Pfas: processo e indagine Onu puntano i riflettori sulle responsabilità istituzionali

24 Dicembre 2021 | di Francesca Cicculli

Miteni produceva Pfas a catena corta prima di ottenere l’autorizzazione. A raccontarlo è Paola Salmaso, direttrice dell’Arpav di Vicenza fino al 31 dicembre 2020, ascoltata durante l’ultima udienza del processo penale contro l’azienda chimica vicentina, che si è svolta il 16 dicembre in Corte d’Assise a Vicenza.

L’ex direttrice ha ricostruito i controlli svolti dall’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpa) per valutare la contaminazione da sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) nelle tre province venete di Padova, Vicenza e Verona. Dal suo racconto è emerso che la Miteni, in una propria relazione del 2014, affermava di lavorare C6O4 dal 2011 e GenX dal 2014, ben prima di ottenere l’autorizzazione dalla Regione Veneto.

Autorizzazione poi concessa proprio nel 2014, quando la contaminazione delle acque venete era già stata resa nota. L’azienda chimica avrebbe inoltre effettuato controlli ambientali su queste sostanze, nascondendo poi i risultati agli enti pubblici. I perfluorati a catena corta sono finiti nelle acque di falda, come accertato dai campionamenti di Arpav nel 2018, quando ormai la Miteni era fallita e la sua produzione terminata.

C6O4 e GenX: cosa sono

Quello di Vicenza è un maxi-processo perché riunisce i tre procedimenti aperti contro gli ex-manager della Miteni. Il primo riguarda la contaminazione delle acque con Pfas a catena lunga, Pfoa e Pfos, fino al 2013. Il secondo è invece relativo alla contaminazione dopo il 2013, con Pfas a catena corta, ovvero GenX e C6O4.

Rispetto agli Pfas a catena lunga, che hanno 8 atomi di carbonio, queste nuove molecole sono a catena ridotta, con 6 o 4 atomi di carbonio. GenX E C6O4 sono stati inseriti dalla Commissione europea nell’elenco delle sostanze altamente pericolose poiché, come gli Pfas a catena lunga, sono persistenti nell’ambiente e si muovono facilmente, raggiungendo acque e terreni anche molto lontani dal luogo della contaminazione. Gli GenX sono metabolizzati di più dal corpo umano, ma comunque si bioaccumulano. Inoltre, rispetto agli Pfas a catena lunga, si concentrano di più nella vegetazione e quindi possono essere assunti consumando cibo contaminato, come hanno dimostrato i dati sulla contaminazione degli alimenti in Veneto pubblicati di recente dalle Mamme no Pfas e Greenpeace.

Che Miteni producesse C6O4 già dal 2011 lo ha confermato, durante l’udienza del 25 novembre, anche Stefano Polesello, ricercatore del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) e tra i primi a scoprire la contaminazione da Pfas in Veneto. Dopo il ritrovamento della sostanza in falda da parte di Arpav nel 2018, il chimico ha nuovamente analizzato campioni prelevati intorno alla Miteni nel 2011, trovando il Pfas in questione.

La contaminazione da C6O4 veneta richiama quella di Spinetta Marengo (Alessandria), dove la Provincia ha prima denunciato la Solvay per aver prodotto la sostanza dal 2013 senza autorizzazioni, e poi concesso, due giorni dopo, un aumento della produzione del composto chimico pari a 60 tonnellate l’anno.

Non solo responsabilità di Miteni

Il dibattimento in corso a Vicenza aggrava quindi la posizione dei quindici ex-manager della Miteni accusati di disastro innominato, avvelenamento delle acque e sversamento illecito di rifiuti, ma accende un faro anche sulle responsabilità della Regione Veneto e degli enti di controllo come Arpav – già raccontate da IrpiMedia – che sarebbero state a conoscenza della contaminazione da ben prima del 2013 e non avrebbero fatto nulla per arginarla.

Tuttavia qualche mese fa è stata archiviata l’indagine che la Procura di Vicenza aveva aperto per accertare le responsabilità di Arpav per la contaminazione e attualmente l’ente di controllo regionale è parte civile al processo contro la Miteni.

All’udienza del 2 dicembre scorso il tema della barriera idraulica che Miteni ha fatto costruire nel 2005 per tentare di bloccare la contaminazione da Pfas è stato però al centro dell’attenzione. Vincenzo Restaino, ex direttore del Dipartimento Arpa di Vicenza e testimone dell’accusa al processo Miteni, ha dichiarato che l’azienda, pur sapendo di star inquinando il territorio, non ha comunicato niente agli enti preposti come Arpav, che non fu quindi messa nelle condizioni di monitorare.

Ma un documento presentato al processo da Marco Tonellotto, avvocato delle società idriche, smentisce questa versione dei fatti: il 7 aprile 2005, la Miteni fa richiesta al Genio civile di Vicenza – organo regionale al quale spetta la competenza sulla gestione dei pozzi per le lavorazioni industriali – di realizzare una barriera idraulica a valle dell’impianto per bloccare la contaminazione, che quindi è iniziata almeno otto anni prima della sua scoperta.

Questo documento conferma quanto già messo nero su bianco dalla relazione del Nucleo operativo ecologico (Noe) dei carabinieri di Treviso, a chiusura delle sue indagini presso la Miteni, dove è possibile leggere che «già in data 13 gennaio 2006 personale di Arpav Vicenza operava direttamente sulla barriera idraulica di Miteni per chiudere/sigillare i contatori dei pozzi collegati alla barriera stessa». Operazione dimostrata anche da una lettera firmata dallo stesso Restaino e indirizzata a Miteni e alla Provincia di Vicenza, che ha come oggetto proprio la chiusura dei pozzi della barriera idraulica in questione.

La visita del Relatore speciale delle Nazioni unite

Anche Marcos A. Orellana, Relatore Speciale per l’Alto Commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite (Ohchr), ha denunciato la responsabilità delle autorità venete al termine della sua visita in Italia, il 13 dicembre. «Le autorità non hanno informato i residenti delle aree colpite né hanno dato informazioni sull’inquinamento da Pfas e sui rischi sulla salute della popolazione. Alcuni residenti sono venuti a conoscenza del problema della contaminazione solo nel 2016-2017», ha detto durante la conferenza stampa tenuta all’Istituto Luigi Sturzo di Roma. Orellana ha affermato che la mancata informazione da parte delle istituzioni non ha permesso alle persone di proteggersi, ma ha fatto in modo che i cittadini veneti continuassero a bere acqua contaminata senza saperlo. Per il rappresentante dell’Onu, le istituzioni venete continuano ancora a non informare adeguatamente i propri cittadini, come dimostra il recente caso dei dati relativi alla contaminazione degli alimenti e l’impossibilità per la popolazione di fare le analisi per constatare il grado di concentrazione di Pfas nel loro sangue.

Invitato dal collettivo Pfas.Land e dal movimento delle Mamme No Pfas, il delegato dell’Onu ha visitato insieme ad attivisti e ambientalisti, lo stabilimento della Miteni, l’ospedale di Montecchio Maggiore, uno dei centri all’avanguardia per la cura del cancro al seno in Italia; ma anche Arzignano e Lonigo – due tra i comuni più contaminati – e il collettore Arica di Cologna Veneta, che raccoglie le acque dei depuratori vicentini e le scarica nel fiume Fratta-Gorzone, dove sono state trovate concentrazioni preoccupanti di Pfas.

La lettera dei comitati e i diritti violati

Le Mamme No Pfas e il Comitato Pfas.Land, ritengono che sia stato violato il loro diritto a una vita sicura, il diritto a un ambiente sano e a un rimedio efficace e quello a un’informazione trasparente, diritti tutelati dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nella lettera inviata all’Ohchr si legge, infatti, che nessuno li ha mai informati che l’acqua che usciva dai rubinetti conteneva Pfas a livelli elevatissimi e che ancora oggi non tutte le persone esposte a rischio Pfas hanno diritto di sapere la quantità di PFAS contenuta nel proprio sangue. La Regione Veneto ha infatti stabilito che possono accedere allo screening sanitario solo i residenti in Area Rossa nati tra il 1951 e il 2014. Restano quindi esclusi tutti i cittadini più anziani e i bambini, oltre che i residenti della aree limitrofe, inclusi quelli dell’Area arancione che hanno nella falda anche C6O4 e GenX.

Nessun laboratorio privato è autorizzato a svolgere analisi del sangue per la ricerca di Pfas, neanche a pagamento. I cittadini veneti dicono inoltre che è stato negato loro il diritto all’informazione anche per quanto concerne la contaminazione degli alimenti, i cui dati sono stati resi noti solo sei anni dopo i campionamenti e dopo un ricorso al TAR. Sottolineano poi che non è stata realizzata ancora nessuna bonifica nelle aree a maggior livello di contaminazione e la mancanza di una legge che regolamenti la produzione e l’utilizzo dei Pfas.

Il rapporto finale sulle questioni e sulle tematiche discusse durante la sua visita – che ha toccato anche la terra dei fuochi in Campania e la città di Taranto – verrà presentato alla 51esima sessione del Consiglio dei diritti umani prevista per settembre 2022 a Ginevra.

Orellana intanto ha invitato l’Italia a ratificare la Convenzione di Stoccolma del 2001 sugli inquinanti organici persistenti e «ad intraprendere un’azione decisiva per risolvere il problema legato alla contaminazione da Pfas». Il rappresentante dell’Onu si è detto «seriamente preoccupato dall’entità dell’inquinamento da Pfas in Veneto» e ha chiesto all’Italia di fissare limiti nazionali per l’uso di queste sostanze, sulla scia di quanto sta già facendo l’Unione europea, che discute da alcuni anni sulla messa a bando di tutta la famiglia dei Pfas.

Nonostante quella del Veneto sia la più grande contaminazione da Pfas in Europa, come sottolineato dallo stesso Orellana, l’Italia non ha infatti ancora posto dei limiti allo scarico per questo tipo di sostanze. Solo due regioni italiane, Veneto e Piemonte hanno attualmente dei limiti, fissati rispettivamente nel 2016 e nel 2021. Quelli imposti recentemente dalla Provincia di Alessandria sono però cinque volte maggiori di quelli veneti.

«Il rappresentante delle Nazioni unite è rimasto molto colpito dalle testimonianze dei cittadini», racconta a IrpiMedia Cristina Cola, una delle Mamme No Pfas, soprattutto per quanto riguarda le malattie e i problemi di salute che hanno dovuto affrontare e che ancora affrontano, dai tumori ai problemi di infertilità e gli aborti. Il Relatore Speciale ha fatto anche riferimento al processo attualmente in corso a Vicenza, esprimendo l’intenzione di seguire personalmente il dibattimento e auspicando l’applicazione del principio «chi inquina paga» per quanti verranno dichiarati colpevoli per la contaminazione.

Editing: Luca Rinaldi | Foto: uno sversamento di Pfas presso Vicenza – Foto: pfas.land

Dall’acqua al sangue


Dall’acqua al sangue

Francesca Cicculli
Matias Gadaleta
Simone Manda

Aluglio, presso la Corte d’Assise di Vicenza, è iniziato il più grande processo per reati ambientali della storia italiana. Il procedimento penale vede imputati 15 ex manager della Miteni, azienda chimica di Trissino (Vicenza), della Mitsubishi Corporation e dell’Icig, che per ultimi hanno gestito la società. I reati contestati sono di disastro ambientale, avvelenamento delle acque e bancarotta fraudolenta. Le due multinazionali sono state indicate anche come responsabili civili: in caso di condanna dovranno risarcire le 314 parti civili accolte.

Le accuse sono legate all’inquinamento da Pfas, composti perfluoroalchilici prodotti dalla Miteni – ora fallita – e sversati illegalmente nel fiume Poscola, adiacente allo stabilimento. Da lì, i contaminanti hanno raggiunto la seconda falda acquifera più grande d’Europa e quindi gli acquedotti della zona, dando il via a un inquinamento senza precedenti.

Nelle province interessate – Padova, Vicenza e Verona – i Comuni ora sono divisi in zone colorate a seconda del grado di inquinamento: zona rossa, dove è stata riscontrata la più alta concentrazione di Pfas nelle acque sotterranee e superficiali; zona arancione, dove a essere contaminati sono i pozzi privati ad uso potabile; e infine la zona gialla, ancora sotto monitoraggio. 350.000 le persone potenzialmente coinvolte dall’inquinamento ambientale, che nel 2016 è diventato anche un caso sanitario dopo uno screening della Regione Veneto che ha rilevato alte concentrazioni di Pfas nel sangue dei cittadini.

Da quel momento, vista soprattutto la pericolosità di questi composti sull’uomo – si sono costituite numerose organizzazioni di cittadini che, insieme alle associazioni ambientaliste, hanno presentato degli esposti in Procura che hanno dato avvio alle indagini sulla Miteni e portato al processo arrivato ieri alla quarta udienza. Il procedimento penale, già raccontato da IrpiMedia, è iniziato dopo cinque anni di indagini e oltre un anno di udienze preliminari, terminate con il rinvio a giudizio, il 26 aprile scorso, di tutti gli imputati. Per la Procura i manager dell’azienda sapevano di star inquinando la falda acquifera ma non hanno fatto nulla per evitare gli sversamenti.

«Ricordiamoci che Icig ha acquistato la Miteni dalla Mitsubishi per un solo euro e quindi è impossibile che non sapesse della contaminazione», ricorda Matteo Ceruti, l’avvocato delle Mamme No Pfas, uno dei comitati cittadini nato in seguito alla scoperta dell’inquinamento. Terminate le questioni preliminari, da fine novembre inizierà il dibattimento vero e proprio, che vedrà coinvolti anche un centinaio di testimoni.

Secondo l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) il danno ambientale è di 136 milioni di euro.

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La video inchiesta

Questa inchiesta è la prosecuzione e ampliamento di un documentario di Tiziano Ferri, Desirée Massaroni, Giacome Pirrone, Simone Manda e Matias Gadaleta, girato e prodotto da aprile a luglio 2021.

Potete vedere qui la versione integrale di “Pfas, dall’acqua al sangue“.

Oltre che per la portata dell’inquinamento, il processo aperto a Vicenza è importante perché potrebbe ispirare un procedimento analogo in Piemonte, dove i cittadini di Spinetta Marengo (Alessandria) lottano da anni contro la contaminazione da Pfas causata dalla Solvay, multinazionale belga che in Italia produce ancora composti perfluoroalchilici a catena corta, cioè con meno atomi di carbonio, come il C6O4, presente anche nella falda acquifera del Veneto. Di recente, la società ha ottenuto l’autorizzazione della Provincia di Alessandria ad aumentare la produzione di Pfas, nonostante i numerosi studi che hanno dimostrato la tossicità di queste sostanze. IrpiMedia ha anche scoperto che fino a oggi la Solvay ha prodotto un composto, l’ADV7800, che però non risulta nell’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA).

La vicenda veneta e quella piemontese hanno diversi punti di contatto: la Miteni e la Solvay si passavano le sostanze chimiche da lavorare e i relativi scarti di produzione; entrambe hanno sversato illegalmente Pfas, aiutate anche dall’assenza di controlli degli enti regionali come l’Arpa e dalla sottovalutazione del problema da parte delle istituzioni, come le Regioni o le Province. I loro manager sono responsabili di aver contaminato il sangue di migliaia di italiani inconsapevoli, alcuni dei quali si sono poi ammalati.

L’eventuale condanna degli ex manager della Miteni rappresenterebbe uno spartiacque importante per la storia italiana caratterizzata da gravissimi disastri ambientali, che colpiscono i cittadini lasciando quasi sempre impuniti i responsabili. Per l’avvocato Matteo Ceruti «si sta attrezzando una vicenda processuale importante che sarà all’attenzione di molti colleghi italiani e stranieri per la sua straordinarietà e perché vede coinvolte grandi multinazionali della chimica».

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Le responsabilità istituzionali dietro la contaminazione

Tra le 314 parti civili costituitesi al processo Miteni, e quindi come parte lesa, figurano anche la Regione Veneto, l’Arpav e i gestori delle acque. Ma questi, secondo alcune delle associazioni dei cittadini e quelle ambientaliste hanno delle chiare responsabilità per la contaminazione, come emerge anche dalla relazione del 2018 del Noe di Treviso, il Nucleo operativo ecologico dei carabinieri, dopo le indagini svolte all’interno della Miteni.

Il Noe si concentrò sugli esiti dei monitoraggi ambientali effettuati tra il 2003 e il 2010 nell’ambito del Progetto GIADA, uno studio finanziato da fondi comunitari e coordinato dall’Ufficio ambiente della Provincia di Vicenza, dalla quale emergeva una contaminazione da Btf (Benzotrifluoruri), sottoprodotti derivanti dalle attività della Miteni. I Carabinieri conclusero che «la Provincia di Vicenza, oltre a non condividere con gli altri enti il documento conclusivo del Progetto GIADA, pubblicato nel 2011, avrebbe dovuto richiedere espressamente ad Arpav una verifica approfondita dello stabilimento Miteni. Se ciò fosse avvenuto, l’Arpav avrebbe notato immediatamente la presenza della barriera idraulica, la quale era stata installata nel 2005 proprio al fine di tentare di bloccare l’inquinamento della falda da BTF […]. Allo stesso modo, l’Arpav, nonostante fosse a conoscenza degli esiti del Progetto GIADA, inspiegabilmente non ha immediatamente avviato una verifica approfondita e mirata dello stabilimento Miteni», scrivono ancora i carabinieri, che denunciano anche la «volontà dei tecnici Arpav di non voler far emergere tale situazione» di inquinamento.

La stessa relazione aveva già accertato che i vertici della Miteni ebbero continui scambi di informazioni medico-scientifiche con la DuPont, azienda statunitense che aveva brevettato gli Pfas e che era a conoscenza dei potenziali rischi di queste sostanze. La DuPont è stata condannata a risarcire alla cittadinanza 300 milioni di euro, una parte dei quali utilizzati per un’indagine epidemiologica indipendente che dimostrò le «proprietà cancerogene e di interferenti endocrini» degli Pfas.

Successivamente anche l’Unione europea si è mossa per mettere al bando alcuni dei Pfas. Nell’ottobre 2013, due sostanze di questa categoria sono state inserite nella lista delle sostanze cancerogene e tossiche a seguito di un’esposizione ripetuta. La loro immissione sul mercato e l’utilizzo sono stati vietati nell’Unione europea a partire dal 1 gennaio 2015.

Andrea Zanoni, membro della Commissione Ambiente del Consiglio Regionale del Veneto nelle file del Pd, ha confermato a IrpiMedia che ci sono sempre stati consiglieri veneti che hanno cercato di minimizzare i rischi: «C’era soprattutto il terrore per la contaminazione della catena alimentare, per il buon nome dei prodotti veneti, del km 0 e di tutta l’industria agroalimentare, che poi è anche molto vicina alla giunta Zaia. Troppo spesso le lobby dettano legge in Consiglio regionale, soprattutto su certe materie».

Non solo acqua: la contaminazione degli alimenti

Sarà per la paura citata da Andrea Zanoni che la Regione Veneto ha nascosto fino allo scorso settembre i dati del monitoraggio sugli alimenti condotto dall’Istituto superiore di sanità (Iss) tra il 2016 e il 2017 per verificare la presenza di Pfas negli alimenti di origine animale e vegetale. La relazione finale presentata pubblicamente dall’Iss nel 2019 riportava dati aggregati della presenza di due soli Pfas a catena lunga (Pfoa e Pfos) gli unici per cui l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) aveva già imposto dei limiti all’assunzione. Ma in quella relazione l’Iss sosteneva di aver comunque ricercato 12 tipi differenti di Pfas.

A luglio 2020, Greenpeace e le Mamme No Pfas, con un accesso agli atti, hanno quindi chiesto alla Regione di vedere i risultati dei campionamenti per tutte le molecole ricercate.

La Regione ha inizialmente respinto la richiesta, ma dopo aver perso il ricorso al Tar presentato dalle due associazioni, si è vista costretta a concedere i dati, i quali confermano che in Veneto la contaminazione da Pfas non riguarda solo la falda acquifera, ma anche la catena alimentare.

«È venuto fuori che c’è una contaminazione anche da Pfas a catena corta (Pfba), soprattutto nei vegetali, e che quasi tutte le uova – 53 campioni su 68 – sono contaminate, cioè hanno valori superiori ai limiti quantificabili in laboratorio», ci spiega Michela Zamboni, una delle Mamme No Pfas. Tra gli alimenti più contaminati anche il fegato dei suini e dei bovini.

Il monitoraggio risulta carente per la mancanza di alcuni prodotti molto diffusi in Veneto, come spinaci, radicchio, kiwi, grano, meloni e angurie, mele e soia. Mancano infine le indagini sui prodotti riconducibili a filiere di grandi aziende alimentari presenti sul mercato nazionale, fondamentali per una regione come il Veneto la cui produzione agricola, secondo i dati del 2020, vale 6,3 miliardi di €, con un export agroalimentare di 7,1 miliardi di € annui.

Nonostante i valori allarmanti, dopo il 2017 non sono stati fatti ulteriori monitoraggi, né sono state intraprese le bonifiche, né azioni per almeno ridurre l’inquinamento. Un nuovo monitoraggio sarebbe necessario soprattutto alla luce dei nuovi limiti imposti dall’Efsa nel 2020, per cui si possono ingerire al massimo 4,4 ng/kg di peso corporeo di quattro molecole (Pfoa, Pfos, Pfna, PFHxS). Un limite quattro volte inferiore a quelli fissati dalla stessa autorità europea nel 2018.

Le Mamme No Pfas ritengono però che per i cittadini veneti, il cui sangue è già contaminato, non dovrebbero essere considerati neanche i limiti dell’Efsa, ma dovrebbero essere messe in atto misure che azzerino l’esposizione ai Pfas: «Noi e i nostri figli non dobbiamo assumere neanche un nanogrammo in più di Pfas, perché abbiamo già livelli altissimi di contaminazione nel sangue», dice Michela Zamboni. Per le Mamme, le autorità pubbliche, Regione in primis, dovrebbero effettuare continui screening e monitoraggi, a cui far seguire azioni efficaci di prevenzione e precauzione.

Il 3 novembre abbiamo provato a contattare Manuela Lanzarin, assessora alla Sanità della Regione Veneto, per sapere che azioni vogliono intraprendere dopo la pubblicazione di questi dati, ma non abbiamo ricevuto risposta.

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I fronti della contaminazione ancora aperti

Il nuovo monitoraggio degli alimenti forse partirà, anche se dalla Regione non è stato emesso un cronoprogramma. Nel frattempo sembrano per ora disattese anche le speranze di ricevere acqua libera da Pfas dai nuovi acquedotti in fase di costruzione.

«Lo scorso aprile Zaia annunciava l’imminente arrivo di acqua perfettamente pulita, senza Pfas, dal nuovo campo pozzi di Belfiore nel veronese ma, ad oggi, per stessa ammissione della giunta, l’infrastruttura non è ancora operativa», scriveva a fine settembre Cristina Guarda, consigliere regionale del Veneto in quota Europa Verde. Sembra infatti che l’infrastruttura non sia ancora pronta per essere attivata e manca l’esito delle analisi necessarie all’autorizzazione, che tra l’altro dovrebbe accertare l’assenza dei contaminanti. «La certezza sulla qualità dell’acqua erogata dovrebbe essere prioritaria rispetto agli annunci», sostiene Guarda. Nel frattempo l’acqua che entra nelle abitazioni dei privati viene ancora filtrata con i filtri ai carboni attivi, proposti e installati dai gestori delle acque ma a spese dei cittadini. I carboni attivi sembrano però essere meno efficaci nel trattenere i Pfas a catena corta, come il C6O4 prodotto da Solvay a Spinetta Marengo.

A detta dell’azienda questo composto è più sicuro e con un profilo tossicologico migliore. Il C6O4 è il componente essenziale dei cicli di lavorazione per ottenere i prodotti di punta della Solvay come il polimero Algoflon che rende idrorepellente e antiaderente molti prodotti, tra cui pentole, tute, cosmetici, oltre ad avere molte applicazioni nell’automotive, nella produzione di schiume ignifughe e in campo medico.

Lo stabilimento Solvay di Spinetta Marengo

Spinetta Marengo è una tranquilla frazione di Alessandria, immersa nella campagna. Il suo panorama però è quasi del tutto ingombrato dal polo chimico da circa 600 posti di lavoro, che arrivano a 1.000 se si considera l’indotto.

La storia del polo e quella della frazione si intrecciano tra loro. Fondato nel 1905 dalla Società di Marengo per la produzione di solfato di rame, nel 1933 viene acquisito dalla Montecatini, dal 1966 dalla Montedison e infine dal 2002 diventa Solvay, unico sito nazionale della multinazionale per la produzione di polimeri speciali e fluorurati.

Nel 2008 l’impresa edile CoopSette, durante una rilevazione sul terreno di Spinetta, riscontrò la presenza di 288 microgrammi di cromo esavalente per litro, quando la legge fissa a 10 il limite massimo. I lavori furono bloccati e i vertici dell’azienda finirono in tribunale. Gli ex dirigenti Giorgio Carimati, Giorgio Canti e Luigi Guarracino (quest’ultimo imputato anche nel processo Miteni) hanno preso un anno e otto mesi (con la condizionale e la non menzione) e l’obbligo di risarcire le parti civili e provvedere alla bonifica del sito. La condanna sanziona fatti accaduti fino al 2008 per una produzione – quella del cromo esavalente – ormai cessata.

Solvay e i Pandora Papers

A inizio ottobre, il consorzio di giornalismo investigativo Icij ha pubblicato i Pandora Papers: oltre 11 milioni di documenti che svelano i tesori nascosti nei paradisi fiscali da leader mondiali, politici e vip. Tra questi c’è anche Bernard de Laguiche, dirigente di Solvay Solexis e membro fondatore dell’azienda, il quale avrebbe trasferito le azioni della società in conti offshore, soprattutto a Singapore e in Nuova Zelanda. A colpire è la tempistica di questi spostamenti registrati dal 2009, anno in cui la Solvay in Italia era sotto accusa per inquinamento da Cromo esavalente. Per questa contaminazione de Laguiche venne imputato e poi assolto.

«Dal punto di vista giornalistico è interessante vedere come questi miliardari sfruttassero il loro patrimonio in queste società offshore, dove la tassazione è molto bassa e in cui è possibile nascondersi dai cittadini e dalle autorità, mentre decine di persone a Spinetta Marengo e in New Jersey cercavano di vivere in un posto pulito, dove poter bere acqua senza avere problemi di salute», spiega Scilla Alecci, giornalista di Icij.

Bernard de Laguiche ha negato che lo spostamento delle sue azioni fosse legato al caso giudiziario che lo vedeva coinvolto in Italia, ma dopo l’inchiesta ha dato le sue dimissioni sia da Solvay che da Solvac, la holding belga che raggruppa gli investimenti della Solvay.

Eppure, ancora oggi, nel raggio di tre chilometri dallo stabilimento chimico della Solvay ci si ammala e si muore più che nel resto del Piemonte. A stabilirlo sono stati due studi epidemiologici del 2019 condotti dall’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpa) del Piemonte e dall’Azienda sanitaria locale di Alessandria. I dati sono stati resi noti a dicembre del 2020. «Questi studi hanno fatto emergere che esiste una possibile correlazione tra le sostanze emesse dal polo chimico e diverse patologie: endocrine, tumorali e neurologiche nei bambini. Man mano che ci si allontana dalla fonte di inquinamento le patologie diminuiscono» ha detto a IrpiMedia Lelio Morricone, endocrinologo dell‘Istituto clinico Sant’Ambrogio di Milano.

L’indagine ha evidenziato un incremento del 19% delle patologie tumorali, in particolare del polmone, della pleura e dell’apparato emolinfopoietico, rispetto al resto del territorio alessandrino e piemontese. Dati che si differenziano a seconda delle malattie specifiche con punte del +75% rispetto ai dati regionali per quanto riguarda i mesoteliomi pleurici e +76% per tumore al rene. Inoltre nei maschi si è riscontrata un’incidenza di oltre il doppio per quanto riguarda i tumori epatici e delle vie biliari e nelle neoplasie al pancreas; nelle donne vi è un raddoppio di ricoveri per leucemie. Tra le patologie non tumorali risultano incrementi di ricoveri per malattie dell’apparato cardiocircolatorio, respiratorio e dell’apparato genito urinario. Infine, le valutazioni effettuate nel sottogruppo costituito dai bambini hanno messo in evidenza un aumento dei ricoveri per malattie neurologiche con un incremento dell’86%. Per tutte queste patologie si nota un andamento crescente in base alla durata della residenza.

Solvay chiede l’aumento della produzione

Tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019, Solvay chiede in tre istanze alla Provincia di Alessandria una modifica «non sostanziale» dell’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) del 2010 che consentiva soltanto la lavorazione del C6O4 e non l’intero ciclo di produzione. Prima del 2017, infatti, il C6O4 semilavorato veniva spedito a Miteni per il completamento del ciclo. In un primo momento, la Provincia rifiuta la richiesta, considerandola una «modifica sostanziale» dell’autorizzazione già concessa a Solvay. Il 14 agosto 2019 Solvay ripresenta la richiesta, stavolta come «modifica sostanziale».

Ma già dalla fine del 2017 l’intero ciclo di produzione avveniva internamente alla Solvay di Spinetta Marengo, fin dalla chiusura della Miteni. Lo ha dichiarato l’ingegner Claudio Coffano, responsabile ambiente della Provincia di Alessandria. Interrogato sulla questione dalla Commissione ecomafie, nell’ambito dell’inchiesta sui Pfas di nuova generazione, ha detto: «Durante uno dei sopralluoghi che abbiamo effettuato per verificare gli interventi di miglioramento abbiamo approfondito questo aspetto e l’azienda ci ha confermato che dalla fine del 2017 hanno iniziato a produrlo internamente, convertendo alcuni impianti già esistenti all’intero ciclo di produzione del C604».

La Provincia, il 24 febbraio 2021, denuncia l’azienda alla Procura per aver prodotto C6O4 senza autorizzazione, e la diffida dal continuarne la produzione. Ciononostante, la stessa Provincia autorizza, due giorni dopo, l’ampliamento della produzione, pur obbligando l’azienda a sottoporsi a più rigidi controlli periodici, disposizioni contro le quali Solvay ha fatto ricorso al TAR.

Non è chiaro perché la Provincia abbia aspettato due anni per fare la denuncia. Secondo Claudio Lombardi, ex assessore all’Ambiente di Spinetta, tutto questo poteva essere fatto prima. «Sicuramente c’erano gli estremi per poterlo fare tra la fine del 2018 e gennaio 2019», ha spiegato a IrpiMedia. «Nel momento in cui la Provincia ha rifiutato la richiesta di modifica non sostanziale avanzata da Solvay aveva già preso atto che stava avvenendo la produzione, e quindi in quel momento doveva fare la denuncia».

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Il C6O4 è meno dannoso dei vecchi Pfas?

Abbiamo chiesto a Solvay chiarimenti sui rischi relativi all’utilizzo del C6O4. L’azienda ci ha risposto dicendo di aver agito in conformità al regolamento REACH, certificato necessario per il deposito del brevetto all’Agenzia europea delle sostanze chimiche (ECHA). In tale occasione hanno infatti presentato degli studi che escludono biopersistenza e bioaccumulabilità del C6O4.

Afferma il contrario uno studio del CNR: «Il C604 è una sostanza molto persistente, per esempio noi l’abbiamo trovata nelle uova degli uccelli esposti in ambiente a C604. Nelle uova della stessa specie raccolte lontano dal punto di emissione della sostanza, non ce n’era traccia. Le uova che presentavano alta concentrazione di C604 le abbiamo raccolte intorno allo stabilimento di Spinetta Marengo, dove sappiamo che questa sostanza viene prodotta e utilizzata», afferma a IrpiMedia Sara Valsecchi, ricercatrice del CNR di Monza.

Il Dottor Tomaso Patarnello, docente di Biomedicina comparata all’Università di Padova, ci ha espresso le sue riserve sulle dinamiche che sottostanno al conseguimento del certificato REACH. «Il sistema che permette la certificazione della non pericolosità è un sistema con degli standard poco stringenti», spiega Patarnello. «Nel caso del C604, il test è stato condotto solo su pochi esemplari di due organismi marini, Daphnia e Zebrafish. Esponendoli a concentrazioni molto elevate per 36 ore il risultato è definito dalla sopravvivenza o meno di questi animali». Lo stesso Patarnello, insieme al dottore Massimo Milan, ha esposto le vongole, organismi considerati sentinella, al C604. Dopo 21 giorni si è rilevata una concentrazione 30 volte più alta di quella che era la concentrazione nell’ambiente di coltura. Il risultato degli studi ha dimostrato, secondo Patarnello e Milan, che il C604 è bioaccumulabile e gli effetti sono uguali se non peggiori dei vecchi PFAS.

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Il dottor Carlo Foresta dell’università di Padova, audito in Commissione Ecomafie, ha presentato degli studi che rilevano una correlazione tra esposizione all’inquinamento da Pfas e alcune malattie, inclusa la Covid-19. Nelle province venete contaminate si registra il 60% in più di morti da Covid e questo, secondo Foresta, può essere causato sia dagli effetti di immunodepressione correlata all’esposizione ai PFAS, sia all’azione di blocco che questi hanno sui recettori della vitamina D. Il professore rileva inoltre alti tassi di autismo e osteoporosi nei giovani dell’area in esame. Quanto al C6O4, incide sulla fluidità del sangue come i vecchi Pfas. Per Stefano Vignaroli, Presidente della Commissione Ecomafie, questi studi dimostrano la necessità di nuove indagini epidemiologiche.

Nonostante questi studi confermino la pericolosità dell’intera famiglia degli Pfas, le autorità piemontesi fanno ancora pochi campionamenti sulle acque per verificare la presenza di un’eventuale contaminazione. Eppure, Nicola Dell’Acqua, Presidente di Veneto Agricoltura, quando nel 2019 era Presidente di Arpa Veneto e Commissario straordinario dell’emergenza Pfas, aveva inviato una segnalazione ai suoi omonimi del Piemonte e della Lombardia, in cui si evidenziava «una presenza significativa di C6O4 nelle acque del Po all’ingresso in Veneto». Nella stessa segnalazione, Dell’Acqua sostiene che la contaminazione non poteva provenire dalla Miteni di Trissino, chiusa nel 2018.

Il sangue dei lavoratori

Nel 2016, quando i Pfas erano già all’attenzione dell’opinione pubblica per il disastro ecologico in Veneto, in Piemonte le autorità non sembravano preoccupate. Invece la Solvay, come già fece la Miteni in Veneto, teneva sotto controllo la salute dei lavoratori dello stabilimento di Spinetta Marengo tramite analisi del sangue. Queste erano in possesso anche della Asl di Alessandria, che però non le aveva mai rese disponibili alle istituzioni piemontesi. Per questo, quell’anno, Claudio Lombardi decide di convocare la Asl a un tavolo tecnico con il Comune per far chiarezza sugli esiti di tali analisi. L’azienda sanitaria locale non fornisce i dati completi ma, su richiesta del Comune, stila una relazione, dalla quale emerge che nel sangue dei lavoratori Solvay è stata trovata una concentrazione delle sostanze perfluoroalchiliche fino a 1.000 volte più alta di quella indicata dall’agenzia americana Environmental protection agency (Epa) come sicura. Nonostante ciò, non viene ritenuto opportuno svolgere, come in Veneto, un’indagine epidemiologica sui cittadini.

L’Epa e i limiti

I limiti che l’Epa ha individuato e fissato sono cambiati nel corso degli anni, prendendo come riferimento anche le limitazioni presentate dai diversi Stati e Paesi interessati dalla contaminazione da PFAS, nonché dalla Convenzione di Stoccolma sugli inquinanti organici persistenti, ratificata nel 2004. Nel 2009, negli Stati Uniti, per quanto riguarda i Pfoa il limite era di 400 ng/ml nell’acqua potabile. Nel 2016, fu abbassato a 70 ng/ml. Lo Stato del New Jersey, nel 2017, va ancora oltre, fissando il limite a 14 ng/ml. Nello stesso momento, in Veneto, complice lo scandalo Miteni, il limite per il Pfoa nell’acqua potabile viene concordato a 90 ng/ml.

Secondo una direttiva Ue, il cui dibattito è cominciato nel 2018, l’intenzione dell’Europa è quella di porre il limite per il totale della somma di queste sostanze, e non per il singolo composto. Dapprima, si pensa a un limite di 500 ng/ml. Nel 2020, questa cifra viene rivista: la somma dei Pfas dispersi nell’ambiente non dovrà superare i 100 ng/ml. Il 22 febbraio 2021, l’Epa ha dichiarato di aver preso la decisione di regolare i livelli di Pfos e Pfoa nelle acque potabili di tutto il territorio nazionale, andando a rinforzare in tal senso il Safe Drinking Water Act (SDWA), la principale legge federale per la sicurezza dell’acqua pubblica negli Stati Uniti.

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In un’intervista rilasciata a IrpiMedia, Alberto Zolezzi, parlamentare dei 5 Stelle, ricorda che nell’ottobre del 2020 la Commissione ecomafie si era recata in missione proprio ad Alessandria, dove aveva incontrato e ascoltato gli enti locali in merito alla questione C6O4. In quell’occasione, la Asl si è recata all’incontro senza portare con sé quelle stesse analisi dei lavoratori che anche Claudio Lombardi chiese di vedere nel 2016. Il motivo, racconta Zolezzi, «la Asl pensava non fossero documenti di rilevante interesse per la Commissione, mentre lo erano eccome». Per poter visionare questi documenti, IrpiMedia ha fatto richiesta di accesso agli atti. La Asl ha risposto per ben due volte che l’attività di vigilanza in oggetto non è competenza specifica del dipartimento a cui è stato domandato l’accesso agli atti, senza però precisare a chi rivolgersi. E, continua, «[…] l’effettuazione di monitoraggi biologici sui lavoratori, secondo quanto disposto dal D. Lgs. 81/2008, sono di pertinenza dell’Azienda [Solvay]». Sentita al telefono, la Asl non ha saputo fornire informazioni supplementari.

Ma i potenziali danni ai lavoratori e alla popolazione causati dall’esposizione ai Pfas vanno anche oltre le sostanze finora prese in esame. Solvay infatti da tempo produce e utilizza nel suo stabilimento di Spinetta Marengo il composto ADV7800.

Nel 2018, il dipartimento di protezione ambientale degli Stati Uniti mette sotto accusa l’azienda per inquinamento colposo alle falde acquifere dello stabilimento di West Deptford, nel New Jersey. Secondo l’accusa la contaminazione è stata provocata dai composti Pfoa, Pfna e Pfos, nonché dal Cipfpeca.

Cronologia dei Pfas in Piemonte, Lombardia e Veneto

In realtà, da uno scambio di mail tra Claudio Lombardi e la dottoressa Soldati di Arpa Piemonte, di cui è entrato in possesso IrpiMedia, si evince che il Cipfpeca è un altro nome dell’ADV7800. Il procedimento in New Jersey è ancora in corso, ma nel maggio 2021 Solvay ha deciso di interrompere del tutto la produzione di Pfas negli Stati Uniti, compreso l’ADV7800. In Italia, invece, il composto continua ad essere utilizzato, e sull’inquinamento da ADV7800 non ci sono indagini aperte. Nonostante nell’Autorizzazione Integrata Ambientale del 2010 non si faccia riferimento a tale composto, l’amministrazione di Solvay ha risposto a IrpiMedia che la sostanza «è nota da sempre agli enti preposti».

Solvay e gli standard analitici

Se da una parte le autorità piemontesi sembrano impreparate a verificare la presenza di una contaminazione da PFAS nel loro territorio, dall’altra Solvay, difendendo i suoi brevetti, rende ancora più difficile le operazioni ispettive. Cristina Guarda, insieme all’europarlamentare Eleonora Evi, ha chiesto all’Europa di intervenire in tal senso: «Abbiamo appreso che Solvay ha intimato ai rivenditori di non distribuire più gli standard analitici del C6O4 agli enti che fanno i controlli sulle acque», ha raccontato la consigliera a IrpiMedia. «Rivendicando la licenza di brevetto», prosegue Guarda, «Solvay potrebbe ostacolare di fatto i controlli ambientali». Gli “standard analitici” delle sostanze chimiche sono le versioni dei composti che gli scienziati possono utilizzare per monitorare accuratamente la presenza e la concentrazione di un contaminante nell’ambiente.

Da documenti in possesso di Consumer Report, negli Stati Uniti Solvay ha minacciato di azioni legali un laboratorio canadese, il Wellington Laboratories, che fino a poco tempo fa forniva lo standard del C6O4 ai ricercatori indipendenti che intendevano studiare la sostanza. «Solvay sta cercando di rendere estremamente difficile, se non impossibile, per gli scienziati accademici misurare accuratamente questo composto nell’ambiente», afferma Michael Hansen, scienziato senior presso Consumer Report. In sostanza, una volta esaurita la scorta di standard analitici a loro disposizione, le Arpa e le altre autorità di vigilanza non avranno più la possibilità di continuare a fare accertamenti e analisi sul C6O4.

La Commissione europea ha risposto a Cristina Guarda ed Eleonora Evi tramite Virginijus Sinkevičiusa, che ha confermato un vuoto normativo sulla questione. Di fatto, la Commissione si è impegnata a valutare, in occasione del prossimo riesame del regolamento REACH, la possibilità di aggiungere l’obbligo per le aziende di fornire gli standard analitici per le sostanze registrate.

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La situazione odierna

Dopo molti esposti della cittadinanza e di associazioni, tra cui Greenpeace e Legambiente, la Procura di Alessandria ha aperto un’indagine contro la Solvay per sospetta omessa bonifica e disastro ambientale. I carabinieri del Noe di Alessandria sono entrati in azienda nel febbraio del 2021. Le indagini dovevano concludersi a fine agosto ma lo stesso Noe ci ha comunicato che ancora non sono terminate. Angelo Robotto direttore di Arpa Piemonte, in un’intervista rilasciata a IrpiMedia nell’aprile 2021, si è dichiarato fiducioso che il biomonitoraggio sul sangue degli abitanti di Spinetta Marengo potesse partire, in tempi brevi, se solo tutte le forze in campo avessero trovato una quadra. Il biomonitoraggio ancora non è partito ma Il 19 ottobre 2021, il Consiglio Regionale del Piemonte ha colmato il vuoto legislativo e ha individuato limiti più stringenti per tutti i Pfas nelle acque di scarico. Saranno limiti la cui applicazione non è prevista prima di 13 mesi, e qualsiasi riferimento alle acque potabili è rimasto fuori dal disegno di legge.

A tale decisione le associazioni hanno reagito insoddisfatte. Viola Cereda, del comitato Stop Solvay di Spinetta Marengo, ha dichiarato a IrpiMedia: «Penso che sia un segnale troppo debole quello della Regione, rispetto alla gravità dell’inquinamento che Solvay porta avanti. Vengono posti limiti per il C6O4 definiti da più voci troppo alti data la pericolosità e persistenza della molecola nell’ambiente». Perciò, conclude Cereda, «questa decisione accontenta solamente Solvay e nessun’altro».

CREDITI

Autori

Francesca Cicculli
Matias Gadaleta
Simone Manda

Ha collaborato

Tiziano Ferri
Desirée Massaroni
Giacomo Pirrone

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Editing

Giulio Rubino

Inquinamento da Pfas in Veneto: si va verso il maxi processo

13 Ottobre 2020 | Francesca Cicculli, Silvia Pittoni

Dal 2016 c’è una zona rossa nel Nord-est tra le province di Vicenza, Padova e Verona perché contaminata da sostanze altamente tossiche sversate nel terreno e nelle acque, conosciute con il nome di Pfas. La contaminazione, secondo le indagini, è partita dalla Miteni di Trissino, un’azienda chimica del vicentino fondata nel 1964, ora fallita, situata su una zona che alimenta la seconda falda acquifera più estesa d’Europa, grande quanto il Lago di Garda. Tuttavia tutto il distretto conciario della zona è da tempo sotto la lente d’ingrandimento delle autorità ambientali come Arpa e Ispra.

La falda rifornisce gli acquedotti di 21 comuni delle tre province, ma anche molti pozzi privati. Per anni, circa 350 mila persone hanno bevuto acqua contaminata senza saperlo: è uno dei peggiori casi di inquinamento in Italia.

Ieri, 12 ottobre, si è svolta la seconda udienza del processo che vede imputati tutti i dirigenti della Miteni fino al periodo 2013-2014, rappresentanti della Mitsubishi e dell’ICIG, il gruppo tedesco di proprietà lussemburghese, che nel 2014 ha acquistato l’azienda. I manager sono accusati a vario titolo di disastro innominato e di aver avvelenato le acque con gli Pfas, sostanze perfluoralchiliche.

Nell’udienza di ieri, il giudice Roberto Venditti ha accolto la richiesta della Procuratrice di Vicenza Orietta Canova di rinviare il dibattimento in attesa di formulare la richiesta di rinvio a giudizio degli indagati in altri due filoni di indagini appena conclusi. Uno è quello relativo all’inquinamento da GenX e C6O4, iniziato nel 2012. Il terzo filone riguarda invece la bancarotta fraudolenta: l’azienda avrebbe aggravato il dissesto finanziario omettendo la contabilizzazione degli oneri ambientali relativi alla bonifica. La prossima udienza si terrà il 30 novembre. L’intenzione della Procura è quello di arrivare, il prossimo anno, a un unico maxi processo che riunisca i procedimenti riguardanti l’inquinamento delle acque prima e dopo il 2013.

Cronistoria di un inquinamento

Gli Pfas sono utilizzati per impermeabilizzare tessuti, piatti di carta e pellicole alimentari, o per rendere antiaderenti le pentole, ma con effetti altamente tossici sulla salute umana. La loro presenza nel sangue dura per più di dieci anni e, scrive una ormai importante letteratura scientifica, può portare a malattie cardiovascolari, tiroidee, ma anche tumori, ipertensione e ipercolesterolemia. 

Nonostante gli sversamenti siano partiti già dalla fine degli anni Sessanta, le prime notizie di inquinamento da Pfas in Veneto emergono solo nel 2013, quando il Consiglio Nazionale delle Ricerche e il Ministero dell’Ambiente pubblicano i risultati di una ricerca effettuata sui principali bacini fluviali italiani.

Nel 2014 è stato presentato un primo esposto alla Procura di Vicenza, archiviato subito dopo. Secondo l’avvocato Edoardo Bortolotto, che al processo in corso rappresenta alcune parti civili, questo è accaduto perché nessuno, dalla magistratura alla Regione Veneto, conosceva gli effetti di queste sostanze sulla salute.

La gravità della situazione è emersa solo quando la Regione ha iniziato gli screening di massa a dicembre 2016. Da questi, infatti, è risultato che la contaminazione si estendeva ben oltre la zona di origine: le analisi del sangue rivelano livelli altissimi di Pfas soprattutto tra i più giovani. Prendono vita così vari comitati sul territorio, tra cui le Mamme NoPfas, determinate a portare il problema sui tavoli della politica nazionale. Le richieste sono soprattutto due: chiedere la bonifica completa di acque e terreni contaminati e fissare limiti alla produzione delle sostanze contaminanti. Grazie anche all’operato dei comitati, nel 2017 è stato presentato un secondo esposto in procura, corredato da perizie epidemiologiche e ambientali, che ha fatto aprire le indagini e dato avvio all’azione processuale.

«In due anni, la magistratura ha conferito incarichi di consulenza e aspettato i risultati degli esami epidemiologici. Nel frattempo, ha svolto indagini autonome che si sono concluse a inizio 2019 con la richiesta di rinvio a giudizio degli indagati», racconta l’avvocato Bortolotto. 

Il processo è partito lo scorso 8 giugno con la costituzione di 226 parti civili tra cui comitati, associazioni e 41 lavoratori della ex Miteni. Proprio il 9 ottobre, per la prima volta l’Inail ha inserito, tra le malattie professionali, l’elevata concentrazione di Pfas nel sangue, riconoscendo a due lavoratori «una menomazione dell’integrità psicofisica». Secondo la Cgil, che ha raccolto le denunce degli operai, si tratta di un importante passo per richiedere eventuali benefici previdenziali ed estendere il riconoscimento del danno ad altri lavoratori per situazioni aziendali analoghe. Le parti civili coinvolte nel processo chiedono principalmente che i responsabili dell’inquinamento vengano puniti con la detenzione, poiché è stato dimostrato che i vertici dell’azienda hanno nascosto e non rivelato subito l’entità e la gravità dell’inquinamento. Un ritardo che, per l’avvocato, ha sostanzialmente determinato l’aggravarsi e l’estendersi a una platea molto vasta della contaminazione del sangue e delle acque.

Il precedente della DuPont

È noto, infatti, che la Miteni abbia avuto continui scambi di informazioni medico-scientifiche con la DuPont, azienda statunitense basata in Ohio che aveva studiato e brevettato l’utilizzo degli Pfas e che era a conoscenza dei potenziali rischi di queste sostanze. La stessa DuPont, dopo una class action avviata negli Stati Uniti nel 2001 grazie al lavoro del legale Robert Billot, è stata poi condannata a risarcire alla cittadinanza 300 milioni di euro: 70 di questi furono poi utilizzati per una indagine epidemiologica indipendente che concluse come alcuni composti Pfas, in particolare quelli a “catena lunga”, avessero «proprietà cancerogene e di interferenti endocrini provocando così ipercolesterolemia, coliti ulcerose, malattie tiroidee, tumori del testicolo e del rene».

«Purtroppo da noi vi è stato un silenzio assoluto su questi studi che la Miteni conosceva» spiega Bortolotto a IrpiMedia. «Abbiamo le prove – continua il legale – che i tecnici dell’azienda spesso si recavano negli Stati Uniti o avevano contatti diretti con i tecnici della DuPont, però tutto questo è stato ignorato dalle autorità che avrebbero dovuto vigilare». Nel frattempo, inoltre, l’azienda è fallita: «Cosa che avevamo previsto perché non si sarebbe mai fatta carico delle decine di milioni di euro necessari per bonificare l’area inquinata e dei costi utili a purificare l’acqua», sostiene l’avvocato.

Tra bonifiche, tutela della salute e lavoro

Negli ultimi anni, infatti, sono stati installati filtri ai carboni attivi per far arrivare acqua pulita nelle abitazioni, e si sta procedendo a costruire nuovi acquedotti. La bonifica, invece, non è ancora partita. L’istituto superiore per la protezione ambientale (Ispra) stima un danno da 136 milioni di euro con i terreni vicini all’azienda che andrebbero bonificati sia dagli Pfas sia da altri composti chimici, come gli GenX e C6O4, sversati dalla stessa azienda dal 2012.

La vicenda GenX e C6O4

Dal 2012, l’ICIG è stata autorizzata a produrre nell’azienda di Trissino sostanze chiamate GenX e C6O4. Rispetto agli Pfas, che hanno 8 atomi di carbonio, queste nuove molecole sono a catena ridotta, con 6 o 4 atomi di carbonio.

Il ritrovamento di queste sostanze in Veneto risale a giugno 2018, dopo altri rilevamenti di Arpav, quando ormai l’azienda era fallita e la loro produzione terminata. È stato dimostrato che anche queste molecole hanno contaminato le acque e il sangue della popolazione.
Nei territori interessati, dal 2017 risulta una presenza ridotta di Pfas, mentre rimane una residua concentrazione di GenX e di C6O4. «Queste sostanze si trovano praticamente ovunque nell’area di interesse, sono disciolte all’interno dell’acqua della falda sotto gli impianti, si trovano su tutti i terreni superficiali, sui terreni profondi, sotto le porzioni dell’argine del bosco che è a fianco della Miteni, si trova assorbita su tutti i terreni a causa dell’innalzamento e abbassamento del livello di falda», ha raccontato la procuratrice Canova in commissione Ecomafie, lo scorso 22 luglio.

Sulla contaminazione da GenX e C6O4 è probabile che a essere chiamata in causa sia anche Regione Veneto, la quale aveva concesso l’autorizzazione per la produzione delle sostanze senza poi verificare, sostiene ancora Bortolotto, la presenza di ulteriori contaminazioni. 

Oltre alla conclusione del procedimento giudiziario, le parti civili stanno lottando per ottenere una normativa nazionale che fissi dei limiti allo scarico di Pfas. Limiti che sono stati già definiti dalla Regione Veneto. Anche a livello europeo si è arrivati a un accordo preliminare che prevede limiti Pfas a 0.1 microgrammi al litro, in tutta Europa.

I limiti allo scarico degli Pfas
Il Ministero dell’Ambiente a settembre ha presentato un Collegato Ambientale che poneva limiti nazionali per gli Pfas troppo alti e che non includeva tutti i tipi di Pfas presenti nelle acque venete. Dopo aver letto questa bozza di disegno di legge, le Mamme NoPfas hanno chiesto di essere ascoltate dal Ministro dell’Ambiente. Sono state ricevute il 6 ottobre, a Roma, dal capo della segreteria tecnica Tullio Berlenghi, dagli avvocati Carruba e Pecopo, e da Marco Ciarafoni, capo della segreteria del Sottosegretario di Stato Morassut.

Le Mamme no Pfas a Roma il 6 ottobre 2020 / Francesca Cicculli

Il comitato è stato rassicurato sul fatto che la bozza non è definitiva. L’iter parlamentare durerà circa un anno e prevede l’istituzione di un tavolo tecnico, al quale le mamme potranno partecipare. «Che sia davvero solo un anno e non di più, perché ne sono già passati sette», spera una delle Mamme. A questo tavolo, il Comitato vuole che ci sia collaborazione attiva tra le varie parti coinvolte: Regione Veneto, Ministero dell’ambiente, ISS, ISPRA e Confindustria, «per trovare una soluzione insieme percorribile che non chieda la chiusura delle aziende, ma imponga soluzioni alternative sostenibili». «Non vogliamo – concludono – essere messi davanti al bivio lavoro-salute. Non vogliamo chiedere alle aziende di chiudere, ma chiediamo un lavoro sicuro. Non vogliamo alzare muri, ma partecipare e consigliare alcune soluzioni». Per le Mamme è fondamentale che i limiti che verranno fissati per gli Pfas vengano decisi sulla base di ricerche scientifiche che garantiscano la sicurezza delle persone, e non per motivi economici.

«L’Italia – conclude Bortolotto – ha una storia di gravissimi disastri ambientali, non è più possibile che periodicamente sia epicentro e vittima di inquinamenti così gravi, che poi alla fine colpiscono i soggetti più deboli. Vogliamo che questo processo sia uno spartiacque tra un’Italia vecchia, quella dei disastri ambientali e di una mancata sensibilità su questi temi, e un’Italia nuova dove questo non succeda mai più».

Foto: la sede della Miteni a Trissino (Vicenza) – Luca Quagliato | Editing: Luca Rinaldi
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