Quando l’economia del petrolio finisce alla sbarra

24 Luglio 2020 | di Antonio Tricarico*

E alla fine sono arrivate le richieste di condanna della pubblica accusa nel “processo del secolo” contro Eni e Shell e i suoi top manager per l’acquisizione della lucrosa licenza del blocco petrolifero Opl245 nelle acque profonde nigeriane del Golfo di Guinea nel lontano 2011. Operazione conclusa, sostengono i pm, con il pagamento di una presunta maxi tangente di 1,1 miliardi di dollari ai politici del paese africano. Il computo totale ammonta a 91 anni di reclusione e la confisca di quasi 2,2 miliardi di dollari di beni equivalenti ai 13 imputati e alle due società. A settembre si potrebbero aggiungere richieste di ingenti danni da parte della Nigeria, per la prima volta parte civile in un processo di tale portata. La giustizia farà il suo corso, ed è giusto rispettarlo, ma dopo la requisitoria in due giornate della pubblica accusa si possono trarre delle conclusioni politiche e lezioni più ampie dalle numerose prove emerse e dibattute al tribunale di Milano negli ultimi due anni.

Le implicazioni internazionali

In primis a diversi analisti potrebbe sembrare che ci sia un accanimento della Procura di Milano nei confronti di Eni, la più grande multinazionale italiana, definita da alcuni “lo Stato parallelo” e la bandiera italiana nel mondo nella sua proiezione economica e politica internazionale. La Snamprogetti, allora del gruppo Eni, ha patteggiato nel 2010 negli Usa una condanna condizionale per quasi 400 milioni di dollari per la corruzione nel progetto di gas di Bonny Island, sempre in Nigeria, più noto come l’affaire Hulliburton-Dick Cheney. Oltre il patteggiamento in Nigeria per poche decine di milioni, nel 2016 è arrivata la condanna in Cassazione anche in Italia, ma allora la Snamprogetti era diventata di Saipem, formalmente società scorporata dal gruppo Eni. E per la pubblica accusa Eni avrebbe corrotto ed ancora di più insieme a Shell nel 2011 e sempre in Nigeria per avere l’Opl245, proprio quando era sotto condanna condizionale dalle autorità americane.

Difficile accusare i pm Sergio Spadaro e Fabio De Pasquale di accanimento, o criticare l’obbligatorietà dell’azione penale tout court, a fronte di una tale presunta ma macroscopica recidiva per una tangente ipotizzata superiore al miliardo di dollari. Ne deriva che una condanna per Eni – per quanto siamo solo al primo grado – sarebbe una schiaffo senza precedenti per la multinazionale italiana anche a livello internazionale. Si ricordi che un procedimento penale è pendente in Nigeria, dove accordi bilaterali non applicano il principio di ne bis in idem, sempre sullo stesso caso con accuse anche più corpose, ed un’indagine si sta concludendo in Olanda ai danni di Shell con altri capi di imputazione. Il management di San Donato sbandiera ai quattro venti che le autorità Usa su Opl245 hanno chiuso le indagini, ma in realtà la procedura americana prevede che queste possano essere riaperte in qualsiasi momento, e una possibile sanzione per recidiva negli Usa, dove Eni è quotata, metterebbe in ginocchio il Cane a sei zampe, già provato dalla crisi economica post-Covid e dal crollo del prezzo del greggio.

Per approfondire

#TheNigerian Cartel

In Nigeria, da anni, comanda la stessa élite politico-finanziaria. Politici e imprenditori che controllano le due filiere storicamente più redditizie del Paese: costruzioni e petrolio

Si aggiunga però che a prescindere dall’esito processuale a Milano e in giro per il mondo, la vicenda Opl245 e le centinaia di migliaia di pagine del fascicolo processuale hanno svelato uno spaccato inquietante su come funziona il mondo del petrolio. La due diligence anti-corruzione di giganti quali Shell o Eni fa sorridere per le sue approssimazioni e inadeguatezze, là dove tutti sanno che si sta di fatto comprando una licenza rubata da un ex ministro del Petrolio di uno dei Paesi più corrotti al mondo. Sembra quasi che le procedure formali non possano estinguere il cancro della corruzione, o la sua tentazione, e che anche chi nelle società solleva dubbi sulle operazioni di fatto non ha voce in capitolo nelle decisioni finali, come ben messo in luce dalla pubblica accusa. Anche se assolte, le due società dovranno rispondere al tribunale dell’opinione pubblica di un tale fallimento e riguadagnare la fiducia di investitori e cittadini – che nel caso di Eni sono anche di fatto azionisti tramite lo Stato italiano.

Lo Stato parallelo e la politica

Lo spaccato che ci hanno dato le decine di udienze passa sotto la lente un’intera classe dirigente che per più un decennio ha gestito il lucroso sistema delle aziende italiane partecipate – quali Eni, Enel e Leonardo – che rimangono l’ossatura dei grandi numeri del sistema economico italiano e della capitalizzazione della borsa di Milano. Top manager di bandiera, quali Paolo Scaroni, intermediari sempre verdi vicini alle stanze più alte della politica, quali il pluripregiudicato Luigi Bisignani, pezzi della diplomazia, quali Gianfranco Falcioni, console onorario italiano a Port Harcourt, e personaggi vicini ai servizi segreti, come Vincenzo Armanna. Tutti sodali in un blocco di potere che ha mosso profitti, interferito nella politica in Italia ed all’estero, costruito narrazioni sulle magnifiche sorti dell’Italia nel mondo, e soprattutto guidato la politica energetica, estera e di sicurezza nostrana. Lo Stato parallelo denunciato dai più coraggiosi, che la vicenda Opl245 ha mostrato essere non solo italiano, ma anche olandese, nigeriano e probabilmente di altri paesi. Se si vuole è quella classe dirigente dagli anni 2000 fino alla metà dello scorso decennio oggi a processo, almeno nell’opinione pubblica.

Le tappe del processo sulla presunta maxi-tangente da 1,1 miliardi di euro per l’aggiudicazione del blocco petrolifero Opl245 in Nigeria

Sul versante della politica italiana, in caso di condanna le conseguenze non sarebbero trascurabili. Appena lo scorso maggio, dopo un lungo tira e molla, il governo Conte ha confermato Claudio Descalzi alla guida dell’Eni per altri tre anni. Se condannato, Descalzi ha già annunciato dalle colonne del Wall Street Journal che si dimetterebbe – ma davvero? – e in ogni caso una bufera politica si abbatterebbe contro il governo o tra il governo e la magistratura, come se non bastasse l’affaire Palamara-Csm.

Ma anche in caso di assoluzione, la saga Opl245, degna di una serie TV avvincente e infinita da Netflix, è già destinata a continuare nelle aule processuali di Milano. Rimane aperta l’indagine sul presunto “finto complotto” orchestrato dall’ex avvocato di Eni, Piero Amara, e diversi suoi sodali anche interni all’azienda, che avrebbe cercato con la corruzione di un pm a Siracusa e altre torbide manovre di affossare senza successo l’indagine della Procura di Milano sull’Opl245. La stessa Procura che ha neutralizzato l’attacco e ha a sua volta iniziato ad indagare sui responsabili di questo.

Una saga destinata a continuare, anche dopo questo processo

Probabile che si arriverà a processo, visto che Piero Amara, già condannato a 3 anni e 8 mesi a Roma e Messina, nell’alveo dello scandalo più ampio delle sentenze truccate al Consiglio di Stato e le nomine guidate al Csm, lo scorso dicembre ha iniziato a rivelare molti fatti alla Procura di Milano. Numerosi verbali, pur se omissati in larga parte, sono finiti nel fascicolo del processo Opl245, ma Amara non è stato accettato come teste dal tribunale. Però è emerso che secondo questi l’attuale numero due di Eni, Claudio Granata, avrebbe fatto pedinare ed intercettare addirittura i pm di Milano e diversi giornalisti. Lo stesso Granata filmato in un incontro con Armanna – ora agli atti del processo Nigeria – orchestrato da Amara per convincere questi a ritrattare le sue accuse a Descalzi nell’indagine Opl245. Nel pieno della pandemia Covid il procuratore capo di Milano, Franceso Greco, ha portato i verbali degli interrogatori di Amara alla Procura di Brescia chiedendo di indagare su quanto detto ed i presunti danni causati ai Pm di Milano. Ed anche qui potrebbe nascere un nuovo processo.

La stessa saga Opl245 sembra agitare in questi giorni anche il sistema politico nigeriano con la rimozione come un fulmine a ciel sereno del capo dell’anti-corruzione di Abuja, Ibrahim Magu, determinato a processare ex ministri per l’Opl245 ed ora attaccato apertamente dall’attuale ministro della giustizia – perché anch’egli a rischio di indagini. Insomma perseguire i presunti reati dell’Opl245 avvicina un po’ ovunque ai gangli del potere e non c’è da meravigliarsi se la risposta sia questa, ad Abuja come a Milano. E non mancheranno colpi di scena e conflitti nei prossimi mesi e anni.

Nel frattempo i due giacimenti del blocco Opl245 non sono più stati esplorati vista l’incertezza legata alle battaglie legali in mezzo mondo. Con il collasso del prezzo del petrolio, difficilmente questi giacimenti saranno sfruttabili economicamente in futuro. Una buona notizia per il clima del pianeta, meno buona per il governo nigeriano oggi in ginocchio per la crisi economica legata alla pandemia da Covid e di nuovo con il cappello in mano dal Fondo monetario internazionale e dai creditori internazionali. È la maledizione del petrolio, e in questo caso dell’Opl245, che porta solo miseria e conflitti per di più con poche speranze per il futuro. Che intanto i responsabili, se condannati, paghino per un volta per quello che hanno fatto nella vicenda Opl245 e magari le risorse recuperate, se lo saranno, d’ora in poi non siano più usate per sviluppare l’economia corrotta e senza futuro del petrolio.

*Re:Common | Foto: Il quartier generale Eni a Roma – Paolo Grassi/Shutterstock

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