Sulla rotta di Trieste, una montagna di coca lega Urabeños e ‘ndrangheta

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Sulla rotta di Trieste, una montagna di coca lega Urabeños e ‘ndrangheta

Cecilia Anesi

Edoardo Anziano

È il 12 aprile 2021. A Puerto Bolivar – il più grande scalo marittimo della Colombia – gli agenti dell’antidroga fermano un carico di 300 chili di cocaina pronto a essere issato su una nave mercantile in partenza per l’Italia, porto di Trieste per la precisione. Gli agenti colombiani, guidati dai magistrati della “Fiscalìa 42 Especializada contra el Narcotrafico” sono riusciti a infiltrare un agente in un gruppo di narcos colombiani guidato da Angel.

Il sequestro avviene all’insaputa dei narcotrafficanti, che credono il carico già partito alla volta di Trieste. In realtà, le autorità colombiane consegnano, via aereo, la cocaina alla Direzione Distrettuale Antimafia (Dda) di Trieste, che la stocca.

La Fiscalia colombiana aveva infatti avviato una collaborazione con la Dda giuliana per potere indagare a fondo il gruppo di narcotrafficanti, risalendo la china sia dei fornitori in Colombia che dei distributori e acquirenti in Europa. Una complessa indagine congiunta, che farà emergere da una parte il Clan del Golfo, anche chiamati Urabeños, il più potente cartello di narcotrafficanti attivo oggi in Colombia che conta fino a 2mila affiliati per lo più da gruppi paramilitari di estrema destra, dall’altra diversi gruppi di acquirenti est-europei e un gruppo italiano legato alla ‘ndrangheta attivo tra Roma e Milano.

A consegnare la cocaina agli acquirenti, un emissario del cartello colombiano mandato a Trieste per supervisionare e garantire che le consegne andassero a buon fine. Una misura di sicurezza presa dal clan del Golfo viste le grandi quantità spedite tra la primavera e l’autunno 2021.

Trieste viene supportata da altre procure che di volta in volta si attivano per sequestrare la cocaina in distribuzione, cadono i corrieri, ma i magistrati lasciano in sospeso per mesi gli arresti dei narcos per raccogliere tutte le prove di una fitta rete di narcotraffico internazionale. Un mese fa, il 7 giugno scorso, il Tribunale di Trieste ha chiuso il cerchio spiccando 38 ordinanze di custodia cautelare contro i narcotrafficanti attivi tra Italia, Slovenia, Croazia, Bulgaria, Olanda e Colombia. “Geppo2021”, verrà battezzata questa delicata operazione dalle molte ordinanze di custodia cautelare: in memoria di “Geppo”, finanziere undercover di Trieste venuto a mancare.

Sono in tutto 4380 i chili di cocaina sequestrati dalla Guardia di Finanza di Trieste, il terzo sequestro più grande d’Europa, e che dovevano essere solo l’inizio di un’alleanza tra il clan del Golfo e compratori europei che avrebbero ritirato di volta in volta circa 500 chili alla volta che sarebbero sbarcati al porto di Trieste. Se lasciate nelle mani dei narcotrafficanti, le quattro tonnellate avrebbero fruttato almeno 240 milioni di euro di guadagni illeciti.

L’Italia è il secondo Paese produttore di pomodori, dopo gli Usa. La Puglia produce più della metà dei pomodori in scatola italiani, in particolare nella zona di Foggia.

Una veduta aerea del porto di Trieste- Foto: Getty

Una veduta aerea del porto di Trieste

Foto: Getty

 

L’ambasciatore e l’infiltrato

Convinto del successo della spedizione, il cartello colombiano invia in Italia il suo «ambasciatore» Ramon Abel Castano Castano, col compito di recuperare e vendere i 300 chili di cocaina, pura al 75%. A lui vengono affidate «tutte le attività indispensabili per il recupero e la distribuzione dell’ingente carico inviato in Italia».

Castano Castano aveva già fatto un sopralluogo al porto di Trieste prima dell’arrivo della cocaina, visitando l’ufficio del titolare di un servizio di import-export: quello che doveva garantire che la spedizione di trivelle da miniera, in cui era nascosta la cocaina, giungesse tra le banchine senza intoppi.

Ciò che il colombiano non immaginava, era che l’uomo fosse in realtà un finanziere sotto copertura. Una copertura inventata dal Gruppo d’investigazione sulla criminalità organizzata (Gico) della Guardia di Finanza di Trieste, guidato dal colonnello Marco Iannicelli, una volta che la Fiscalia 42 si era messa in contatto avvisandoli del fatto che il Clan del Golfo stesse cercando un nuovo porto in Italia dove inviare i carichi al posto di Gioia Tauro.

«A Gioia Tauro c’erano stati diversi sequestri e quindi i colombiani cercavano un altro porto e Trieste è buono per i narcos perchè è grande ma anche vicino al confine con la Slovenia, quindi è la porta per i balcani e serve le mafie balcaniche», spiega a IrpiMedia il comandante Iannicelli.

Insomma il Gico si adopera per costruire una copertura credibile, ovvero un logista che avrebbe potuto fare arrivare la cocaina fino a Trieste nonché organizzare il suo stoccaggio.

L’obiettivo è scoprire gli acquirenti finali della partita, quei terzisti che si divideranno i 300 chili per poi venderli a pesci più piccoli che si occuperanno di rifornire le reti di spaccio.

«La particolarità di questa operazione è non solo la quantità sequestrata, ma il fatto che siamo riusciti a seguire passo passo la distribuzione e svelare la rete di acquirenti», incalza Iannicelli.

Quando dalla Colombia parte la cocaina, c’è un’altra cosa che Castano Castano non immagina: la droga è stata sequestrata, tolta dal container e consegnata alle autorità italiane per via aerea. L’agente sotto copertura, con grande maestria, riesce a far credere all’ambasciatore del cartello di essere riuscito a recuperare la spedizione al porto di Trieste.

Mostrando i 300 chili effettivamente arrivati e stoccati, il finanziere undercover riesce a conquistare definitivamente la fiducia di Castano Castano, al punto da aiutarlo con le diverse consegne che consentono di tracciare la rete di acquirenti in diretto contatto coi produttori colombiani.

Si tratta, come scrive il gip di Trieste, di individui «strettamente contigui ad organizzazioni criminali di indiscutibile alto profilo». Infatti, ciascuno di loro acquista quantitativi che variano, ogni volta fra 60 e 115 kg di cocaina, per non meno di 35.000 euro al chilo.

A organizzare le spedizioni dalla Colombia sono o direttamente uomini del Clan del Golfo, o Antonio Prudente, un italiano residente in Colombia e tutt’ora latitante. «Hanno infatti organizzato dalla Colombia la spedizione dei carichi di cocaina, inviando in Italia dei loro emissari incaricati di sovraintendere le operazioni di stoccaggio e gestire le consegne ai diversi gruppi di trafficanti – scrive il gip. In Italia hanno pagato solo un corrispettivo per la logistica mentre la merce è sempre stato pagata anticipatamente direttamente in Colombia: lo si desume agevolmente dalle conversazioni captate».

Infatti, i narcos utilizzavano telefoni cifrati che sono stati decriptati grazie alla collaborazione della Homeland Security (HSI) americana.

Surespot l’app di Isis e narcos, infiltrata da HSI

I narcotrafficanti colombiani e calabresi colpiti dalle indagini congiunte della Fiscalia 42, della Dda di Trieste e con il supporto della agenzia statunitense Homeland Security Investigations, utilizzavano un’app di messaggistica istantanea chiamata Surespot, sviluppata nel 2013 da due statunitensi, che offre un modo di comunicare completamente cifrato end-to-end. Si tratta di una tecnologia che (al pari di Whatsapp e Signal) cifra ogni messaggio prima di inviarlo, in modo che possa essere decifrato esclusivamente dal dispositivo a cui è destinato. Vale a dire che chi controlla l’infrastruttura o i server non dovrebbe poter avere accesso all’informazione.

In seguito alle accuse di essere lo strumento di riferimento dello Stato islamico, tra il 2014 e il 2015 alcuni esperti di sicurezza informatica e giornalisti hanno iniziato a chiedere a 2fours, azienda che sviluppa l’app, se questa fosse ancora sicura e se le autorità statunitensi avessero in qualche modo cercato di ottenere l’accesso ai messaggi scambiati dagli utenti. Adam Patacchiola – CEO dell’azienda – non avrebbe risposto a ripetute domande relative a una possibile infiltrazione delle autorità statunitensi nella rete di Surespot. Lo stesso profilo Twitter dell’app risulta dormiente da anni e di Surespot non si è più parlato, sebbene sia rimasto disponibile negli store di Google e Apple.

Ciò che i narcotrafficanti hanno curiosamente sottovalutato, è la possibilità che HSI tenesse un piede dentro Surespot, cosa effettivamente avvenuta. Quando il 7 giugno sono scattati gli arresti di Trieste, e l’operazione “Geppo2021” è stata chiusa, sul sito di Surespot è comparsa una notizia: dal 31 luglio prossimo l’app verrà definitivamente disattivata. Surespot ha esaurito il suo scopo (ra. an.)

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Stando alle informazioni rese pubbliche dalle autorità colombiane, i carichi di cocaina erano riconducibili a Chiquito Malo, ovvero Jobanis de Jesus Avila Villadiego, un narcotraficante che ha preso la guida del clan degli Urabeños dopo che il gran capo del gruppo, Dario Antonio Úsuga David alias Otoniel era stato arrestato, ad ottobre 2021, e estradato negli USA lo scorso maggio.

Cocaina su tutto lo stivale

A maggio 2021, Castano Castano si attiva per la distribuzione sul territorio italiano. La prima consegna, appena 10 chili, è una partita di prova ceduta a due noti narcotrafficanti bulgari.

La seconda consegna è dieci volte più grande: il colombiano recapita 100 chili a due pregiudicati pugliesi, referenti di un gruppo chiamato “i veneziani”. Il pagamento, viene spiegato all’undercover, sarebbe stato «saldato mediante la cessione a Angel [uno dei capi degli Urabeños] alcuni immobili nel napoletano.

A giugno i bulgari si rifanno avanti, con un ordine di 60 chili. I finanzieri li seguono fino a Roma, ma lì ne perdono le tracce. Non hanno voluto fermarli e sequestrare la droga: si sarebbe preclusa la possibilità di indagare l’organizzazione criminale transnazionale e la possibilità di sequestrare carichi più grossi.

La pazienza premia: questo primo carico non è altro che una «prova generale» di una spedizione molto più grande.

La taglia su Jobanis de Jesus Avila Villadiego, detto Chiquito Malo, alla guida degli Urabeños

Quattro tonnellate di polvere

La Fiscalìa 42, infatti, informa gli italiani che un grande carico di cocaina è in preparazione: si parla di circa 1800 chili «che il cartello avrebbe deciso di destinare nuovamente al mercato italiano». Quasi due tonnellate, che secondo i narcos potrebbero essere facilmente distribuite in Italia, con lo stesso meccanismo usato per i primi 300 chili.

«C’è stata una progressione in cui i colombiani promettevano di inviare prima 1800 chili poi 2000 e poi si è arrivati fino a 4000 e a quel punto ci siamo mossi per organizzare la consegna controllata», spiega il comandante del Gico Iannicelli.

E così alla fine dalla Colombia (sempre con consegna controllata) a ottobre 2021 partono 4080 chili, il doppio di quanto ipotizzato. Una montagna di cocaina, con picchi di purezza fino all’85%.

Con le stesse modalità della prima spedizione, l’agente sotto copertura recupera la droga e aiuta i colombiani a smerciarla, consegnando ai clienti in Italia partite da non meno di 500 chili l’una.

A metà dicembre l’agente sotto copertura viene infatti contattato da un gruppo albanese, interessato a comprare 1800 chili di cocaina in tre consegne.

La procura di Trieste ha già tessuto la sua tela: i primi 600 chili vengono caricati il 20 gennaio 2022 in un camion sloveno in un magazzino gestito da finanzieri undercover. Ignaro, l’autista porta il camion in un capannone alle porte di Roma dove verrà arrestato assieme a chi era venuto per ritirare la cocaina.

La droga non interessa solo alle organizzazioni criminali straniere. Infatti a dicembre 2021 l’undercover viene contattato da Francesco Megna, referente di un’organizzazione calabrese che aveva concordato direttamente con il Clan Del Golfo un ritiro di 500 chili a 24mila euro al chilo, un ottimo prezzo.

Dall’incrocio tra le chat cifrate e le conversazioni ascoltate dall’undercover si capisce che Megna fa parte di un’organizzazione di narcotrafficanti di matrice ‘ndranghetista guidata da tale “Jio Scotti” (questo il nickname nelle chat).

Il mese successivo, lo stesso giro di narcos torna alla ribalta. “Jio Scotti” chiede all’infiltrato di incontrare un altro suo uomo, un giovane narcotrafficante di San Luca, che dovrà ritirare un’altro carico. Seguendolo, il Gico arriverà fino al suo capo, il misterioso “Alexander”, che solo ad aprile viene identificato. È un romano di nome Rossano Sebastiani, direttamente in contatto con i colombiani. Classe 1975, Sebastiani ha precedenti per associazione a delinquere e traffico di stupefacenti. Viene arrestato la prima volta nel 2006, perché membro di una banda che distribuiva cocaina importata dalla Spagna fra Roma e Viterbo. E poi ancora nel 2015, con oltre mille chili di droga fatta arrivare dal Brasile per la ‘ndrangheta.

Parla con l’undercover solo tramite chat cifrata, la app Surespot, e racconta come lui e “Jio Scotti” facciano capo «ad un’unica famiglia locale operante nel narcotraffico», il cosiddetto «Gruppo dei Calabresi».

Sebastiani non si dà per vinto, nonostante l’arresto del suo luogotenente sanlucota. Vuole 300 chili e così Pedro, uno dei capi del Clan del Golfo, gli organizza un incontro con i logisti triestini (ovvero gli undercover). Nel convincere l’undercover, Pedro si lascia sfuggire dettagli fondamentali: Sebastiani e i calabresi lavorano per la stessa organizzazione, e così anche Antonio Prudente dalla Colombia.

Rossano Sebastiani in posa a Medellin, Colombia, nel 2020 – Foto: Facebook

Ai primi di maggio di quest’anno il Gico viene a sapere che Sebastiani è in viaggio con un colombiano, in taxi, dalle parti dell’aereoporto di Ciampino. La GdF di Trieste, coordinata dal colonnello Leonardo Erre, decide di chiudere il cerchio e manda gli agenti a braccarlo. Ma a casa sua c’è solo la madre. Eppure dalla cellula risulta nei paraggi: i finanzieri scavalcano un cancello, trovandosi di fronte un bed & breakfast. A difenderne l’ingresso, due grossi pastori maremmani. Stanno per aggredire gli agenti quando in accappatoio, calmissimo, esce Sebastiani. Sono le nove di mattina, ha già sentito il notiziario: «Siete qui per me». Ha però una richiesta, se mi volete vivo non portatemi al carcere di Rebibbia. Deve dei soldi ad una grossa organizzazione di narcotrafficanti romani, connessa alle guerre di mafia della capitale.

Prudente resta invece latitante, come gli esponenti degli Urabeños.

Uno yacht al largo della Costa Smeralda - Foto: IrpiMedia

Un dettaglio di come veniva nascosta la merce. A destra la Guardia di finanza mostra un carico sequestrato

Via del Rimessaggio nel comune di Arzachena - Foto: IrpiMedia

I pugliesi, gli albanesi, gli sloveni e i bulgari invece sono stati tutti catturati, uniti da uno stesso destino pur essendo di gruppi slegati tra loro. «Gli acquirenti entravano direttamente in contatto con i colombiani e non si conoscevano tra loro», spiega Iannicelli a IrpiMedia.

«Normalmente l’arresto viene fatto contro i primi broker che si presentano. Gli altri candidati acquirenti spariscono perché mangiano la foglia», ha spiegato in un’intervista Antonio De Nicolo, Procuratore capo di Trieste.

Per questo, in un anno e mezzo ci sono state 19 consegne controllate che hanno permesso di tracciare gli acquirenti, e di volta in volta sequestrate la cocaina e arrestare i narcotrafficanti con delle specifiche ordinanze di custodia cautelare che il pm Federico Frezza man mano chiedeva al gip di spiccare. Un’indagine che ha richiesto una continua capacità di adattarsi, fra l’imprevedibilità di ogni consegna, il timore per la sicurezza degli undercover e vere e proprie scene da film: pedinamenti, droni, pistole in pugno. Ma la partita non è ancora chiusa, restano da fare gli arresti nella giungla colombiana e capire chi fosse “Jio Scotti”.

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Edoardo Anziano

Editing

Giulio Rubino

Box

Raffaele Angius

Malta, la grande scommessa di Iosif Galea

17 Giugno 2022| di Edoardo Anziano

Durante la notte tra il 14 e il 15 maggio i Carabinieri hanno arrestato a Cellino San Marco, in provincia di Brindisi, il consulente maltese di società di gioco d’azzardo online Iosif Galea. Circa un anno fa era stato raggiunto da un mandato di arresto internazionale per evasione fiscale, spiccato in Germania. La sua cattura è diventata di dominio pubblico a fine maggio, quando il Times of Malta ne ha dato per primo notizia, mentre in Italia il nome dell’arrestato è stato a lungo omesso, visto che dalle fonti di polizia giudiziaria non sono mai arrivate conferme sull’identità. La cattura ha fatto molto clamore sull’isola: tra il 2007 e il 2013 Galea è stato il responsabile della compliance per l’Autorità di vigilanza maltese su lotteria e settore dell’azzardo, poi diventata Malta Gaming Authority (MGA) nel 2015. Nel 2021 gli è stata comminata una multa di 53.333 euro per esercizio di attività commerciale non autorizzata nel settore dei servizi alle società dalla Malta Financial Service Authority, l’autorità di vigilanza del mercato a Malta.

Galea è uno dei nomi più conosciuti (e chiacchierati) dell’industria dell’azzardo maltese, settore diventato talmente importante nell’economia dell’isola da pesare circa il 13% del Pil (2 miliardi di euro) dopo 15 anni dall’apertura del mercato. Almeno dal 2015, però, l’autorità di vigilanza maltese è sotto i riflettori delle procure internazionali per presunte infiltrazioni mafiose nel settore del gioco online, operazioni di riciclaggio, schemi di evasione fiscale e frodi.

Uno scandalo politico

Secondo quanto riporta il Times of Malta, al momento dell’arresto Galea si trovava in vacanza in compagnia di Joseph Muscat, ex premier laburista maltese eletto nel 2013 e costretto a dimettersi nel 2020 a seguito di uno scandalo che ha visto adombrare il coinvolgimento del suo ex capo di gabinetto nell’omicidio di Daphne Caruana Galizia (il processo per l’omicidio della giornalista è ancora in corso). Insieme a Muscat e Galea, a Cellino San Marco c’era anche l’ex first lady maltese Michelle, e la sua amica Maria Grech, l’attuale fidanzata di Galea. «Il signor Galea è stato negli scorsi mesi il fidanzato di un’amica di lunga data che si trovava nel gruppo – ha dichiarato Muscat al Times of Malta. Stavamo viaggiando in un gruppo vasto, di amici e conoscenti, per una breve vacanza. Dopo alcune ore dal nostro arrivo siamo stati informati che il signor Galea è stato arrestato. Il resto del gruppo ha continuato la vacanza e ha fatto rientro qualche giorno dopo a Malta, come previsto».

Al di là della presenza di Muscat, a Malta il caso è diventato uno scandalo politico perché a Galea è stato concesso di uscire dai confini nazionali «almeno due volte», dice l’agenzia Italpress, nonostante il mandato d’arresto internazionale nei suoi confronti. A Malta è stata lanciata un’inchiesta per capire come questo sia stato possibile ma il giudice assegnato – il pensionato (dal 2003) Franco Depasquale, 84 anni – secondo The Shift è sempre stato molto debole nel condurre le indagini, specialmente quando riguardavano le istituzioni maltesi.

Dieci giorni dopo il suo fermo in Italia, il 25 maggio, anche Malta ha spiccato un altro mandato d’arresto europeo nei confronti di Galea, con l’obiettivo di ottenere in custodia Galea. Da procedura, in teoria il consulente dovrebbe prima essere estradato in Germania per affrontare il processo e poi a Malta. Qui Galea sarebbe coinvolto in un sistema di estorsioni e compravendita di dati all’interno della Malta Gaming Authority, secondo le prime notizie emerse dal tribunale di Malta. Galea sarebbe stato informato delle attività della MGA da Jason Farrugia, funzionario dell’authority fino a prima di dicembre 2021 che avrebbe ricevuto 130.600 euro suddivisi in 177 pagamenti da Galea.

L’ipotesi degli investigatori è che Farrugia acquisisse in modo illecito dei documenti interni della MGA e li rivendesse a terzi, tra cui Galea. Anche l’ex amministratore delegato della MGA, Heathcliff Farrugia, è finito sotto indagine con l’accusa di traffico di influenze per via di alcune conversazioni con il presunto mandante dell’omicidio di Daphne Caruana Galizia, Yorgen Fenech, il quale è anche proprietario del casinò di Portomaso, una delle attrazioni dell’isola.

Il Dalligate

«U Iosif ukoll! Ara x’kumbinazzjoni!», «E anche Iosif, che combinazione!», commentava Daphne Caruana Galizia sul suo blog nell’ottobre del 2012. Nel post la giornalista ha pubblicato una foto con John Dalli, allora Commissario europeo per la salute e la politica dei consumatori e Silvio Zammit, popolare ristoratore a Malta e all’epoca una sorta di assistente personale di Dalli. Insieme a loro c’era una terza persona: Iosif Galea. I tre si trovavano in vacanza in Italia.

Nel dicembre 2012 Dalli ha dovuto lasciare il posto da commissario europeo in seguito a uno scandalo passato alla storia come Dalligate. Nel maggio 2012 il produttore di snus – tabacco da masticare illegale in tutta la Ue tranne in Svezia – Swedish Match aveva inviato una lettera alla Commissione europea per accusare l’amico di Dalli, Silvio Zammit (morto a febbraio 2022) di aver usato i suoi contatti con l’allora commissario per ottenere una tangente da 60 milioni di euro in cambio della revoca del divieto di vendere snus.

L’Ufficio antifrode dell’Unione ha aperto un’indagine, concludendo che Dalli sarebbe stato a conoscenza del tentativo di Zammit di intascare la mazzetta e non avrebbe fatto niente per impedirlo. Dalli ha sempre negato qualsiasi accusa, ma si è anche dimesso da Commissario alla salute dopo la richiesta del Presidente della Commissione Josè Manuel Barroso.

Secondo quanto scritto da Daphne Caruana Galizia, Galea sarebbe stato «uno dei cospiratori al centro dello scandalo John Dalli». Avrebbe infatti avvisato l’imprenditore Zammit dell’indagine dell’antifrode, dopo averlo saputo da una teste chiave nella vicenda Delligate con cui aveva una relazione. Galea si dichiarava «collaboratore» di Zammit in quegli anni.

I Tegano a Malta

Quando sono emersi gli investimenti di gruppi riconducibili a clan mafiosi nel settore del gioco d’azzardo maltese, dieci licenze per le scommesse ogni 200 erano di proprietà di italiani, secondo i dati forniti all’epoca dalla Malta Gaming Authority. Era il 2015. Secondo quanto ricostruito quell’anno dall’operazione Gambling, coordinata quell’anno dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, Iosif Galea è stato uno dei consulenti che ha lavorato con persone legate alla cosca di ‘ndrangheta Tegano. La Dda all’epoca non era stata in grado di identificarlo ma il suo nome compariva inizialmente nella lista degli indagati. Insieme a lui, tra gli indagati non identificati, c’erano anche i due maltesi Kevin Mallia e David Gonzi, quest’ultimo figlio dell’ex premier nazionalista Lawrence, che nel 2004 ha lanciato il settore del gioco d’azzardo nell’isola. I tre non sono stati rinviati a giudizio.

A partire dal 2012, il gruppo criminale legato ai Tegano ha operato attraverso la Betsolution4u Ltd, una società maltese a cui facevano capo numerosi siti di scommesse. Galea all’epoca dei fatti era amministratore della società, mentre Gonzi, attraverso la GVM Holding Ltd, controllava il gruppo della Betsolution4u.

Come scriveva la Gip Caterina Catalano nelle carte di Gambling, la Betsolution4u – insieme ad altre società – serviva come «schermo giuridico» dietro al quale si muoveva parte del sodalizio criminale. Un filone processuale ha portato alla condanna definitiva di sei imputati che lavoravano per le cosche nel 2021. A maggio 2022 la Corte di appello di Reggio Calabria ha invece riformulato altre condanne, ma ha sostanzialmente confermato la parte più rilevante dell’impianto accusatorio, seppur con diverse assoluzioni.

Secondo i documenti del registro imprese di Malta, Galea è stato anche direttore della Bet Passion Limited, un’altra società in cui si ritrovano – a vario titolo – i nomi di diversi indagati nell’operazione Gambling e della Take Five Limited, una società non più attiva dal 2020.

Della Take Five Limited era azionista la Fast Run Limited, di cui è tuttora unico azionista e rappresentante legale il crotonese Antonio Pantisano Trusciglio. Almeno fino al 2016, azionista della Fast Run era la GVM Holding di David Gonzi, anche lui indagato insieme a Galea e Trusciglio nell’operazione Gambling. È l’unica società ancora attiva del vecchio gruppo riconducibile ai Tegano. Pantisano Trusciglio non ha risposto alle richieste di commento mandate via email e non è stato possibile rintracciarlo al telefono. Nemmeno suo padre Aldo, anch’egli coinvolto nell’inchiesta Gambling e socio in affari di Antonio, ha voluto rispondere alle domande di IrpiMedia. Trusciglio junior nel 2021 è stato condannato a 2 anni e 9 mesi nell’ambito di Game Over, uno dei primi processi che ha indagato gli interessi di cosa nostra nel settore del gaming. Anche in questo caso, Malta veniva utilizzata come sede legale dei marchi di scommesse.

Infine c’è la OIA Services Limited, sempre maltese, di cui Galea è stato direttore per poco meno di un anno, tra novembre 2014 e agosto 2015. Proprio dal 2015, secondo la DDA di Reggio Calabria, la OIA Services – proprietaria di alcuni marchi di scommesse – avrebbe fatto parte del patrimonio dell’imprenditore Antonio Ricci, arrestato a Malta ed estradato in Italia a seguito dell’operazione Galassia. Ricci era coinvolto in un business di scommesse illegali che avrebbe stretto accordi con la cosca di ‘ndrangheta Tegano. Fra il 2015 e 2016, la OIA Services avrebbe omesso di dichiarare ricavi per 440 milioni di euro in Italia. Galea non è stato indagato, mentre la OIA Services ha confermato la totale estraneità ai fatti dell’attuale proprietà.

Foto: Omaggi a Daphne Caruana Galizia deposti lo scorso ottobre sul luogo dove fu assassinata nel 2017 – Foto: Joanna Demarco/Getty
Editing: Lorenzo Bagnoli

Maluferru, il narco dei tre continenti

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Maluferru, il narco dei tre continenti

Cecilia Anesi
Margherita Bettoni
Giulio Rubino

Fin da ragazzo Giuseppe Romeo, detto “Maluferru” e di professione narcotrafficante per la ‘ndrangheta di San Luca, ha avuto una fissazione per i cartelli messicani. In particolare si narra sia un grande fan dei Los Zetas, uno dei più sanguinari cartelli della droga del Messico, famoso per decapitazioni, bombe e violenti attacchi contro altri narcos e lo stesso esercito messicano. Quando si tratta di difendere i propri affari però, nonostante la dettagliata conoscenza dei metodi dei narcos del Sud America, Maluferru e i suoi fratelli non sembrano però mostrare paura.

È infatti quasi leggenda il racconto di come in nord Europa il gruppo di fuoco di Maluferru abbia affrontato gli uomini di un cartello messicano in una sparatoria per strada, mettendoli in fuga. «I messicani si sono spaventati dei paesani miei», racconta in un dialogo intercettato nel 2016 tra altri due narcotrafficanti calabresi. Giuseppe Romeo è cresciuto con un solo esempio da seguire: suo padre Antonio detto “Centocapelli”, che a San Luca aveva guidato il clan Romeo-Staccu fino al suo arresto nel 1997 e alla successiva condanna a 30 anni.

“Maluferru” letteralmente significa “pistola cattiva” ma è un soprannome che induce timore e intima rispetto. Giuseppe Romeo non è però solo un pistolero: è un criminale astuto, che ogni mattina si informa sul “nemico”, ovvero sulle operazioni di polizia, e che per proteggersi «conosce il codice penale a memoria», racconta chi lo conosce.

Pur essendo il più giovane di tre fratelli è senza dubbio diventato, a partire dal 2008, un importante perno per l’import di cocaina dell’intera ‘ndrangheta: aveva a disposizione contatti sicuri in America Latina per rifornirsi di cocaina, e altrettanti nei porti del nord Europa per gestire l’arrivo dei carichi.

Un puzzle di operazioni di polizia racconta come si procurasse la cocaina a ottimi prezzi in Colombia o in Brasile, la faceva passare per la Costa d’Avorio, e poi fino ai moli di Anversa, Amburgo o Rotterdam. Per ogni tappa del percorso aveva in mano un contatto chiave pronto a lavorare per lui, e ha messo in atto tutti i trucchi del mestiere per nascondere i carichi di droga in spedizioni apparentemente innocue, fino a diventare a tutti gli effetti uno dei più importanti trafficanti che la ‘ndrangheta abbia mai avuto a disposizione.

In questa serie di due puntate, firmata da IrpiMedia e OCCRP, vedremo come funziona la rete del narcotraffico della ‘ndrangheta dall’interno. Il primo capitolo ha raccontato ciò che avviene in Europa, una volta che la cocaina è arrivata; questa seconda parte invece guarda al lato più internazionale dell’organizzazione, attraverso le storie di alcuni dei suoi maggior broker, fornitori e i porti dove la corruzione permette ai narcos di non fermarsi mai.

Emerge così una rete composta da cartelli di diverse nazionalità: albanesi, rumeni, serbi, colombiani, messicani e brasiliani attivi in diversi porti come Rotterdam e Anversa che lavorano con e per la ‘ndrangheta tanto in Europa quanto in America Latina e in Africa occidentale.

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La sua ascesa è stata però bruscamente interrotta. L’11 marzo scorso infatti l’Interpol lo ha arrestato a Barcellona, con l’appoggio della Guardia Civil spagnola e della polizia italiana. Due mesi dopo, alcuni dei suoi clienti principali, i Giorgi alias Boviciani di cui abbiamo scritto nella prima parte di questa inchiesta, sono stati arrestati nel corso dell’operazione Platinum. Già condannato in primo grado a vent’anni in contumacia, Giuseppe Romeo è stato estradato in Italia e ora deve affrontare ben due processi.

Giuseppe Romeo e altre persone citate in questo articolo sono accusate di narcotraffico internazionale per conto della ‘ndrangheta. Il legale di Romeo fa sapere che il suo cliente sostiene la propria estraneità ai reati contestati, sia per i procedimenti in corso sia per la condanna per narcotraffico già ricevuta.

La storia della carriera di Romeo non è solo un profilo personale, bensì un puzzle che rivela ciò che è oggi il sistema internazionale del narcotraffico della ‘ndrangheta. Partendo da San Luca, i narcos calabresi riescono a essere presenti in tutti i luoghi nevralgici, dall’Europa al Sud America passando per l’Africa: i porti di Anversa, Rotterdam, Santos, Cartagena, Abidjan.

Questa è una storia dove, come in un carosello, compaiono le città di Torino, Barcellona, Amsterdam, Genk, Buenos Aires. E compaiono con un volto diverso rispetto a quello a cui siamo abituati. Qui, tra vicoli settecenteschi, canali fioriti e ristoranti aperti nelle zone più esclusive, si muove la ‘ndrangheta. In silenzio, stringendo mani, muovendo tonnellate di cocaina, guadagnando milioni.

Dal Belgio al resto del mondo

Giuseppe Romeo, oggi 35enne, ha commesso il primo reato a 16 anni, quando viveva ancora a San Luca. Crimini semplici, frode e ricettazione, che però hanno avviato una carriera criminale comune a pochi. A 22 anni era già un trafficante in carriera, noto alle forze dell’ordine, ma è nel 2016 che comincia davvero ad affermarsi come un importante pezzo dello scacchiere del narcotraffico internazionale.

In quegli anni Romeo faceva parte della cosiddetta “Banda del Belgio”, assieme ai suoi fratelli Domenico e Filippo e ad Antonio Calogero Costadura, un altro narcotrafficante italo-belga nato a Genk.

Il nome della banda è un po’ riduttivo. I quattro operavano ben oltre il Belgio: dall’Olanda, dove ricevevano le spedizioni di cocaina dal Sudamerica, fino al resto d’Europa dove avveniva la distribuzione. E poi ancora, Maluferru “saltava” i confini di continuo, vivendo un pò in Germania, un pò in Italia, un pò in Spagna. Sembrava conoscere bene i rischi del mestiere, e, a parte pochissimi contatti fidati, si teneva alla larga da tutti, anche dal resto dei broker della droga. Una strategia che l’ha aiutato a restare latitante mentre altri “colleghi” finivano in manette uno dopo l’altro.

È solo nel 2018, con l’operazione Pollino, che le forze dell’ordine cominciano ad intaccare la rete di Romeo. L’indagine ha portato al sequestro di 4 tonnellate di cocaina e a circa 90 arresti, tra affiliati alla ‘ndrangheta e soci stranieri, compresi i suoi due fratelli.

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Ma lui, Maluferru, resta inafferrabile, diventando quasi una leggenda urbana tra i narcos italiani. Addirittura uno dei suoi clienti, intercettato, racconta ammirato di come sia stato «fregato solo una volta» (dalle forze dell’ordine) quando gli vengono sequestrati 18 panetti di cocaina in un magazzino a Milano.

Quando Guardia di finanza, polizia e forze dell’ordine tedesche e olandesi lanciano Pollino, a dicembre 2018, vanno a cercarlo al suo indirizzo ufficiale di residenza, una abitazione a Kierspe, cittadina vicino a Colonia, in Germania. Maluferru però non c’è. Alle autorità resta in mano un pugno di mosche: un ristorante che, ritengono, fosse suo.

Nel frattempo però, altre due indagini di polizia, una della Direzione Distrettuale Antimafia di Torino e un’altra delle controparti di Genova e Napoli, cominciano a stringere il cerchio attorno al fantasma sanlucota.

La prima, detta Geenna, ha portato a dicembre 2018 all’arresto di due “colleghi” di Giuseppe Romeo, i fratelli Bruno e Giuseppe Nirta, della ‘ndrina Nirta Scalzone. La seconda indagine invece, detta Spaghetti Connection, ha portato alla luce due punti chiave della rotta che riforniva Maluferru: San Paolo in Brasile e Abidjan, la capitale della Costa D’Avorio, tappa intermedia di primaria importanza nel percorso che dal Brasile arriva ad Anversa per il trasporto di cocaina.

Piani fluidi

Prima che gli inquirenti cominciassero a raccapezzarsi rispetto ai movimenti di Romeo, questi aveva già ammassato una fortuna e si era costruito un’agenda di contatti da far invidia a qualsiasi narcotrafficante del mondo.

Fra i più importanti, c’erano proprio i fratelli Giuseppe e Bruno Nirta che con Romeo condividevano un pied à terre comune: la Costa Brava, luogo prediletto sia per la garanzia di riservatezza sia per l’importanza logistica. È qui infatti che stazionano emissari di vari cartelli di fornitori, come i colombiani e i marocchini.

Correva l’anno 2016 e Giuseppe Nirta viveva stabilmente in Spagna, mentre Bruno – capolocale della ‘ndrangheta ad Aosta – si spostava fra la Costa Brava, Torino e San Luca. In Catalogna si appoggiava presso la casa di un francese di origini siciliane, commerciante di ostriche a Marsiglia, descritto però da un pentito come gestore di bordelli.

Maluferru invece aveva un appartamento in un anonimo condominio dove viveva assieme alla compagna colombiana e a Vincenzo Macrì, latitante del Siderno Group of Crime all’epoca ancora in fuga dopo l’operazione Acero-Krupi, che l’aveva incastrato per un traffico di cocaina gestito dal mercato dei fiori di Aalsmeer, in Olanda.

L’appartamento l’avevano scelto a Calella, cittadina di mare vicino a Barcellona e parte del “triangolo caldo” del narcotraffico assieme a Blanes e Lloret del Mar, tre località usate da Romeo e dai Nirta per incontrare compratori e fornitori.

Qui infatti il trio aveva incontrato Gabriele Biondo, detto “El Italiano”, e considerato il più potente narcotrafficante della Costa Brava. Biondo, fornitore anche della Camorra e della mafia russa, è stato arrestato nel 2019 nell’ambito di un’operazione dell’antidroga statunitense ed estradato negli Stati Uniti. A Lloret del Mar però se lo ricordano per un altro motivo: ha rischiato la morte in una sparatoria da film, quando un sicario in moto ha sparato all’impazzata contro l’auto in corsa con dentro Biondo, il figlioletto e la moglie. Biondo è sopravvissuto ma in ospedale ha giurato vendetta. Il sicario è stato ucciso poco dopo con un’autobomba.

Dietro ogni narco, ci sono tre grandi donne

Per quanto i protagonisti più famosi del narcotraffico siano sempre uomini, Giuseppe Romeo non sarebbe mai arrivato alle vette del potere se non fosse stato per tre donne, ognuna proveniente da un mondo diverso, e ognuna in grado di far fare a Maluferru un salto di qualità nel suo lavoro.

In primo luogo, a San Luca, si è assicurato un posto fra le famiglie più “dinasticamente” importanti della zona sposando una donna di padre Strangio-Jancu e madre Mammoliti-Fischiante, due delle ‘ndrine più potenti.

Nel frattempo ad Anversa, gli inquirenti di Pollino ritengono che Romeo si appoggiasse per la gestione delle finanze a una donna cinese imparentata con “Coco”, fidanzata cinese di suo fratello Domenico.

Nelle carte dell’operazione Pollino si legge come l’appartamento di Coco venisse usato dalla Banda del Belgio come base logistica, ma che la donna avesse anche un altro indirizzo utile ai Romeo, nel quartiere a luci rosse di Anversa. Mascherato da centro estetico, secondo gli inquirenti sarebbe stato usato dai narcos come luogo da cui organizzare il trasporto di cocaina. Di fronte infatti c’era un parcheggio multipiano dove venivano caricati i doppi fondi delle auto dirette in Italia.

Ma la cosa fondamentale era un’altra. L’ipotesi è che le due donne cinesi abbiano garantito ai Romeo l’accesso a un sistema informale di trasferimento di denaro simile ad un “hawala”.

Un sistema geniale, su cui gli inquirenti si stanno ancora arrovellando, perchè non lascia tracce di transazioni economiche. Infatti, con il money-transfer gestito da questo gruppo di cinesi, i soldi non si spostano più: per pagare un carico e inviare denaro dall’Europa all’America Latina basta consegnare contanti ai gestori del sistema ad Anversa, ad esempio, i quali chiamando un partner cinese a, supponiamo, Città del Messico, garantiscono che la stessa somma venga consegnata in contanti al fornitore messicano.

Si sospetta che questo sistema sia gestito a livello centralizzato, con una holding economica probabilmente di base in Cina, ma con conti attivi in tutto il mondo e a cui sono legati i vari centri bellezza o negozi di facciata.

Un altra donna di importanza cruciale nella vita di Giuseppe Romeo è la compagna colombiana, quella che viveva con lui a Barcellona già dal 2016, e che gli inquirenti sospettano possa avergli fornito contatti tanto in Colombia quanto in Spagna.

Quel che è certo è che la donna gli ha offerto una facciata di legalità. OCCRP ha scoperto come da gennaio 2021 la donna abbia aperto una immobiliare nell’elegante quartiere di San Gervasi a Barcellona. All’indirizzo però c’è solo un appartamento residenziale dove «vivono due latinoamericane», dicono dei vicini che ricordano la recente visita della polizia.

L’agenzia immobiliare però due proprietà a Barcellona le ha acquistate davvero. Sono due appartamenti nel famoso barrio gotico, in un vicolo che fa angolo con Las Ramblas. Ad una prima occhiata i graffiti che coprono il portone restituiscono un senso di decadenza, ma dietro si cela un gioiello nascosto. L’edificio è del 1700 e gli appartamenti sono disposti attorno ad una corte interna decorata da colonne. Un investimento che in pochi si possono permettere.

Le poche informazioni disponibili sulle attività di Maluferru e dei Nirta in Costa Brava non vengono dalle intercettazioni bensì da un pentito, Daniel Panarinfo, che ha deciso di affidarsi alle autorità dopo aver perso un importante carico di cocaina che doveva andare a Nirta.

Scagnozzo di Bruno Nirta a Torino, Panarinfo ha raccontato di essere stato alcune volte a Barcellona e dintorni per aiutare il suo capo con la logistica del narcotraffico. Avevano in programma, racconta ai magistrati, di organizzare un traffico di cocaina liquida dall’Argentina alla Costa Brava grazie alla partecipazione di un imprenditore catalano che, proprietario di import-export di succhi di frutta, poteva offrire una copertura.

“Xavi”, l’imprenditore catalano, vantava contatti con narcos colombiani già avviati nel passato nonchè una chiara idea per la logistica.

Con un invitante prezzo di 12-13 mila euro al chilo, la cocaina liquida avrebbe viaggiato in barili di succo di frutta. Consegnata in un porto spagnolo, dove una gang di albanesi poteva facilmente farla uscire evitando i controlli, e da lì trasportata fino ad un magazzino appena fuori Barcellona, un chimico, tale Companero, l’avrebbe estratta e solidificata.

L’operazione Geenna non chiarisce se il piano sia stato messo in atto, ma “Xavi” risulta tuttora proprietario di una serie di aziende di import-export di succhi di frutta. Stando alle dichiarazioni di Panarinfo, al di là della collaborazione con i Nirta, Maluferru in quegli anni lavorava già a testa bassa per garantirsi forniture di cocaina. Da una parte si riforniva in Belgio, dagli Aquino di Maasmechelen che a loro volta godevano di ottimi contatti in Colombia e di un sistema di scarico molto ben rodato fra i porti di Anversa e Rotterdam. Da un’altra, Maluferru si riforniva dai cartelli messicani.

La prova sarebbe una partita di 170 chili di cocaina stoccati a Saronno, dove Romeo avrebbe ospitato gli stessi messicani. A gestire ospitalità e fare da magazziniere per lui era un certo “Pitti”, braccio destro di Maluferru e suo unico uomo di fiducia. Resta un fantasma per molto tempo, Pitti, fino a quando non spunterà molto più a Sud – in Africa – come vedremo nel prossimo capitolo.

Intanto però, anche a Romeo e Pitti ogni tanto un intoppo capitava. Romeo in persona avrebbe raccontato a Panarinfo come un commando in passamontagna avrebbe sfondato la porta dell’appartamento di Saronno una mattina alle cinque, rubandogli ben 70 chili della fornitura dei messicani. Intoppi che non hanno di certo fermato Romeo, pronto a infilarsi il mappamondo in tasca.

L’ingresso nel club dei grandi

Con lo scarico ad Anversa garantito sia dal rapporto con gli Aquino che dagli alleati di un altro clan di San Luca attivo in Belgio, i Fracascia, Romeo può concentrarsi a migliorare i suoi contatti con i fornitori, facendosi spazio in giri sempre più importanti.

Gli viene in aiuto l’alleanza con il clan reggente del mandamento, ovvero i Pelle-Gambazza, che nel frattempo avevano messo in piedi una solida base operativa in Argentina. Gli inquirenti ritengono sia grazie a loro che Maluferru guadagna il contatto con Rocco Morabito, uno dei più importanti broker della ‘ndrangheta fino al suo più recente arresto in Brasile, lo scorso maggio.

La rete intercontinentale di Giuseppe Romeo

Morabito, detto ‘U Tamunga, è famoso per aver stabilmente rifornito la ‘ndrangheta di cocaina da latitante in America Latina fin dal 1994. Catturato in Uruguay nel 2017, due anni dopo evade di galera clamorosamente, anche grazie all’aiuto del clan Pelle. Morabito poteva contare su diversi fornitori nel subcontinente Latinoamericano, compresi i colombiani del clan del Golfo, un gruppo paramilitare di estrema destra.

In aggiunta e grazie anche, loro malgrado, ai Giorgi-Boviciani, Maluferru entra poi in affari con Nicola Assisi, che assieme al figlio Patrick ha gestito una delle più importanti rotte del narcotraffico dal Brasile, grazie a un patto di ferro con il PCC, il Primeiro Comando da Capital, il cartello dominante a San Paolo, Brasile.

Il PCC ha da sempre rapporti tanto con le FARC in Colombia, quanto con produttori più piccoli in Perù e Bolivia, ma soprattutto tiene sotto controllo un importante rotta interna al Sudamerica, attraverso le praterie del Paraguay fino alla triplice frontera e il fiume Paranà.

Con tutti questi contatti a disposizione, l’organizzazione di Maluferru è al massimo del proprio potenziale. Anche la fortuna sembra assisterlo, tanto che non appena gli Assisi finiscono in manette nel 2019, Morabito scappa di galera, lasciando sempre una porta aperta per lui.

Ma a parte i colpi di fortuna, Giuseppe Romeo ha lavorato sodo per avere successo. Al contrario di quasi tutti i suoi clienti, compresi i Giorgi-Boviciani, Romeo stava particolarmente attento anche alla sicurezza informatica dei propri dispositibi e al tenore delle conversazioni telefoniche. «Tipo lui compra dieci telefoni che durano sei mesi ciascuno no? E ne dà uno a quello, uno a quello, e uno a quell’altro e uno se lo tiene per lui. Poi con quel contatto suo glielo dà ad un altro e si prende quello di quell’altro. Così si confondono le indagini», racconta un sodale intercettato nel corso dell’operazione Pollino.

Purtroppo per Maluferru però, il resto dell’entourage cantava ad alta voce. Gli inquirenti hanno infatti potuto scoprire molto sul suo conto, acquisendo dettagli “di seconda mano”, grazie alle conversazioni di fornitori e acquirenti meno attenti.

Container frigo e rip-off

Quasi tutta la cocaina del mondo proviene da Colombia, Bolivia o Perù. La maggior parte di quella che arriva in Europa passa per il Brasile, secondo le Nazioni unite. Il porto di San Paolo, Santos, gestisce circa l’80% di questa.

La coca in transito per l’Europa spesso passa per l’Africa occidentale, le Canarie e Madeira prima di arrivare in continente. Negli ultimi anni, la Costa D’Avorio ha assunto una crescente importanza come tappa.

Spesso infatti si cerca di usare rotte indirette, per sfuggire ai controlli a campione, e facendo in modo che il container cambi nave almeno una volta. L’ispettore della polizia belga De Nutte Pim, nella sua tesi di criminologia, indica che anche se questo sistema aggiunge dei rischi lungo il percorso, è piuttosto efficace nel proteggere i carichi alla loro destinazione finale.

Corruzione e altri sistemi di infiltrazione nei porti di transito sono spesso causa di un grave aumento della criminalità in genere nei Paesi utilizzati a questo scopo.

L’uso dei container è il metodo più affidabile e diffuso, riporta anche De Nutte. La droga viene o nascosta fra le merci oppure nella struttura stessa del container. Fin dal 2014 la polizia belga aveva notato diversi sistemi usati per nascondere i mattoni di coca nel telaio stesso del container.

I container refrigerati, detti “refeers”, sono spesso usati quando si deve nascondere il carico nella struttura perché hanno già diversi spessori usati per coibentare il carico. L’introduzione degli scanner a raggi X ha causato alcune complicazioni, ma i trafficanti si sono adattati e ora, circondata spesso da materiali organici, la coca è molto difficile da trovare.

Il carico può infatti essere nascosto direttamente nella frutta, o disciolta in liquidi come olio di palma e poi filtrata.

La cosiddetta tecnica del “rip-off” invece consiste nel nascondere la droga in un container senza che le aziende che inviano o ricevono ne abbiano idea, semplicemente aggiungendo borsoni comodi da spostare rapidamente dentro il container già pieno.

Ad Anversa, il New Fruit Warf, il principale molo dove arriva la frutta, è uno dei punti più caldi per i sequestri. In passato la ‘ndrangheta aveva corrotto diversi lavoratori del porto.

Alcuni trafficanti usano o creano da zero aziende di import-export per avviare traffici, la pratica è tanto comune che la polizia olandese esorta gli operatori del settore a denunciare le aziende che appaiono all’improvviso, specialmente se importano banane.

Spaghetti Connection

Acquisito il contatto con Nicola Assisi, Maluferru può puntare gli occhi all’Africa, e raffinare ulteriormente la rete logistica. Grazie all’accesso a documenti esclusivi, IrpiMedia ha potuto accertare come la sua longa manu si celasse dietro a un piano di importazione di cocaina costato pesanti condanne a quattro napoletani in Costa d’Avorio.

Nel 2018 Maluferru sta cercando di connettere Santos, il porto brasiliano da cui spedisce la cocaina Assisi, all’Africa. La tappa gli serve per un invio di carichi ad Anversa e Rotterdam con meno rischi: i container che trasbordano in Africa vengono controllati meno dalle dogane del nord Europa rispetto a quelli in arrivo dall’America Latina. Grazie a parenti sanlucoti di base a Milano, e connessi ad un giro di farmacie, Maluferru ottiene il contatto con un broker chiave: è un dentista svizzero a fare per lui i primi viaggi gancio, sia in America Latina che in Costa d’Avorio.

Ad Abidjan il dentista si muove con dimestichezza, salta da un contatto all’altro tra ristoratori italiani e imprenditori legati alla camorra, fino a quando non arriva al profilo ideale: Angelo Ardolino.

Imprenditore proprietario di due aziende in loco, una – la A.G.L. sarl – per l’importazione di materiali da costruzione e l’altra per l’importazione di frutta, Ardolino è anche parente acquisito, grazie alla sua compagna ivoriana, di un importante ufficiale delle dogane al porto ivoriano.

Insomma, tutto ciò che serve a Romeo, che nel 2018 si reca di persona ad Abidjan per incontrare Ardolino stesso. Servono permessi di soggiorno per restare nel Paese a lungo però, e così grazie all’intermediazione di una poliziotta locale Romeo ottiene un visto come impiegato della A.G.L. sarl per lui e per i suoi collaboratori di San Luca. Non viaggia infatti da solo Maluferru, ad Abidjan lo seguono Antonio Nirta, l’ultimo dei fratelli Nirta rimasto (Bruno viene arrestato in Geenna e Giuseppe ucciso in Spagna), e una coppia che deve avere confuso un pò l’immigrazione all’aeroporto: due cugini, omonimi, due Giuseppe Giorgi distinti solo dall’anno di nascita, e appartenenti alla stessa famiglia, il clan Giorgi alias Bellissimo. Parenti, quindi, di Maluferru dalla parte della madre. Un legame di sangue fortissimo che per Romeo è una garanzia, infatti uno dei due è il suo fedele “Pitti” – lo stesso che due anni prima si occupava di stoccare la cocaina per lui a Saronno.

Con Nirta e i due Giorgi la squadra è al completo, e con l’aiuto dei napoletani si apre all’importazione di cocaina dal Brasile. Il piano, affinato da Ardolino con un viaggio in Brasile, è semplice: la cocaina si sarebbe nascosta in importazioni di macchine da costruzione.

Il 17 settembre 2018 la polizia federale brasiliana intercetta oltre una tonnellata di cocaina nascosta dentro i rulli dei caterpillar. Ad avere organizzato la spedizione è la Brazilian Ocean Eireli, un’azienda di Jorge Luiz Junior, un brasiliano sospettato di contatti con i narcos del PCC. Secondo gli inquirenti, è plausibile che il carico sia stato organizzato con l’aiuto di Nicola Assisi.

La gang di Maluferru però non dà troppo peso al sequestro, pensando a un colpo di sfortuna, e continua a muoversi in terra africana. Le polizie di Brasile, Italia e Costa D’Avorio a quel punto sono tutte e tre all’erta. In un’operazione congiunta – la cosiddetta Spaghetti Connection appunto – pedinano il dentista in uno dei suoi viaggi ad Abidjan e questi, ignaro, li porterà fino agli uomini di Romeo.

Un passaggio che agli ivoriani non interessa, hanno fretta di chiudere e così il 5 giugno 2019 arrestano i napoletani e altri sodali locali.

Prima di essere presi però, ancora prima del sequestro a Santos, la gang è riuscita a mettere a segno almeno due importazioni tra la Brazilian Ocean Eireli e A.G.L. sarl: nel 2017 e ad aprile 2018. Non vi è conferma della presenza di cocaina, visto che le informazioni doganali arriveranno a posteriori, ma gli inquirenti ritengono ci sia un’alta probabilità che anche questi carichi contenessero droga. Non solo, si ipotizza che anche l’azienda di frutta di Ardolino possa essere servita come copertura, ma è ormai un caso irrisolto. «È stato impossibile provarlo – spiega a IrpiMedia uno degli inquirenti – perchè quando abbiamo iniziato a indagare, il sistema era già attivo da tempo e la magistratura della Costa d’Avorio ha armi spuntate».

Un’impressione artistica di Giuseppe “Maluferru” Romeo

Anche se risparmiato dall’operazione della polizia ivoriana, già da dicembre 2018 le cose per Maluferru si complicano a causa del mandato d’arresto di Pollino. Un punto fermo però ad Abidjan resta, anche senza napoletani. Infatti, il braccio destro di Romeo, “Pitti”, a febbraio 2019 apre una società di import-export con la sede più riservata possibile, una casella postale nell’esclusivo quartiere Marcory di Abidjan. Pronti, insomma, a continuare.

Schizzatissimo e prepotente

Poco più che trentenne, Maluferru era già noto a molti altri narcotrafficanti, anche se non tutti ne avevano una buona impressione. Il collaboratore Panarinfo lo descrive «basso, un po’ stempiato» con «una cicatrice o dei brufoli sugli zigomi, fisico asciutto, capelli biondo cenere e non tanto lunghi».

Alessandro Giagnorio, uno dei corrieri di Romeo arrestato alla guida di un’Audi con 420 mila euro in contanti, lo descrive in termini tutt’altro che adulatori. «Piccoletto, minuto, schizzatissimo, prepotente e maleducato. Quando dico “schizzatissimo” intendo dire che in tre minuti ti diceva tutto quello che dovevi fare, con grande rapidità, parlando con marcata inflessione calabrese, dovevi stare molto attento per capire ciò che diceva».

Maluferru ha una reputazione da mina vagante. “U Pacciu”, il pazzo, era un altro dei suoi soprannomi. Sempre arrogante perché, raccontano di lui, era abituato a essere trattato con deferenza da tutti gli altri affiliati che lo circondavano.

Una volta Romeo aveva mandato Giagnorio ad un ristorante di proprietà di Walter Cesare Marvelli, uomo dei Giorgi-Boviciani, a prendere dei contanti per spese di viaggio. Marvelli, in una conversazione successiva, racconta di come il tono di Maluferru l’avesse infastidito: «Di domenica pomeriggio… ti mando uno fra un’ora da te in pizzeria… gli dai mille euro che è rimasto senza soldi… che arriva dalla Francia». «Io gli ho detto “Ma tu scherzi… io sono in centro a Torino con la famiglia… Oh!! È domenica”».

Per quanto si potessero lamentare l’uno dell’altro, di persona mantenevano un rapporto abbastanza amichevole. Ma già verso la fine del 2018, secondo le intercettazioni contenute nelle carte di Platinum, il rapporto cominciava a rovinarsi inesorabilmente. I Giorgi infatti, che comprando cocaina direttamente da Maluferru in Europa la pagavano a caro prezzo, sospettano che Romeo li stesse fregando. Giovanni Giorgi si lamenta con Marvelli, dice che Maluferru finge di comprare la coca a 27 mila euro al chilo, ma invece «la comprava a 24 e si rubava già tre (intendendo una cresta di tremila euro, ndr)». Lamentele che però non portano i Giorgi lontano. Non solo, più si lamentavano, più la polizia raccoglieva informazioni.

La caduta di Maluferru

Scalando e scavalcando tutto e tutti, seppure giovane Maluferru in vent’anni aveva praticamente lavorato con tutti i più grossi trafficanti del mondo, compresi – a sentire le intercettazioni dei Boviciani – i suoi eroi Los Zetas.

Nonostante il grande successo però, una combinazione di eccesso di arroganza, vulnerabilità dei soci, e duro e costante lavoro di polizia alla fine lo porteranno alla caduta. Maluferru si era fatto una brutta fama di doppiogiochista, e cercava sempre di fare in modo che gli altri fossero in debito con lui. Tali tattiche possono funzionare bene nel breve periodo, ma alla lunga possono ritorcersi contro chi le mette in campo.

Dopo gli arresti dell’operazione Pollino il resto della Banda del Belgio finisce in manette. Maluferru riesce a darsi latitante, ma le prove contro di lui si stanno accumulando. Neanche un anno dopo, cade anche la manovalanza napoletana in Costa D’Avorio.

Una volta arrestato dalla polizia ivoriana, Ardolino ammette di conoscere Maluferru, e dice che quest’ultimo aveva due milioni di euro pronti da investire ad Abidjan. Nelle perquisizioni la polizia trova copia dei documenti dei calabresi, una conferma del loro coinvolgimento diretto. La poliziotta ivoriana ritenuta una mediatrice locale e in seguito assolta dalle accuse, ammette di avere aiutato i calabresi con i documenti e di aver affittato una casa per loro. A febbraio 2021 poi un tribunale ivoriano condanna i quattro napoletani a 20 anni di galera. Il cerchio si stringe, ma Maluferru resta un fantasma.

Alcuni mesi ancora di febbrile lavoro silenzioso – a cercarlo sono i Carabinieri di Torino e la Mobile di Reggio Calabria – e a marzo 2021 la Guardia Civil spagnola è pronta ad arrestare Maluferru, localizzato a Barcellona.

Nonostante tutti i nemici che si è fatto lungo il percorso, tutti gli riconoscono dimestichezza nel mestiere. Anche i Giorgi-Boviciani, pur prendendolo in giro, ammettono.

«Il Nano sai», dice Giovanni Giorgi in una conversazione intercettata nel suo appartamento in Sardegna, «se vuoi lui ce l’ha (la cocaina). Questione di qualche giorno».

«Maluferru», risponde un altro interlocutore, «la piega là sotto (la traffica, ndr) come manco… mancu li cani» – in questo contesto un’espressione usata per intendere “come nessun altro”.

Maluferru in effetti spostava carichi di cocaina “come nessun altro”. Anche i più astuti narcos però a volte cadono, soprattutto quando i loro alleati parlano liberamente, pensando di non essere intercettati. Ed è così che la Guardia Civil lo scova a San Gervasi, Barcellona, l’11 marzo 2021.

«Erano in tanti a volerlo catturare», ha dichiarato a IrpiMedia un ufficiale della Guardia Civil che ha coordinato l’arresto di Maluferru.  «Gli italiani ci avevano avvisato che probabilmente era a Barcellona. E qui lo abbiamo preso».

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Margherita Bettoni
Giulio Rubino

Ha collaborato

Luis Adorno
Leanne de Bassompiere
Nathan Jaccard
Jelter Meers
Benedikt Strunz

Illustrazioni

Mappe

Lorenzo Bodrero

Editing

Brian Fitzpatrick
Luca Rinaldi

Dalla tonnellata al grammo, la rete di distribuzione europea dei Boviciani di San Luca

#NarcoFiles

Dalla tonnellata al grammo, la rete di distribuzione europea dei Boviciani di San Luca

Cecilia Anesi
Margherita Bettoni
Giulio Rubino

Èuna sera di ottobre 2018 e Sebastiano Giorgi sta ballando un lento assieme ad un compare rumeno in un elegante night club di Stoccarda. Le due escort che li accompagnano li guardano dal tavolino ingombro dei resti della cena. Ma il gruppetto ha molta meno privacy di quanto non creda. Sono infatti pedinati da agenti di polizia tedesca, che non li perdono di vista da giorni convinti che siano lì per concludere una compravendita di cocaina. In realtà, quella sera, l’attenzione era tutta sulle escort e sui balli, un giro d’affari del romeno a cui Sebastiano appariva piuttosto interessato.

Le autorità tedesche e le procure italiane infatti, tenevano sott’occhio Sebastiano Giorgi, soprannominato “Bacetto”, da anni. Personaggio emergente nella scacchiera della ‘ndrangheta transnazionale, aveva costruito la sua base operativa nella pittoresca cittadina di Überlingen sul lago di Costanza, dove gestiva un ristorante sul lungolago a due passi dalla piazza centrale.

Bacetto chiaramente era ben più di un semplice ristoratore. Secondo una operazione della Dia (Direzione Investigativa Antimafia) di Torino e della polizia tedesca, battezzata Platinum, la sua vera missione a Überlingen era gestire il ramo nord-europeo di un business milionario di narcotraffico dall’America Latina all’Europa.

È a San Luca, la capitale spirituale della ‘ndrangheta, che origina la famiglia dei Giorgi “Boviciani”, nomignolo per distinguerli dagli altri Giorgi della stessa area. Da questo paesino arroccato nell’Aspromonte, stretto tra le fiumare, i monti e il mare, i Giorgi Boviciani hanno stretto alleanze strategiche con alcune delle più potenti famiglie di ‘ndrangheta, formando un cartello di compratori e distributori di cocaina.

Dalla sua base tedesca Bacetto ha poi esteso la rete alleandosi con gruppi internazionali, come i rumeni e gli albanesi, che volevano entrare nell’affare.

La storia dei Boviciani getta una luce su quello che spesso è un angolo cieco nelle ricostruzioni dei giri di narcotraffico. Infatti secondo le indagini i Giorgi si occupavano tanto di distribuzione “all’ingrosso” quanto di vendite più minute, e le intercettazioni rivelano la relativa differenza di peso e rispetto accordata a ciascun cliente.

La ‘ndrangheta, oramai è noto, ha tentacoli che si estendono ben oltre l’Europa. È stretta alleata dei cartelli colombiani e messicani, ha broker in Paraguay e Uruguay e può contare sull’appoggio del Primeiro Comando da Capital in Brasile. I suoi carichi arrivano in continuazione ai porti di Anversa in Belgio, Rotterdam in Olanda e Amburgo in Germania, spesso facendo tappa sulle coste dell’Africa occidentale.

In questa serie di due puntate, firmata da IrpiMedia e OCCRP, vedremo come funziona la rete del narcotraffico della ‘ndrangheta dall’interno. Il primo capitolo racconta ciò che avviene in Europa, una volta che la cocaina è arrivata, la seconda parte invece guarda al lato più internazionale dell’organizzazione, attraverso le storie di alcuni dei suoi maggior broker, fornitori e i porti dove la corruzione permette ai narcos di non fermarsi mai.

Emerge così una rete composta da cartelli di diverse nazionalità: albanesi, rumeni, serbi, colombiani, messicani e brasiliani attivi in diversi porti come Rotterdam e Anversa che lavorano con e per la ‘ndrangheta tanto in Europa quanto in America Latina e in Africa occidentale.

Il cinque maggio scorso l’operazione Platinum della Dia di Torino, in collaborazione con la Procura di Costanza in Germania, ha portato a 32 arresti in Italia e Germania. «Una brutta giornata per il lato oscuro del potere», per dirlo con le parole del procuratore di Costanza Johannes-Georg Roth.

Per Bacetto le danze erano finite da un pezzo. Ricercato in Italia dal 2012, viveva al sicuro in Germania, ma la rete aveva iniziato a stringersi intorno a lui già quando la Dia aveva scoperto che la famiglia Giorgi stava usando la provincia di Torino come pit-stop per i viaggi tra Calabria e Germania.

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A luglio 2019, pochi mesi dopo la serata all’elegante locale di Stuttgart, Bacetto è stato trascinato dai carabinieri fuori da una Fiat Panda con i vetri oscurati nei dintorni di San Luca. Un parente lo aveva descritto, scherzando, come un pigro: «Si sveglia presto la mattina, poi si prende il caffè e poi si corica di nuovo». Quel giorno di luglio Bacetto era finito come un sonnambulo tra le braccia del posto di blocco.

I Giorgi alias Boviciani

Nonostante la posizione eccellente proprio di fronte alle sponde del Lago di Costanza, il ristorante di Sebastiano Giorgi, il “Paganini”, ha per lo più pessime recensioni. Online si leggono commenti del tipo “insalata terribile” o “pessimo rapporto qualità-prezzo”, anche se un cliente gli concede almeno “camerieri cordiali”.

Ma le recensioni, che posizionano su Tripadvisor il Paganini al penultimo posto su 62 ristoranti a Überlingen, sarebbero forse state meno taglienti se gli autori avessero saputo che il posto era gestito da una ‘ndrina potente e saldamente radicata su quel territorio da almeno un decennio, secondo gli inquirenti.

Mentre le famiglie rivali Nirta-Strangio e Pelle-Vottari erano state indebolite dalla faida di San Luca, culminata con il massacro di Duisburg nel 2007, i clan rimasti fuori dalla guerra erano nel frattempo diventati leader nel narcotraffico mondiale. Sopra a tutti, i Pelle-Gambazza che oggi, assieme ai Barbaro di Platì, comandando il mandamento ionico. E a seguire, sotto di loro, i Romeo-Staccu, i Giorgi-Boviciani e molti altri.

Grazie a legami di sangue con i Romeo, i Boviciani sono riusciti a salire nei ranghi della ‘ndrangheta di San Luca, e a guadagnarsi un posto di tutto rispetto nel business della droga.

I Giorgi di per sè non sono una famiglia storicamente potente, ma sono riusciti a ritagliarsi un fondamentale ruolo di ponte, di cardine, acquistando cocaina da alcuni dei più forti broker del narcotraffico in America Latina e distribuendo grandi quantità a compratori minori, che la rivendevano poi alle piazze di spaccio. Come copertura, i Giorgi avevano una rete di aziende di import-export e di ristoranti. Per trasportare la cocaina dai porti di Spagna e Olanda contavano invece su una rete di distribuzione di frutta fresca.

Il ristorante Paganini a Überlingen, in Germania – Foto: IrpiMedia

Bacetto e suo cognato Sebastiano Signati vivevano principalmente a Überlingen, mentre i suoi tre fratelli, Domenico, Francesco e Giovanni, stavano in Italia, i primi due a San Luca e il terzo in Sardegna, agli arresti domiciliari per precedenti proprio di narcotraffico.

Secondo le indagini i Giorgi importavano prodotti alimentari dall’Italia per rivenderli ad altri ristoranti in Germania, evadendo le tasse e reinvestendo i profitti nelle casse della ‘ndrangheta. Alcuni dei loro clienti approfittavano semplicemente dei bassi prezzi delle merci, altri cedevano intimiditi dal nome e dalla fama della famiglia ‘ndranghetista.

Questo racket ricorda quello praticato, sempre in Germania, dal clan Farao, che era stato colpito all’inizio del 2018 da un’operazione che si era conclusa con 170 arresti e 50 milioni di euro sequestrati.

Seppur ricercato in Italia, Bacetto si muoveva liberamente in Germania, dove aveva il compito di tenere sempre fluido il giro di contante necessario alla famiglia. Secondo gli inquirenti i Giorgi aprivano aziende di import-export, compravano merci per rivenderle in Germania, poi dichiaravano bancarotta e chiudevano le aziende in questione. Secondo il procuratore tedesco Johannes-Georg Roth questo sistema “apri-chiudi” ha prodotto oltre due milioni di euro di profitti da evasione fiscale.

Falle di sicurezza

Per comunicare fra loro, i fratelli Giorgi utilizzavano il sistema EncroChat che (fino a quando non è stato infiltrato dalle polizie europee nel 2020) rendeva impossibili le intercettazioni. Ma gli inquirenti hanno avuto un colpo di fortuna a partire dall’aprile 2018, quando Giovanni Giorgi chiede gli arresti domiciliari ad Alghero, in Sardegna. Poco prima della scarcerazione, la casa di Alghero viene riempita di microfoni, e così è stato possibile registrare tutte le conversazioni di Giovanni con amici e parenti, che facevano regolari visite al minore dei quattro fratelli, responsabile della distribuzione della cocaina ai vari clienti in Italia.

Bacetto per lo più se ne stava tranquillo a Überlingen, ma faceva regolari viaggi in Belgio e Olanda per trattare l’acquisto di partite di cocaina con le gang romene, albanesi e colombiane che tengono sotto controllo i porti di Anversa e Rotterdam. «Dislocato in posizione di centralità rispetto alle rotte del narcotraffico in Europa, Sebastiano Giorgi fungeva da “antenna” pronto a raggiungere nel giro di poche ore i porti», ha detto a IrpiMedia Alberto Somma, capocentro della Dia di Torino.

La cittadina di San Luca, soprannominata “la mamma della ‘ndrangheta”, con il Mar Ionio sullo sfondo – Foto: IrpiMedia

Lo stress di un lavoro tanto rischioso si ripercuoteva sui rapporti familiari. In una conversazione col nipote Antonio, figlio del primogenito Domenico, Giovanni si lamentava che Bacetto riversasse i profitti nelle attività in Germania, invece che nella cassa comune. Antonio, a sua volta, aveva da ridire sui parenti in Germania, convinto che facessero una cresta di 3-4mila euro per ogni carico che trattavano, e che nonostante questo Bacetto usasse la scusa delle spese del ristorante per non contribuire alla cassa comune.

Ma per quanto i fratelli se ne lamentassero, Bacetto di fatto era l’anima del narcotraffico dei Boviciani: quello che gestiva i contatti principali in nord-Europa, spiega a IrpiMedia una fonte di polizia, e pare che lui stesso se ne vantasse senza modestia. In un’intercettazione ambientale registrata durante un giro in macchina in Germania, Sebastiano Giorgi diceva di riuscire a fare 400mila euro netti all’anno, e che mettere in piedi tutta la sua struttura di aziende in Germania non era stato semplice.

Fonti investigative ritengono infatti che tramite Sebastiano Giorgi passasse anche uno dei contatti chiave dei Boviciani, Denis Matoshi, uno dei capi del potente cartello albanese Kompania Bello. Matoshi comandava una gang attiva nei porti di Rotterdam e Anversa, il che gli garantiva un significativo controllo sugli arrivi di cocaina dal Sudamerica. Matoshi è stato arrestato a Dubai su mandato della Procura di Firenze ed estradato a settembre dello scorso anno.

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L’ultimo viaggio

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A dare un’idea della forza dei Giorgi nella distribuzione della cocaina in Europa ci sono le dichiarazioni di Giuseppe Tirintino, collaboratore di giustizia dal 2015. Tirintino forniva cocaina ai Giorgi vendendola tra i 32 e i 33 mila euro al chilo. Con Sebastiano Giorgi, Tirintino intratteneva un rapporto personale, i due si erano infatti incontrati parecchie volte per fare affari. Il collaboratore di giustizia racconta dunque che Bacetto, armato di una licenza per acquistare frutta all’ingrosso, andava personalmente con un camion frigorifero a prendere la coca in tutta Europa. «I Giorgi – spiega Tirintino agli inquirenti – hanno grosse risorse economiche a disposizione, non compravano mai meno di 30 chili per volta».

Ostaggio dei Boviciani

Bloccare il narcotraffico tramite ispezioni a tappeto nei porti è impossibile. Più di 750 milioni di container si spostano ogni anno via mare: il 90% di tutto il movimento merci globale. Di questi, meno del 2% viene controllato. Nel 2017 Anversa ha gestito 3 milioni e mezzo di container in entrata, controllandone circa l’1%. Da Anversa, la droga si muove perlopiù verso l’Olanda, dove viene tagliata e ridistribuita in tutto il continente. Per quanto pochi siano i controlli in percentuale, ogni anno decine di tonnellate di cocaina vengono sequestrate nel porto belga (oltre 60 nel 2019 e nel 2020) e altre decine vengono bloccate nei porti di partenza.

Trattandosi del più importante scalo per la frutta fresca in Europa, Anversa gestisce rotte dirette da Colombia, Ecuador, Guatemala e Panama. La frutta fresca è spesso la copertura ideale per i carichi di cocaina: in quanto prodotto deperibile, deve essere sdoganato rapidamente, e le forze dell’ordine rischiano di dover rimborsare i carichi rovinati dai controlli.

Per tutto il 2018 i Giorgi sono stati sotto il costante controllo degli inquirenti nel corso dei loro vari viaggi verso l’Olanda. La polizia tedesca li ha pedinati fino ad Amsterdam e Rotterdam, dove si incontravano con una serie di soggetti stranieri, spingendo gli agenti a sospettare che si stesse preparando un grosso carico dall’America Latina. L’uomo di contatto di Giorgi in Olanda era il rumeno Adrian Bogdan Andrei, alias Andy, che a Rotterdam aveva procurato una comoda base per gli incontri tra i Giorgi stessi e i fornitori colombiani.

A ottobre 2018 Giovanni Giorgi, intercettato nella sua casa di Alghero, parla di un incontro che sarebbe dovuto avvenire tra Bacetto e alcuni «stranieri» in Olanda, e di come ne sarebbe dovuta scaturire una fornitura di 170-180 kg di cocaina. Il mese successivo, il 18 di novembre, la polizia tedesca, grazie a una microspia piazzata nell’Audi A3, sta intercettando Bacetto in viaggio verso l’Olanda. Bacetto – in compagnia del fratello Domenico e del nipote Antonio – discutono i dettagli dell’accordo che stanno andando a stringere ad Amsterdam.

Una “transazione” di «500» – ovvero 500.000 euro. Un pagamento che doveva essere saldato entro il 25 di novembre, giorno in cui la droga sarebbe arrivata in Olanda.

Con il piano d’attacco pronto, i Giorgi si dirigono ad Amstelveen – quartiere a sud di Amsterdam – per incontrare i colombiani assieme al rumeno Andy. La polizia tedesca li segue senza dare nell’occhio, aiutata da quella olandese che però – pur conoscendo bene i colombiani in questione – non può svelare ai colleghi dettagli per proteggere una propria operazione.

L’origine esatta della cocaina resta quindi avvolta dal mistero, si presume fosse colombiana, ma non verrà mai scoperto il nome del cartello di riferimento. Quello che però è emerso dall’incontro – e appreso dalla polizia tedesca – è la logistica. Il carico sarebbe partito dal porto ecuadoregno di Guayaquil diretto a Rotterdam. E la garanzia sul carico sarebbe stato un “ostaggio”: uno dei tre colombiani presenti all’incontro sarebbe rimasto con i calabresi fino all’arrivo della merce. Un tipo di accordo usato spesso nel mondo dei narcos.

Il corso principale della cittadina di Überlingen – Foto: Alamy/Abaca Press

«Qualcuno di loro rimane con noi», dice Domenico Giorgi durante il viaggio. «Noi veniamo qui e lo teniamo con noi, noi cerchiamo una casa qui… prima gli diamo i soldi, e quando la roba è al porto….», dice Domenico Giorgi. E Bacetto ribatte: «Lui rimane da noi e solamente quando la roba è stata caricata, possiamo sentirci al telefono, ok?». E come da piano, il trentenne Luis Alberto Roldan Restrepo di Medellin viene portato da Sebastiano Signati in un B&B di Rotterdam e tenuto lì fino al 29 di novembre, data in cui i Giorgi vengono visti tornare a Amstelveen per consegnare sia l’ostaggio sia uno zaino contenente – così suggeriscono le intercettazioni – 300mila euro in contanti ai broker colombiani.

Nonostante i pedinamenti, la polizia tedesca non riesce a trovare il carico in arrivo e saranno solo delle successive conversazioni intercettate a confermare che era arrivato, anche se in quantità minore rispetto alla previsione.

Infatti, i Giorgi parlano di 124 chili acquistati a metà con i rumeni, 12 dei quali verranno trasportati in Italia dall’Olanda, a dicembre 2018.

Pochi mesi dopo, a marzo 2019, c’è un altro importante carico in arrivo. Se ne accorge la polizia di Friedrichshafen, grazie alle microspie che ha nascosto nell’appartamento di Bacetto a Seelfingen.

Sebastiano Giorgi ne parla con un partner albanese e uno romeno, entrambi residenti in Belgio. Stavolta si tratterebbe di un carico da 240 chili, la cui logistica resterebbe in capo ai partner di Bacetto, in particolare il romeno, che dirige alcune aziende di import-export a Bruxelles e che è sospettato dalla polizia belga di traffico di droga.

Una volta che i carichi sbarcano in Europa, tocca ai Giorgi distribuirli. Nascosti nei loro camion di frutta, fanno prima diversi scali in Germania per poi dirigersi verso Torino, dove possono contare sull’appoggio logistico di alcuni parenti. È stato proprio nel capoluogo piemontese che le autorità italiane hanno notato, per la prima volta, i movimenti sospetti della famiglia.

Il gioco dei numeri

In Italia i Giorgi vendevano la cocaina principalmente a Torino e Milano, ma anche in Sardegna e Sicilia tra i 33 e i 57 mila euro al chilo, a seconda della qualità del rapporto col cliente e delle quantità acquistate. I principali clienti erano altri calabresi, ma i Boviciani rifornivano anche alcuni referenti per le piazze di spaccio come quella di Alghero.

Questi ultimi, come ad esempio alcuni proprietari di bar o ristoranti, pagavano i prezzi più alti. In un’intercettazione i fratelli di San Luca parlano addirittura di prezzi all’etto, che andrebbero fra i 5 e i 7 mila euro. Secondo le indagini, i Giorgi erano abbastanza ben organizzati da poter garantire consegne settimanali, ma non abbastanza potenti da poter gestire direttamente i porti di ingresso. Per questo aspetto, dovevano contare su gruppi sudamericani, albanesi, oppure su broker di ‘ndrangheta meglio connessi di loro.

Completato lo scarico, la coca si muoveva su strada. Nascosta dentro i camion di frutta, i cui autisti prendevano un extra di 3 mila euro a viaggio, partiva verso destinazioni insospettabili, in genere aziende vere e proprie che aspettavano una consegna di frutta fresca. I Giorgi spiegano agli autisti che i camion non possono abbandonare il percorso prestabilito dal satellitare, e quindi lungo il percorso un’auto dovrà raggiungere il camion e farsi consegnare il carico.

Il sistema garantiva un giro di soldi costante, almeno 200 mila euro a settimana, stando alle intercettazioni ambientali. Bacetto contava molto su altri parenti e conterranei che gestivano le aziende G&S Gastro e GSG Food in Germania, aziende proprietarie dei ristoranti, compreso il Paganini di Überlingen, che è spesso passato di mano in mano, ma che è comunque sempre rimasto nelle mani della famiglia. Secondo una fonte della polizia tedesca, l’analisi del flusso finanziario del ristorante è risultato «criminale al 100%».

Secondo una fonte della polizia tedesca, l’analisi del flusso finanziario del ristorante Paganini di Überlingen è risultato «criminale al 100%».

Ma al di là dei reinvestimenti in aziende o nel mercato immobiliare, una buona parte dei profitti veniva nascosta anche nel più tradizionale dei modi: a casa, a San Luca, sotto terra. Giovanni dava ordini al fratello Francesco di seppellire 400 mila euro in contanti, con la raccomandazione di dividerli e nasconderli in posti diversi, non tutti insieme. «Meglio perdere due-tre ore a scavare, che il lavoro di una vita», chiosa Giovanni. Altre intercettazioni indicano che ci sono altri “tesori” sepolti nelle montagne di San Luca, fino a cinque milioni di euro, mentre c’era un gruzzolo di «liquidità» di almeno 500 mila euro.

L’irraggiungibile club dei grandi narcos

Secondo le carte dell’inchiesta Platinum i Giorgi mantenevano un rapporto privilegiato con un importante broker sempre di San Luca: Giuseppe Romeo, detto Maluferru da chi lo teme, più spesso chiamato “il nano”, anche dai Giorgi.

Giuseppe Romeo è il figlio di uno dei boss più importanti di San Luca, Antonio Romeo detto Centocapelli, uno dei capi del clan Romeo-Staccu oggi al 41-bis. Maluferru ha rapporti chiave «in tre porti d’Europa» (Rotterdam, Anversa e Amburgo) e garantiva la continuità dei carichi per i Giorgi, dando regolarità alle loro consegne.

Ma il rapporto non era privo di attriti: Giuseppe Giorgi si lamenta spesso che i prezzi di Romeo sono alti: «Quando il Nano tipo a noi diceva che quando comprava a 27 con i soldi nostri… il Nano comprava a 24 e si rubava già 3 punti», si lamenta col nipote Cesare Marvelli.

Ma il nano era una certezza, per cui le lamentele rimanevano in privato. Procurava sia cocaina sia hasish, e a detta di Giovanni «ha tutto lui in Olanda».

Maluferru è «un fantasma», dicono i Giorgi. In effetti, nonostante lavorassero con lui almeno dal 2018, non avevano idea di dove si trovasse, e immaginavano di sue “apparizioni” in Brasile, Olanda e Messico, travestito da prete missionario: «È sceso in aeroporto vestito da prete, tipo monaco e con la bibbia sotto il braccio. Con il saio e con il cappellino quello a coppola», dice Giovanni Giorgi.

Ma tramite il nipote e socio Walter Marvelli, che vicino a Torino gestisce il ristorante It’s Time da Cesare, hub dello smercio di cocaina, i Giorgi sono riusciti a entrare in contatto con dei broker ancora più potenti di Maluferru: Nicola Assisi e suo figlio Patrick.

Gli Assisi, prima dell’arresto nel 2019, sono stati due super-narcos dell’ hinterland torinese, per anni latitanti in Brasile, dove avevano costruito una solida alleanza con il più potente cartello del Paese, il Primeiro Comando da Capital (PCC) e con il loro capo Marcos Willians Herbas Camacho, detto “Marcola”. Marvelli ha fatto di tutto per trovare il contatto degli Assisi, sapendo bene che questi ultimi accettavano di trattare solo con un giro ristretto e selezionato.

Ma a inizio settembre 2018, gli investigatori hanno un nuovo colpo di fortuna. Nonostante i Giorgi usino ancora il sistema criptato EncroChat, non si trovavano particolarmente a loro agio con la complessa tecnologia. Dalle intercettazioni ambientali a casa di Giovanni in Sardegna, si sentono Giovanni e i nipoti leggere ad alta voce alcuni dei messaggi criptati, o addirittura svelare le password.

Fino a che avviene l’impensabile: Giovanni e Cesare cominciano a leggere ad alta voce i messaggi EncroChat mandati da Patrick Assisi, messaggi che senza fronzoli svelano tutti i dettagli della logistica dei carichi in arrivo.

«La salita ce l’abbiamo sia in Perù che in Venezuela», Marvelli legge il messaggio in arrivo di Patrick allo zio. E continua facendo così capire agli inquirenti che per questa volta però, gli Assisi avrebbero un carico pronto al porto di Santos, in Brasile, che potrebbe partire immediatamente arrivando ad Amburgo.

La coca degli Assisi, per lo più inviata in forma liquida, sarebbe stata nascosta in sacchi da due chili e mezzo e spedita in un container di un non meglio specificato“minerale”, facente parte di una spedizione di sei container. Non avendo un contatto per gestire lo “scarico” in un porto europeo, i Giorgi però si vedono costretti a far entrare il Nano nell’affare dato che Assisi si sarebbe occupato solo della “salita”. La spedizione minima che gli Assisi avrebbero trattato era di 500 chili. Carichi più grandi garantiscono infatti profitti maggiori, visto che le tangenti da pagare lungo la strada sono costi fissi.

Grazie alle cimici, la polizia tedesca era pronta a intercettare il carico, ma alla prima ispezione ad Amburgo a ottobre 2018 non trova nulla. Un mese dopo però, nascosto dentro un container di cotton-fioc, trovano un carico da 300 chili di cocaina, che sospettano sia stato mandato dagli Assisi ai Giorgi.

Ma a dicembre 2018, i rapporti fra i Giorgi e gli Assisi arrivano a uno stallo, tanto che Marvelli vorrebbe andare in Brasile di persona a incontrare Patrick. Il Nano nel frattempo, però, aveva già scavalcato i Boviciani, sfruttando il gancio offerto per il carico di ottobre, e entrando in contatto così direttamente in affari con gli Assisi e tagliando fuori i Giorgi. Assisi stesso sembra preferire Maluferru, meglio connesso nei porti europei.

Nonostante il loro impegno, i Giorgi sembravano destinati a restare solo degli abili distributori, con poche speranze di scalare le gerarchie della ‘ndrangheta.

Nessuno di loro però poteva ancora immaginare che fossero in arrivo tempi duri anche per Romeo e gli Assisi, e per tutta la struttura del narcotraffico che aveva fatto la loro fortuna.

Nella prossima puntata: la connessione in Costa D’Avorio, i porti dell’America Latina e i grandi boss delle rotte intercontinentali

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Margherita Bettoni
Giulio Rubino

Ha collaborato

Luis Adorno
Nathan Jaccard
Benedikt Strunz
Koen Voskuil

Illustrazioni

Mappe

Lorenzo Bodrero

Editing

Brian Fitzpatrick
Luca Rinaldi

Rifiuti e autoriciclaggio: il “capitale sociale” inesauribile della ‘ndrangheta lombarda

Rifiuti e autoriciclaggio: il “capitale sociale” inesauribile della ‘ndrangheta lombarda

Francesco Donnici
Sofia Nardacchione

«Do per scontato che la roba è italiana… ma fatta arrivare da dove? In cavi da Chernobyl questo, per avere una radioattività del genere? Ma lo sa che lo mettono in galera per quella roba lì?». La mattina del 2 maggio 2018 Fabrizio Motta è a bordo della propria autovettura mentre segue a ruota un autoarticolato. Alla guida c’è Benedetto Parisi e si sta dirigendo dalla zona industriale di Capriano del Colle, in provincia di Brescia, alla volta di Arcore (Monza-Brianza). I due stanno interloquendo telefonicamente perché il primo si è accorto che il telo utilizzato per coprire i materiali trasportati non è correttamente posizionato e si allarma alla vista di una pattuglia della Stradale.

Il camion contiene oltre 17 tonnellate di rame ad elevate emissioni di radioattività. Ad ordinare quel trasporto, per cui non esistevano certificazioni per attestare la tolleranza minima (cioè le soglie accettabili di radioattività, ndr), era stato Cosimo Vallelonga, nome storico della criminalità organizzata locale. Parisi e Motta, entrambi indagati, sarebbero invece soltanto due pedine del complesso sistema finalizzato a lucrare sul traffico illecito di rifiuti individuato dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano nell’ambito dell’inchiesta Cardine-Metal Money.

Motta, imprenditore classe 1976, è amministratore e socio unico della società All Metal Srl, una delle diverse entità che avrebbero permesso all’ampio sistema svelato dall’inchiesta di funzionare. L’imprenditore, stando alle indagini, avrebbe acquisto rifiuti “in nero”, anche pericolosi, per poi rivenderli «predisponendo – scrive la procura – la falsa documentazione necessaria a coprire la provenienza illecita degli stessi». Parisi, classe 1970, è invece individuato dagli inquirenti come il “corriere”. Mette a disposizione i mezzi della Sb Trasporti per effettuare il trasporto del materiale movimentato da società come appunto la All Metal, «in spregio a qualsiasi regola inerente la tracciabilità dei rifiuti», mette nero su bianco la procura.

Quella mattina i due compiono un errore di per sé banale e vengono fermati dagli agenti. Sulla merce viene effettuato un esame radiometrico che attesta una contaminazione della merce trasportata che verrà poi sequestrata, rappresentando uno degli snodi cruciali dell’indagine che lo scorso febbraio ha portato all’esecuzione di 18 arresti tra carcere e domiciliari, tra Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto. Nomi noti e meno noti nell’ambiente criminale lombardo e non solo, accusati di associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti, frode fiscale, autoriciclaggio, usura ed estorsione.
Non si tratta di semplice criminalità, ma di quella ‘ndrangheta che ha messo radici da decenni nelle regioni del Nord, a partire dalla Lombardia. In questo caso, con base a Lecco.

Traffico di rifiuti e autoriciclaggio: la nascita del sistema illecito

Facciamo un passo indietro. Nel maggio del 2017 vengono movimentate ingenti somme di denaro che conducono gli investigatori della Guardia di finanza verso alcuni pregiudicati di origine calabrese. Tra questi c’è Luciano Mannarino, classe 1989, originario di Crotone e socio unico di due società: la AM Metalli Srl e la ML Metalli. Le autorità lo identificano come persona «vicina alla “famiglia” Marchio» di Calolziocorte, in provincia di Lecco.

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Mannarino risulta intimamente legato a Vincenzo Marchio, figlio di Pierino Marchio, attualmente in carcere: il Tribunale di Lecco condannò quest’ultimo nel marzo del 2009 (con sentenza divenuta irrevocabile il 24 gennaio 2012) quale “esponente di spicco del “locale” di ‘ndrangheta di Lecco storicamente facente capo alla famiglia Coco-Trovato, egemone sul territorio fin dagli anni Sessanta e a una delle cosche più potenti del mandamento Centro di Reggio Calabria, i De Stefano.

La presenza di Mannarino induce la squadra mobile della questura di Lecco e la guardia di finanza a ipotizzare che dietro quel «pregiudicato di scarso rilievo», anche in virtù dei quantitativi di denaro movimentato, potesse celarsi qualcosa di più grande.

Gli inquirenti risalgono così ad un tempo ancora precedente e alla figura di Oscar Sozzi, imprenditore lecchese, classe 1973. A lui sono riconducibili due società operanti nel settore dei materiali ferrosi finite al centro delle cronache giudiziarie degli scorsi anni: la CFL e la Sara. Soprattutto la Sara riporta alla mente un episodio di cronaca avvenuto il 15 gennaio 2014, quando nei locali della società di Sozzi veniva aggredito e colpito da alcuni colpi di pistola il commerciante d’auto algerino Kamel Louhabi. Per quel fatto furono arrestati il rappresentante legale della Sara, Bruno Polito, e il fratello Mario. La vicenda si chiuse con un patteggiamento a 3 anni di reclusione per il primo e due anni e quattro mesi per il secondo.

La vicenda propizia la discesa in campo di Vincenzo e Raffaele Marchio conosciuti come “i gemelli di Calolziocorte”, che offrono a Sozzi la “protezione” della “famiglia” per evitare altri “spiacevoli avvenimenti” in cambio dell’assunzione.

In seguito, «per espressa volontà dello stesso Vincenzo Marchio» – come si legge nell’ordinanza dell’operazione Cardine-Metal Money – il 17 aprile 2014 Sozzi costituisce la Oggionese Metalli Srl, nominando rappresentante legale un cittadino libanese classe 1987, Al Zahr, che non risulta tra gli indagati. Di fatto, come accertato dalla Guardia di Finanza, «era Marchio il reale titolare» della società che acquistava “in nero” materiali e prodotti ferrosi per poi venderli – con la copertura di false fatturazioni – alle imprese utilizzatrici finali. In questo caso – come negli altri emersi con l’operazione – la normativa sui rifiuti veniva completamente scavalcata dalla logica del profitto portata avanti dal gruppo criminale.

I rifiuti ferrosi venivano infatti movimentati illegalmente e abusivamente, senza alcuna autorizzazione e con documentazione falsa: le 17 tonnellate di rame triturato sequestrato il 2 maggio del 2018, ad esempio, era stato certificato come “end of waste” (cioè un prodotto di fatto riutilizzabile e non più un rifiuto, ndr) e non come rifiuto speciale pericoloso contenente materiale radioattivo.

Rifiuti radioattivi, la relazione della commissione Ecomafie

I rifiuti radioattivi non derivano solo dal cosiddetto “decommissioning”, cioè lo smantellamento degli impianti nucleari e agli impianti legati al ciclo del combustibile nucleare: ci sono altre sorgenti radioattive, spesso al di fuori di ogni controllo. Si tratta delle cosiddette “sorgenti orfane”: come riportato nella Relazione sulla gestione dei rifiuti radioattivi in Italia e sulle attività connesse della Commissione parlamentare d’inchiesta sugli illeciti ambientali, pubblicata a marzo 2021, queste sorgenti, anche se caratterizzate da un elevato livello di attività, non sono sottoposte a controlli da parte delle autorità.

I motivi sono diversi: non sono mai state sottoposte a controlli e quindi non se ne conosce l’esistenza; sono state abbandonate, smarrite, collocate in un luogo errato; sono state sottratte illecitamente al detentore o trasferite ad un nuovo detentore non autorizzato o senza che il destinatario sia stato informato. I materiali dove più frequentemente si trovano sorgenti orfane sono rottami, semilavorati metallici o materiali di risulta. Ma, come si legge nella relazione, non c’è alcun piano programmatico di recupero e i controlli radiometrici non sono sistematici, per l’assenza di normativa e per gli alti costi di gestione dei portali radiometrici, che sarebbero fondamentali soprattutto nei luoghi di passaggio dei carichi: i depositi di rottami, i nodi di transito delle merci e gli impianti di riciclaggio dei rottami metallici.

Nei nodi doganali, invece, i portali sono stati installati da tempo ma, denuncia la Commissione parlamentare, 30 portali radiometrici installati in 25 punti di frontiera nel 2003, non sono mai entrati in funzione, a causa di mancati accordi tra Ministeri e per l’inadeguata pianificazione delle risorse necessarie per la fase di gestione: «Nonostante siano state investite ingenti somme per l’acquisizione di apparecchiature – scrivono i parlamentari della Commissione – non è stato possibile offrire quelle garanzie di maggiore sicurezza che il legislatore, fin dal 1996, aveva richiesto per la prevenzione del rischio di esposizioni accidentali».

Ci sono poi luoghi dove la presenza inconsapevole di materiale radioattivo può dar luogo a maggiori rischi, per i lavoratori e per il pubblico, come le discariche di rifiuti ordinari: secondo le linee guida ministeriali, è richiesta la verifica di assenza di radioattività all’ingresso di alcuni impianti di gestione, cioè i termovalorizzatori. Per le altre tipologie di flussi di rifiuti, come i materiali e semilavorati metallici, si è ancora in attesa dell’emanazione di uno specifico decreto.

Dal fallimento della Oggionese Metalli è emerso come la società fosse una sorta di contenitore che veniva man mano svuotato attraverso molteplici prelievi di denaro contante. Uno schema mutuato per le società al centro dell’indagine Cardine, i cui rappresentanti legali (o le persone addette), per non lasciare traccia delle movimentazioni, «omettevano di tenere o distruggevano la documentazione contabile». Le circostanze vengono rese note agli inquirenti dallo stesso Sozzi in un interrogatorio del 28 febbraio 2018 e trovano riscontro in quelle del ragioniere della società.

Sozzi era stato arrestato il 18 giugno 2015 nell’ambito di una indagine della Dda meneghina, con l’accusa di aver smaltito, servendosi di documenti falsi, circa 50mila tonnellate di rifiuti per un valore di 82 milioni di euro. È proprio in questo frangente che Cosimo Vallelonga gli subentra nel business.

Cosimo Vallelonga, una lunga storia criminale

Nei suoi settantatre anni di vita, Cosimo Vallelonga ha sulle spalle diverse condanne per associazione mafiosa. Originario della provincia di Catanzaro, si è trasferito a Cremella, nel lecchese, nel 1970. Da allora ha vissuto a Oggiono, Nibionno, Perego e poi a La Valletta Brianza, tutti piccoli comuni in provincia di Lecco, dove ha avviato l’attività di mobiliere e non solo. È qua che emergono i suoi legami con la ‘ndrangheta: diversi sodali lo indicano come affiliato all’associazione mafiosa, attivo nel “locale” di Fino Mornasco – uno dei centri storici della ‘ndrangheta al Nord – sin dai primi anni Ottanta.

Cosimo Vallelonga nel 1991 aveva già la dote di “Santista”, nel 1993 quella di “Vangelo”, due delle cariche più alte

Nel 1997 il Tribunale di Milano lo condanna per associazione mafiosa a seguito dell’operazione La notte dei fiori di San Vito, facendo emergere i forti legami con la cosca dei Mazzaferro, potente clan che aveva esteso il suo controllo su un’ampia porzione del territorio lombardo. Nel 2010 è tra gli arrestati di Infinito, la maxi-operazione che svela la profondità del radicamento della ‘ndrangheta in regione: nel procedimento viene condannato a 12 anni per associazione mafiosa, quale affiliato del locale di Mariano Comense.
“Parrucchino”, come gli altri ‘ndranghetisti chiamano Vallelonga per via della parrucca che indossa, ha un ruolo di primo piano nell’associazione: nel 1991 aveva già la dote di “Santista”, nel 1993 quella di “Vangelo”, due delle cariche più alte. Un’ascesa che non viene fermata dagli arresti: «Una volta ces­sata di scontare la condanna – si legge nelle carte dell’operazione Cardine-Metal Money – ha ripreso i contatti e rivitalizzato il sodalizio criminoso, secondo schemi, simboli, modalità, suddivisione di zone di influenza analoghe a quelle già accertate nelle precedenti indagini».

E infatti, uscito dal carcere dopo la condanna comminata nel processo Infinito, Vallelonga riprende le attività, i legami, i rapporti con gli altri ‘ndranghetisti, ma anche con professionisti e imprenditori locali, che fanno parte di quello che già nel 2010, era stato definito il “capitale sociale” della ‘ndrangheta.

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Insomma, anche dopo anni di carcere, il suo potere è rimasto intatto. È lui che, secondo quanto emerso in Cardine, mantiene i contatti con esponenti di spicco della ‘ndrangheta calabrese e lombarda. È lui che eroga prestiti alle vittime di usura fissando i relativi tassi di interesse ed il costo del denaro contante venduto riscuotendo i relativi crediti con modalità estorsive, anche attraverso l’uso di armi. Ed è lui che si occupa della progettazione e dell’avvio di attività imprenditoriali nel settore del commercio dei rifiuti, attraverso la costituzione e il controllo di svariate società: finanzia, organizza e amministra di fatto le società tra cui AM Metalli, ML Metalli, All Metal e Copper Point, insieme a Vincenzo Marchio.

Il flusso di denaro

“Follow the money”, segui il denaro: la linea che segue il flusso dei capitali movimentati da Mannarino conduce ad una serie di società e prestanome che fanno da schermo per il duo Vallelonga-Marchio. L’analisi delle segnalazioni di operazioni sospette di riciclaggio, infatti, consente di accertare l’esistenza di un sistema rodato che comprende diverse componenti. Società di più o meno recente costituzione, che operavano come scatole vuote benché capaci di movimentare ingenti quantitativi di rifiuti e somme di denaro, per un ammontare complessivo quantificato, per il periodo 2015-2018, in circa 60 milioni di euro.

Già tra il 6 marzo 2015 (data del sequestro dei beni della Oggionese) e l’arresto di Sozzi, viene costituita la AM Metalli Srl, cartiera di «primo livello», la definiscono gli inquirenti, con il fine di emettere false fatture, quindi fornire «copertura contabile» alle cessioni di materiale metallico acquistato in nero. È il primo atto della collaborazione sull’asse Marchio-Vallelonga.

L’organigramma inizierà a evolvere il 5 ottobre 2015 con la costituzione della ML Metalli (sulla falsariga della “AM”). Tra il 2016 e il 2017 vengono costituite la Metal Point di Pace Vincenzo, una “cartiera” di “secondo livello” per le movimentazioni di denaro contante, nonché per i trasferimenti dei flussi di denaro da e per le altre società del gruppo; la Copper Point Srl che nasceva, di fatto, al fine di affittare il ramo d’azienda della Mega Metal Srl di cui acquisirà anche le licenze e le autorizzazioni amministrative per il trasferimento dei rifiuti ferrosi. Quest’ultima viene però dichiarata fallita nell’ottobre del 2017, motivo che induce l’asse criminale di vertice a sostituirla con un’altra società, la All Metal, attiva nel commercio e nella gestione di rifiuti ferrosi, costituita il 18 luglio 2016 proprio da quel Fabrizio Motta implicato nel sequestro del maggio 2018.

Qualche mese dopo arriva la Torinese Metalli (con la stessa funzione della Metal Point).

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Il sistema nel tempo era diventato sempre più sofisticato rispetto a quello originariamente elaborato da Marchio e si fondava su una distinzione parziale delle società coinvolte tra “cartiere” e “utilizzatrici”. Le “cartiere” si distinguono a loro volta tra “primo” e “secondo livello” rispettivamente per fornire copertura contabile agli acquisti “in nero” e alle movimentazioni di denaro. Queste ultime sono società intestate a prestanome, con operatività limitata nel tempo, carenti di strutture organizzative e di mezzi aziendali per lo svolgimento delle attività istituzionali e infine caratterizzate dalla totale mancanza di certificazioni e dal mancato assolvimento obblighi tributari.

Le “cartiere”, nel sistema Vallelonga-Marchio, servivano invece per emettere fatture necessarie per fornire alle “utilizzatrici”, la copertura contabile per la cessione di carichi di prodotto acquistati “in nero” oppure di provenienza illecita.

Le società “utilizzatrici” corrispondevano quindi pagamenti a mezzo bonifico bancario e le somme incassate dalle “cartiere” erano, grazie ad una falsa documentazione contabile, trasferite su rapporti intestati ad altre società (dove confluivano e venivano ripuliti i capitali).

L’ultimo step porta alla costituzione, il 26 febbraio 2018, della GC Auto Srls e il successivo 3 marzo 2018 della Monti Auto. Entrambe attive nel commercio di autovetture e utili per riciclare parte dei proventi del traffico illecito di rifiuti. Successivamente, nel mese di ottobre 2018, l’oggetto sociale della GC Auto viene ampliato all’attività di ristorazione, con la conseguente intestazione alla predetta società anche del ristorante La Karboneria a Curno, dove viene investita un’altra parte dei proventi illeciti.

Le società costituite sono tutte attive nel settore commerciale dei rifiuti, tutte gestite e controllate dai vertici del sodalizio pur essendo le cariche sociali intestate a prestanome.

Le “teste di legno” coinvolte nel sistema erano accomunate dall’essere soggetti trovatisi in rapporti con Marchio o Vallelonga che si mettevano a disposizione o erano costretti in quanto debitori dello stesso Vallelonga. Quest’ultimo, come la Dda ha ricostruito nella medesima indagine, portava avanti in parallelo una fitta attività incentrata su usure ed estorsioni riuscendo ad attrarre nella morsa molti imprenditori del territorio. Sarà però proprio uno di loro nel febbraio 2018, dopo aver fatto da prestanome per un certo periodo, a denunciare Vallelonga e Marchio dando il via alle indagini nei loro confronti.

Dopo il sequestro

Dopo il sequestro del 2 maggio 2018 le dinamiche criminali del gruppo cambiano: il timore che possano scattare le indagini è altissimo. Il 14 maggio, quindi, c’è un importante incontro nel negozio di Vallelonga a La Valletta Brianza: all’ordine del giorno c’è l’individuazione di nuove strutture societarie e nuove persone con cui portare avanti il sistema di frode già avviato con le vecchie società. Nel negozio, tra gli altri, oltre a Vallelonga e altri due indagati, Roberto Bonacina e Carmelo Tinè, si trova anche Angelo Sirianni, ritenuto esponente di spicco della ‘ndrangheta, affiliato al locale di Lecco e componente del locale di Calolziocorte. Durante l’incontro Bonacina e Tiné, spinti da Sirianni, si rendono disponibili ad entrare in prima persona nelle strutture societarie facenti capo a Vallelonga e a trovare nuove aziende, in modo da garantire la prosecuzione degli affari illeciti nel commercio di metalli e rifiuti ferrosi.

Così, anche dopo l’importante sequestro, l’attività va avanti, grazie ai legami e alla forza della ‘ndrangheta lombarda. Lo stesso Vallelonga in quella riunione del 14 maggio afferma che l’associazione mafiosa è unica: le attività commerciali anche se sono formalmente solo sue e di Marchio costituiscono, commentano gli inquirenti, parte del cosiddetto “capitale sociale” della ‘ndrangheta. Quindi, le società – e i conseguenti profitti – non sono considerate di proprietà esclusiva, ma società e profitti co­muni, soldi dell’organizzazione. La stessa in grado di rigenerarsi anche dopo l’operazione Crimine-Infinito che in questi periodi vede i primi “fine pena” di quei boss che non hanno mai reciso i legami col territorio.

CREDITI

Autori

Francesco Donnici
Sofia Nardacchione

Editing

Luca Rinaldi

Foto

Optimarc/Shutterstock