi. Imputato in qualità di mandante dell’omicidio è l’imprenditore maltese Yorgen Fenech.

Questo cartello, come ricostruito nelle precedenti inchieste di IrpiMedia, nasce a un livello quasi innocente, dagli scambi di gasolio fra pescatori maltesi e nordafricani: i secondi avevano a disposizione relativamente piccole quantità di gasolio per rifornire i primi a prezzi stracciati. I pescatori maltesi hanno così cominciato a portare a terra un secondo carico, oltre al pescato, che può essere rivenduto sull’isola.

Dopo la caduta di Gheddafi nel 2011, la Libia ha cominciato ad avere grandi quantità di gasolio internazionale venduto con sussidi per renderlo conveniente sul mercato interno: per quanto ricco di petrolio, lo Stato libico dispone di pochissime raffinerie. La misura, pensata come emergenziale, è ancora attiva, per quanto il capo del Governo di unità nazionale Abdelhamid Dabeiba abbia messo in piedi a marzo 2021 un comitato per provare a pensare un’alternativa ai sussidi. Il gasolio sussidiato, infatti, quando è rivenduto all’estero da contrabbandieri dà degli enormi margini di profitto. È un mercato parallelo, dove la società petrolifera libica, la Noc, non incassa nulla. Nel 2018 il presidente della Noc, Mustafa Sanalla, stimava tra il 30 e il 40% il gasolio libico perso nel mercato nero.

Per approfondire

Armi, droga, gasolio e migranti: indagini sui predoni del mare

Il Mediterrano è terra di conquista per i trafficanti. Malta è il porto franco. La Libia la riserva di beni di contrabbando. L’Italia l’accesso all’Europa. Chi sono i pirati che si contendono i mercati illeciti marittimi

L’affare si è trasformato in un business transnazionale con l’ingresso in scena di un duo di imprenditori con contatti e le competenze nel settore petrolifero: Darren e Gordon Debono, omonimi ma non parenti. È improprio chiamarli “soci” o “partner commerciali”: «La verità è più vicina al contrario», ha dichiarato ai giornali maltesi a marzo 2021 Gordon Debono attraverso i suoi legali, sporgendo querela contro i giornali maltesi che lo definivano «associato» a Darren Debono.

Il tribunale di Catania, nell’ottobre 2017, ha ordinato l’arresto per entrambi gli imprenditori, insieme a una rete di broker petroliferi, agenti marittimi, armatori, comandanti, affiliati a milizie libiche, con l’accusa di traffico internazionale di gasolio, venduto in Italia senza pagare le accise. Il processo a loro carico è ancora in corso.

Tutte le indagini citate nell’articolo

Il sistema criminale, secondo le ipotesi degli investigatori, è tuttavia sorto con la loro collaborazione. Gordon aveva a disposizione le petroliere, le società di trading e i grossisti di prodotti petroliferi (soprattutto in Italia); Darren era invece in ottimi contatti con i fornitori libici e disponeva in Libia di una flotta di pescherecci e bettoline. Il 24 novembre 2020 i due, insieme ad altri soci, sono stati arrestati (e in seguito rilasciati su cauzione) nell’ambito dell’operazione Proteus, coordinata da Europol. Sono accusati di avere riciclato il denaro proveniente dal traffico di carburante attraverso una rete di professionisti e avvocati. Sono stati rinviati a giudizio in procedimenti diversi a Malta, entrambi ancora alla lora fase istruttoria, durante la quale la pubblica accusa può continuare a raccogliere prove.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi

Cosa non torna nelle condanne per la “strage di Ferragosto”

#MediterraneoCentrale

Cosa non torna nelle condanne per la “strage di Ferragosto”

Lorenzo D’Agostino

Aferragosto 2015 morirono asfissiate 49 persone confinate durante la traversata dalla Libia a Lampedusa nella stiva di un barchino sovraccarico. Il processo a carico degli otto imputati per omicidio plurimo e traffico di esseri umani il 2 luglio arriva in Cassazione. I libici Jomaa Laamami Tarek, Abdelkarim Alla F. Hamad e Abd Al Monssif Abd Arahman, il marocchino Beddat Isham e il siriano Jarkess Mohannad sono stati condannati con rito ordinario a 30 anni di carcere dalla Corte d’Appello di Catania. Il libico Assayd Moahmed, il tunisino Couchane Moahmed Ali e il marocchino Saaid Mustapha, i cui avvocati scelsero il rito abbreviato, hanno una condanna già definitiva a 20 anni. Di questi otto, cinque non erano neanche ventenni quando sono stati arrestati la sera del 17 agosto 2015, a poche ore dal loro sbarco in Italia, in base a testimonianze rilasciate da nove su 313 sopravvissuti alla strage.

Queste sentenze, e le indagini su cui si basano, appaiono viziate da una pregiudiziale: che i responsabili della strage fossero da trovare, a tutti i costi, tra gli stessi passeggeri dell’imbarcazione. Che tra i sopravvissuti, cioè, si nascondesse un temibile gruppo di “scafisti” in combutta con le organizzazioni libiche dedite al traffico di persone. Un’organizzazione di cui però a oggi non si conoscono i “vertici” né si è riuscita a individuare la cassaforte.

Sulla base di questa premessa mai dimostrata è stato svolto un processo imbastito a base di deduzioni arbitrarie, verbali di polizia contraffatti, interrogatori suggestivi a testimoni in stato di trauma.

Non un caso isolato, ma un vero e proprio modus operandi che IrpiMedia può ricostruire grazie a un’analisi incrociata di interrogatori della polizia, manuali operativi delle forze dell’ordine e i verbali di riunioni riservate tra i vertici della magistratura. Casi in cui la macchina giudiziaria sembra rispondere a un’esigenza politica: individuare un capro espiatorio a cui addossare ogni responsabilità per le stragi del mare. Con metodi ideati nelle procure dotate di Direzioni distrettuali antimafia – in Sicilia, la regione più esposta agli sbarchi, le Dda di Catania e Palermo – sotto il coordinamento della Direzione Nazionale Antimafia.

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Tre calciatori libici tra gli imputati

Il governo di Bengasi, sotto il controllo di Khalifa Haftar, a settembre 2020 chiese la scarcerazione di quattro libici, in quanto sarebbero dei calciatori in Libia e non apparterrebbero a nessun gruppo criminale. Le storie di tre di loro – Abdelkarim Alla F. Hamad, Jomaa Laamami Tarek e Abd Al Monssif Abd Arahman – suffragate dagli ingaggi delle squadre prodotti dalle difese durante il dibattimento, sono state ritenute credibili dalla sentenza della Corte d’Appello.

Claudia Gazzini, analista dell’International Crisis Group, è una delle maggiori conoscitrici italiane del Paese nordafricano, e sostiene strenuamente l’innocenza dei giovani libici. È riuscita ad incontrare due di loro, Abdelkarim e Al Monssif, nel carcere di Caltagirone.

«I tre calciatori – dice Gazzini – sono amici d’infanzia, cresciuti nel quartiere popolare di Ard Zwawa». Di famiglia umile ed esasperati dalla guerra nel loro Paese, presero la decisione di imbarcarsi per l’Europa all’insaputa dei genitori, dopo aver provato invano ad ottenere un visto. Quando, al loro arrivo in Italia, sono stati subito arrestati, non si sono preoccupati: un interprete disse loro che stavano andando in carcere perché i centri di accoglienza erano pieni. «E fino alla condanna in appello sono rimasti convinti che l’equivoco che li riguarda si sarebbe chiarito: il giorno della sentenza avevano fatto le valigie e regalato le loro cose ad altri detenuti, pronti ad uscire», aggiunge.

In prigione, Al Monssif sta studiando all’istituto alberghiero: ha completato un corso di cucina di 600 ore e sogna di tornare a Bengasi per aprire una pasticceria.

Abdelkarim si è iscritto al liceo artistico ed è diventato ceramista, ma non si fa illusioni sulla sentenza della Cassazione: ha capito di essere una vittima di un sistema corrotto. Al colloquio con Claudia Gazzini si è presentato con il suo fascicolo processuale, di cui ha studiato tutte le incongruenze, e con una copia annotata dell’ultimo libro di Alessandro Sallusti, Il Sistema, in cui il giornalista raccoglie la versione di Luca Palamara rispetto al malfunzionamento della giustizia.

Il manuale per le indagini in alto mare

Dal 2013 è in corso un tentativo di uniformare l’approccio di contrasto al traffico di esseri umani, con la procura di Catania (all’epoca guidata dal procuratore Giovanni Salvi) a guidare l’esperimento. Le linee guida adottate da ottobre di quell’anno dalla Direzione Nazionale Antimafia (Dna) prevedono l’invio di «squadre investigative in alto mare», cioè in acque internazionali. Si tratta di «un percorso giudiziario nuovo ed inesplorato… un sistema sinergico nazionale ed internazionale di nuovo conio che conclama l’alta professionalità della Dda catanese e del suo Capo», si legge nella relazione della Dna di quell’anno.

In effetti il metodo inaugurato da Salvi prese rapidamente piede in un’Europa sempre più preoccupata dagli sbarchi, fino ad essere oggi adottato ufficialmente dalle missioni di pattugliamento dell’Unione, come EUNAVFOR MED – gestita dalla marine militari – e Themis – coordinata da Frontex, l’Agenzia europea per il pattugliamento delle frontiere, insieme all’Italia.

In occasione della strage di Ferragosto, i tentativi di identificare l’equipaggio del barcone iniziarono fin dalle prime ore successive all’operazione di ricerca e soccorso (SAR) 1046 del 2015 coordinata dalla Capitaneria di Porto (MRCC) di Roma. I 313 superstiti della strage del naufragio furono salvati la mattina dal pattugliatore della Marina Militare Italiana, Cigala Fulgosi. Il capitano di fregata Massimo Tozzi, non disponendo di una cella frigorifera in cui riporre le 49 salme rinvenute a bordo, richiese l’aiuto di una nave dell’agenzia di frontiera dell’Unione Europea Frontex, il rimorchiatore norvegese Siem Pilot dove furono trasferiti anche i superstiti.

Al termine delle operazioni di recupero dei cadaveri, una terza nave militare, la tedesca OPV Werra, trasferì a bordo del Siem Pilot altri 103 naufraghi soccorsi nelle ore precedenti. Al rimorchiatore di Frontex fu poi ordinato di dirigersi verso il porto di Catania. Alle 6:00 del mattino del 17, quando la Siem Pilot era ormai a largo di Siracusa, furono inviati a bordo cinque agenti della Polizia e della Guardia di Finanza di Catania specializzati nel contrasto al crimine organizzato per interrogare i naufraghi.

Scafista e trafficante, le sfumature del traffico e della tratta di esseri umani

La differenza tra un migrante irregolare e una vittima di tratta sta nel fatto che il primo sceglie di raggiungere clandestinamente un Paese, mentre la seconda è costretta. Le convenzioni internazionali proteggono le vittime di tratta, non i migranti irregolari. Questi possono però fare richiesta di asilo politico una volta raggiunto il Paese di destinazione. Il viaggio di una vittima di tratta tipicamente si conclude con situazioni di sfruttamento lavorativo oppure costringendo la vittima a prostituirsi.

In inglese, si definisce trafficker il gestore della tratta di esseri umani, mentre smuggler è chi permette a migranti, previo pagamento, di raggiungere in modo irregolare la loro destinazione. In italiano, questa figura si identifica sempre con lo stesso termine: trafficante (per le merci, invece, c’è la parola contrabbandiere). L’assenza di un termine appropriato per definire gli uni e gli altri è un sintomo di un certo approccio all’argomento.

Nel 2013, l’anno che verrà poi segnato dal naufragio da cui tutto ebbe inizio (a Lampedusa), la Direzione nazionale antimafia, come racconta The Intercept, comincia a disegnare la strategia di contrasto alla tratta di esseri umani. Con il prosieguo degli anni, l’approccio antimafia ha finito per sconfinare anche nei casi di traffico “semplice”, che caratterizzano la maggior parte degli sbarchi.

Il termine più comune nella narrazione degli sbarchi è “scafista”, che indica in sostanza chi è al timone del barcone. Di per sè, non ha una rilevanza penale: non è automatico che appartenga all’organizzazione criminale. Anzi, «si tratta, in molti casi, di migranti che si prestano a questa attività in cambio di uno sconto sul prezzo della traversata», scrive nel 2015 sul blog della Società italiana di Diritto internazionale la professoressa Alessandra Annoni.

Anticipare gli accertamenti di polizia giudiziaria, secondo l’approccio sperimentale, avrebbe permesso di raccogliere informazioni preziose per smantellare le organizzazioni dedite al traffico e alla tratta di persone. Seguendo il nuovo metodo d’indagine, in pratica, il lavoro degli agenti a bordo delle navi che hanno effettuato un salvataggio sarebbe stato selezionare, tra gli stessi naufraghi, i sospetti “membri dell’equipaggio” appartenenti all’organizzazione criminale.

Per questo motivo, gli agenti di Frontex aprirono immediatamente una «indagine sulla scena del crimine», raccogliendo addirittura tamponi dalla plancia di comando della barca per un possibile test del DNA, poi consegnati alla polizia italiana. Non furono mai analizzati: per scovare gli scafisti i nostri agenti ricorsero a metodi più spediti.

Applicarono infatti le linee guida della missione EUNAVFORMED il cui titolo in italiano è Profili di persone vulnerabili & di scafisti/trafficanti. Secondo il manuale, gli scafisti «cercheranno di nascondersi tra i migranti quando l’imbarcazione è intercettata» e per evitare di farsi ingannare suggerisce di «interrogare per prime le donne con figli minori».

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Questa tecnica investigativa – che consiste nell’affidarsi a indicatori comportamentali o fisici per tracciare il profilo di potenziali sospetti – si definisce “profiling”. Il manuale di EUNAVFORMED dice che deve essere utilizzata solo da agenti formati in materia, e mette in guardia dai suoi rischi: «Questo profilamento non deve essere mai utilizzato in un modo che possa alimentare la discriminazione». Più avanti: «Gli indicatori non sono prove; sono il punto di partenza per ulteriori indagini».

I verbali di indagine redatti dagli agenti di Frontex e dagli ufficiali di polizia giudiziaria di Catania, di cui gli slideshow riproducono gli stralci più significativi, mostrano l’utilizzo del profiling nella pratica. Sono però l’intera indagine piuttosto che il suo «punto di partenza».

«L’isp. Capo Macaluso Santo una volta entrato nel citato spazio denominato “Zone Red” notava che circa 9-10 soggetti di sesso maschile nel tentativo di unirsi agli altri migranti, venivano respinti e allontanati sia con urli che spintoni – si legge nelle annotazioni del vicequestore Giovanni Arcidiacono -. I citati migranti si raggruppavano quindi in un angolo assumendo un atteggiamento di evidente timore e spiccata curiosità sull’attività effettuata da questa P.G. tanto che ogni nostro movimento veniva scrutato e seguito con strano interesse. Gli stessi parlavano esclusivamente tra di loro». Questa osservazione, che di per sé è uno spunto investigativo, è stata impiegata come una prova fondamentale nel processo.

Le prime 48 ore di indagine

Stralci dei documenti in cui si mostrano le prove raccolte nelle prime 48 ore di indagini a seguito dello sbarco

Durante il dibattimento, altre considerazioni dell’ispettore sono state considerate un riscontro esterno ai racconti dei superstiti. Senza un riscontro esterno un indizio riportato da un testimone non può assumere il rilievo di una prova. In aula l’ispettore ha raccontato di aver notato «un movimento strano di alcuni migranti che si distinguevano dagli altri per il colore della pelle, che erano molto più chiari rispetto agli altri, gli altri erano molto scuri, neri» quando era a bordo del Siem Pilot.

Le difese si sono concentrate sulle inconsistenze delle dichiarazioni di Macaluso, dai riferimenti al colore della pelle dei sospetti, al fatto che a bordo del Siem Pilot si trovassero i migranti provenienti da due operazioni di salvataggio distinte, ma la Corte d’Appello lo ha considerato al contrario credibile.

Gli interrogatori

Dopo lo sbarco a Catania il 17 agosto, tra le 15:50 e le 21:00, un totale di 15 agenti tra poliziotti e finanzieri si divisero in gruppi per mettere a verbale nove interrogatori. Poiché i testimoni avrebbero potuto essere a loro volta indagati per il reato di immigrazione clandestina erano presenti un avvocato d’ufficio e un interprete. I verbali – le Sommarie Informazioni Testimoniali – hanno tutti la stessa struttura: si comincia con il racconto personale dei motivi che hanno spinto a intraprendere un viaggio così pericoloso e si prosegue, nella seconda parte, alla disamina di due raccolte di fotografie: la prima con gli scatti dei cadaveri, la seconda con i sopravvissuti.

Malgrado certe rigidità nell’esposizione, dovute alla doppia mediazione dell’interprete e del linguaggio burocratico della polizia, i racconti personali sono pieni di dettagli. Così, ad esempio, una testimone ivoriana racconta le giornate precedenti la partenza:

Il manuale operativo dell’Operazione Sophia di EuNavForMed per la profilazione di persone vulnerabili e trafficanti

«Lunedì 10 di questo mese alle ore 02:00 circa, due libici sono venuti a casa e hanno prelevato tutti e tre, io mio fratello e mia cognata, e arrivati in un’altra abitazione hanno fatto scendere solo me e mia cognata mentre mio fratello era con i libici». Questa, invece, la testimonianza di un altro, marocchino: «Ho lavorato circa sei mesi in Libia come muratore per mettere da parte la cifra sufficiente per pagare i trafficanti. Ho consegnato il denaro al mio connazionale Nassim e questo, lo scorso 14 agosto, che era venerdì, mi ha portato, a bordo di un furgone, nella località di Zuwara».

Dal loro insieme emerge una descrizione coerente delle operazioni di imbarco e della partenza del barcone. La notte del 14 agosto dei trafficanti libici armati radunarono, da vari centri di raccolta, centinaia di migranti su una spiaggia; in gruppi di trenta, con un gommone, li trasportarono a bordo del barcone in legno ormeggiato a largo, cominciando dagli uomini neri – subsahariani come i loro parenti e amici – costretti nella stiva dove già esalavano i fumi del motore acceso. Oltre a loro, furono pakistani e bengalesi a cui i trafficanti riservarono a bordo i posti peggiori. La ricostruzione è credibile anche perché ricalca quanto già sentito in passato da altri superstiti: sovraccoperta, oltre che a donne e bambini, viaggiano altri arabi (libici, ma anche marocchini, tunisini ed egiziani), in una logica razzista dell’assegnazione dei posti. Al termine delle operazioni di imbarco, durate qualche ora, i trafficanti fecero partire il barcone e con i loro gommoni tornarono a terra. Sovraccoperta nessuno si rese conto, fino al trasferimento sulla Siem Pilot, che nella stiva avevano perso la vita 49 persone.

Un fotogramma del documentario Fuocoammare, che racconta la vita sull’Isola di Lampedusa e il dramma dei migranti nel Canale di Sicilia, disponibile su Raiplay

Dopo l’esposizione, gli investigatori hanno fatto consultare agli interrogati due selezioni fotografiche. Nella prima, i cinque testimoni che avevano dichiarato di aver perso un parente non sono riusciti a identificare nessuno. Nella seconda, di cui non si conosce l’ampiezza, tutti i testimoni (tranne l’uomo sudanese che era sottocoperta) hanno riconosciuto alcuni “membri dell’equipaggio”. Questi ultimi sono accusati dalle parole dei superstiti di aver impedito con la violenza a chi era stato collocato sottocoperta di uscire per prendere aria, provocandone così la morte. Non c’è modo di sapere che domande siano state poste agli interrogati, perché nei verbali si legge soltanto una lista di dichiarazioni accusatorie precedute dalla sigla “ADR”, A Domanda Risponde.

Ci sono degli elementi di queste dichiarazioni che però non convincono. Infatti, alcuni stralci dell’interrogatorio si ripetono identici.

La frase «riconosco nella persona avente il numero 157 il comandante dell’imbarcazione, colui che ha condotto l’imbarcazione durante tutta la traversata» o la variante «riconosco nella foto effigiante il volto avente il numero 157 il comandante dell’imbarcazione, colui che ha condotto l’imbarcazione durante tutta la traversata» si trova in cinque verbali. La formula «ricordo inoltre che lo stesso dava frequenti disposizioni ai soggetti da me riconosciuti al nr.» si ripete con le persone identificate dai numeri 270, 201, 186, 156 e 153 (cinque degli otto imputati).

Ad accrescere i sospetti di un copia-incolla è il fatto che errori di battitura come «l’ho visto personalmente posizionarsi sopra la botola è [sic] bloccare l’apertura della stessa. Questo utilizzava una cintura e picchiava violentemente tutti coloro che chiedevano di salite [sic] anche per prendere un po’ di aria» si ripetono in due interrogatori, mentre altri tre riportano cinque risposte identiche (vedi slideshow).

Stralci che sembrano dei “copia-incolla”

Errori di battitura e intere frasi si ritrovano identiche nei verbali di più testimoni

L’incidente probatorio

Il 21 e il 24 agosto otto dei nove testimoni sono comparsi davanti al Giudice per le indagini preliminari di Catania per essere sottoposti all’esame incrociato del pubblico ministero e della difesa degli imputati. Questa fase processuale si chiama “incidente probatorio”: consente di “cristallizzare” le prove, che in questo caso erano i riconoscimenti della polizia.

Durante l’incidente probatorio si è potuto constatare che questo tipo di processi segue la falsariga dei processi di mafia. Lo dimostrano, nel caso specifico, due elementi: il primo è la promessa di un meccanismo di protezione per chi collabora (nello specifico, come emerge anche in altri procedimenti analoghi, ai testimoni viene concesso il permesso di soggiorno); il secondo è la decisione di proteggere i testimoni dietro un separè. Visto il timore di ripercussioni o minacce, si voleva evitare che accusatori e accusati si trovassero faccia a faccia. Di conseguenza, però, l’identificazione dei membri dell’equipaggio è avvenuta solo attraverso gli album fotografici e non in presenza. Pubblici ministeri e difesa erano comunque d’accordo sullo svolgimento del processo in questa modalità.

Dalla trascrizione dell’incidente probatorio emergono numerosi elementi di debolezza delle testimonianze, che la difesa degli imputati non appare in grado di mettere in risalto.

Dalla trascrizione dell’incidente probatorio emergono numerosi elementi di debolezza delle testimonianze, che la difesa degli imputati non appare in grado di mettere in risalto.

I primi elementi poco convincenti hanno riguardato il riconoscimento del presunto equipaggio. Un testimone pakistano ha riferito di alcune persone in uniforme («con la giacca diversa da tutti gli altri»). Una donna ivoriana ha parlato di fischietti usati dall’equipaggio per mantenere l’ordine. Le due circostanze non sono mai emerse in tutto il resto del compendio probatorio. In un’altra testimonianza, un teste marocchino ha detto di aver riconosciuto l’equipaggio durante la notte per «la luce della luna». Ma il 14 agosto del 2015 era notte di luna nuova: uno dei dettagli falsi che nessuno verificherà nel corso dell’intero processo.

Contraddittorie sono anche le versioni circa quante persone fossero parte dell’equipaggio. Sempre un testimone pakistano:

Pubblico Ministero – Si ricorda quante persone ha riconosciuto?
Interprete, Khalil A. – Sì, tre, cinque potrei individuarli, riconoscerli.
Pubblico Ministero – No, come cinque!?
Interprete, Khalil A. – Tre o cinque. Tre, quattro anzi.

I problemi sono continuati con il riconoscimento fotografico. Nell’album davanti a sé, il testimone ha indicato una foto che non corrispondeva a nessuno degli otto imputati e che lui stesso non aveva mai detto in precedenza di aver riconosciuto:

Interprete, Khalil A. – 164, che non c’è la firma, però subito
dice è questo, è questo. Questo era una delle guardie che picchiava sopra. Sopra era, picchiava sopra anche, perché è uno delle guardie.
Pubblico Ministero – Quindi picchiava anche i soggetti che erano sopra, nella parte superiore dell’imbarcazione.
Giudice – Ma questo non è uno degli indagati.
Interprete, Khalil A. – Allora, picchiava quelli che cercavano di salire sopra.
Giudice – Andiamo avanti.
Pubblico Ministero – Lui deve controllare se riconosce le sue firme.
Pubblico Ministero, dottor La Rosa – Deve ricontrollare le foto in cui appone le sue firme.
Giudice – Esatto. Non divaghiamo. È importante dal punto di vista processuale.

Un altro testimone marocchino non ha nemmeno riconosciuto le sue firme («non ho messo nessuna sigla») mentre una donna ivoriana ha negato la circostanza di aver effettuato alcun riconoscimento fotografico davanti alla polizia, a testimonianza dello stato di shock nella quale si trovava a nemmeno cinque giorni dal naufragio e dalla morte di un fratello. La donna ha anche aggiunto di non aver assistito ad atti di violenza, al contrario di quanto riportato nel verbale di polizia. Ha poi alleggerito le sue accuse nei confronti degli imputati, sottolineando come i trafficanti che hanno caricato i migranti fossero poi rientrati in Libia.

Un ragazzo sudanese che ha viaggiato nella stiva ha parlato di persone a bordo che chiedevano alle altre di non muoversi. Nessuno ha disobbedito «perché – sostiene – tutti avevamo paura» che la barca si ribaltasse, non per minacce o pestaggi.

Da queste parole, emerge che non ci sarebbe stato, dunque, nessun atto di violenza organizzata per costringere le persone a rimanere sottocoperta: tutt’al più una lotta per mantenere la propria posizione a bordo di un’imbarcazione sovraffollata e precaria, caricata all’inverosimile dai trafficanti rimasti in Libia. La ricostruzione è coerente con l’esame del medico legale, secondo cui «nessuna delle 49 salme esaminate presentava tracce di lesioni traumatiche recenti di entità apprezzabile».

Le sentenze

Se mettersi al timone di una barca per cercare una miglior vita in Europa va considerato un reato, tra gli otto imputati l’unico su cui sussista qualche serio indizio di colpevolezza è Couchane Moahmed Ali.

Couchane, per sua stessa ammissione, nella notte tra il 14 e il 15 agosto 2015 pilotò la barca su cui morirono 49 persone, senza avvalersi, secondo quanto ha dichiarato, dell’assistenza di alcun equipaggio. Ma alla confessione di Couchane i tribunali hanno preferito il materiale accusatorio prodotto da Polizia, Guardia di Finanza e Pubblico Ministero, ritenuto più attendibile.

Le dichiarazioni accusatorie sono incoerenti, contraddittorie, rese da testimoni esausti, traumatizzati e a volte in lacrime, in un caso senza interprete. Non secondo la Corte d’Appello: «Le deposizioni sono state rese nell’immediatezza del salvataggio… e poi sono state ripetute con puntualità e coerenza… in sede di incidente probatorio, senza registrare stati d’animo particolari quali pianto, disperazione o incapacità di esprimersi che avrebbero potuto fare ritenere un turbamento psichico tale da incidere sull’attendibilità dei testi».

Le dichiarazioni dell’incidente probatorio contraddicono quelle contenuti nei verbali di Sommarie Informazioni? Gli avvocati avrebbero dovuto farlo notare durante l’incidente probatorio, dice la Corte di Appello, ma non l’hanno fatto, quindi solo le ultime dichiarazioni contano come prova.

Testimoni che sul barcone occupavano le posizioni più distanti e disparate affermano di aver potuto identificare gli stessi membri dell’equipaggio nel buio della notte grazie alla loro vicinanza, e inventano fantasiosi dettagli su fischietti e uniformi? «Discrasie o divergenze di dettaglio», le liquida la Corte di Appello.

Testimoni che sul barcone occupavano le posizioni più distanti e disparate affermano di aver potuto identificare gli stessi membri dell’equipaggio nel buio della notte grazie alla loro vicinanza, e inventano fantasiosi dettagli su fischietti e uniformi? «Discrasie o divergenze di dettaglio», le liquida la Corte di Appello.

La profilazione realizzata dall’ispettore Santo Macaluso è allusiva e non basata su dati di fatto? Al contrario, la «rilevanza probatoria» secondo la Corte d’Appello catanese è «inconfutabile»: «La repulsione verso gli scafisti, di carattere generalizzato perché proveniva da persone appartenenti a diverse etnie, si spiega… con l’attribuzione alle condotte degli imputati dei gravi eventi occorsi», scrivono i giudici nel dispositivo.

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Gli altri sbarchi

Tra il 2014 e il 2015, man mano che i metodi di indagine delle Direzioni Distrettuali Antimafia si consolidano, in occasione di tutti i principali sbarchi di migranti, e in special modo quelli con vittime mortali, vengono portati a processo presunti “equipaggi”. Le accuse – come l’utilizzo di cinture e bastoni per tenere l’ordine a bordo – si somigliano spesso tra loro, e i metodi di indagine sono uniformi.

Questi sono alcuni esempi:

28 agosto 2015. La nave di Frontex Poseidon recupera 494 naufraghi, tra cui 53 morti. L’ufficiale di collegamento italiano a bordo preseleziona otto sospetti. Al momento dello sbarco a Palermo, un agente di polizia italiana vedrà «i “testimoni” urlare all’indirizzo dei sospettati, scesi per ultimi, additandoli». Saranno tutti assolti. La Corte riterrà che «l’individuazione dei sospettati, da un canto, e dei dichiaranti, dall’altro, con la sola eccezione del guidatore… sia stata quasi il frutto di una mera casualità».

5 agosto 2015. La nave militare irlandese L.E. Niamh soccorre 367 naufraghi, recuperando 26 cadaveri. Sulla nave, che sbarca a Palermo, la polizia italiana mette un braccialetto con la scritta “suspect” addosso a cinque naufraghi, che vengono tenuti in disparte alla vista degli altri superstiti. I testimoni effettueranno il riconoscimento dei cinque da un album fotografico in cui il braccialetto “suspect” è perfettamente visibile. Per tutti tranne che per il pilota ci sarà l’assoluzione.

19 luglio 2014. Il mercantile danese Torm Lotte salva 569 persone, le vittime si contano a centinaia. La Polizia di Messina, salita a bordo della nave, seleziona un gruppo di cinque sospetti che sbarca separatamente: un gruppo di testimoni li accuserà di aver sferrato calci e cinghiate e distribuito bottigliette d’acqua. Saranno condannati a 30 anni.

Nella requisitoria finale del processo di appello con rito ordinario, il procuratore generale ha dichiarato: «Da questa alternativa non si sfugge, o sono scafisti, o sono migranti». Nella sentenza di condanna, la Corte d’Appello di Catania l’ha contraddetto: «Sono da ritenersi veritiere le motivazioni che avevano spinto ciascuno di loro a partire lasciando la Libia sconvolta dalla guerra, nonché il pagamento del viaggio per raggiungere l’Europa». Non sono nemmeno emersi legami con organizzazioni criminali in Libia, come può essere la mafia di Zawiya o i gruppi attivi a Sabratha e Zuwara in quel periodo, ma questo non ha messo in discussione, per i giudici, l’impianto accusatorio.

Il dossier diplomatico parallelo

La vicenda giudiziaria, almeno nel corso del 2020, si è intrecciata con la più ampia (e più recente) questione delle relazioni diplomatiche tra Italia e Libia.

A settembre 2020, infatti, 18 pescatori siciliani furono arrestati dalle autorità di Bengasi, nella zona sotto il controllo del generale Khalifa Haftar, con false accuse di traffico di droga e di aver irregolarmente sconfinato le acque territoriali libiche. In cambio della loro scarcerazione, il governo locale chiese il rilascio di quattro degli otto imputati, a detta delle autorità libiche calciatori libici falsamente accusati di traffico di persone dai tribunali Italiani.

La prospettiva di uno scambio di prigionieri fu definita «un’enormità giuridica» dal Procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, che parlando al Corriere della Sera riassunse così la tesi dell’accusa: «Altro che giovani calciatori – ha dichiarato-. Non furono condannati solo perché al comando dell’imbarcazione, ma anche per omicidio avendo causato la morte di quanti trasportavano, 49 migranti tenuti in stiva. Lasciati morire in maniera spietata. Sprangando il boccaporto per non trovarseli in coperta. Un episodio fra i più brutali mai registrati».

Lo scambio non avvenne e la crisi si risolse ugualmente a dicembre dello scorso anno con un volo a Bengasi dell’allora primo ministro Giuseppe Conte e del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che per ottenere il rilascio dei prigionieri regalarono al signore della guerra Khalifa Haftar la legittimazione di una “foto di famiglia”.

La fine di quella crisi non ha però disinnescato la richiesta della Libia di ottenere l’estradizione per i condannati libici in Italia. Come dice a IrpiMedia un portavoce del Viminale, il problema è sollevato sia dalle autorità di Tripoli, sia da quelle di Bengasi in quasi tutti gli incontri bilaterali con l’Italia: «Ormai da anni chiedono che venga aperta una procedura per cui reciprocamente i condannati nei rispettivi Paesi scontino la pena nei Paesi di origine».

L’Italia, per ora, non ha dato seguito alla richiesta, vista l’importanza anche politica di portare in carcere i trafficanti. Anche quando le prove non vanno «oltre ogni ragionevole dubbio».

CREDITI

Autori

Lorenzo D’Agostino

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Editing

Lorenzo Bagnoli

Foto

Un fotogramma del documentario Fuocoammare