Pirateria: il business dei rapimenti che sostiene l’economia nel Delta del Niger

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Pirateria: il business dei rapimenti che sostiene l’economia nel Delta del Niger

Lorenzo Bagnoli

Il porto di Lagos, il più vicino, dista 230 miglia nautiche, circa 426 chilometri. Da giugno, la Curacao Trader, petroliera gestita dalla compagnia greca Alison Management Corp, si spinge a quelle latitudini con una certa frequenza: fa la spola tra i porti di Lomé e Cotonou (in Togo e Benin) e le zone intorno alle piattaforme petrolifere antistanti la Guinea Equatoriale e il Congo Brazzaville. Sono mari agitati: dall’inizio del 2020 circa il 90% dei rapimenti degli equipaggi marittimi è avvenuto qui, a largo del Golfo di Guinea, soprattutto nelle acque antistanti la Nigeria. Il 17 luglio è toccato anche all’equipaggio della Curacao Trader.

Per dare l’idea della portata del fenomeno della pirateria nel Golfo di Guinea, l’International Maritime Bureau, il dipartimento marittimo della Camera di Commercio internazionale, già a gennaio riportava nel suo report del 2019 un «incremento senza precedenti» dei rapimenti, che si è confermato nel primo semestre del 2020.

Sono le 11 del mattino in Nigeria. Sembra una giornata qualunque. Poi, d’improvviso, sbucano dall’orizzonte pirati non meglio identificati e abbordano la Curacao Trader. Non si hanno i particolari di come si è svolta l’azione. Si sa però che è l’arrembaggio più distante dalle coste mai registrato nel Golfo di Guinea, un segno tangibile di come il paradigma dei pirati del Golfo si sia evoluto: da pirati della foce del fiume, a pirati in acque profonde.

I criminali rapiscono 13 dei 19 membri dell’equipaggio, di cui sette russi e cinque ucraini. Lasciano che gli altri marinai portino l’imbarcazione al porto di Cotonou, dove è ancorata dal 19 luglio. Il giorno seguente, durante una conferenza stampa, la portavoce del ministro degli Esteri russo Maria Zakharova spiega che i rapitori «non hanno presentato ancora alcuna richiesta». Da allora non si hanno più loro notizie.

La distesa d’acqua che nessuno può sorvegliare

Disavventure come quella vissuta dall’equipaggio della Curacao Trader sono avvenute almeno 36 volte tra gennaio e luglio nell’enorme specchio d’acqua del Golfo di Guinea. L’area copre oltre seimila chilometri di costa, dalla Liberia fino all’Angola. È un’enorme frontiera, oggetto di dispute territoriali tra i Paesi africani e di accordi internazionali rimasti, in buona parte, lettera morta. In tutto il mondo oggi l’Africa occidentale «è l’unica regione dove si assiste a vere e proprie azioni di pirateria tradizionale», spiega a IrpiMedia Munro Anderson, partner di Dryad Global, agenzia di consulenza per la sicurezza marittima.

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Per i giudici di Milano «il fatto non sussiste». Si chiude così il primo grado sulla presunta tangente da 1,1 miliardi di euro per l’aggiudicazione del blocco petrolifero nigeriano. La sentenza potrebbe avere ripercussioni anche su altri procedimenti in corso

Se nella prima decade degli anni Duemila era la Somalia il punto focale della pirateria, oggi si è spostato nel Golfo di Guinea. «Un’enorme distesa d’acqua che nessun Paese della regione è in grado di sorvegliare con successo», lo definisce Florentina Adenike Ukonga, ambasciatrice nigeriana e segretaria generale della Commissione Golfo di Guinea, istituzione a cui appartengono otto Paesi della regione. La Nigeria guida l’iniziativa diplomatica, in qualità del suo ruolo di potenza regionale. Coordina operazioni di pattugliamento congiunte, ma dispone ugualmente di una flotta insufficiente per coprire un territorio tanto vasto. L’Italia è tra i Paesi che assistono le marine militari africane nel pattugliamento del Golfo di Guinea.

La missione, prorogata con il Decreto Missioni di giugno, prevede la presenza di fino a 400 militari in unità aeronavali per «attività di presenza, sorveglianza e sicurezza nel Golfo di Guinea». L’Italia dispone anche di due mezzi navali e due mezzi aerei e l’operazione costa 9,8 milioni di euro per il 2020. Tra gli scopi della missione, in cima alla lista c’è «proteggere gli asset estrattivi di Eni (piattaforme petrolifere che si trovano in particolare a largo di Nigeria e Ghana, ndr), operando in acque internazionali». Il 27 marzo la nave Rizzo, la fregata al momento in navigazione nelle acque del Golfo di Guinea, è intervenuta per evitare un abbordaggio.

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La pirateria nel diritto internazionale
Il termine pirateria è definito dall’articolo 101 della Convenzione Unclos delle Nazioni Unite, trattato internazionale che definisce le responsabilità degli Stati nella gestione dei mari e degli oceani. Parafrasando l’articolo, un atto di pirateria è un atto di violenza rivolta verso equipaggi e imbarcazioni «fuori dalle acque territoriali». Questa caratteristica differenzia la pirateria dalle «rapine a mano armata», che invece avvengono all’interno delle 12 miglia nautiche, che sono per convenzione ancora giurisdizione di uno Stato rivierasco. Questa distinzione esiste perché nelle acque internazionali non c’è nessuno che ha una vera e propria giurisdizione: tutti possono perseguire un atto fuorilegge, il che significa il più delle volte che nessuno si prende la responsabilità di farlo. Secondo quanto riporta Dryad Global, l’aver esasperato l’attenzione sulle «rapine a mano armata» in mare, piuttosto che sulla pirateria in senso più ampio ha contribuito a una generale sottostima del fenomeno nel Golfo di Guinea. Dryad Global infatti sottolinea come nel 2020 la metà degli attacchi dei pirati sia avvenuta oltre le 12 miglia delle acque territoriali. Sul conteggio e sulla metodologia della raccolta dati per raccogliere eventi di pirateria, ci sono diversi punti di vista tra le società che si occupano di consulenza.

«Non c’è un coordinamento regionale, mancano le forze di polizia per i pattugliamenti. La Nigeria è riluttante ad aprirsi alla cooperazione, anche con il privato: una tipica situazione da burocrazia africana».

Munro Anderson

Dryad Global

Nonostante gli sforzi, tuttavia, dal 2019 ci sono stati nove attacchi a imbarcazioni scortate, l’ultimo dei quali, a gennaio 2020, si è concluso con il rapimento dell’equipaggio.
Nonostante le intenzioni, quindi, la situazione resta molto complicata: «Non c’è un coordinamento regionale, mancano le forze di polizia per i pattugliamenti. La Nigeria è riluttante ad aprirsi alla cooperazione, anche con il privato: una tipica situazione da burocrazia africana», commenta Munro Anderson.

Seppur non solcate con la stessa frequenza dei mari del Sud-Est asiatico, le acque africane rimangono comunque un crocevia internazionale. La stessa Nigeria, il Congo Brazzaville, l’Angola, la Guinea Equatoriale sono infatti Paesi produttori di petrolio. E nel Golfo di Guinea ci sono piattaforme petrolifere sulle quali operano tutte le principali aziende mondiali del settore. La Cyprus Shipping Chamber (Csc), la camera di commercio dell’industria marittima di Cipro, a maggio si è espressa con un comunicato per chiedere che venisse presa seriamente la questione della pirateria nel Golfo di Nigeria: «C’è la crescente preoccupazione – si legge nella nota – che la comunità internazionale non stia attivamente cercando di eliminare la pirateria nella regione e stia invece trattando il problema degli attacchi attuali all’industria marittima come in qualche modo tollerabili». Tra il 2015 e il 2017 l’agenzia Onu Unodc stima per l’Africa occidentale una perdita complessiva di 777 milioni di dollari all’anno a causa della pirateria. Con la crisi economica che sta attanagliando l’industria petrolifera provocata dall’emergenza Covid, il danno potrebbe avere conseguenze ancora più dure nel 2020.

L’economia del Delta dipende dai rapimenti

L’attività principale dei pirati del Golfo di Guinea è il sequestro di persona. Casi come quello della Curacao Trader dimostrano tuttavia quanto abbia perso di interesse il controllo delle petroliere: per i pirati è più semplice ottenere un riscatto anziché costituire delle organizzazioni dedite al contrabbando di petrolio. Secondo i dati raccolti da Dryad Global, da gennaio a luglio 2020 i marinai rapiti sono stati 91, contro i 177 dell’intero 2019 e i 156 dell’intero 2018. Il tempo medio di prigionia è di 56 giorni. L’equipaggio rapito è sempre di provenienza straniera, «asiatici e indiani, soprattutto», precisa Anderson. «I numeri dimostrano il fallimento della messa in sicurezza dell’area e l’incremento del valore dei rapimenti per riscattii come componente economica importante in parti del Delta del Niger», analizza il ricercatore.

Secondo quanto osservato da Dryad Global a partire dal 2017, le zone dove avvengono con maggiore frequenza gli attacchi dei pirati si sono progressivamente spostate al largo. Inizialmente erano minori in termini di ampiezza, fatta eccezione per la foce del Niger, zona ampia e saldamente sotto il controllo dei criminali. Oggi, però, paradossalmente gli attacchi avvengono con maggiore frequenza nelle zone intorno all’arcipelago di Sao Tomé e Principe, oppure intorno al porto di Cotonou o alle principali piattaforme petrolifere offshore, distanti decine di miglia dalla costa. Questo dato di fatto è frutto di due circostanze, aggiunge Anderson: da un lato, la Marina nigeriana ha aumentato la sua capacità di intervenire nelle acque del Delta del Niger (tanto è vero che si sono ridotte le rapine alle navi ormeggiate); dall’altro, i pirati hanno aumentato il loro raggio d’azione, sconfinano oltre la Nigeria, mantenendo ugualmente la stessa impunità.

Da gennaio a luglio 2020 i marinai rapiti sono stati 91, contro i 177 dell’intero 2019 e i 156 dell’intero 2018

Chi sono i pirati

I pirati che operano nel Golfo di Guinea sono nella quasi totalità nigeriani. Il Delta del Niger è la storica area dove trovano protezione e dove si nascondono. La regione è il corrispettivo nigeriano delle catene montuose sarde per l’Anonima sequestri oppure dell’Aspromonte per la ‘ndrangheta degli anni Settanta: ambienti ostili, remoti, che conoscono in pochi, dove lo Stato centrale non riesce a intervenire. È qui, in mezzo a queste paludi, dove si concentrano gli investimenti delle grandi multinazionali energetiche straniere, a partire dagli anni Sessanta, dagli oleodotti fino alle prime esplorazioni.

Quelle dei pirati «sono organizzazioni gerarchiche, guidate da individui verso i quali gli altri hanno grande stima», aggiunge Munro Anderson. Inutile però cercare di mapparli: le organizzazioni si creano e si disfano velocemente, a volte hanno un nome con il quale si identificano, altre solo la bandiera – spesso, con scarsa fantasia, rappresentante un teschio bianco su sfondo nero – che sventola a poppa delle loro imbarcazioni.

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Accanto alle realtà dei gruppi di pirati esistono sigle storiche che vengono definite in Nigeria militant group, ossia “miliziani”. Spesso sono gruppi armati che hanno accettato il processo di demilitarizzazione cominciato nel 2009 ma che mantengono un importante controllo del territorio, sia a terra, sia in mare. Le organizzazioni dei pirati e dei militanti non vanno tuttavia confuse: per quanto spesso abbiano obiettivi simili, non vanno sovrapposte.

Ci sono poi casi di organizzazioni che danno anche pubblicità alle loro azioni di pirateria. Come i Niger Delta Avengers, i quali nel 2018, dal proprio sito, lanciavano una campagna per distruggere le unità navali di stoccaggio del gas (Fpso) del Delta. Le Fpso sono obiettivi tuttora sensibili degli attacchi dei pirati, come dimostra l’attacco coordinato di due motoscafi veloci avvenuto il 3 ottobre alla Sendje Berge, imbarcazione che lavora per la compagnia petrolifera asiatica Addax Petroleum a un giacimento identificato dalla licenza Oml 126. L’esito, riporta Dryad Global, sarebbe il rapimento di 11 persone a scopo di estorsione. La Coalizione degli agitatori del Delta del Niger (Cnda), un’organizzazione-ombrello che racchiude alcune delle sigle storiche della lotta armata nella regione, aveva dichiarato l’intenzione di colpire gli impianti petroliferi.

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CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli

Editing

Luca Rinaldi

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Quando l’economia del petrolio finisce alla sbarra

24 Luglio 2020 | di Antonio Tricarico*

E alla fine sono arrivate le richieste di condanna della pubblica accusa nel “processo del secolo” contro Eni e Shell e i suoi top manager per l’acquisizione della lucrosa licenza del blocco petrolifero Opl245 nelle acque profonde nigeriane del Golfo di Guinea nel lontano 2011. Operazione conclusa, sostengono i pm, con il pagamento di una presunta maxi tangente di 1,1 miliardi di dollari ai politici del paese africano. Il computo totale ammonta a 91 anni di reclusione e la confisca di quasi 2,2 miliardi di dollari di beni equivalenti ai 13 imputati e alle due società. A settembre si potrebbero aggiungere richieste di ingenti danni da parte della Nigeria, per la prima volta parte civile in un processo di tale portata. La giustizia farà il suo corso, ed è giusto rispettarlo, ma dopo la requisitoria in due giornate della pubblica accusa si possono trarre delle conclusioni politiche e lezioni più ampie dalle numerose prove emerse e dibattute al tribunale di Milano negli ultimi due anni.

Le implicazioni internazionali

In primis a diversi analisti potrebbe sembrare che ci sia un accanimento della Procura di Milano nei confronti di Eni, la più grande multinazionale italiana, definita da alcuni “lo Stato parallelo” e la bandiera italiana nel mondo nella sua proiezione economica e politica internazionale. La Snamprogetti, allora del gruppo Eni, ha patteggiato nel 2010 negli Usa una condanna condizionale per quasi 400 milioni di dollari per la corruzione nel progetto di gas di Bonny Island, sempre in Nigeria, più noto come l’affaire Hulliburton-Dick Cheney. Oltre il patteggiamento in Nigeria per poche decine di milioni, nel 2016 è arrivata la condanna in Cassazione anche in Italia, ma allora la Snamprogetti era diventata di Saipem, formalmente società scorporata dal gruppo Eni. E per la pubblica accusa Eni avrebbe corrotto ed ancora di più insieme a Shell nel 2011 e sempre in Nigeria per avere l’Opl245, proprio quando era sotto condanna condizionale dalle autorità americane.

Difficile accusare i pm Sergio Spadaro e Fabio De Pasquale di accanimento, o criticare l’obbligatorietà dell’azione penale tout court, a fronte di una tale presunta ma macroscopica recidiva per una tangente ipotizzata superiore al miliardo di dollari. Ne deriva che una condanna per Eni – per quanto siamo solo al primo grado – sarebbe una schiaffo senza precedenti per la multinazionale italiana anche a livello internazionale. Si ricordi che un procedimento penale è pendente in Nigeria, dove accordi bilaterali non applicano il principio di ne bis in idem, sempre sullo stesso caso con accuse anche più corpose, ed un’indagine si sta concludendo in Olanda ai danni di Shell con altri capi di imputazione. Il management di San Donato sbandiera ai quattro venti che le autorità Usa su Opl245 hanno chiuso le indagini, ma in realtà la procedura americana prevede che queste possano essere riaperte in qualsiasi momento, e una possibile sanzione per recidiva negli Usa, dove Eni è quotata, metterebbe in ginocchio il Cane a sei zampe, già provato dalla crisi economica post-Covid e dal crollo del prezzo del greggio.

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Si aggiunga però che a prescindere dall’esito processuale a Milano e in giro per il mondo, la vicenda Opl245 e le centinaia di migliaia di pagine del fascicolo processuale hanno svelato uno spaccato inquietante su come funziona il mondo del petrolio. La due diligence anti-corruzione di giganti quali Shell o Eni fa sorridere per le sue approssimazioni e inadeguatezze, là dove tutti sanno che si sta di fatto comprando una licenza rubata da un ex ministro del Petrolio di uno dei Paesi più corrotti al mondo. Sembra quasi che le procedure formali non possano estinguere il cancro della corruzione, o la sua tentazione, e che anche chi nelle società solleva dubbi sulle operazioni di fatto non ha voce in capitolo nelle decisioni finali, come ben messo in luce dalla pubblica accusa. Anche se assolte, le due società dovranno rispondere al tribunale dell’opinione pubblica di un tale fallimento e riguadagnare la fiducia di investitori e cittadini – che nel caso di Eni sono anche di fatto azionisti tramite lo Stato italiano.

Lo Stato parallelo e la politica

Lo spaccato che ci hanno dato le decine di udienze passa sotto la lente un’intera classe dirigente che per più un decennio ha gestito il lucroso sistema delle aziende italiane partecipate – quali Eni, Enel e Leonardo – che rimangono l’ossatura dei grandi numeri del sistema economico italiano e della capitalizzazione della borsa di Milano. Top manager di bandiera, quali Paolo Scaroni, intermediari sempre verdi vicini alle stanze più alte della politica, quali il pluripregiudicato Luigi Bisignani, pezzi della diplomazia, quali Gianfranco Falcioni, console onorario italiano a Port Harcourt, e personaggi vicini ai servizi segreti, come Vincenzo Armanna. Tutti sodali in un blocco di potere che ha mosso profitti, interferito nella politica in Italia ed all’estero, costruito narrazioni sulle magnifiche sorti dell’Italia nel mondo, e soprattutto guidato la politica energetica, estera e di sicurezza nostrana. Lo Stato parallelo denunciato dai più coraggiosi, che la vicenda Opl245 ha mostrato essere non solo italiano, ma anche olandese, nigeriano e probabilmente di altri paesi. Se si vuole è quella classe dirigente dagli anni 2000 fino alla metà dello scorso decennio oggi a processo, almeno nell’opinione pubblica.

Le tappe del processo sulla presunta maxi-tangente da 1,1 miliardi di euro per l’aggiudicazione del blocco petrolifero Opl245 in Nigeria

Sul versante della politica italiana, in caso di condanna le conseguenze non sarebbero trascurabili. Appena lo scorso maggio, dopo un lungo tira e molla, il governo Conte ha confermato Claudio Descalzi alla guida dell’Eni per altri tre anni. Se condannato, Descalzi ha già annunciato dalle colonne del Wall Street Journal che si dimetterebbe – ma davvero? – e in ogni caso una bufera politica si abbatterebbe contro il governo o tra il governo e la magistratura, come se non bastasse l’affaire Palamara-Csm.

Ma anche in caso di assoluzione, la saga Opl245, degna di una serie TV avvincente e infinita da Netflix, è già destinata a continuare nelle aule processuali di Milano. Rimane aperta l’indagine sul presunto “finto complotto” orchestrato dall’ex avvocato di Eni, Piero Amara, e diversi suoi sodali anche interni all’azienda, che avrebbe cercato con la corruzione di un pm a Siracusa e altre torbide manovre di affossare senza successo l’indagine della Procura di Milano sull’Opl245. La stessa Procura che ha neutralizzato l’attacco e ha a sua volta iniziato ad indagare sui responsabili di questo.

Una saga destinata a continuare, anche dopo questo processo

Probabile che si arriverà a processo, visto che Piero Amara, già condannato a 3 anni e 8 mesi a Roma e Messina, nell’alveo dello scandalo più ampio delle sentenze truccate al Consiglio di Stato e le nomine guidate al Csm, lo scorso dicembre ha iniziato a rivelare molti fatti alla Procura di Milano. Numerosi verbali, pur se omissati in larga parte, sono finiti nel fascicolo del processo Opl245, ma Amara non è stato accettato come teste dal tribunale. Però è emerso che secondo questi l’attuale numero due di Eni, Claudio Granata, avrebbe fatto pedinare ed intercettare addirittura i pm di Milano e diversi giornalisti. Lo stesso Granata filmato in un incontro con Armanna – ora agli atti del processo Nigeria – orchestrato da Amara per convincere questi a ritrattare le sue accuse a Descalzi nell’indagine Opl245. Nel pieno della pandemia Covid il procuratore capo di Milano, Franceso Greco, ha portato i verbali degli interrogatori di Amara alla Procura di Brescia chiedendo di indagare su quanto detto ed i presunti danni causati ai Pm di Milano. Ed anche qui potrebbe nascere un nuovo processo.

La stessa saga Opl245 sembra agitare in questi giorni anche il sistema politico nigeriano con la rimozione come un fulmine a ciel sereno del capo dell’anti-corruzione di Abuja, Ibrahim Magu, determinato a processare ex ministri per l’Opl245 ed ora attaccato apertamente dall’attuale ministro della giustizia – perché anch’egli a rischio di indagini. Insomma perseguire i presunti reati dell’Opl245 avvicina un po’ ovunque ai gangli del potere e non c’è da meravigliarsi se la risposta sia questa, ad Abuja come a Milano. E non mancheranno colpi di scena e conflitti nei prossimi mesi e anni.

Nel frattempo i due giacimenti del blocco Opl245 non sono più stati esplorati vista l’incertezza legata alle battaglie legali in mezzo mondo. Con il collasso del prezzo del petrolio, difficilmente questi giacimenti saranno sfruttabili economicamente in futuro. Una buona notizia per il clima del pianeta, meno buona per il governo nigeriano oggi in ginocchio per la crisi economica legata alla pandemia da Covid e di nuovo con il cappello in mano dal Fondo monetario internazionale e dai creditori internazionali. È la maledizione del petrolio, e in questo caso dell’Opl245, che porta solo miseria e conflitti per di più con poche speranze per il futuro. Che intanto i responsabili, se condannati, paghino per un volta per quello che hanno fatto nella vicenda Opl245 e magari le risorse recuperate, se lo saranno, d’ora in poi non siano più usate per sviluppare l’economia corrotta e senza futuro del petrolio.

*Re:Common | Foto: Il quartier generale Eni a Roma – Paolo Grassi/Shutterstock

Eni-Nigeria: la requisitoria dei pm tra spie, intermediari e documenti segreti

23 Luglio 2020 | di Lorenzo Bagnoli

Il 21 luglio scorso si è conclusa la requisitoria del pm Fabio De Pasquale nell’ambito del processo sulla presunta tangente da 1,1 miliardi per il blocco petrolifero Opl 245 in Nigeria. Le richieste di pena per Paolo Scaroni e Claudio Descalzi, i due manager al vertice di Eni, sono di otto anni di reclusione. Per Eni e Shell l’accusa chiede una confisca complessiva pari a 1,092 miliardi di dollari, il totale della presunta tangente.

Dieci anni, invece, sono stati richiesti per Dan Etete, l’ex ministro del Petrolio che in Nigeria rappresentava Malabu Oil&Gas, la società tenutaria della licenza esplorativa per il giacimento Opl 245. Per Luigi Bisignani, lobbista pluricondannato e amico-consigliere dell’allora numero uno della società di San Donato Paolo Scaroni, i pm hanno chiesto 6 anni e 8 mesi. Il suo ruolo nella vicenda sarebbe stato quello di sponsorizzare Emeka Obi, uno dei due intermediari che Eni – secondo l’accusa – voleva utilizzare per aggiudicarsi la licenza.

Sette anni e quattro mesi è stata la pena chiesta per Malcolm Brinded, all’epoca dei fatti (la presunta tangente è stata pagata nel maggio del 2011, ha ricoperto la carica fino al 2012) membro del consiglio di amministrazione di Shell. Sei anni e otto mesi anche per gli altri tre top manager dell’azienda petrolifera anglo-olandese: Peter Robinson, australiano che per Shell si occupava di Africa, che informava il resto dell’azienda sul dossier Opl 245; John Copleston, consulente per gli investimenti strategici, tra gli uomini Shell che ha incontrato direttamente Dan Etete e Guy Colegate, come Coplestone ex membro dell’MI6 britannico, il servizio di intelligence estera di Sua Maestà, che per Shell, con la carica di consulente, aveva il ruolo di capire con chi fosse la competizione per Opl 245 e capire quale aria politica ci fosse nel Paese.

«Bisignani ha un rapporto abbastanza problematico con Vincenzo Armanna e anche Claudio Descalzi lo subisce come un’imposizione»

Fabio De Pasquale, Pubblico Ministero

L’asse delle spie

Durante la requisitoria, il pm De Pasquale ha parlato di «un asse delle spie», ossia di un gruppo di persone vicine ad ambienti dell’intelligence che conoscevano il dossier e che hanno fatto in modo che le compagnie petrolifere potessero ottenere la licenza che desideravano. Il fronte Shell è il più numeroso: ci sono Guy Colegate e John Coplestone, ma anche Ednan Agaev, quest’ultimo vicino all’Fsb, i servizi segreti russi. A dicembre 2018, diversi mesi prima della sua udienza il ministero degli Affari esteri russo, via Farnesina, ha recapitato una lettera alla Procura in cui chiedeva alle autorità italiane di mostrarsi «ragionevoli».

Lo schema Shell prevede che Coplestone e Colegate raccolgano informazioni, mentre Agaev interloquisca con Dan Etete, il venditore. Meno definito, invece, lo schema di Eni. A muoverlo sembra esserci Luigi Bisignani, la cui rete di relazioni ha sempre toccato anche personaggi legati ai servizi segreti. Forse anche Vincenzo Armanna, date le conoscenze che ha detto di avere nell’ambiente dei servizi e la sua amicizia con Bisignani. Quello che rende però meno chiaro il fronte Eni è la presenza di due intermediari competitor per contattare Etete: Emeka Obi e Femi Akinmade. Il primo è raccomandato da Luigi Bisignani all’amico Paolo Scaroni, ma come riporta De Pasquale in aula «ha un rapporto abbastanza problematico con Vincenzo Armanna e anche Claudio Descalzi lo subisce come un’imposizione». Femi Akinmade, ex manager di Naoc, altra controllata Eni in Nigeria, si era candidato nel ruolo ma appunto non godeva dei favori di Bisignani, il quale secondo la procura voleva ottenere parte delle “retrocessioni” attraverso Emeka Obi.

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Lo specchio olandese: Shell sapeva

Fabio De Pasquale fa riferimento durante l’udienza allo «specchio olandese»: con questa espressione il magistrato fa riferimento al modo in cui il ruolo di Eni si veda attraverso i documenti sequestrati dalla polizia olandese a Shell. La perquisizione del quartier generale della società petrolifera a L’Aja, avvenuta a febbraio del 2016, è stato un evento storico: non era mai accaduto in precedenza. In quella circostanza sono emersi degli elementi che secondo il pm rappresentano le tracce documentali della volontà di Eni e Shell di pagare dei membri del governo allo scopo di ottenere Opl 245.

C’è una profonda differenza nel modo di gestire questo flusso di informazioni tra Shell ed Eni: mentre nella società anglo-olandese ci sono tracce dei briefing con i quali i manager informavano il resto dell’azienda sull’andamento dei negoziati, per quanto riguarda Eni gli elementi di prova non vengono mai lasciati per iscritto. Per questo Eni si specchia in Shell, con il suo ruolo che viene poi confermato dagli interrogatori delle parti interessate. Mentre Shell tuttavia ha una macchina organizzativa che sembra muoversi compatta sull’approccio da tenere nei confronti dell’acquisizione di Opl 245, Eni sembra essere attraversata da “correnti”, da gruppi di interesse differenti, con obiettivi che passano sempre dall’ottenimento della licenza ma che non sempre collimano. Tanto è vero che la possibilità di ottenere retrocessioni, da quanto risulta alla procura, è perseguita solo dai manager Eni.

I documenti rilevanti

C’è un documento, tra quelli ritrovati nel corso delle perquisizioni all’ufficio di Shell, particolarmente significativo. Il pm Fabio De Pasquale lo chiama «la formula della corruzione». Si chiama Opl 245 brief ed è allegato a una mail del 23 settembre del 2010. La scrive Peter Robinson, manager di Shell, al collega Ian Craig. Nel documento si legge che «Eni si impegna a entrare nel blocco, rilevare Malabu e stipulare un accordo con Shell per condividere equamente (50/50) la licenza e i suo benefit economici (diritti concessionari + da contractor)». A questa premessa segue la formula «X+SB+Y=Z». X sta per quanto deve Eni, SB sta per “signature bonus”, ossia un pagamento che Shell doveva al governo alla sottoscrizione del contratto, già stabilito in precedenza, e Y è una somma extra ancora da stabilire affinché la licenza sia al sicuro. Z, dice il documento, è il pagamento che deve ricevere Etete, da girare successivamente ai politici nigeriani. «Soldi di Eni+soldi di Shell=tangente», è la versione semplificata proposta da De Pasquale. Inizialmente è previsto che Eni ci metta 800 milioni di dollari, poi, il 30 ottobre 2010, una nuova email sancisce l’accordo definitivo. La manda il numero tre di Shell, Malcolm Brinded, ai colleghi Peter Robinson e Ian Craig: «Eni mette $ 980 milioni. Shell – mette $ 210 milioni di bonus di firma – e $ 25 milioni di interessi dal bonus di firma – e $ 85 milioni in contanti. Shell mantiene il 100% del recupero dei costi Eni è l’operatore». Il totale è 1,3 miliardi di dollari, di cui 1,092 saranno versati da Eni, in qualità di «operatore» al conto della JP Morgan di Londra intestato al Governo nigeriano.

La posizione di Eni

Alle richieste di pena, Eni ha immediatamente replicato con un comunicato stampa: «Eni considera prive di qualsiasi fondamento le richieste di condanna avanzate dal Pubblico Ministero nell’ambito del processo Nigeria ai danni della società, dei suoi attuale ed ex Amministratori delegati, e dei manager coinvolti nel procedimento», dichiara. In particolare l’azienda ribadisce che la narrativa dell’accusa, sia in fase di indagini, sia in fase di requisitoria, è basata su «suggestioni e deduzioni» «in assenza di qualsivoglia prova o richiamo concreto ai contenuti della istruttoria dibattimentale». Aggiunge l’azienda che «non esistono quindi tangenti Eni in Nigeria e non esiste uno scandalo Eni».

Foto: Il tribunale di Milano – Paolobon140/Wikimedia

Eni: processo a Milano, riflessi internazionali per Opl 245

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Eni: processo a Milano, riflessi internazionali per Opl 245

Lorenzo Bagnoli
Luca Rinaldi

Il processo “Opl 245” si avvia alla fase finale del primo grado. Dopo quarantacinque udienze in due anni, i pubblici ministeri Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro inizieranno la requisitoria che dovrebbe occupare due date piene nel corso del mese di luglio. Alla sbarra, fra gli altri, l’allora amministratore delegato di Eni Paolo Scaroni e l’allora Direttore generale della divisione esplorazione e produzione Claudio Descalzi, poi successore dello stesso Scaroni alla guida del Cane a sei zampe. Capo d’imputazione principale è concorso in corruzione internazionale aggravata: Eni, insieme a Shell, si sarebbe aggiudicata la licenza di esplorazione petrolifera Opl 245, un giacimento offshore in Nigeria dal valore stimato di 9 miliardi di barili, a seguito del pagamento di una tangente da 1,1 miliardi di dollari. Secondo l’ipotesi dell’accusa, smentita dalla società, gli allora manager di Eni avrebbero incassato “retrocessioni” per 50 milioni di euro.

Il procedimento italiano si intreccia con altri in corso in diversi Paesi del mondo. Il verdetto della corte di Milano potrebbe dare forza o invece affossare, a seconda dell’esito, gli altri processi collegati alla saga giudiziaria in cui sono imputate Eni e Shell. Il valore della tangente è tra i più alti della storia. Il governo nigeriano, che in Italia si è costituito parte civile, sta cercando, per vie giudiziarie, di recuperare il denaro pubblico portato in casseforti di mezzo mondo da uomini di spicco locali che si sono succeduti al potere dagli anni Novanta in avanti.

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MILANO – La diretta della requisitoria

Il personaggio - Dan Etete

Dan Etete è stato ministro del Petrolio della Nigeria sotto la dittatura di Sani Abacha, fino al 1998. Prima di lasciare il ministero, ha affidato una delle più ricche licenze esplorative del Paese, identificata con il codice Opl 245, a una società di cui lui stesso era beneficiario ultimo: Malabu Oil & Gas. In Nigeria si è scatenato un contenzioso su chi fosse proprietario di Malabu. Oltre Etete, anche il figlio di Sani Abacha, Mohammed, la reclama. Da questo primo procedimento sono iniziate le indagini nigeriane. Grazie a promesse di laute ricompense, Etete sarebbe infatti riuscito a mantenere la proprietà di Opl 245, in virtù soprattutto delle intercessioni dei ministri del Petrolio Alison Diezani e della Giustizia Mohammed Adoke Bello con il presidente Goodluck Jonathan. Etete a quel punto avrebbe massimizzato i profitti vendendo la licenza a Eni e Shell, in cambio di una tangente da condividere con gli altri uomini del governo nigeriano.

Un primo filone dell’inchiesta, il cui processo è stato celebrato con rito abbreviato, ha visto la condanna di Emeka Obi e Gianluca Di Nardo. Entrambi sono ritenuti dalla procura intermediari sia di Dan Etete sia di Eni.

Il processo italiano ha subito, com’era inevitabile, diverse pressioni esterne. L’ombra più scura che s’allunga sul tribunale di Milano è quella dei depistaggi del cosiddetto “Sistema Siracusa”, meccanismo di corruzione di giudici e magistrati al cui vertice, secondo l’ipotesi investigativa, starebbe Piero Amara, avvocato che ha lavorato per Eni in passato, arrestato a febbraio per cumulo di pene in via definitiva. Amara è poi stato scarcerato, per scontare una pena alternativa.
Il Sistema Siracusa
Con Sistema Siracusa si definisce il meccanismo attraverso il quale gli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore, insieme al procuratore capo di Siracusa Giuseppe Longo, avrebbero “venduto” i verdetti dei processi. Questa è l’accusa principale su cui vertono i diversi procedimenti in corso in diversi tribunali d’Italia. A Roma, ad esempio, i due legali e l’ex magistrato hanno ottenuto il patteggiamento (Amara tre anni, Calafiore due anni e nove mesi e Longo cinque anni). Attraverso il falso dossier su Descalzi, gli uomini del Sistema Siracusa avrebbero dovuto creare un nuovo procedimento con cui bloccare quello in corso a Milano.

Proprio da questo sistema sarebbe partito il presunto “complotto” teso a colpire l’indagine della procura su Opl 245. Complotto che in realtà, stando ai riscontri investigativi, sembra essere una messinscena per dirottare il processo sulla maxitangente per il giacimento.

Il falso intrigo internazionale indicava, infatti, l’amministratore delegato del cane a sei zampe Claudio Descalzi come bersaglio di un gruppo di politici e imprenditori (tra cui spicca il nome di Gabriele Volpi) che avrebbero voluto metterlo da parte per guadagnare spazio in Eni. L’inchiesta fondata sul falso dossier è stata aperta al tribunale di Siracusa con la complicità di figure della dirigenza Eni e del pm siracusano Giancarlo Longo, altro pilastro del sistema di Amara. Il depistaggio è poi fallito perché scoperto dalla stessa procura meneghina che ha in seguito aperto un fascicolo sul tema, affidato ai magistrati Laura Pedio e Paolo Storari.

Visto il quadro e il legame indissolubile tra i due procedimenti incardinati a Milano, il pm De Pasquale aveva chiesto lo scorso 5 febbraio di ascoltare l’avvocato Amara: l’ex consulente di Eni avrebbe rivelato, durante gli interrogatori depositati nel fascicolo sul complotto a gennaio 2020, che «Eni in relazione al procedimento Opl 245 (o altri procedimenti che coinvolgono Eni) ha svolto attività di raccolta informazioni nei confronti dei membri del Consiglio di amministrazione tese ad acquisire notizie utili per screditare le persone o sfruttare a proprio vantaggio quanto acquisito». Oltre a ex membri del cda di Eni, Amara include tra le vittime dei dossier anche i pm milanesi Fabio De Pasquale e Sergi Spadaro, titolari dell’inchiesta Opl 245, e Paolo Storari, uno dei due magistrati che lavorano sul complotto. De Pasquale e Spadaro hanno chiesto di interrogare Amara ma il collegio giudicante presieduto da Marco Tremolada ha ritenuto di non far testimoniare l’avvocato e dare avvio alla requisitoria dei pm, che è slittata a luglio a causa della pausa imposta dal lockdown.

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La “mappa giudiziaria” della vicenda legata all’assegnazione di Opl 245

A condizionare l’andamento del processo è stato l’imputato-accusatore Vincenzo Armanna, all’epoca della presunta maxi tangente uno dei manager Eni in Nigeria. Sentito dai giudici a luglio del 2019, Armanna aveva ribadito le accuse alla dirigenza di Eni e aveva garantito di poter fornire ulteriore prova delle sue parole attraverso la testimonianza di Isaac Eke, ex capo della sicurezza di Goodluck Jonathan. Su questa figura si è consumata una delle fasi più convulse del processo: il capo della sicurezza di Jonathan, infatti, era stato inizialmente identificato come Victor Nwafor, persona già sentita a Milano nel corso delle udienze. L’accusa ha però ottenuto che la corte giudicante ascoltasse anche l’uomo indicato da Armanna come colui che aveva visto le valigette con i contanti della tangente entrare in Nigeria. Sentito lo scorso 30 gennaio, Isaac Eke ha però negato di essere a conoscenza della maxi-tangente ed è stato immediatamente indagato dalla procura milanese per falsa testimonianza. Mentre a Milano il corso giudiziario si è dovuto fermare a causa dell’emergenza Covid, l’affaire Opl 245 non è uscito dalle cronache. Tra Olanda, Gran Bretagna, Nigeria, Canada e Stati Uniti sono successi una serie di fatti che inevitabilmente rientrano nell’infinita saga del procedimento milanese. In attesa della prima sentenza che possa innescare o far morire i processi correlati a questa storia, aperti in tutto il mondo.

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Eni-Opl 245, tutti assolti gli imputati per corruzione internazionale

Per i giudici di Milano «il fatto non sussiste». Si chiude così il primo grado sulla presunta tangente da 1,1 miliardi di euro per l’aggiudicazione del blocco petrolifero nigeriano. La sentenza potrebbe avere ripercussioni anche su altri procedimenti in corso

La posizione di Eni

Sul sito di Eni è presente una pagina di fact-checking in cui l’azienda espone la sua posizione in merito al procedimento in corso, partendo dal presupposto che finora il colosso petrolifero ha sempre smentito ogni coinvolgimento in attività illecite. Eni aggiunge di aver fatto svolgere due indagini a società indipendenti americane che hanno dato esito negativo rispetto a violazioni in materia anticorruzione.

Cosa succede in Olanda – Le rivelazioni dell’ambasciatore a favore di Shell

L’11 dicembre 2017 alcuni investigatori del Fiod, il servizio d’indagini fiscali e finanziarie olandese, si sono recati ad Abuja, capitale della Nigeria, per incontrare i loro corrispettivi nigeriani, gli agenti dell’Efcc. Era un incontro riservato per discutere delle accuse di corruzione internazionale a Shell, il colosso anglo-olandese dell’industria petrolifera. L’azienda, insieme a Eni, si sarebbe aggiudicata la licenza petrolifera Opl 245 grazie al pagamento di una tangente da 1,1 miliardi di dollari. A organizzare il meeting è stato l’ambasciatore olandese ad Abuja, Robert Petri. Ma il diplomatico a inizio 2019 è stato rispedito anzitempo in Olanda, a seguito di un’indagine condotta dal dipartimento ministeriale olandese Sicurezza, gestione del rischio e integrità, conclusasi pochi mesi prima. Il filone principale riguardava un viaggio «potenzialmente inappropriato» con un jet di Shell.

Il 28 maggio 2018 Petri è volato a Bonny Island, snodo petrolifero dove ha sede Nigerian Liquid Natural Gas (Nlng), compagnia del gas Lng di proprietà per il 50% dello Stato nigeriano e per il restante 50% di Shell, Eni e Total. Insieme a lui c’era la moglie, che non ricopre alcun ruolo ufficiale. La coppia ha ricevuto diversi omaggi dall’azienda nigeriana, di cui Shell è azionista. In seguito, l’indagine ministeriale ha approfondito altri due aspetti: primo, le tensioni interne all’ambasciata procurate dagli atteggiamenti colonialisti e vessatori che Petri manteneva nei confronti del personale e, secondo, le accuse rivolte a Petri di aver rivelato notizie riservate a Shell sulle indagini in corso. Nei giorni immediatamente precedenti l’arrivo del Fiod, infatti, l’ambasciatore ha avuto un incontro con il numero uno dell’azienda in Nigeria a casa dell’ambasciatore. Durante l’incontro, di cui nessuno – ancora una volta – era al corrente, l’ambasciatore ha rivelato l’esistenza dell’indagine su Shell, come ammesso dallo stesso Petri.

Lo scoop, pubblicato a inizio giugno, è opera del quotidiano olandese Nrc. Il ministero degli Esteri olandese ha specificato che l’esito della procedura interna su Petri e le sue conseguenze sul piano disciplinare «sono confidenziali». Si attende però di capire se ci sarà un vero e proprio processo nei confronti dell’ex diplomatico. Nel frattempo, Shell ha confermato a Nrc di aver appreso dall’ambasciatore della visita in Nigeria del Fiod ma di non aver fatto ulteriori domande, né aver approfittato di tale informazione. Il 1 marzo 2019 Shell ha comunicato di aver ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini per il caso Opl 245 dalla procure generale olandese. A prescindere da come finirà il caso Petri, va ancora chiarito se i procuratori de L’Aja vogliano rinviare a giudizio l’azienda anglo-olandese oppure no. In nessun Paese come in Olanda l’esito del processo milanese può significare la definitiva chiusura oppure un incentivo a proseguire le indagini, anche perché Shell si è opposta all’utilizzo delle prove raccolte dagli investigatori.

Cosa succede in Canada – Il sequestro dell’aereo di Dan Etete

L’ex ministro del Petrolio nigeriano Dan Etete avrebbe investito parte della tangente che avrebbe intascato dall’affare Opl 245 a Dubai. Qui, secondo quanto scoperto dalla piattaforma britannica di giornalismo investigativo Finance Uncovered, Etete avrebbe acquistato una casa a Emirates Hills, la Beverly Hills dell’emirato. E sempre a Dubai Etete ha tenuto in un hangar un aereo che, secondo quanto ricostruito dagli investigatori di Milano e dell’Fbi, sarebbe stato acquistato con i soldi della tangente. Etete, infatti, avrebbe ricevuto, secondo gli inquirenti, 800 milioni di dollari, poi spartiti con gli altri partner dell’affare. Tra i conti dai quali sono passati questi soldi, uno è intestato alla RockyTop Services Ltd. Con i denari ricevuti in due tranches di pagamento, una nel 2011 e una nel 2013, l’ex politico oggi uomo d’affari si sarebbe poi comprato un Bombardier Global 6000. Lo possiederebbe attraverso una società con sede alle Isole Vergini Britanniche, la Tiblit Ltd.

Per anni il mezzo è stato sotto tiro degli avvocati nigeriani incaricati di recuperare i soldi della tangente. Poi, il 29 maggio, l’aereo è atterrato a Montreal, in Canada, dove le autorità locali hanno fatto scattare il sequestro per riciclaggio. Nel provvedimento di sequestro canadese si fa il nome di Giuseppina Russo, avvocato di uno studio legale canadese, che figura come direttrice della società. A maggio un giudice della Corte dei Caraibi orientali, che ha giurisdizione sulle Isole Vergini Britanniche, ha congelato i conti della Tiblit.

Sentita da Finance Uncovered, la donna ha negato di essere coinvolta in attività illecite e ha spiegato di non rappresentare più la società dal 2013, anno in cui ha acquisito il Bombardier che gli inquirenti ritengono di Etete. La società attraverso cui Etete ordina l’acquisto dell’aeromobile ha sede in Oklahoma e si chiama Insured Aircraft Title Services. Compare nell’inchiesta svolta nel 2010 dalla commissione permanente del Senato degli Stati Uniti, di cui IrpiMedia ha già parlato per raccontare i rapporti tra Gabriele Volpi e Abubakar Atiku. La stessa società compare nel database del Laundromat, la lavanderia di denaro sporco scoperta da Occrp, come beneficiaria di due pagamenti per un totale di 11,5 milioni di euro nel gennaio 2008 da un conto della Ukio Bankas. La società non è mai stata indagata.

Cosa succede in Gran Bretagna – Non luogo a procedere per un nuovo processo

Il 22 maggio il giudice Christopher John Butcher dell’Alta Corte di Londra ha stabilito di non avere giurisdizione per esprimersi sul caso Opl 245. Nel 2018 il governo nigeriano aveva fatto una richiesta di risarcimento per chiedere l’apertura di un’inchiesta anche in Gran Bretagna, visto che Shell ha sede legale a Londra. La Corte ha però stabilito che i capi d’imputazione proposti sono identici a quelli attualmente a giudizio in Italia, quindi – in base all’articolo 29 della Regolamentazione di Bruxelles, ossia il documento che norma la collaborazione giudiziaria tra Paesi membri dell’Unione Europea – è previsto che la nuova Corte chiamata in giudizio rinunci alla propria giurisdizione. Secondo quanto riporta la Reuters, un portavoce del governo nigeriano ha annunciato ricorso alla decisione della Corte britannica.

Per il governo nigeriano resta aperto a Londra il procedimento contro JP Morgan, la banca da cui sono transitati i soldi della presunta tangente. È la succursale londinese dell’istituto di credito americano ad aver ricevuto su un deposito a garanzia (escrow account) intestato al governo di Abuja i soldi di Eni e Shell (1, 3 miliardi di dollari). Per due volte, a febbraio e ottobre 2019, due tribunali inglesi hanno stabilito la legittimità della richiesta di risarcimento della Nigeria.

Escrow account: la definizione

Escrow account è il termine inglese con cui si definisce il deposito di garanzia. Questo contratto stipulato tra un acquirente e un compratore di solito per l’acquisto di beni mobili o immobili oppure partecipazioni aziendali prevede il deposito della somma pattuita a una parte terza del bene e del controvalore in denaro, fino al momento in cui la vendita non verrà conclusa.

JP Morgan è accusata di aver favorito la distrazione di fondi pubblici della Nigeria nelle mani di Dan Etete, ovvero un personaggio con già una condanna per riciclaggio passata in giudicato. In altri termini, la banca non ha fatto scattare i meccanismi d’allerta per reati finanziari come corruzione o riciclaggio. Il sistema messo in piedi attraverso gli escrow account prevede che il trasferimento di denaro sul conto della JP Morgan avvenga una volta firmato un accordo che risolva le controversie esistenti sulla titolarità del blocco 245. In questo caso gli accordi erano tre, volti, in pratica, a garantire che 800 milioni di dollari arrivino al’ex ministro del petrolio nigeriano Dan Etete. Secondo il governo della Nigeria, JP Morgan, per ragioni di antiriciclaggio, avrebbe dovuto impedire che i soldi finissero in ultima istanza all’ex ministro del petrolio, precedentemente condannato per riciclaggio in Francia nel 2007. Prima del passaggio via JP Morgan, le parti in causa avevano tentato di siglare un accordo di garanzia attraverso una società terza, tra le varie intermediarie della transazione, con un conto presso la Banca svizzera italiana di Lugano. L’operazione è stata fermata dall’istituto elvetico perché ritenuta sospetta. La segnalazione da parte della banca svizzera stupisce, visto che lo stesso istituto nel 2017 è fallito a seguito di un’inchiesta di riciclaggio a Singapore.

Cosa succede negli Stati Uniti – La Sec chiude le indagini

Il 22 aprile scorso la Securities and exchange commission (Sec), l’autorità di vigilanza della Borsa americana, «ha concluso l’inchiesta sulla società, che include anche le indagini legate all’operazione Opl 245 e le altre indagini legate alle attività di Eni in Congo, senza intraprendere azioni o procedimenti», ha annunciato Eni in un comunicato. La Sec indagava sulla vicenda Opl in quanto l’azienda di San Donato milanese è quotata in Borsa a New York.

 La stessa autorità di vigilanza potrebbe comunque in futuro, anche sulla base dell’esito del processo in Italia, valutare di aprire un procedimento contro Eni perché quotata a Wall Street.

Cosa succede in Nigeria – Adoke Bello

In Nigeria il processo è arrivato ai vertici del potere. C’è stata un’accelerazione da quando, a dicembre 2019, è rientrato da Dubai e immediatamente arrestato in Nigeria Mohammed Adoke Bello, all’epoca dei fatti ministro della Giustizia. Sarebbe lui, secondo l’inchiesta dell’Efcc, la polizia che si occupa di reati fiscali in Nigeria, ad aver garantito che nel 2010 il governo nigeriano non ritirasse la licenza alla Malabu Oil&Gas, la società di Dan Etete al centro dell’inchiesta. Adoke avrebbe incassato per aver protetto gli interessi dell’ex ministro Etete 830 mila dollari, arrivati a un suo conto nel febbraio del 2012. Il 17 giugno 2020 la posizione giudiziaria di Adoke Bello è stata ridefinita dalle autorità nigeriane con sette nuovi capi d’imputazione per riciclaggio.

Secondo quanto risulta dall’inchiesta italiana, Adoke Bello si è mosso nella trattativa Opl 245 insieme alla ministra del Petrolio del governo Jonathan, Alison Diezani Madeuke. Secondo Ibrahim Magu, il numero uno dell’Efcc, Diezani si è appropriata di almeno 2,5 miliardi di dollari provenienti dall’erario nigeriano. L’ex ministra vive a Londra da anni e il governo nigeriano ne chiede l’estradizione ormai dal novembre 2019. L’ultima istanza è stata presentata a febbraio 2020. Nel 2017 nei confronti dell’ex ministra sono cominciati i sequestri ordinati dai tribunali nigeriani, a cominciare da 56 ville tra Lagos, Abuja e Port Harcourt.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Luca Rinaldi

Editing

Giulio Rubino

Infografiche

Lorenzo Bodrero

La “famiglia Agip”: il caporalato dell’industria petrolifera

#TheNigerianCartel

La “famiglia Agip”: il caporalato dell’industria petrolifera

Lorenzo Bagnoli

Lo Stato del Rivers è lo snodo principale dell’industria petrolifera nigeriana. A partire dagli anni Novanta, è stato uno dei principali luoghi di scontro tra gruppi armati locali e multinazionali del greggio: anni di sequestri, di scontri armati, di milizie criminali travestite da gruppi politici. A tutt’oggi il sito del Dipartimento di Stato americano sconsiglia di viaggiare in questa zona della Nigeria a causa di «criminalità, sommosse, sequestri e crimini marittimi».

Dietro questa instabilità ci sono i cosiddetti “miliziani”, gruppi criminali che controllano il territorio e parte dell’economia locale.

Le loro vittime sono da un lato le compagnie petrolifere, dall’altro le popolazioni locali, tenute sotto minaccia da queste organizzazioni e costrette a vivere in un ambiente altamente inquinato (qui un report di Amnesty International del 2012). Come in ogni angolo povero del pianeta, i gruppi di criminalità organizzata hanno gioco facile a comprare l’appoggio della popolazione locale.

Secondo un report dell’agenzia governativa Nigerian Extractive Industries Transparency Initiative (Neiti) del novembre 2019, tra il 2009 e il 2018 i furti di petrolio, greggio e raffinato, sono costati alle casse dello Stato nigeriano 41,9 miliardi di dollari. Il problema è definito «endemico». Secondo le ultime statistiche, è in continua crescita e con la crisi del petrolio dovuta al blocco imposto dal coronavirus è probabile che aumenti ancora.

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Non ci sono vere e proprie indagini per trovare i responsabili dei furti. Il groviglio delle responsabilità tra miliziani, minoranze delle comunità che fanno affari con i criminali e aziende locali che si occupano di sicurezza sono difficili da districare.

Non c’è nemmeno interesse politico a trovare i colpevoli. A livello governativo, il capro espiatorio sono sempre le popolazioni locali.

Per cercare di contenere questo problema, fin dal 2009, il governo ha concesso l’amnistia agli ex miliziani, in cambio del loro disarmo. Riporta nel 2013 l’Istituto della pace americano, centro studi del Congresso, che «i critici del programma ritengono che abbia fallito nello sradicare le cause profonde del conflitto, che sia corrotto e instabile, e promuova la creazione di signori della guerra e diffonda il crimine organizzato, oltre al resto. Queste critiche non sono prive di basi, ma spesso mancano di contesto ed equilibrio».

Sette anni dopo luci e ombre rimangono le stesse: da un lato, il programma dell’amnistia è l’unico strumento per coinvolgere le popolazioni locali in una profonda trasformazione sociale, dall’altro, però, non è stato finora in grado di smantellare davvero le reti dei miliziani, che continuano ad esistere e che nel 2019 hanno ucciso almeno 1.031 persone.

Il programma prevede che circa 30 mila ex guerriglieri, in cambio della rinuncia alle armi, possano ricevere uno stipendio di 420 dollari al mese e trovare un lavoro. Non sempre questo accade e molti miliziani si riciclano nel settore della “sicurezza”. Il governo si ritrova così periodicamente minacciato dai leader delle ex milizie di abbandonare il programma e tornare alla guerriglia.

A condurre inizialmente il processo dell’amnistia – che è parte consistente del problema odierno – sono stati alcuni dei principali attori del cartello nigeriano.

La prima fase, nel 2009, è stata gestita dall’allora presidente Umaru Yar’Adua, padrino politico sia di Goodluck Jonathan, sia di Abubakar Atiku, entrambi, in tempi diversi, suoi vicepresidenti.

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Eni-Opl 245, tutti assolti gli imputati per corruzione internazionale

Per i giudici di Milano «il fatto non sussiste». Si chiude così il primo grado sulla presunta tangente da 1,1 miliardi di euro per l’aggiudicazione del blocco petrolifero nigeriano. La sentenza potrebbe avere ripercussioni anche su altri procedimenti in corso

Goodluck Jonathan è originario del Bayelsa, Stato confinante a quello di Rivers. È qui che ha cominciato, nel 2005, la sua carriera politica come governatore. L’ascesa si è completata con il quinquennio da presidente cominciato nel 2010, alla morte di Yar’Adua. Jonathan avrebbe avuto contatti con i vertici di Eni e Shell per le trattative della presunta tangente da 1,1 miliardi di dollari sui quali indagano i pm di Milano nel processo Opl 245.

Eni attraverso la sua controllata Nigerian Agip Oil Company (Naoc), per i nigeriani Agip, è presente in Nigeria dal 1962. Per molte persone delle comunità locali, e molti ex guerriglieri, lavorare per la multinazionale è una delle poche speranze di occupazione.

L’impiego più che con la società petrolifera è con i subappaltatori locali, che si occupano di reperire manodopera giornaliera non qualificata e a basso costo. Il sistema che denunciano i membri delle comunità locali, però, è sbilanciato fin dalle sue regole di partenza e legittima una gestione che non rispetta i diritti dei lavoratori, un sorta di caporalato istituzionale.

I colleghi Kelechuku Ogu e Damilola Banjo del giornale partner di questo progetto, Sahara Reporters, insieme ai ricercatori della Stakeholder democracy network (Sdn), sono andati sul posto a verificare quanto accade in una comunità, quella degli Egbema, tra le più toccate dalle esplorazioni di Naoc.

Molti hanno chiesto di restare anonimi per paura di conseguenze sul posto di lavoro.

Quello che segue è l’adattamento in italiano della loro inchiesta. Le informazioni raccolte sul campo risalgono a gennaio 2020.

Damilola Banjo
Kelechukwu Ogu

A segnare l’ingresso nel territorio delle tribù Ogba/Ndoni/Egbema (in breve, Onelga, dove Lga sta per “local government authority”) ci sono due torce fiammeggianti. Bruciano dai pozzi del petrolio estratto in queste terre. Le loro fiamme rosse e arancio sono il segno tangibile di una comunità impattata dall’industria petrolifera.

Le nuvole stanno per scaricare il loro carico di pioggia: dopo l’ultimo diluvio, almeno un terzo del territorio Onelga è rimasto senz’acqua corrente. L’acqua piovana, invece, invade tutto: si mescola al fango e a una poltiglia di greggio. È stata piantata una barriera protettiva – usata per contenere le perdite di petrolio – allo scopo di frenare la fiumana limacciosa. È inefficace: petrolio e acqua sono scivolate nei territori vicini di Aggah, Mgbede e Okwuzi, tre comunità che appartengono agli Egbema.

In questa terra gli sversamenti avvengono con una certa frequenza: stando ai dati aggiornati a settembre 2019 dell’agenzia governativa di Monitoraggio delle perdite di petrolio, oltre 81 mila km2 di terra sono stati contaminati da idrocarburi. Proprietaria delle licenze petrolifere è soprattutto la Nigerian Agip Oil Company (Naoc), la controllata nigeriana di Eni, che in queste terre fa perforazioni alla ricerca del greggio nel 1962.

Una perdita di petrolio – Foto: Cornelius Itepu

Un accordo non rispettato

Tra azienda e tribù locali è operativo un memorandum of understanding (MoU) firmato sotto l’egida del governo del Rivers State, uno degli Stati che compone la Repubblica federale della Nigeria.

Il primo MoU raggiunto nella regione di Onelga è stato firmato nel 1999 e va rinnovato ogni quattro anni. Quando abbiamo visitato la regione, avrebbe dovuto essere in funzione la sesta edizione dell’accordo, invece la comunità stava negoziando ancora il terzo, in un processo che durava già da oltre un anno.

Le copie dell’accordo sono in mano solo a poche persone che partecipano alla trattativa.

Abbiamo incontrato qualche giovane della comunità di Egbema alla porta d’accesso cittadina – sotto un possente mango. Nonostante la sua rarità, abbiamo ottenuto una copia del memorandum del 1999. L’accordo prevede impiego, educazione e infrastrutture per i membri delle comunità impattate dalle perforazioni petrolifere. Tutte compensazioni che non si sono mai viste.

Per ottenere un impiego ci si deve rivolgere a quella che i locali chiamano “la famiglia Agip”: un gruppo di famiglie importanti, con conoscenze e agganci politici che gestisce tutta la filiera della manodopera giornaliera. Sono loro a parlare con Agip a nome del resto della popolazione.

«Il 90 % dei lavori svolto dai giovani della nostra comunità – gli Egbema – sono saltuari e non richiedono specializzazioni», spiega un giovane che dice di chiamarsi Dagogo. Per ottenere un impiego, ci si deve rivolgere a quella che i locali chiamano “la famiglia Agip”: un gruppo di famiglie importanti, con conoscenze e agganci politici che gestisce tutta la filiera della manodopera giornaliera. Sono loro a parlare con Agip a nome del resto della popolazione. Eppure, sulla carta, i diritti dei lavoratori della filiera del petrolio nel territorio di Onelga dovrebbero essere diversi.

Il paragrafo dedicato all’impiego della popolazione locale esplicita che sette candidati debbano essere impiegati dalla Naoc e altri quattro ogni anno entrino in una scuola di formazione tecnica nella vicina città di Warri.

«Il problema è che Agip non vuole prendersi le sue responsabilità», aggiunge un uomo che ha lavorato con i subappaltatori di Naoc per dieci anni. «Quando impiegano qualcuno, la sua paga appartiene a loro (i subappaltatori, ndr). [Agip] sa di queste pratiche illegali. Queste persone non hanno alcun contratto, ogni giorno il loro datore di lavoro può lasciarli a casa». Era parte del gruppo di negoziatori del secondo memorandum of understanding. Sostiene che membri della “famiglia Agip” si siano opposti a trattative con l’azienda sui posti di lavoro.

La famiglia Agip

«Il mio salario è di 47mila naira (113 euro, ndr), ho nove figli – spiega, chiedendo di mantenere anonima la sua identità -. Lavoro qui da dieci anni».

È uno dei tanti impiegati nella filiera attraverso i caporali della “famiglia Agip”. È proprietario di un terreno dove sono costruiti gli alloggi di Agip per i pozzi petroliferi. Molti nella comunità hanno qualche pezzo di terra requisito dall’azienda. Una volta che un tecnico identifica un lotto come potenziale sito di trivellazione, nulla impedisce l’ottenimento del terreno. Lo prevede la sezione 36 del primo programma del Petroleum Act, secondo cui un’azienda titolare di un contratto per la prospezione petrolifera o per l’affitto di un terreno può fare ciò che vuole nell’area interessata, a prescindere dai proprietari.

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In teoria, la legge prevede anche «un’equa e adeguata compensazione per l’occupazione del suolo». Il prezzo, però, non è ritenuto adeguato dai locali: la compensazione più consistente è di 1,5 milioni di naira al mese (3.572 euro) per 60 membri dell’intero albero genealogico. A testa, sono 25 mila naira: 59,5 euro.

Il compenso, inoltre, si esaurisce una volta completata la struttura. Agip ripete il pagamento quando qualsiasi forma di manutenzione deve essere eseguita sul pozzo. Chiunque ritenga il corrispettivo troppo basso e voglia un lavoro, deve rivolgersi alla “famiglia Agip”.

Il caso della Manila Industrial Security Service Ltd

Tra le società della “famiglia Agip” c’è la Manila Industrial Security Services Ltd di Alexander Orakwe. Stando ai contratti visionati da Sahara Reporters, il 1° gennaio 2014 si è aggiudicata la gara di subappalto di Naoc per la guardia delle strutture.

Un contenzioso mai concluso, però, solleva dubbi sul modo in cui l’azienda tratta i lavoratori.

Nel 2017 lo Stato del Rivers e il Ministero federale del Lavoro scrivono in una lettera che l’impresa ha dedotto circa 5.000 naira (11,77 euro) dagli stipendi delle persone impiegate nel 2014 e non ha provveduto, come previsto dalla legge, a versare i contributi alla Cassa previdenziale (Pension Fund Administrator, Pfa). I giornalisti sono in possesso anche di un secondo documento in cui l’azienda rinuncia a un incontro con gli organismi statali per risolvere il contenzioso. Da allora, nessuno ha cercato di chiudere la faccenda.

Dal momento in cui è iniziato il contenzioso, diversi dipendenti sono stati licenziati. Non hanno però su chi far valere i loro diritti: nella lettera d’incarico per i lavoratori non specializzati di Manila era già prevista questa clausola: «Accetto la presente lettera di assunzione e rinuncio ad aderire a qualunque sindacato o organizzazione».

L’ultimo vantaggio è per le società petrolifere internazionali, che possono far lavorare manodopera contrattualizzata secondo la normativa nigeriana.

Non solo. Stando agli articoli 2.1.3 e 2.1.4 della bozza di accordo tra Manila e Agip, è previsto che i lavoratori abbiano diritto sia all’assicurazione, sia alla pensione. Nessuno dei lavoratori però ha mai avuto né l’una né l’altra, dichiarano.

Le autorità locali

Nelson Ekperi è il primo ministro della comunità di Okwuzi, nonché uno dei “baroni” della “famiglia Agip”. La sua carica, definita «governo tradizionale» dalle leggi nigeriane, gli conferisce un potere effettivo, seppur inferiore rispetto a governo di regione, Stato e federazione. Rappresenta la comunità nelle occasioni ufficiali, comprese le negoziazioni con le aziende.

A Naoc, spiega ai giornalisti, in una votazione da 0 a 10 dà 7. L’unico problema ritiene sia la gestione delle politiche occupazionali delle comunità impattate dai progetti: «Chi lavora come manager – spiega – tende ad assumere solo gente propria, senza considerare la comunità ospitante per occupazioni migliore, come il personale assunto direttamente». Aggiunge che la clausola di assunzione prevista nel protocollo d’intesa del 1999 «non è stata rispettata fino ad oggi». «Nell’ultimo MoU – prosegue – l’occupazione non c’è». La politica industriale, continua, «è causare divisioni all’interno della comunità, creando problemi al suo interno».

C’era una volta

Un tempo le relazioni lavorative tra comunità e Naoc erano migliori. Spiega Ignatius Ekezie, sovrano tradizionale della comunità di Aggah, tribù Egbema, che una volta i lavoratori saltuari potevano ambire, dopo qualche anno, a diventare impiegati normali non per subappaltatori ma direttamente con la multinazionale.

Questa condizione oggi si ripresenta molto più di rado: «In pochissimi Egbema oggi lavorano con Agip», dice. Racconta poi che il primo sciopero delle comunità è stato organizzato proprio dagli Aggah: «Abbiamo ottenuto molto in quel modo – rammenta -. Ora è diverso. Anche i nostri giovani preferiscono contrattare per il loro interesse personale piuttosto che per altro».

Contrariamente all’opinione del primo ministro di Okwuzi secondo cui Agip ha fatto abbastanza in termini di sviluppo della comunità, il capo Ekezie pensa di no. A suo avviso, «la multinazionale petrolifera non ha fatto abbastanza». Dà la colpa alla popolazione, però, non alla ditta: pensa che il clan Egbema non abbia trattato a sufficienza con la compagnia per ottenere quanto spettava loro di diritto.

È tra i pochi a sostenerlo. Molti altri sembrano soddisfatti delle attuali condizioni nelle quali alcuni privilegiati si aggiudicano gare e lavori e li distribuiscono agli altri che attendono le briciole.

Tra i primi c’è anche Nelson Ekperi. È un caso particolare quello degli Egbema: in altri contesti simili nel confinante Stato di Bayelsa contenziosi e sfide in tribunale sono state molto più frequenti.

A questo si aggiunge l’inefficacia delle leggi: il Local Content Act, scritto nel 2010 per aumentare la partecipazione dei nigeriani all’industria petrolifera, è rimasto sempre lettera morta, dicono dalla comunità.

La replica di Eni

«Naoc rispetta le pari opportunità e non discrimina alcuna comunità in materia di lavoro o di contratto. La Società inoltre non assegna quote di occupazione a nessuna comunità o area di governo locale. Le statistiche disponibili mostrano che oltre il 60% del personale Naoc (compresi i dirigenti) proviene dalle sue aree operative, tra le quali è il governo locale di Onelga nello stato di Rivers.

Per quanto riguarda i contratti di lavoro, il grado di retribuzione e le condizioni di servizio sono negoziati con i sindacati dei lavoratori dell’industria, il sindacato dei contraenti e la Naoc utilizzano accordi-quadro per generare contratti».

A un’ulteriore domanda di approfondimento rispetto agli stipendi previsti da questi accordi-quadro, non sono state fornite ulteriori risposte.

«Nel caso di contratti di servizio, il grado di retribuzione e le condizioni di servizio sono negoziati direttamente tra i contraenti e il loro personale senza coinvolgere Naoc e Naoc non prende decisioni di assunzione per altre società.

Tuttavia, la registrazione del fornitore Naoc e gli accordi contrattuali impongono agli appaltatori Naoc di rispettare:

  • Tutte le leggi, le norme, i regolamenti, le ordinanze, le sentenze, gli ordini e altri atti ufficiali del nigeriano e qualsiasi altra autorità governativa riconosciuta dalla Società che sono ora o potrebbero, in futuro, diventare applicabili al Contraente
  • Requisiti standard Eni, tra cui le Linee guida del sistema di gestione anticorruzione Eni, il Codice etico Eni (con particolare riferimento agli “Standard etici aziendali”) e la Dichiarazione Eni sul rispetto dei diritti umani, che copre i diritti economici, sociali e culturali (ad es. Il diritto all’occupazione, condizioni di lavoro eque e soddisfacenti, parità di retribuzione per pari lavoro, salute e istruzione).
  • I venditori si impegnano inoltre a garantire che i loro azionisti, amministratori, dipendenti e collaboratori rispettino le stesse linee guida e gli stessi principi.

Naoc gestisce oltre 3700 contratti all’anno e oltre 900 fornitori.

Per garantire che tutti gli appaltatori, in particolare i piccoli fornitori di servizi provenienti dalle comunità in cui operiamo, rispettino tutto quanto sopra, Naoc si impegna a fornire in modo proattivo la formazione ai propri appaltatori locali sulle normative pertinenti e sulle migliori pratiche di approvvigionamento da parte delle agenzie di regolamentazione del settore oil and gas.

Queste iniziative fanno parte del contributo della Società allo sviluppo delle capacità indigene e garantiscono la conformità con la legge nigeriana sullo sviluppo di contenuti dell’industria petrolifera e del gas del 2010. La formazione consente di sensibilizzare gli appaltatori sul rispetto e la promozione dei diritti umani nell’esercizio di le loro operazioni quotidiane e durante eventi a rischio.

In riconoscimento dell’impegno e del contributo della società allo sviluppo di contenuti locali nel settore oil and gas in Nigeria, nel febbraio 2020 Eni, attraverso le sue filiali in Nigeria, è stata riconosciuta come Local Content Operator dell’anno».

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Damilola Banjo
Kelechuku Ogu

In partnership con

Sahara Reporters

Editing

Giulio Rubino

Foto

Flickr
Sahara Reporters

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