Pfas: processo e indagine Onu puntano i riflettori sulle responsabilità istituzionali
24 Dicembre 2021 | di Francesca Cicculli
Miteni produceva Pfas a catena corta prima di ottenere l’autorizzazione. A raccontarlo è Paola Salmaso, direttrice dell’Arpav di Vicenza fino al 31 dicembre 2020, ascoltata durante l’ultima udienza del processo penale contro l’azienda chimica vicentina, che si è svolta il 16 dicembre in Corte d’Assise a Vicenza.
L’ex direttrice ha ricostruito i controlli svolti dall’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpa) per valutare la contaminazione da sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) nelle tre province venete di Padova, Vicenza e Verona. Dal suo racconto è emerso che la Miteni, in una propria relazione del 2014, affermava di lavorare C6O4 dal 2011 e GenX dal 2014, ben prima di ottenere l’autorizzazione dalla Regione Veneto.
Autorizzazione poi concessa proprio nel 2014, quando la contaminazione delle acque venete era già stata resa nota. L’azienda chimica avrebbe inoltre effettuato controlli ambientali su queste sostanze, nascondendo poi i risultati agli enti pubblici. I perfluorati a catena corta sono finiti nelle acque di falda, come accertato dai campionamenti di Arpav nel 2018, quando ormai la Miteni era fallita e la sua produzione terminata.
C6O4 e GenX: cosa sono
Quello di Vicenza è un maxi-processo perché riunisce i tre procedimenti aperti contro gli ex-manager della Miteni. Il primo riguarda la contaminazione delle acque con Pfas a catena lunga, Pfoa e Pfos, fino al 2013. Il secondo è invece relativo alla contaminazione dopo il 2013, con Pfas a catena corta, ovvero GenX e C6O4.
Rispetto agli Pfas a catena lunga, che hanno 8 atomi di carbonio, queste nuove molecole sono a catena ridotta, con 6 o 4 atomi di carbonio. GenX E C6O4 sono stati inseriti dalla Commissione europea nell’elenco delle sostanze altamente pericolose poiché, come gli Pfas a catena lunga, sono persistenti nell’ambiente e si muovono facilmente, raggiungendo acque e terreni anche molto lontani dal luogo della contaminazione. Gli GenX sono metabolizzati di più dal corpo umano, ma comunque si bioaccumulano. Inoltre, rispetto agli Pfas a catena lunga, si concentrano di più nella vegetazione e quindi possono essere assunti consumando cibo contaminato, come hanno dimostrato i dati sulla contaminazione degli alimenti in Veneto pubblicati di recente dalle Mamme no Pfas e Greenpeace.
Che Miteni producesse C6O4 già dal 2011 lo ha confermato, durante l’udienza del 25 novembre, anche Stefano Polesello, ricercatore del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) e tra i primi a scoprire la contaminazione da Pfas in Veneto. Dopo il ritrovamento della sostanza in falda da parte di Arpav nel 2018, il chimico ha nuovamente analizzato campioni prelevati intorno alla Miteni nel 2011, trovando il Pfas in questione.
La contaminazione da C6O4 veneta richiama quella di Spinetta Marengo (Alessandria), dove la Provincia ha prima denunciato la Solvay per aver prodotto la sostanza dal 2013 senza autorizzazioni, e poi concesso, due giorni dopo, un aumento della produzione del composto chimico pari a 60 tonnellate l’anno.
Non solo responsabilità di Miteni
Il dibattimento in corso a Vicenza aggrava quindi la posizione dei quindici ex-manager della Miteni accusati di disastro innominato, avvelenamento delle acque e sversamento illecito di rifiuti, ma accende un faro anche sulle responsabilità della Regione Veneto e degli enti di controllo come Arpav – già raccontate da IrpiMedia – che sarebbero state a conoscenza della contaminazione da ben prima del 2013 e non avrebbero fatto nulla per arginarla.
Tuttavia qualche mese fa è stata archiviata l’indagine che la Procura di Vicenza aveva aperto per accertare le responsabilità di Arpav per la contaminazione e attualmente l’ente di controllo regionale è parte civile al processo contro la Miteni.
All’udienza del 2 dicembre scorso il tema della barriera idraulica che Miteni ha fatto costruire nel 2005 per tentare di bloccare la contaminazione da Pfas è stato però al centro dell’attenzione. Vincenzo Restaino, ex direttore del Dipartimento Arpa di Vicenza e testimone dell’accusa al processo Miteni, ha dichiarato che l’azienda, pur sapendo di star inquinando il territorio, non ha comunicato niente agli enti preposti come Arpav, che non fu quindi messa nelle condizioni di monitorare.
Ma un documento presentato al processo da Marco Tonellotto, avvocato delle società idriche, smentisce questa versione dei fatti: il 7 aprile 2005, la Miteni fa richiesta al Genio civile di Vicenza – organo regionale al quale spetta la competenza sulla gestione dei pozzi per le lavorazioni industriali – di realizzare una barriera idraulica a valle dell’impianto per bloccare la contaminazione, che quindi è iniziata almeno otto anni prima della sua scoperta.
Questo documento conferma quanto già messo nero su bianco dalla relazione del Nucleo operativo ecologico (Noe) dei carabinieri di Treviso, a chiusura delle sue indagini presso la Miteni, dove è possibile leggere che «già in data 13 gennaio 2006 personale di Arpav Vicenza operava direttamente sulla barriera idraulica di Miteni per chiudere/sigillare i contatori dei pozzi collegati alla barriera stessa». Operazione dimostrata anche da una lettera firmata dallo stesso Restaino e indirizzata a Miteni e alla Provincia di Vicenza, che ha come oggetto proprio la chiusura dei pozzi della barriera idraulica in questione.
La visita del Relatore speciale delle Nazioni unite
Anche Marcos A. Orellana, Relatore Speciale per l’Alto Commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite (Ohchr), ha denunciato la responsabilità delle autorità venete al termine della sua visita in Italia, il 13 dicembre. «Le autorità non hanno informato i residenti delle aree colpite né hanno dato informazioni sull’inquinamento da Pfas e sui rischi sulla salute della popolazione. Alcuni residenti sono venuti a conoscenza del problema della contaminazione solo nel 2016-2017», ha detto durante la conferenza stampa tenuta all’Istituto Luigi Sturzo di Roma. Orellana ha affermato che la mancata informazione da parte delle istituzioni non ha permesso alle persone di proteggersi, ma ha fatto in modo che i cittadini veneti continuassero a bere acqua contaminata senza saperlo. Per il rappresentante dell’Onu, le istituzioni venete continuano ancora a non informare adeguatamente i propri cittadini, come dimostra il recente caso dei dati relativi alla contaminazione degli alimenti e l’impossibilità per la popolazione di fare le analisi per constatare il grado di concentrazione di Pfas nel loro sangue.
Invitato dal collettivo Pfas.Land e dal movimento delle Mamme No Pfas, il delegato dell’Onu ha visitato insieme ad attivisti e ambientalisti, lo stabilimento della Miteni, l’ospedale di Montecchio Maggiore, uno dei centri all’avanguardia per la cura del cancro al seno in Italia; ma anche Arzignano e Lonigo – due tra i comuni più contaminati – e il collettore Arica di Cologna Veneta, che raccoglie le acque dei depuratori vicentini e le scarica nel fiume Fratta-Gorzone, dove sono state trovate concentrazioni preoccupanti di Pfas.
La lettera dei comitati e i diritti violati
Le Mamme No Pfas e il Comitato Pfas.Land, ritengono che sia stato violato il loro diritto a una vita sicura, il diritto a un ambiente sano e a un rimedio efficace e quello a un’informazione trasparente, diritti tutelati dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nella lettera inviata all’Ohchr si legge, infatti, che nessuno li ha mai informati che l’acqua che usciva dai rubinetti conteneva Pfas a livelli elevatissimi e che ancora oggi non tutte le persone esposte a rischio Pfas hanno diritto di sapere la quantità di PFAS contenuta nel proprio sangue. La Regione Veneto ha infatti stabilito che possono accedere allo screening sanitario solo i residenti in Area Rossa nati tra il 1951 e il 2014. Restano quindi esclusi tutti i cittadini più anziani e i bambini, oltre che i residenti della aree limitrofe, inclusi quelli dell’Area arancione che hanno nella falda anche C6O4 e GenX.
Nessun laboratorio privato è autorizzato a svolgere analisi del sangue per la ricerca di Pfas, neanche a pagamento. I cittadini veneti dicono inoltre che è stato negato loro il diritto all’informazione anche per quanto concerne la contaminazione degli alimenti, i cui dati sono stati resi noti solo sei anni dopo i campionamenti e dopo un ricorso al TAR. Sottolineano poi che non è stata realizzata ancora nessuna bonifica nelle aree a maggior livello di contaminazione e la mancanza di una legge che regolamenti la produzione e l’utilizzo dei Pfas.
Il rapporto finale sulle questioni e sulle tematiche discusse durante la sua visita – che ha toccato anche la terra dei fuochi in Campania e la città di Taranto – verrà presentato alla 51esima sessione del Consiglio dei diritti umani prevista per settembre 2022 a Ginevra.
Orellana intanto ha invitato l’Italia a ratificare la Convenzione di Stoccolma del 2001 sugli inquinanti organici persistenti e «ad intraprendere un’azione decisiva per risolvere il problema legato alla contaminazione da Pfas». Il rappresentante dell’Onu si è detto «seriamente preoccupato dall’entità dell’inquinamento da Pfas in Veneto» e ha chiesto all’Italia di fissare limiti nazionali per l’uso di queste sostanze, sulla scia di quanto sta già facendo l’Unione europea, che discute da alcuni anni sulla messa a bando di tutta la famiglia dei Pfas.
Nonostante quella del Veneto sia la più grande contaminazione da Pfas in Europa, come sottolineato dallo stesso Orellana, l’Italia non ha infatti ancora posto dei limiti allo scarico per questo tipo di sostanze. Solo due regioni italiane, Veneto e Piemonte hanno attualmente dei limiti, fissati rispettivamente nel 2016 e nel 2021. Quelli imposti recentemente dalla Provincia di Alessandria sono però cinque volte maggiori di quelli veneti.
«Il rappresentante delle Nazioni unite è rimasto molto colpito dalle testimonianze dei cittadini», racconta a IrpiMedia Cristina Cola, una delle Mamme No Pfas, soprattutto per quanto riguarda le malattie e i problemi di salute che hanno dovuto affrontare e che ancora affrontano, dai tumori ai problemi di infertilità e gli aborti. Il Relatore Speciale ha fatto anche riferimento al processo attualmente in corso a Vicenza, esprimendo l’intenzione di seguire personalmente il dibattimento e auspicando l’applicazione del principio «chi inquina paga» per quanti verranno dichiarati colpevoli per la contaminazione.