I professionisti al soldo della ‘ndrangheta emiliana

#NdranghetaEmiliana

I professionisti al soldo della ‘ndrangheta emiliana

Sofia Nardacchione

C’è la commercialista che si è messa a disposizione dell’associazione mafiosa, tenendo in piedi l’importante meccanismo di intestazioni fittizie necessarie per proteggersi da eventuali operazioni di polizia e confische. C’è il giornalista che ha dato voce alle ragioni della ‘ndrangheta emiliana, mettendola in contatto con il mondo imprenditoriale e politico reggiano. C’è l’imprenditore che ha “prestato” la sua azienda per riuscire a lavorare e guadagnare evitando i controlli. C’è l’amministratore che ha chiuso un occhio e ha permesso al gruppo criminale di evitare interdizioni ed esclusioni dagli appalti. C’è il politico che ha fatto pressioni per favorire le imprese legate alla ‘ndrangheta.

Sono alcune delle figure che fanno parte di una vasta zona grigia: quella che ha permesso alla ‘ndrangheta di lavorare, arricchirsi e radicarsi in Emilia-Romagna. La zona grigia è quella tra il nero dell’associazione mafiosa e il bianco della società civile. È in mezzo, le mette in contatto, sfumando i contorni e confondendo legalità e illegalità: «È una zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, e alberga in sé quanto basta per confondere il nostro potere di giudicare».

La riflessione è di Primo Levi, che introdusse il concetto nel suo libro “I sommersi e i salvati”: scriveva dei campi di concentramento, tra i nazisti, gli ultimi e i sommersi che cercano di salvarsi, scendendo a compromessi con i carnefici. Un termine che poi è stato mutuato anche nell’ambito delle mafie, con un significato di fondo simile, ma soggetti ovviamente molto diversi. Non sono i sommersi e i salvati di Levi, ma sono gli uomini della criminalità organizzata e gli appartenenti alla società civile, che si incrociano. Un contatto non obbligato, con un mondo di cui non sono vittime – come accade ad esempio agli sfruttati sul lavoro, a coloro che ricevono minacce, a coloro che sono costretti – ma complici. Per espandere il proprio business, per salvare la propria azienda o, semplicemente, per guadagnare di più, attraverso una scelta consapevole.

L’interesse delle mafie rimane quello di esplorare nuovi mondi economici e finanziari del circuito legale in grado di portare guadagni e consolidare il controllo del territorio. Si è sviluppata così la “borghesia mafiosa”, come la chiamano i giudici della Corte d’Appello nelle motivazioni della sentenza di Aemilia, il maxiprocesso alla ‘ndrangheta emiliana.

La consulente del boss

«È venuto da me il capo di giù, di Cutro, il grande, il sanguinario. È venuto per dirmi di andare avanti in tutti gli affari che abbiamo in corso».

Con un marcato accento bolognese, Roberta Tattini parla così del boss Nicolino Grande Aracri, che le ha fatto visita nel suo studio di Piazza S. Stefano, una delle piazze centrali di Bologna. Sa bene chi è Grande Aracri: «È il numero due della Calabria, della ‘ndrangheta. È proprio uno ‘ndranghetista eh. È un imprenditore però, comanda tutta Reggio», dice ancora in una delle telefonate intercettate nel 2012 dai carabinieri nelle indagini che hanno poi portato, tre anni dopo, all’operazione Aemilia. Così come sa bene il senso di quegli “affari” che portano avanti insieme.

Tattini, infatti, è una consulente bancaria e finanziaria, con una carriera avviata nel capoluogo emiliano. Conosce bene i meccanismi economici: una competenza necessaria a una associazione mafiosa che tenta sempre più di infiltrare il tessuto economico e imprenditoriale dell’Emilia-Romagna. La consulente bolognese si mette a disposizione della ‘ndrangheta del “sanguinario”, come definisce lei stessa Grande Aracri. Il punto di contatto è Antonio Gualtieri, uno dei boss dell’associazione emiliana, poi condannato in via definitiva a 12 anni: era a lui che faceva riferimento, indicando nuovi obiettivi per l’associazione mafiosa in continua espansione, facendo conoscere agli ‘ndranghetisti altri operatori finanziari e partecipando ad alcuni incontri di raccordo per decidere come gestire il gruppo criminale, non solo in Emilia ma anche in Veneto e in Lombardia.

In sua difesa all’inizio del processo Aemilia in cui era imputata, aveva affermato di non sapere che le persone con cui aveva a che fare erano uomini della ‘ndrangheta. Tuttavia Tattini, si desume anche dalle intercettazioni agli atti dell’inchiesta, avrebbe fatto da intermediaria per il recupero di denaro proveniente da un delitto commesso all’estero insieme alla criminalità che opera tra la Liguria e la Costa Azzurra, organizzando e partecipando a incontri per concludere la trattativa.

Cerca società per conto di Grande Aracri da inserire in joint-venture in un progetto di investimento per l’energia eolica a Cutro, in Calabria. Porta avanti attività di recupero crediti e cerca di acquisire per conto della cosca beni mobili e immobili provenienti da fallimenti. E mette in atto lei stessa una attività estorsiva portata avanti, ritengono i giudici, con metodi mafiosi, attraverso violenze e minacce, per ottenere migliaia di euro da due imprenditori: lo scopo, certificano anche le sentenze, era quello di avere il controllo finanziario della loro società, obiettivo che raggiungerà, insieme a Gualtieri, proprio per aver esplicitato l’appartenenza alla ‘ndrangheta.

Insomma, come scrivevano i giudici della Corte d’Appello di Bologna che l’hanno condannata a 8 anni e 8 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa – condanna poi confermata in Cassazione -, ha offerto al clan un «pacifico, concreto, consapevole e volontario contributo, funzionale alla realizzazione del programma criminoso».

Il giornalista tra i due mondi

Nella primavera del 2012 a Reggio Emilia scoppia una polemica: in quell’anno Antonella De Miro, prefetta della città, adotta numerose interdittive antimafia che colpiscono aziende in odor di ‘ndrangheta. Un’azione che provoca grande sdegno all’interno dell’ambiente mafioso, ma non solo: parte una vera e propria campagna secondo cui alla base di queste misure c’è una sorta di razzismo che colpisce i cutresi solo per la loro provenienza geografica.

Una posizione amplificata anche da alcuni media, a partire, ritengono i giudici, dal giornalista Marco Gibertini, che nella sua trasmissione indipendente nella tv locale Telereggio dà spazio alle ragioni di personaggi vicini alle cosche.

Succede mesi dopo, nell’autunno, quando emerge anche un altro fatto: una cena del 21 marzo del 2012, in cui alcuni uomini della ‘ndrangheta avevano incontrato l’allora capogruppo del Popolo della Libertà nel Consiglio Comunale di Reggio Emilia Giuseppe Pagliani, accusato in Aemilia di aver contribuito a rafforzare il gruppo ‘ndranghetista emiliano – anche in relazione a quelle interdittive antimafia – in cambio della promessa di un aiuto alle successive elezioni. Da questa accusa Pagliani è stato assolto alla fine dello scorso anno.

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Gli investigatori ritengono però che Gibertini non sia solo un megafono per gli uomini delle cosche, ma lo valutano come un vero e proprio punto di contatto tra il mondo imprenditoriale-politico reggiano e quello mafioso.

Gibertini è stato condannato in via definitiva a 9 anni e 4 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa anche per aver pubblicizzato le possibilità di recupero crediti offerte dagli uomini delle ‘ndrine. Era lui, infatti, che indicava Nicolino Sarcone, boss condannato in Aemilia e per gli omicidi del ‘92, come un riferimento sicuro e di successo nel campo del recupero crediti e degli investimenti per imprenditori locali. Imprenditori che diventavano poi vittime di una vera e propria azione estorsiva.

C’è poi un ultimo aspetto: quello legato al giro di fatture false finalizzate alla frode fiscale e all’evasione. Reati che sono al centro di un altro processo, in cui lo stesso Gibertini è imputato: Octopus, che inizierà il prossimo 22 febbraio.

La politica e i “traditori dello Stato”

C’è ancora un mondo: quello politico. Un mondo che, come gli altri, si intreccia con quello mafioso e quello imprenditoriale. C’era Giuseppe Pagliani che incontra i boss in un ristorante, assolto in primo grado, condannato in secondo, rimandato dalla Cassazione in Appello e poi di nuovo assolto.

C’era Giovanni Paolo Bernini, ex assessore del Popolo delle Libertà di Parma, anche lui inizialmente accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e poi di voto di scambio politico-mafioso, poi definitivamente prosciolto con la dichiarazione di prescrizione del reato di corruzione elettorale “semplice”. E c’è Carlo Giovanardi, ex senatore anche lui del Pdl, coinvolto in uno degli ultimi filoni di Aemilia: quello che ha preso il nome di “Traditori dello Stato”.

Perché tra i personaggi coinvolti ci sono politici, funzionari della Prefettura di Modena e imprenditori accusati di aver intimidito i rappresentanti delle istituzioni che hanno emesso alcuni provvedimenti interdittivi sfavorevoli alle aziende legate alla ‘ndrangheta, e in particolare a una: la Bianchini Costruzioni, la stessa che ha lavorato nella ricostruzione post-terremoto, insieme agli uomini delle cosche.

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La società di Augusto Bianchini, titolare della società condannato a 9 anni di reclusione nel secondo grado del processo Aemilia, e quella del figlio Alessandro, anche lui condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, erano bloccate da provvedimenti prefettizi dalla metà del 2013 proprio per gli allora presunti rapporti dei due imprenditori con la criminalità organizzata.

A causa dei provvedimenti le loro società non potevano essere ammesse alle “white list” e vincere appalti, in particolare proprio quelli per la ricostruzione post-terremoto del 2012. Ecco quindi che, secondo la Dda di Bologna, sarebbe intervenuto il senatore Carlo Giovanardi per cercare di far inserire le aziende nella white list: parla con il prefetto e con il questore di Modena, chiede i motivi per cui le aziende legate ai Bianchini non possono essere ammesse. Secondo i pm avrebbe poi minacciato di procedere con una interrogazione parlamentare. Sempre stando agli investigatori sarebbero finiti nel mirino del senatore anche due ufficiali dei Carabinieri, pretendendo che cambiassero posizione rispetto agli imprenditori modenesi.

Così Giovanardi a novembre dello scorso anno è stato rinviato a giudizio. Il processo è iniziato il 17 dicembre e in quella stessa data i suoi avvocati hanno chiesto il proscioglimento immediato: Giovanardi, secondo i difensori, avrebbe svolto le azioni che il Tribunale gli contesta nel suo ruolo di parlamentare e avrebbe quindi diritto all’immunità. Secondo i giudici invece, le condotte non si possono inquadrare nella sua funzione di parlamentare: si tratta di minacce e deve essere processato. Una decisione che, però, spetta al Senato, che dovrebbe decidere entro novanta giorni.

Anche perché non si tratta di minacce “semplici”, ma di quelle che il codice penale definisce minacce a corpo politico, amministrativo e giudiziario, minacce e oltraggio a pubblico ufficiale per le presunte pressioni esercitate nel 2016 su funzionari della prefettura e del gruppo interforze di Modena e di rivelazione di segreti d’ufficio, come si legge tra i capi d’accusa.

L'immunità parlamentare

L’articolo 68 della Costituzione italiana prevede che

“i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni” e che

“senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza”.

Secondo la legge, se ad essere processato è un parlamentare, il Tribunale può procedere in due modi: prosciogliere l’imputato – come richiesto in questo caso dagli avvocati di Carlo Giovanardi – o mandare gli atti alla Camera di appartenenza affinché questa si esprima se l’attività che viene contestata era un’attività di tipo parlamentare o meno – come ha fatto il Tribunale di Modena.

La stessa autorizzazione serve, sempre secondo l’articolo 68 della Costituzione, per le intercettazioni. Nel caso di Giovanardi, la Giunta per le Autorizzazioni a procedere del Senato aveva autorizzato l’uso di una parte delle intercettazioni della Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna solo il 10 luglio 2020, dopo quasi un anno dalla richiesta del Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Bologna.

Tra le dogane e i fondi europei

«Io ho mille amicizie da tutte le parti… bancari… oleifici… industriali, tutto quello che vuoi… quindi io so dove bussare, quindi se tu mi tieni esterno ti dà vantaggio, se tu mi immischi, dopo che mi hai immischiato e mi hai bruciato, è finita, perché la gente ti chiude le porte».

Parlava così l’ex funzionario dell’Agenzia nazionale delle Dogane Giuseppe Caruso, condannato in primo grado a vent’anni di carcere nel processo Grimilde, altro filone di Aemilia. La condanna è per associazione mafiosa: Caruso è considerato infatti uno degli uomini di vertice della cosca, in particolare come uomo di contatto tra diverse realtà: dal suo ruolo alle Dogane, secondo l’accusa ha facilitato la cosca aiutandola anche ad accedere a fondi europei in ambito agricolo. Eppure, dopo il suo lavoro all’Agenzia delle Dogane, ha assunto un ruolo di primo piano nella politica piacentina: è stato infatti presidente del consiglio comunale di Piacenza in quota Fratelli d’Italia. I reati per i quali è stato condannato non si intrecciano con il suo ultimo ruolo politico, ma mostrano come la “zona grigia” sia sempre più larga e sfumata.

Un aspetto che il processo Grimilde spiega non solo nel suo lato strettamente processuale – in cui emergono i reati di natura economica, sempre aggravati dal metodo mafioso, legati all’infiltrazione nel tessuto imprenditoriale della regione a partire da Brescello, il primo comune sciolto per mafia in Emilia-Romagna – ma anche nello stesso nome, che deriva dalla ‘Sindrome di Grimilde’: è la sindrome della strega di Biancaneve, quella della paura dello specchio e di ciò che si può vedere.

Legata alle mafie ha un significato che ha chiarito l’ex procuratore nazionale antimafia Franco Roberti nel suo libro “Il contrario della paura”: «Passata l’indignazione del momento passa anche l’attenzione e dunque la lotta. Questo è possibile proprio per via della “sindrome di Grimilde”. Allontanarsi dallo specchio è un modo per scansare il problema. E raccontarsi una bugia».

CREDITI

Autori

Sofia Nardacchione

Infografiche & Mappe

Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi

Come la ‘ndrangheta è arrivata in Lussemburgo

#OpenLux

Come la ‘ndrangheta è arrivata in Lussemburgo
Cecilia Anesi
Giulio Rubino
Jérémie Baruch
Luc Caregari

Quando lo hanno arrestato il 9 agosto del 2019 in un bistrot nel cuore di Differdange, nel sud-ovest del Lussemburgo, Santo Rumbo deve essere rimasto sorpreso. Giovane promessa della ‘ndrangheta, il trentaduenne originario di Siderno si comportava come un piccolo ristoratore qualsiasi, mantenendo un basso profilo. Non sembrava immaginare che la polizia lo avrebbe arrestato proprio nel Granducato. Lì, credeva di passare inosservato – protetto dalla massiccia presenza di emigrati italiani e dalla discrezione tipica del Lussemburgo.

Ma si sbagliava. La Squadra mobile di Reggio Calabria, coordinata dal Servizio centrale operativo e dalla Direzione distrettuale antimafia, non lo perdeva d’occhio da quando, rientrato dal Canada in Calabria si era poi stabilito in Lussemburgo.

«Sapevamo che stesse vivendo in Lussemburgo grazie ad una serie di prove diverse – ha spiegato a IrpiMedia un inquirente che ha guidato l’operazione “Canadian Connection 2” contro la ‘ndrangheta di Siderno in Canada. «Alcuni indagati che stavamo intercettando ne parlavano, svelando che era in Lussemburgo, ma non abbiamo mai avuto occasione di indagare cosa stesse facendo lì».

«Stavamo analizzando la struttura canadese del Siderno Group of Crime – spiega un’altra fonte investigativa -, ed è in quel contesto che è emerso Rumbo, non solo in quanto figlio di Riccardo Rumbo (oggi al 41-bis) ma come giovane boss, con una dote molto alta nella gerarchia mafiosa».

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Il Siderno Group of Crime

La ‘ndrangheta di Siderno da oltre trent’anni ha costruito una roccaforte in Canada, dove la chiamano Siderno Group of Crime. Così una piccola cittadina della costa ionica si è trasformata in una capitale internazionale del crimine, da cui dipendono locali (unità territoriali della ‘ndrangheta) in mezzo mondo e da cui partono costantemente delegazioni per coordinare, in un unica regia, lo sforzo espansivo e commerciale della potente cosca Commisso che ne siede alla guida. E che ne tira le fila riguardo la principale attività: il narcotraffico.

È infatti grazie ai soldi della cocaina che i sidernesi sono diventati tanto ricchi e potenti. Nel 2015, l’indagine Acero Krupy aveva scoperto una strategica base per il narcotraffico internazionale gestita dalla cosca Commisso in Olanda, all’interno del mercato dei fiori. La scusa perfetta per importare tonnellate cocaina (e rose) dalla Colombia.

Ma mentre il processo per abbreviato si è concluso a giugno 2020 con 27 condanne ridimensionate e 10 assoluzioni, i poliziotti della Squadra Mobile non hanno mai smesso di indagare in questi anni. Scoprendo così che in Canada il clan era più attivo che mai, addirittura in grado di iniziare a doti di altissimo livello rampolli di Siderno. Un’evidenza che suggerisce come, nell’adattarsi dopo gli arresti di Acero Krupy, alcune delle più delicate operazioni di ‘ndrangheta fossero state spostate all’estero per tenerle “protette”.

Infatti, come emerge da un’intercettazione, in Canada Santo Rumbo sarebbe stato investito di una dote appena sopra a quella del “Vangelo”, quindi la dote del “Trequartino”, al di sopra della quale ci sono solo altre due doti, il “Quartino” e “Padrino”.

Se confermata, questa informazione significherebbe che Santo Rumbo, nonostante la giovane età, siederebbe tra le più alte sfere del potere ‘ndranghetista, lo stesso gruppo di persone che governano la “Provincia”, ovvero l’istituzione che guida l’intera ‘ndrangheta. Il processo è appena iniziato. Santo Rumbo, assieme ad altri 19 imputati, ha ottenuto il giudizio abbreviato. Per il momento, fa sapere il suo legale, Giuseppe Calderazzo del foro di Locri, non è detenuto in carcere poiché «il Tribunale della libertà di Reggio Calabria ha annullato l’ordine di carcerazione per mancanza di indizi di colpevolezza».

Dall’indagine “Canadian Connection” emerge però come Santo Rumbo sia percepito dalla ‘ndrangheta di Siderno, incluso il gruppo canadese, come espressione del padre Riccardo – condannato in via definitiva per mafia – e rappresentante quindi della ‘ndrina Rumbo-Galea-Figliomeni.

#OpenLux

#OpenLux è un’inchiesta collaborativa, di cui IrpiMedia è partner, che parte da un database raccolto da Le Monde, reso ricercabile da Occrp sulle 124 mila società che popolano il registro delle imprese lussemburghese. Ha permesso di analizzare i nomi dei proprietari delle società registrate nel Granducato, finora schermati da prestanome e professionisti.

Rumbo si era già dimostrato un’abile spalla per il padre in passato, quando aveva gestito un’attività illecita di prestiti finanziari a Siderno. Assolto dall’accusa di mafia, è però stato condannato per attività creditizia illecita nel 2016.

È per la sua intraprendenza, che gli inquirenti ritengono preoccupante il suo stabilirsi in Lussemburgo, uno dei “buchi neri” della finanza mondiale. «Come cittadino europeo – risponde il legale di Rumbo – ha il diritto di stabilire la propria residenza in qualunque paese della comunità senza avere necessità di ragioni specifiche. In realtà – conclude Calderazzo – ha scelto il Lussemburgo per allontanarsi dalla terra che tanta sofferenza e problemi gli ha arrecato in ragione di quelli che fin qui si sono dimostrati tutti pregiudizi infondati».

La ‘ndrangheta in Lussemburgo

Quando si tratta di allertare le controparti straniere rispetto alla minaccia posta dalla silenziosa infiltrazione della ‘ndrangheta, le procure calabresi sostengono di trovarsi spesso in difficoltà, specialmente con Paesi che da un lato non conoscono il danno sociale della criminalità organizzata, e da un’altra hanno una tradizione di forte protezione del capitale privato, come l’intera zona del Benelux.

#OpenLux

Problemi in paradiso

Tre mesi dopo Openlux da più parti arrivano richieste al Granducato e all’Unione Europea per maggior trasparenza e controllo nel sistema fiscale

«La ‘ndrangheta – spiega il procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo – guarda al Lussemburgo con interesse per investire e riciclare capitali proprio per la presenza, in quello Stato, di sistemi finanziari e “casseforti” discrete molto appetibili per chi ha necessità di occultare provviste illecite e fondi neri».

«In Lussemburgo – conclude Lombardo – è stata riscontrata l’operatività di soggetti di ‘ndrangheta non catalogabili in modo agevole, proprio per la presenza di rapporti molto risalenti nel tempo. In altre occasioni sono emersi riferimenti a persone legate da vincoli di parentela con soggetti che avevano operato in quei territori in periodi in cui l’attenzione investigativa non era particolarmente alta, soprattutto in tema di analisi dei flussi finanziari, o non era stata ancora avviata l’azione investigativa orientata a ricostruire tutte le proiezioni estere della ‘ndrangheta».

La migrazione di cittadini calabresi in Lussemburgo è iniziata infatti già nel diciannovesimo secolo, quando la zona sud-ovest chiamata Minett – e in particolare la città di Differdange – divenne un polo fondamentale per l’industria dell’acciaio. Come molti altri Paesi nel boom dell’industrializzazione, Germania, Stati Uniti, Canada, Australia, anche il Lussemburgo ha attratto una massiccia migrazione di lavoratori dalle zone più rurali del Sud Italia.

Federico Varese, professore di criminologia all’università di Oxford, spiega come la ‘ndrangheta si muova seguendo una migrazione a catena, lasciando che prima si instaurino in un luogo un numero di membri della famiglia, per poi farli raggiungere da altri. Questo, secondo Varese, è una delle chiavi del successo per questa mafia. «La ‘ndrangheta – spiega Varese – riesce a essere molto più presente a livello internazionale rispetto alle altre mafie italiane anche grazie al fatto che tra loro gli affiliati sono tutti parenti».

«Il Lussemburgo non è tipicamente al centro di indagini antimafia, ma da indagini sui Paesi confinanti (Germania, Belgio e Olanda) emerge come territorio di transito sia per gli individui mafiosi in sé, sia per le loro attività e soldi», spiega a IrpiMedia Anna Sergi, professoressa e ricercatrice all’università di Essex e una dei maggiori esperti del fenomeno di internazionalizzazione della ‘ndrangheta.

L’alleanza tra Mammola e Siderno nel Minett

L’analisi della rete di persone che circondano Santo Rumbo in Minett sembra confermare l’importanza del Lussemburgo non solo come paese di transito, ma come vera e propria base per gli affari della ‘ndrangheta moderna – non certo quella coppola e lupara dei sequestri, ma quella in giacca e cravatta che parla francese e inglese fluentemente. Capace di sedersi tanto al tavolo delle trattative per i container di cocaina a Rotterdam, quanto al cospetto di una rispettabile istituzione bancaria o presente agli eventi delle ambasciate. Una ‘ndrangheta camaleontica, invisibile, strategicamente posizionata sulla triplice frontiera tra Belgio, Francia e Lussemburgo.

È infatti dalle cittadine di Differdange e Niederkorn che la ‘ndrangheta di Siderno può gestire indisturbata le sue operazioni nel cuore d’Europa, appoggiandosi ai primi arrivati fra i loro alleati in Lussemburgo, i clan di Mammola.

«Storicamente – spiega Sergi – mentre il Siderno Group of Crime stava sfruttando le opportunità date dalla loro presenza in Canada e in Australia, i clan di Mammola avevano le entrature giuste per colonizzare il Benelux grazie a relazioni personali e familiari già presenti nell’area.

E, come hanno svelato indagini come la nota “Crimine”, i clan di Mammola sono sempre stati parte della ‘ndrangheta di Siderno, dalle cui gerarchie hanno preso ordini e direzioni.

Analizzando i beneficiari effettivi delle società lussemburghesi, il progetto #OpenLux ha notato come una fetta di queste siano state aperte da persone del sidernese, principalmente da una rete di giovani imprenditori di Mammola – un paese di 2mila abitanti arroccato ai piedi dell’Aspromonte con lo sguardo al Mar Jonio.

Giovani imprenditori

Tra questi, spicca un gruppo di venticinquenni che hanno registrato due aziende di ristorazione poi passate nelle mani di due figli di boss, uno di Mammola e uno di Siderno. Nel caso di Rumbo, l’azienda in questione si chiama I Bronzi Sarl, aperta da due fratelli mammolesi nel 2014 con 12.500 euro di capitale sociale.

La prima attività de I Bronzi è una yogurteria, Happy Yogo, nel centro storico di Differdange. Una vetrina su una delle vie principali, tra storici palazzi nel tipico stile architettonico di quelle zone, tra mattoni rossi e cornicioni grigi a disegnarne le ombre. Ma la yogurteria ha avuto vita breve e l’azienda è stata dichiarata “dormiente”, cioè senza nessun movimento finanziario, nel 2015. Poi, a gennaio 2019 è stata rilevata da un giovane sidernese che ha nominato Santo Rumbo e un venticinquenne di Siderno amministratori.

I ristoranti Happy Yogo e Diff K’Fé nella città di Differdange in Lussemburgo – Foto: Facebook

A marzo 2019 i tre hanno inaugurato la nuova gestione di un bar sport a quattro minuti di auto dal centro, il Diff K’Fé Bar, trasferendoci anche la sede sociale de I Bronzi.

I bilanci depositati da quest’ultima danno solo informazioni sullo stato patrimoniale della società, evitando per altro di spiegare la ragione delle perdite (88.000 euro nel 2019), e non danno un quadro del conto economico. Il Lussemburgo infatti, come accade in generale nei regimi forfettari, non richiede che un’azienda di questa taglia dichiari i profitti o si sottoponga ad un auditing regolare. Non vi è, in breve, l’obbligo di avere un professionista che controlli i bilanci.

È quindi impossibile sapere quanti soldi ha realmente gestito l’azienda in questi anni. Stando alle dichiarazioni però, dal 2015 l’azienda è “dormiente” e il flusso economico si è completamente fermato nel 2017 e nel 2018, per ripartire nel 2019. Anno in cui Santo Rumbo ne ha preso le redini come amministratore per gestire il Diff K’Fé Bar. OpenLux ha chiesto lumi all’avvocato di Santo Rumbo in merito: «Rumbo – spiega il legale – è un mero dipendente e pertanto non aveva nè titolo nè ragioni di compartecipazione alle vicende economiche dell’azienda». Strano che un amministratore di un’azienda non abbia idea delle vicende economiche che la riguardano.

Una gestione ancora più anomala si incontra nel caso di un’altra azienda, la SAA Sarl, aperta dall’ex amministratore e proprietario mammolese dei I Bronzi con 1.000 euro di capitale sociale. Registrata nel giugno del 2019 la SAA avvia un ristorante il “Romeo & Giulietta” posizionato proprio alle spalle della ex yogurteria de I Bronzi. L’attività ha però vita breve e ad agosto 2020 abbassa le serrande.

Balletti societari

Ma la gestione a lungo termine di queste attività di ristorazione non sembra essere l’obiettivo principale di questi imprenditori. Infatti come nel caso de I Bronzi, anche stavolta il giovane mammolese apre la società (questa volta con altri tre coetanei) SAA SARL-S, proprietaria appunto del ristorante “Romeo & Giulietta”, per uscirne solo dieci mesi dopo. Resta come unico socio e amministratore un altro soggetto cresciuto in un contesto di ‘ndrangheta: Salvatore Scali.

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Salvatore è figlio di Rodolfo Scali, ritenuto capo locale di Mammola e per questo condannato nel processo scaturito dall’inchiesta Crimine del 2010. Secondo l’indagine Minotauro della Dda di Torino, Rodolfo Scali non solo è il capo-locale di Mammola ma anche responsabile per l’assegnazione delle doti nella locale (cellula strutturata di ‘ndrangheta) di Cuorgnè, in Piemonte. Scali, in libertà dal 2016, è stato tratteggiato nell’inchiesta Crimine come un boss di peso, uno dei pochi in cui aveva fiducia Giuseppe Commisso alias U Mastru, capo dell’omonima ‘ndrina di Siderno e dell’intera Provincia all’epoca. Diverse fonti di polizia concordano sul fatto che Rodolfo Scali continui ad essere il capo locale a Mammola, e che risponda alla ‘ndrangheta di Siderno.

Nell’ambito di recenti indagini antidroga, gli inquirenti hanno notato diversi viaggi che Rodolfo Scali e suo figlio Salvatore avrebbero fatto dalla Calabria a Charleroi, città del Belgio vicino a Bruxelles, e dove avrebbero incontrato due fratelli di Mammola da tempo espatriati e titolari di attività di commercializzazione e import-export di cibo italiano. Sarebbero lo stesso nucleo che nel 2005 avrebbe facilitato in quella zona la latitanza dei due omonimi cugini Bruno Giorgi, di San Luca, ricercati per narcotraffico internazionale, i quali lavoravano con un altro trafficante arrestato in Belgio, Sebastiano Signati.

Mentre Scali jr non è mai stato indagato per mafia, gli inquirenti non ritengono sorprendente la sua presenza in Lussemburgo, in un circuito di persone appartenenti a famiglie mammolesi alleate degli Scali e in contatto con Rumbo.

È evidente dalla lettura dei documenti depositati presso la camera di Commercio del Lussemburgo, che sia Rumbo sia Scali si siano appoggiati allo stesso giro di giovani mammolesi per avere accesso ad aziende con cui aprire ristoranti. Nel caso di Rumbo, le redini sono state condivise con due giovani sidernesi, come dimostrano le carte ma anche le foto dell’inaugurazione del Diff K’Fé Bar pubblicate su Facebook.

A stappare una bottiglia di spumante con Rumbo, ci sono i due soci. Non direttamente connessi alla ‘ndrangheta, ma comunque con un profilo notevole.

Per approfondire

Perché i criminali scelgono il Lussemburgo

Il Granducato è la casa di tutti: attori, cantanti, miliardari, sportivi, politici, multinazionali. Anche i criminali però, tra segretezza e fiscalità favorevole, lo hanno scelto

Uno di loro è il diretto nipote di Tito Figliomeni, alleato di Riccardo Rumbo (padre di Santo) come ha dimostrato l’indagine Recupero-Bene Comune del 2010 che ha portato alla condanna per mafia di entrambi. Tito riuscì a scappare in Canada dove aveva potuto sfruttare la parentela con i Figliomeni canadesi. Viene arrestato ed estradato nel 2018.

L’altro è noto all’intelligence europea come narcotrafficante attivo in Nord Europa. Il 24 febbraio 2006 era stato arrestato in Francia, a Saint Melaine, con un carico di anfetamine.

La comunità migrante italiana nel mirino delle cosche

Nascere in un contesto criminale non significa necessariamente crescere criminali. Anna Sergi sottolinea come la comunità mammolese presente nel sud-ovest del Lussemburgo rischi però di diventare essa stessa un obiettivo della criminalità organizzata. «Mammola – spiega Sergi – è un paese minuscolo che non offre molte opportunità ai giovani, e perciò diventa fin troppo facile che i ragazzi vengano illusi dall’allettante possibilità di trasferirsi all’estero e aprire attività commerciali per e grazie alla ‘ndrangheta e ai suoi soldi e contatti».

I ristoranti e i bar che OpenLux ha identificato a Differdange sembrano cadere esattamente all’interno di questo contesto. Giovani che non sono necessariamente parte della criminalità organizzata caduti vittima della fascinazione di una vita facile dando la disponibilità a colonizzare nuovi territori con attività che sono, di fatto, una copertura per altro.

Analizzando il registro dei beneficiari effettivi OpenLux ha identificato una rete di 17 famiglie di Mammola – per lo più tutti ristoratori nel Minette. Molti di loro hanno ristoranti vicini, sono residenti nelle stesse vie e sono tutti in tutti “amici” sui social network. Alcuni di questi ristoranti presentano dei chiari riferimenti folkloristici alla mafia: tra grembiuli con il Padrino e poster di Scarface sui muri.

Una stranezza che accomuna buona parte di queste attività dalla vita breve. Ristoranti che, a giudicare dalle fotografie delle inaugurazioni, erano stati aperti con investimenti significativi e con cura minuziosa chiudono dopo pochi anni, a volte dopo pochi mesi, eppure i soggetti che li avevano aperti trovano prontamente i capitali per aprirne di nuovi.

Secondo gli inquirenti che hanno arrestato Rumbo, la stranezza di vedere società con una prima iniezione di capitale derivante dalla Calabria, che aprono un ristorante, e poi poco tempo dopo lo chiudono e ne aprono un altro, potrebbe essere sintomo di una precisa strategia che la ‘ndrangheta ha utilizzato in altri contesti – per esempio nella vicina Germania – per riciclare fondi illeciti.

Il progetto OpenLux sta mettendo molta pressione sulle autorità del Granducato. In una conferenza dei giorni scorsi il governo ha ribadito che il Paese è «sotto attacco da parte di un gruppo di giornalisti guidati dalla gelosia causata dalle economie dei loro Paesi».

Per confermarlo però, servirebbero indagini approfondite, difficili da portare avanti in rogatoria con un Paese, il Lussemburgo, che della segretezza bancaria e fiscale ha fatto la sua caratteristica principale.

Secondo il Financial Secrecy Index (indice di segretezza finanziaria) elaborato da Tax Justice Network, tra i vari problemi del Lussemburgo dal punto della trasparenza fiscale vi è anche l’assenza di dialogo tra le banche private e la locale Camera di Commercio. Nelle opache banche private del Paese ci sono oltre 350 miliardi di euro, e l’accessibilità a questo sistema bancario è la vera attrattiva del Granducato. Non è quindi il ristorante in sé il vero obiettivo per i clan, quanto invece la possibilità, tramite la costituzione di una piccola società di ristorazione in Lussemburgo, di aprire un conto bancario nel Paese.

L’analisi dei documenti ottenuti da OpenLux e la presenza di alcuni soggetti legati alla ‘ndrangheta nel Minett rappresenta solo un primo passo all’interno di un’enorme nuova frontiera investigativa. Emerge dai dati analizzati come sia almeno dal 1996 che soggetti legati a famiglie di Siderno e Mammola registrano imprese in Lussemburgo, mentre sono oltre vent’anni che le procure antimafia perdono traccia di capitali, attività e interi rami di famiglie mafiose nel momento in cui approdano nel Granducato.

Nel caso specifico della ‘ndrina Rumbo-Figliomeni, il progetto OpenLux ha riscontrato la presenza di un soggetto sospettato di gestire imprese immobiliari per la ‘ndrina tra gli anni 2002 e 2009 e che proprio nel 2008 ha aperto anche nel Granducato una immobiliare assieme a due ristoratori di Mammola oggi famosi nel Minett.

Il progetto OpenLux sta mettendo molta pressione sulle autorità del Granducato. In una conferenza dei giorni scorsi il governo ha ribadito che il Paese è «sotto attacco da parte di un gruppo di giornalisti guidati dalla gelosia causata dalle economie dei loro Paesi». Al contrario l’auspicio di OpenLux è quello di portare verso una mappatura reale della penetrazione criminale nel Lussemburgo, sollecitando alla collaborazione gli organismi investigativi dei rispettivi Paesi.

Processo “Canadian 'ndrangheta”, i primi verdetti

Nel filone con rito abbreviato nell’ambito del processo scaturito dagli arresti dell’operazione “Canadian ‘ndrangheta” sono stati condannati lo scorso 3 marzo otto imputati. É stato invece assolto «perché il fatto non sussiste» Santo Rumbo, difeso dall’avvocato Giuseppe Calderazzo, e arrestato in Lussemburgo nell’agosto del 2019. La sentenza verrà depositata in novanta giorni. Allora la procura deciderà se fare ricorso contro l’assoluzione di Rumbo.

Ultimo aggiornamento 4 marzo 2021

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Giulio Rubino
Jérémie Baruch (Le Monde)
Luc Caregari (WOXX)

In partnership con

Le Monde
WOXX

Infografiche & Mappe

Lorenzo Bodrero

Editing

Giulio Rubino

Foto

Occrp

L’ex capo della polizia belga e gli Aquino soci in affari nel narcotraffico

6 Novembre 2020 | di Carlotta Indiano

Il 27 ottobre al porto di Anversa, in Belgio, sono state sequestrate 11,5 tonnellate di cocaina purissima. La notizia è stata rilasciata solo ieri dalla polizia federale belga.

Il carico era nascosto in cinque container diversi, sepolto da rottami metallici, a bordo di una nave proveniente dalla Guyana. Secondo il procuratore federale di Anversa si tratta del più grande sequestro di cocaina mai registrato al di fuori dell’America latina, e conferma come, con un livello di produzione in Colombia ai massimi storici, le dimensioni dei carichi inviati in Europa siano in costante aumento, nonostante il lockdown.

Gli inquirenti hanno già indicato i responsabili di questa spedizione, accusando l’ex capo della polizia belga Willy Van Mechelen, arrestato il primo ottobre insieme ad altre 22 persone e attualmente accusato di riciclaggio e traffico di droga. Assieme a lui, sarebbero coinvolti membri della famiglia Aquino, un gruppo di narcos di origine italiana di cui Irpi aveva già scritto due anni fa.

Per approfondire

Frutta Connection

Come le Fiandre sono diventate un hub internazionale del traffico di cocaina: un filo rosso tra Colombia, Calabria, Belgio, Olanda e Slovacchia
23 Luglio 2018

Come da modus operandi della famiglia di trafficanti infatti, i container sequestrati ad Anversa erano diretti altrove, per l’esattezza a Zeebrugge, località portuale di Bruges, nelle Fiandre Occidentali. Al suo arrivo, i container sulla nave sono stati immediatamente trasferiti al porto di Anversa dove il carico avrebbe fruttato circa 450 milioni di euro, secondo le stime della polizia federale belga.

Il sequestro si inserisce in una lunga scia di traffici criminali. Un’inchiesta di Irpi assieme ad altri giornalisti di Occrp del 2018 ha descritto una cerchia internazionale di trafficanti di droga legati alla mafia italiana con sede in Belgio e fornitori in Costa Rica e Colombia, comandata dalla famiglia Aquino. Il boss all’epoca era Silvio Aquino. Condannato una prima volta nel 1998 per narcotraffico e nel 2004 per il rapimento di un fornitore che gli aveva venduto zucchero al posto di cocaina, Silvio Aquino era stato poi condannato per l’export di 6,5 tonnellate di ecstasy verso l’Australia assieme a un esponente della ‘ndrangheta.

Considerato uno dei più grandi trafficanti di droga nella storia criminale belga, nel 2015 viene freddato da alcuni killer bosniaci per un rapimento forse finito male. Di origini calabresi, Silvio e i suoi fratelli erano cresciuti a Maasmechelen, nelle Fiandre orientali della provincia di Limburgo, e avevano costruito il loro cartello tra Sud America, Belgio e Olanda. Secondo l’inchiesta di Irpi, tonnellate di cocaina purissima venivano infatti trasportate dalla famiglia Aquino attraverso Anversa fino al porto di Rotterdam tramite spedizioni di frutta dall’America Latina all’Europa occidentale, facendo dell’Olanda la porta d’ingresso dell’Europa per la cocaina sudamericana.

Il quasi ottantenne Willy Van Mechelen, da parte sua, è un versatile personaggio nel panorama criminale belga. Secondo il quotidiano locale PZC, l’ex capo della polizia belga comandava una banda composta da agenti corrotti e commercianti affiliata ad organizzazioni criminali più strutturate. Dedito al traffico di diamanti negli anni ‘80, tanto da ricoprire un controverso ruolo nella fatale rapina del commerciante di diamanti Schlomo Goldberg, ucciso dagli agenti di polizia incaricati di condurre l’operazione, l’ex capo di polizia è stato già condannato a una multa di 100mila euro e a cinque anni di prigione nel 2002 per traffico di hashish.

Nonostante la condanna, Van Mecheelen riuscì a scappare in Angola. Secondo l’ex giudice istruttore di Anversa, Walter De Smedt, vi erano già in passato prove che Van Mechelen collaborasse con altri agenti e graduati olandesi per il trasporto dell’hashish in Belgio. Secondo De Smedt, l’uomo poteva contare sulla protezione delle forze dell’ordine e della magistratura avendo negli anni raccolto dossier e informazioni sensibili su magistrati e ufficiali della polizia. Il primo incontro tra l’ex giudice e Van Mechelen, allora aiutante del servizio investigativo BOB, brigata di indagine dell’ex gendarmeria belga oggi fusa nella polizia giudiziaria federale, era avvenuto ad Anversa nel 1988. Al tempo De Smedt, Van Mechelen e il suo team avevano appena arrestato una banda di truffatori tedeschi ottenendo la prima pagina sul giornale Gazet van Antwerpen. Diventato capo di un nuovo servizio all’interno della gendarmeria, il Judicial Information Service (GID), Van Mechelen inizia in quel momento a svolgere indagini all’insaputa della magistratura iniziando ad operare come una scheggia impazzita e avviando le sue attività di dossieraggio su magistrati e colleghi.

Da guardia a ladro

Se il carico intercettato fosse arrivato a destinazione, dunque, sarebbe andato ad aggiungersi al curioso curriculum di Willy Van Mechelen e la sua banda. Tra le 22 persone arrestate, c’è anche Lucio Aquino, componente dell’omonima famiglia, sospettata di aver fatto passare almeno 3 tonnellate di cocaina attraverso il porto di Anversa. Durante il loro arresto sono stati sequestrati 1,3 milioni di euro in contanti e quaranta auto di lusso.

Van Mechelen sembra anche essere coinvolto in pratiche di riciclaggio all’interno della comunità ebraica. Un gruppo di 45 ebrei ortodossi è sospettato di aver riciclato quasi 9 milioni di euro per le bande di narcotraffico sudamericane. Nel corso delle indagini, 325.990 euro in contanti sono stati ritrovati nell’auto dell’ex capo della polizia all’interno di un parcheggio nei pressi di Utrecht. Una volta arrestato, Van Mechelen si è presentato in tribunale senza avvocato. Il suo difensore infatti era a sua volta detenuto per associazione a delinquere con la banda dei Costa, un gruppo di narcotrafficanti che orbita attorno a Van Mechelen e accusato di aver fatto passare almeno 6,5 tonnellate di cocaina attraverso il porto di Anversa per un giro d’affari dal valore di 195 milioni di dollari.

Editing: Luca Rinaldi | Foto: il porto di Anversa – TonyV3112/Shutterstock

Da Cutro a Reggio Emilia: la colonizzazione della ‘ndrangheta in Emilia Romagna

#NdranghetaEmiliana

Da Cutro a Reggio Emilia: la colonizzazione della ‘ndrangheta in Emilia Romagna

Sofia Nardacchione

«Dove altri non volevano vedere bollarsi come territorio di ‘ndrangheta e negavano persino l’evidenza, non c’erano anticorpi, la storia lo sa. La spina dorsale non esisteva proprio, in tanti erano genuflessi, accondiscendenti, conniventi e contigui».

Il territorio definito «di ‘ndrangheta» è Reggio Emilia, le parole quelle di Antonio Valerio, collaboratore di giustizia con un passato non remoto nella criminalità organizzata calabrese alla sbarra nel processo Aemilia. C’è anche lui tra le 117 persone che il 28 gennaio 2015 vengono arrestate in Emilia-Romagna nella più importante maxi-operazione contro la ‘ndrangheta nel Nord Italia.

28 gennaio 2015

Emilia-Romagna, Lombardia, Calabria. Interi paesi nelle tre regioni italiane all’alba del 28 gennaio del 2015 si svegliano con i suoni di sirene, elicotteri, volanti delle forze dell’ordine. È l’inizio di tre operazioni congiunte: Aemilia, Pesci e Kyterion. Indizi, tappe, pedine di un sistema di ‘ndrangheta che parte da Cutro, diecimila anime in provincia di Crotone, e arriva a Reggio Emilia e poi, ancora, a Modena, Parma, Piacenza, Mantova.

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Sono 160 le persone arrestate in tutta Italia, 117 solo in Emilia-Romagna. Le sirene che svegliano paesi e città all’alba colpiscono soprattutto questa regione, che continuava a ritenersi immune dal radicamento mafioso. In Lombardia c’era già stata, cinque anni prima, l’indagine Infinito, in Calabria centinaia di operazioni più o meno grandi. La regione che geograficamente è al centro rispetto alle altre due colpite dai blitz, si trova ad essere crocevia di quest’ultima, ritenuta tra le più importanti della storia recente.

Questi i numeri del maxiprocesso alla ‘ndrangheta emiliana partito nel marzo 2016: 239 imputati complessivi – colpiti da misure cautelari anche in successivi blitz che proseguono fino al luglio del 2015 – poi divisi tra riti abbreviati (71), patteggiamenti, (19), proscioglimenti, (2), e i 147 che andranno a giudizio nel rito ordinario. 189 capi di imputazione: associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsioni, usure, furti, incendi, commercio di sostanze stupefacenti. Oltre agli altri, forse più inquietanti, che raccontano le modalità d’infiltrazione e radicamento della ‘ndrangheta in questa regione: come si legge nell’ordinanza dell’operazione, lo scopo dell’associazione era quello di “acquisire direttamente e indirettamente la gestione e/o controllo di attività economiche”.

Come si legge nell’ordinanza dell’operazione, lo scopo dell’associazione era quello di “acquisire direttamente e indirettamente la gestione e/o controllo di attività economiche”

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Quello che prenderà il via tra Bologna e Reggio Emilia è un processo di portata storica per l’Emilia-Romagna, che non è attrezzata per celebrare un procedimento di queste dimensioni: le udienze preliminari si svolgono in un padiglione della fiera del capoluogo emiliano, il rito ordinario nel cortile del Tribunale di Reggio Emilia. In entrambi i luoghi sono state costruite aule bunker per poter celebrare un processo del genere: spazio per le centinaia di imputati e i rispettivi avvocati, per i parenti, per i giornalisti e la cittadinanza, metal detector all’ingresso, celle per gli imputati in carcere, sistemi di videosorveglianza e videoconferenza.

«È un punto di non ritorno», afferma nella prima conferenza stampa a margine degli arresti il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. Così sarà, perché, da quella data, i blitz contro i clan di ‘ndrangheta nella regione non si sono più fermati, grazie a nuove rivelazioni di collaboratori di giustizia, nuove indagini e prove, fino a ricostruire un sistema che ha iniziato a radicarsi in Emilia-Romagna dagli anni Ottanta

1982: il soggiorno obbligato

È il 1982 quando Antonio Dragone, capo della locale di ‘ndrangheta di Cutro, viene mandato dalle autorità a Quattro Castella, in provincia di Reggio Emilia, attraverso lo strumento del soggiorno obbligato. Una misura cautelare di epoca fascista reintrodotta nel 1956 nei confronti di chi è ritenuto pericoloso per la pubblica sicurezza e, dal 1965, contro gli indiziati di associazione mafiosa. Una misura che nelle intenzioni del legislatore sarebbe servita ad allontanare i mafiosi dal loro territorio di origine, per spezzare i legami criminali che avevano creato. Così non è stato: i casi sono tanti, da Riina a Badalamenti.

Ma fermiamoci a Quattro Castella. Antonio Dragone riesce a far confluire sul territorio reggiano, soprattutto in alcuni piccoli centri della bassa e nel capoluogo, i familiari più stretti ed i fedelissimi con le rispettive famiglie. Inizia quindi a portare avanti alcune delle attività criminali tipicamente mafiose: il traffico di droga, che estende poi anche alla provincia di Modena, estorsioni e controllo degli appalti edili ed estorsioni. Tutte ai danni di chi, arrivando dalle zone del crotonese, era in grado di rendersi conto della pericolosità intimidatoria del gruppo mafioso. Affari che gestisce in prima persona per solo un anno: nel 1983, infatti, viene arrestato. Il controllo del gruppo passa allora al figlio, Raffaele, e rimarrà nelle mani della famiglia dei Dragone fino al 1993, quando anche lui finisce in carcere.

È il 1982 quando Antonio Dragone, capo della locale di ‘ndrangheta di Cutro, viene mandato dalle autorità a Quattro Castella, in provincia di Reggio Emilia, attraverso lo strumento del soggiorno obbligato

Il boss Nicola Grande Aracri detto “mano di gomma”

Mano di gomma

È a questo punto che il controllo della ‘ndrina viene preso da Nicolino Grande Aracri, affiliato di primo piano della ‘ndrangheta, detto “Mano di gomma”: un soprannome che risale al 1977 quando, a causa di un incidente, perse parzialmente l’utilizzo di una mano. La sua ascesa inizia in Calabria nei primi anni ‘80 quando i Dragone si spostano al nord, ma assume il comando del clan cutro-emiliano solo nel 1993, quando Antonio e Raffaele sono in carcere, sfruttando il fatto di essere rimasto l’unico dei capi ancora in libertà. Prende in mano la gestione del traffico di stupefacenti non solo in Emilia-Romagna ma anche in Lombardia, cercando di ampliare sempre più il suo potere: «Io – avrebbe detto Grande Aracri secondo le dichiarazione del collaboratore di giustizia Vittorio Foschini – sono un killer; io ci sto facendo il nome ai Dragone, io sto ammazzando la gente per i Dragone però loro si prendono i soldi ed io no. A questo punto mi sono stancato; la famiglia me la alzo io, non do più conto ai Dragone».

Le attività, intanto, vanno avanti: quello dei Dragone-Grande Aracri-Ciampà-Arena è un clan che ha già attraversato una guerra di ‘ndrangheta contro la cosca Vasapollo-Ruggiero per il controllo del territorio reggiano nel 1992. Una faida che ha portato anche a due omicidi nella città emiliana, quelli emersi nel processo Aemilia 1992, e in cui Nicolino Grande Aracri ha avuto un ruolo di primo piano: è stato infatti condannato in primo grado all’ergastolo per uno dei due omicidi, quello dello ‘ndranghetista Giuseppe Ruggiero. Non solo, secondo quanto ha dichiarato Paolo Bellini, che oltre ad essere un ex estremista di destra era il killer al soldo della famiglia dei Vasapollo, contro di lui c’era un progetto di omicidio, che poi non venne portato a termine: ad avere la meglio è infatti il clan di cui faceva parte anche Grande Aracri.

Quello dei Dragone-Grande Aracri-Ciampà-Arena è un clan che ha già attraversato una guerra di ‘ndrangheta contro la cosca Vasapollo-Ruggiero per il controllo del territorio reggiano nel 1992. Una faida che ha portato anche a due omicidi nella città emiliana

La cosca emiliana autonoma

La ‘ndrina emiliana non opera come quella calabrese. Si rimodella in base al territorio in cui si radica, profondamente diverso a livello sociale, economico e culturale. Se già ai tempi di Antonio Dragone le estorsioni erano ai danni delle sole persone di origine cutrese, meno intente a denunciare per paura di ritorsioni nei confronti dei familiari che ancora vivevano in Calabria, con la reggenza di Nicolino Grande Aracri le modalità cambiano. Il raggiungimento del profitto criminale, più che il controllo militare del territorio, diventa il punto centrale delle modalità di azione della cosca, che fa del mimetismo la sua forza per penetrare il tessuto economico e imprenditoriale emiliano-romagnolo, lasciando da parte le tradizionali cerimonie di affiliazione, i riti e i rituali.

Il tessuto economico dell’Emilia-Romagna è un tessuto florido e quindi, come scrivono i giudici della Corte di Cassazione – che tre anni dopo l’operazione Aemilia mettono un punto a una prima tranche del processo, quella dei riti abbreviati -, è «estremamente propizio all’affermazione degli organismi imprenditoriali in mano all’associazione, ovvero ad essa soggiogati, in pregiudizio alla libera concorrenza». Tra il 2004 e il 2015, infatti, l’associazione mafiosa costituisce un consorzio di imprese attive nel settore dell’edilizia e in quelli a questo connessi, come l’autotrasporto, per «consentire alla locale emiliana e alla casa madre cutrese di estendere la propria operatività nell’area di riferimento e di conseguire rilevantissimi profitti», che alimentavano una «vorticosa emissione di fatture false».

Operazione Scacco Matto
L’operazione Scacco Matto, portata avanti dagli inquirenti calabresi, ricostruì quello che accadde nella consorteria di Cutro tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta, in particolare nel periodo in cui Antonio Dragone era in carcere e Nicolino Grande Aracri iniziò la sua ascesa che sfociò nella faida interna. L’operazione e il successivo processo comprovarono l’esistenza e l’operatività della cosca capeggiata da Nicolino Grande Aracri e la qualificarono, per la prima volta, come mafiosa. Il processo si è concluso con la condanna a 30 anni per Grande Aracri, accusato di essere coinvolto in cinque omicidi di mafia, tra cui quello di Raffaele Dragone. Da questa operazione partiranno poi le successive – Grande Drago e Edilpiovra – che, nei primi anni Duemila, hanno riconosciuto la presenza di ‘ndranghetisti in Emilia-Romagna, senza però mettere in luce l’esistenza di un vero e proprio clan emiliano.

Un vero e proprio sistema economico illegale che permetteva di operare nell’ombra, reinvestendo denaro e soggiogando così l’economia di un intero territorio. Il metodo rimane quello mafioso: dai reati più tipici a quelli economici, fino alle infiltrazioni nei lavori per il sisma in Emilia del 2012.Il tutto portato avanti da una ‘ndrina che era sì collegata alla locale di Cutro ma che agiva autonomamente rispetto ad essa, radicandosi profondamente in regione.

Il controllo del territorio

Il sistema tracciato dalle inchieste funzionava grazie a una vera e propria divisione del territorio. C’era Nicolino Sarcone, competente per la zona di Reggio Emilia; Michele Bolognino per Parma e la Bassa reggiana; Alfonso Diletto “capo promotore” della Bassa reggiana; Francesco Lamanna per Piacenza; Antonio Gualtieri, per Piacenza e Reggio; Romolo Villirillo, la figura di collegamento con tutte le zone. Ci sono poi gli organizzatori per il raccordo operativo, che fanno da collegamento tra le varie zone. Sono i capi promotori e gli organizzatori che decidono, pianificano, individuano le azioni e le strategia della consorteria, impartiscono direttive agli associati, gestiscono i rapporti interni ed esterni. E, sempre loro, curano i rapporti con Nicolino Grande Aracri e i suoi emissari. Un sistema che si articolava anche all’esterno, con una vasta zona grigia fatta di imprenditori, politici, professionisti, giornalisti, forze dell’ordine, a servizio dell’associazione. Soprattutto, grazie ai quali la ‘ndrina è riuscita a radicarsi in profondità, in nome di un profitto e di un potere che non potevano avere operando all’interno di un sistema economico, politico e imprenditoriale legale.

Il maxiprocesso

Dal 2015 ad oggi una parte del processo si è conclusa, un’altra è ancora in corso, mentre si sono aperti nuove indagini e nuovi procedimenti giudiziari che stanno svelando nuove modalità e affari della ‘ndrina emiliana. Nell’ottobre del 2018 si è concluso in via definitiva il rito abbreviato, con una sentenza della Corte di Cassazione che stabilisce la presenza di una cosca emiliana che operava autonomamente rispetto alla locale di Cutro e che condanna tutti i principali boss con pene fino a 14 anni di carcere, insieme ai professionisti condannati per concorso esterno in associazione mafiosa con pene fino a 10 anni. Nello stesso mese si è chiuso il primo grado del rito ordinario per 148 imputati di cui 34 accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso: sono 125 le condanne e più di 1200 gli anni di carcere comminati.

La pena più alta è quella di 38 anni a Michele Bolognino, l’unico dei boss a capo della ‘ndrina emiliana a non aver scelto fin da subito il rito abbreviato, procedimento che gli avrebbe permesso lo sconto di un terzo della pena. È più corretto parlare, per questa sentenza, di due procedimenti: con rito ordinario e un altro con rito abbreviato. Perché nel febbraio del 2018 l’accusa è cambiata e nuovi reati si sono aggiunti a quelli che già riempivano le carte giudiziarie: i nuovi reati arrivano non più al 28 gennaio 2015, giorno dell’operazione Aemilia, ma all’8 febbraio 2018. Secondo gli investigatori le attività criminali dei principali imputati non si sarebbero fermate nemmeno dopo gli arresti.

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Autori

Sofia Nardacchione

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Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi

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Corruzione, porfido e sfruttamento: ecco come la ‘ndrangheta si è presa il Trentino

Corruzione, porfido e sfruttamento: ecco come la ‘ndrangheta si è presa il Trentino

Cecilia Anesi
Margherita Bettoni

Sono le 18.18 del due dicembre 2014. L’operaio cinese Hu Xupai entra nel cantiere della “Balkan Porfidi e Costruzioni Srl” a Lona Lases, un piccolo comune montano della Val di Cembra, 12 chilometri a Nord di Trento. Gli ha dato appuntamento lì il suo datore di lavoro, il macedone Durmishi Bardul: Xupai insisteva nel riscattare ciò che gli spettava di diritto, 34.843,04 euro di stipendi arretrati. Non trovando nessuno, Xupai ha un moto di rabbia. Inizia a danneggiare un macchinario, pensando di essere stato nuovamente preso in giro, ma la realtà è ben peggiore. Ad attenderlo nascosti ci sono Hasani Selman e Mustafa Arafat, titolari di un’altra ditta che opera sul cantiere. Spuntano fuori di colpo, minacciandolo con una pistola a tamburo. Non può scappare. Viene colpito al volto con una torcia, più e più volte, fino a svenire. Poi calci, morsi. E una punta metallica che gli trafigge una gamba. Una secchiata d’acqua lo riporta nell’incubo: è legato e adesso di fronte a sé c’è il suo capo, Durmishi, che inizia a picchiarlo selvaggiamente.

Dopo un’ora di violenze, i macedoni se ne vanno, ma prima avvisano i carabinieri che rinverranno Xupai ancora legato. Questa però, non è una storia di litigi tra operaio e caporale: i macedoni agiscono su ordine di una locale di ‘ndrangheta radicata in Val di Cembra, il cui business principale è proprio l’estrazione e la lavorazione del porfido. É questo ciò che sostiene l’indagine “Perfido” dei Carabinieri del Ros di Trento, guidati dal maggiore Alexander Platzgummer e coordinati dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Trento. Il porfido è un settore chiave per l’economia trentina, reso ancora più redditizio dallo sfruttamento del lavoro e della manodopera dei dipendenti che venivano vessati e tenuti alla fame in modo assolutamente deliberato. E quando osavano ribellarsi, come Hu Xupai, si dava l’esempio con una inaudita violenza. Perché era bene che anche in Val di Cembra si sapesse che a mettersi contro la ‘ndrangheta si finiva male.

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A pochi mesi dall’operazione “Freeland” che aveva ipotizzato il radicamento della ‘ndrangheta di Platì a Bolzano, il 15 ottobre scorso la Direzione distrettuale antimafia di Trento ha lanciato l’operazione “Perfido” che rivela come il Trentino sia da trent’anni terra di conquista per la mafia calabrese. Rispetto a Bolzano però, stando alle indagini, la ‘ndrangheta in Val di Cembra si veste da imprenditrice del porfido e si mischia, in modo sinergico, all’imprenditoria locale e alla politica, entrando in modo sotterraneo ma costante nella pubblica amministrazione. Le segnalazioni di cittadini onesti si susseguono negli anni. Il sospetto che il settore sia una zona grigia, dove non si rispettano diritti e in cui entrano capitali sporchi, non c’è solo tra i lavoratori delle cave, ma anche tra giornalisti locali e comitati civici.

Solo adesso arriva la conferma, con un’indagine che mette nero su bianco ciò che prima si poteva solo bisbigliare. Vige la presunzione d’innocenza, e solo il processo potrà definire realmente le responsabilità penali, ma l’immagine è quella di un territorio assoggettato, che ha perso la propria libertà e la propria innocenza. Dove i giudici vanno a cena con gli emissari dei clan, sindaci si fanno sudditi per la sete di potere e imprenditori concorrenti si piegano di fronte alla forza dell’intimidazione.

A pochi mesi dall’operazione “Freeland” che aveva ipotizzato il radicamento della ‘ndrangheta di Platì a Bolzano, il 15 ottobre scorso la Direzione distrettuale antimafia di Trento ha lanciato l’operazione “Perfido” che rivela come il Trentino sia da trent’anni terra di conquista per la mafia calabrese

Le denunce inascoltate

A novembre 2019 i due trentini Marco Galvagni e Vigilio Valentini compaiono davanti alla Commissione parlamentare antimafia per parlare delle infiltrazioni della criminalità organizzata e delle anomalie del mondo del porfido trentino. Galvagni ai tempi è segretario comunale e responsabile per la prevenzione della corruzione del Comune di Lona Lases.

Ai membri della Commissione Galvagni racconta di come già al suo ingresso in Comune nel 2001 tutti i fascicoli riguardanti le cave avessero dei sigilli perchè sequestrati dalla Guardia di Finanza. Galvagni parla di un settore «il cui controllo economico sfugge totalmente e i lavoratori sono sfruttati.»

Valentini, che è stato sindaco di Lona-Lases a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90, compare invece davanti alla Commissione in veste di membro del Coordinamento lavoro porfido. Racconta di un clima di omertà e della «paura di amministratori comunali in conflitto di interessi, collusi con personaggi in odore di mafia.» Si sofferma anche sulle minacce ed intimidazioni vissute dalla sua Amministrazione a fine degli anni ‘80 dopo che erano stati raddoppiati i canoni delle cave: ad aprile del 1986 venne dato fuoco alla macchina dell’assessore alle cave durante una seduta della giunta comunale, un mese dopo vennero fatti esplodere 12 chilogrammi di tritolo a 100 metri dalla sua abitazione.

Già nel piano anticorruzione del Comune di Lona Lases del 2014, Galvagni aveva sottolineato i rischi nel settore del porfido. Nel 2017 aveva poi redatto una relazione dove denunciava infiltrazioni della ‘ndrangheta. L’anno prima, il Coordinamento Lavoro Porfido aveva presentato due esposti in Procura. Nel 2019 il mensile Questotrentino pubblica una serie di inchieste, tra cui “Infiltrazioni mafiose in Trentino”.

A capo della locale di Lona Lases – tratteggiano i carabinieri – siede Innocenzio Macheda, esponente della cosca Serraino. Viene da Cardeto, un paesino dell’Aspromonte, e in Val di Cembra fa da padrone: vestito da imprenditore in realtà non si fa problemi ad uscire armato di bastoni per intimidire direttamente i lavoratori e percuoterli «come i Santi di Reggio». Il suo braccio destro è Domenico Morello, che cura i rapporti con i clan in Calabria, interessati alle attività del porfido in Trentino che vedono come occasione per il reinvestimento di capitali sporchi.

Alleati e concittadini di Macheda, sono i fratelli Giuseppe e Pietro Battaglia, importanti imprenditori del porfido in Val di Cembra. Negli anni ‘80 si trasferiscono in Trentino e acquistano le prime imprese e, non molti anni dopo, anche la prima cava. Con che soldi? La Procura di Trento ipotizza che «le costosissime acquisizioni di imprese siano avvenute con il riciclaggio di denaro della ‘ndrangheta». D’altronde è la stessa madre di Macheda a dirlo in un’intercettazione: quando Macheda si è trasferito in Trentino per aprire una ditta di porfido lei a Battaglia ha inviato «tantissimo denaro, nell’ordine di milioni».

Eppure in Trentino, il cui capoluogo viene definito nelle intercettazioni una «città bianca senza malizia», tutto tace. Perchè, come scrive la Procura, «peculiarità dell’infiltrazione trentina è quella di esser stata inizialmente cautamente silente». I fratelli Battaglia si inseriscono poco alla volta in un mondo, quello delle cave di porfido, già caratterizzato da diverse anomalie, andando ad individuare un settore molto redditizio, poco controllato e, dunque, attaccabile.

I Battaglia sono i precursori, li seguirà Macheda (e i suoi milioni) e, piano piano, uomini più giovani con contatti strategici tanto con le cosche che con le istituzioni. La strategia fondamentale è una: non dare nell’occhio. Si inizia con l’acquistare le cave, con il fare girare soldi puliti, ed è in questa fase che Battaglia si sposa con una trentina, Giovanna Casagranda. Questo lo rende a tutti gli effetti inserito nella società della Val di Cembra, e infatti nel 2001 diventa consigliere comunale mentre dal 2005 al 2010 è assessore alle cave del comune di Lona Lases. Il fratello Pietro da gennaio 2011 è divenuto consigliere del demanio civico di Lases, strategico per il rilascio delle concessioni necessarie alla estrazione e lavorazione del porfido.

«La Provincia di Trento è una sorta di principato e non può abbandonare un piccolo comune nella gestione dei rapporti con i grandi concessionari».

Filippo Degasperi

Consigliere provinciale della Provincia di Trento

L’oro rosso e il mondo di mezzo

I circa 10 chilometri quadrati che includono parte del territorio dei comuni cembrani di Albiano, Lona Lases, Fornace e Baselga di Pinè sono noti come il “quadrilatero del porfido”. In questo fazzoletto di terra caratterizzato da piccoli comuni a bassa densità abitativa nel 2016 erano attive circa 85 cave e 300 ditte. In Val di Cembra “l’oro rosso”, come viene chiamato il porfido, viene estratto già a partire dal periodo tra le due guerre mondiali. È un settore di primaria importanza economica per il Trentino, ma non immune da problematiche.

Il consigliere provinciale Filippo Degasperi, che nel 2016 aveva presentato degli esposti in Procura su questa realtà, lo definisce «un Far West, dove i prepotenti e i delinquenti vanno ad occupare uno spazio poco presidiato». Le aziende ottengono concessioni pubbliche, affidate da almeno cinquant’anni alle stesse famiglie. I veri padroni sono dunque i concessionari.

«La Provincia di Trento è una sorta di principato e non può abbandonare un piccolo comune nella gestione dei rapporti con i grandi concessionari», dice Degasperi, che sottolinea come si tratti di un rapporto impari, che ha fatto sì che i controlli siano stati «pochi ed inefficaci, talvolta anche comunicati prima per salvaguardare le imprese».

Walter Ferrari, ex-cavatore dalla barba lunga e i modi gentili, è il portavoce del Coordinamento Lavoro Porfido, un comitato di cittadini e lavoratori del porfido che si è formato nel 2014 per tutelare i lavoratori e gli interessi delle comunità locali.

Per Ferrari l’anomalia principale è l’esternalizzazione della forza lavoro. Negli anni ‘90 una vertenza cambia radicalmente uno degli aspetti del mondo del porfido. La magistratura sequestra le trance con maglio a caduta, ritenute fuori norma in materia di sicurezza del lavoro. Anche per questo, racconta Ferrari, una parte delle imprese operanti nel settore del porfido adottò un escamotage: fare pressione sui lavoratori, molti dei quali all’epoca stranieri, affinché aprissero partita iva. Figurando artigiani, i lavoratori potevano continuare a lavorare sulle vecchie trance e i padroni non erano costretti a sostituirle. Quando più tardi la legge 626 sulla sicurezza del lavoro costringe alla definitiva sostituzione dei macchinari, si cerca un altro espediente: l’esternalizzazione della forza lavoro a piccole aziende artigiane. Si forma così quello che il Coordinamento Lavoro Porfido chiama “mondo di mezzo”.

È a questo mondo di mezzo che appartengono i tre macedoni che hanno picchiato l’operaio Hu Xupai. È un sistema, racconta Ferrari, che non si accontenta più di sfruttare manodopera in nero non pagando contributi assicurativi o premi Inail, ma che finisce per privare i lavoratori addirittura dei soldi effettivamente guadagnati durante il lavoro in nero. Il mancato rispetto contrattuale dal punto di vista della regolarità retributiva e contributiva, sottolinea Ferrari, non sarebbe stato adottato solo dai calabresi ma anche in altre aziende gestite da concessionari locali.

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È in questa zona grigia che si inseriscono i fratelli Battaglia. Ferrari ricorda a posteriori l’arrivo a Lona-Lases di Pietro e Giuseppe Battaglia come qualcosa di anomalo: «Quei ragazzi calabresi arrivati a metà degli anni ottanta ci sembravano gli ultimi di un’ondata di migrazione lavorativa in realtà già esaurita.» Negli anni sessanta le cave avevano attirato molti lavoratori, tanti dei quali meridionali, che nel corso degli anni settanta avevano però iniziato a lasciare la Valle.

Ferrari ricorda di aver conosciuto i Battaglia presso la sede del PCI locale, in quanto Giuseppe Battaglia frequentava la figlia del segretario della sezione locale, quella stessa Giovanna Casagranda che sarebbe poi diventata sua moglie. Battaglia e gli altri giovani calabresi arrivati in Val di Cembra a metà degli anni ottanta, racconta Ferrari, non sembravano persone disperate alla ricerca di un lavoro: «ricordo che uno di loro raccontava di avere un posto di lavoro nella forestale al sud, ma diceva di voler girare il mondo».

Il salto di qualità dei fratelli Battaglia nel mondo del porfido locale avviene a cavallo tra gli anni 1999 e 2000, con l’acquisto della grande cava di Camparta, oggi il più grande sito estrattivo di porfido del mondo. Per l’acquisto, scrive il Gip nelle carte dell’operazione “Perfido”, i Battaglia fanno un’offerta pari a 12 miliardi delle vecchie lire. Un’offerta che stride con l’effettivo valore della cava, che si aggirava sui sei miliardi di lire, tanto che all’epoca l’affare finì nel mirino della Guardia di Finanza. Alcuni dei dialoghi intercettati dai carabinieri del Ros sollevano dubbi sui soldi utilizzati dai Battaglia per l’acquisto della cava. Pietro Battaglia, riferendosi all’acquisto della cava, parla di una persona non meglio specificata che «arrivò con una valigetta piena di soldi», mettendoli sul tavolo e invitando i presenti a contarli.

I fratelli Battaglia sarebbero quindi inseriti sia nel mondo dei grandi concessionari – attraverso la partecipazione, diretta o occulta ad aziende come la Anesi Srl e la Cava Porfidi Saltori srl – che nel cosiddetto mondo di mezzo, arrivando di fatto a creare quello che gli investigatori definiscono «un cartello monopolistico nel campo del porfido».

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Vista aerea di una cava di porfido – Foto: Carabinieri Trento

L’accusa sostiene che per trarne massimo profitto, i coniugi Giuseppe Battaglia e Giovanna Casagranda sfruttavano i dipendenti, in gran parte stranieri. Ma non basta. Stando agli inquirenti i Battaglia avevano una gestione finanziaria allegra, che prevedeva vendere porfido in nero e falsificare fatture.

Una pratica che avrebbe toccato anche la Marmirolo Porfidi Srl, di cui Battaglia è socio di minoranza. Secondo la nota indagine “Aemilia” sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta di Cutro in Emilia Romagna, Antonio Muto, socio di maggioranza della Marmirolo, – azienda che operava nelle cave della Val di Cembra – è intraneo alla ‘ndrangheta cutrese e colpevole di bancarotta fraudolenta della Marmirolo. Battaglia non viene indagato e per qualche anno di Muto, ormai in carcere, non si sentirà più parlare.

Poi alle 3:20 di mattina del 29 agosto 2018 la Nissan Navara di Innocenzio Macheda viene incendiata. Un segnale forte, contro l’uomo ritenuto alla guida della ‘ndrina della Val di Cembra. Il sospetto è che l’atto incendiario sia un messaggio per il suo socio Battaglia, il quale, all’epoca di “Aemilia”, non avrebbe fornito le fatture false per scagionare Muto.

un sistema, racconta Ferrari, che non si accontenta più di sfruttare manodopera in nero non pagando contributi assicurativi o premi Inail, ma che finisce per privare i lavoratori addirittura dei soldi effettivamente guadagnati durante il lavoro in nero

La politica è cosa loro

Il quadro che emerge dalle intercettazioni è anche quello di una politica locale asservita agli imprenditori calabresi delle cave. Pietro Battaglia viene descritto come «fautore» dell’elezione a sindaco di Lases di Roberto Dalmonego avvenuta il 27 maggio 2018, in cui Battaglia diventa consigliere rimanendo sullo scranno fino alle elezioni del 21 settembre scorso. È lo stesso Battaglia in un’intercettazione a chiarire come lo scopo del sostegno politico al candidato sindaco sia solo un modo per curare i propri interessi. Per questo si prodiga facendo campagna elettorale casa per casa.

Nel 2015, nell’ambito di una diversa indagine di polizia, era già emerso l’impegno della ‘ndrina della Val di Cembra nel cercare di influenzare e indirizzare le votazioni per l’unificazione dei Comuni di Albiano e Lona Lases. Il tutto solo per mantenere immutate le concessioni delle cave di porfido nei due comuni.

L’appoggio alla politica locale, stando agli inquirenti, passava anche dall’associazione “Magna Grecia”, registrata a Trento da Giuseppe Paviglianiti che sosteneva la candidatura di un esponente del centro sinistra a Trento per le elezioni politiche alla Camera dei Deputati.

È febbraio 2018 e Paviglianiti invita Morello, il braccio destro del capo locale Macheda, ad un aperitivo per la candidata del PD Franzoi. «Una mano ve la diamo, però vedi che noi, siamo tutti persone che hanno delle aziende, che possono avere delle necessità. Vedi che se poi, quando noi bussiamo, voi ci voltate le spalle, vedi che non va bene», chiarisce però Morello.

É un do ut des. Le intercettazioni documentano un altro incontro di sostegno elettorale in cui Macheda incontra Mauro Ottobre, ex deputato del Basso Sarca trentino, che si rivolge a lui per avere il sostegno elettorale alle elezioni provinciali del 2018. Parlando con la stampa locale Mauro Ottobre si è detto “tranquillo” e disposto a chiarire con i magistrati le accuse che gli sono contestate. Anche Paviglianiti, comparso davanti al gip, si è difeso spiegando che l’associazione Magna Grecia ha un semplice ruolo di promozione di cultura e tradizioni calabresi. Paviglianiti ha inoltre sottolineato di essere persona incensurata e ha respinto le accuse, dichiarandosi assolutamente estraneo alla ‘ndrangheta.

Sanpietrini e lavatrici

Per la locale di ‘ndrangheta della Val di Cembra, agganciarsi all’imprenditoria e alle istituzioni che contano è fondamentale, ben oltre il Trentino. Così Morello – il braccio destro del presunto boss Macheda – si attiva per espandersi fino a Roma, sfruttando i legami che ha nella Capitale con un commercialista, Fabrizio Cipolloni, un carabiniere, Fabrizio De Santis, e un imprenditore, Alessandro Schina. Sarà Schina a connetterli tanto alla politica quanto alla malavita capitolina, tramite Marco Vecchioni, pluripregiudicato romano in contatto col noto Massimo Carminati. Vecchioni presenterà loro Fortunato Mangiola, politico romano di origini calabresi, con cui riusciranno a presentare al Presidente della Regione Lazio, Zingaretti, un non meglio specificato progetto. «Un incontro dove c’era la politica, c’era la malavita e c’era l’imprenditore» – lo descriverà Schina.

Le indagini dei carabinieri fanno emergere anche altri progetti tra Morello e il commercialista Cipollini, tra i quali l’organizzazione di un canale di import-export con la Cina che avrebbe dovuto coinvolgere la GLS di Trento e il porto di Gioia Tauro, grazie all’alleanza con le locali cosche di ‘ndrangheta.

D’altronde i contatti con le cosche in Calabria non si interrompono mai, come testimoniano vari episodi monitorati dai carabinieri. Il più significativo è sicuramente l’incontro del 13 aprile 2018 a Roma: Morello viene invitato dagli ‘ndranghetisti Antonino Paviglianiti e Giuseppe Crea al bar “Sole e Luna” sulla Nomentana (accanto al quartiere San Basilio, fortemente infiltrato dalla ‘ndrangheta della Locride). Crea e Paviglianiti gli propongono di diventare il terminale di un’operazione di riciclaggio, serve che certi capitali spariscano verso Nord, là in Trentino dove si sospetta e controlla meno.

Morello però alla fine dell’incontro è preoccupato: si è accorto che i carabinieri erano appostati nelle vicinanze. Il guardaspalle di Morello conferma, «se ne sarebbe accorto pure un bambino che stavamo facendo cose losche…». Ma è soprattutto l’origine dei soldi a preoccuparli. Morello si sfoga: «Hanno soldi da pulire e hanno bisogno di chi li tira fuori puliti…non vogliono la banca che li controlla». E svela così anche qualcosa sull’origine del denaro: «Ha detto servizi segreti… Quelli di Gheddafi… glieli hanno dati in mano a loro… poi, tra un anno, che cosa succede, succede che poi loro ti chiedono i soldi.. dove sono?»

Le indagini non appurano se Morello si sia poi prestato a questa operazione di riciclaggio o meno, ma solo tre giorni dopo a Trento incontra il commercialista Cipolloni per una diversa proposta di riciclaggio. Questa volta si parla di riciclare per conto di un cliente di Napoli che vende la benzina per tutto il nord italia. Morello risponde che lui ci sta a fare l’operazione, ma deve dire all’interlocutore che vuole un milione di euro in anticipo.

La corte della ‘ndrangheta a Trento

«Come ogni associazione di stampo mafioso, quella calabro-trentina provvede a darsi anche una facciata di rispettabilità», scrive la Procura nella misura. E questa facciata passerebbe tanto dall’Associazione Magna Grecia a Trento quanto da un «faccendiere, in grado, anche per livello professionale e culturale, di attrarre nella sua ragnatela personaggi di spicco, che possono tornare utili ai bisogni dell’associazione.» Giulio Carini, classe ’48, è nato a Reggio Calabria ma è in Trentino che opera nel settore dell’edilizia. Ed è sempre qui che ha importanti contatti con soggetti delle istituzioni, tra i quali – stando alle evidenze dell’indagine del Ros – un ex prefetto di Trento, un vicequestore della Polizia, un Capitano dei Carabinieri, giudici del Tribunale di Trento, personalità della politica, un primario dell’ospedale Santa Chiara.

Oggi Carini deve rispondere di associazione mafiosa per avere favorito la locale di ‘ndrangheta guidata da Macheda e avere aiutato nella risoluzione di vari problemi grazie appunto alle sue conoscenze sul territorio trentino. Per Carini è stata scelta la misura dell’obbligo di firma. Comparso davanti al gip, raccontano i quotidiani locali, Carini si è difeso rifiutando la contestazione di appartenere alla ‘ndrangheta, depositando una memoria che spiega l’incompatibilità con un’organizzazione criminale. Ha respinto anche l’accusa di essere un “faccendiere”, dicendo di poter fornire una spiegazione a tutte le intercettazioni.

Il 12 dicembre 2019 veniva erroneamente notificato un avviso di proroga delle indagini preliminari relative al reato di associazione mafiosa (ex art. 416 bis) ad alcuni degli indagati.

Il 7 febbraio di quest’anno parlando con l’avvocato Claudio Tezzele, Giulio Carini fa riferimento ad un invito indirizzato ai magistrati del Tribunale di Trento: «Carini Giulio dice che l’altra sera ha sentito il capo (il presidente del Tribunale Guglielmo Avolio, secondo i carabinieri del Ros) in quanto lo invita a cena, dice che se vengono quelli che lui gli ha detto, che saranno in cinque sei …». In effetti alcuni giorni dopo, l’11 febbraio, Carini – assieme al suo avvocato – ha cenato con il giudice Guglielmo Avolio, il giudice della Procura Generale Giuseppe De Benedetto, un ex ufficiale giudiziario e Michele Dalla Piccola, consigliere provinciale. In quell’occasione, monitorata dal Ros, Carini fa allusioni ad un suo possibile arresto dicendo che se dovesse finire dentro vuole reclusione notturna e isolamento diurno.

Domenico Morello, dal canto suo, ha richieste più forti da fare alla magistratura. Morello incontra il generale valsuganotto Dario Buffa il 19 dicembre 2019 e «esprime chiaramente che avranno bisogno del giudice Avolio Guglielmo del Tribunale di Trento», si legge nell’ incartamento dell’indagine. Descritto come «quello che beve tanta birra», Buffa mostra di comprendere perfettamente a chi Morello si stia riferendo, «va bene ok, sono in contatto, mi manda ogni giorno le sue cazzate Willy Guglielmo». Già l’anno prima Morello parlava di Avolio come se fosse al suo servizio, spiegando ad un sodale che presto sarebbe stato a cena col presidente del Tribunale e gli avrebbe intimato di porre fine alla sua vicenda giudiziaria in quanto si è «rotto i coglioni», altrimenti loro finiranno per parlare di altro.

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CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Margherita Bettoni

Editing

Giulio Rubino

Foto

Valle di Cembra/lorenza62/Shutterstock

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