Visti d’oro in Italia: il lasciapassare per i “paperoni” del mondo

#GoldenVisa

Visti d’oro in Italia: il lasciapassare per i “paperoni” del mondo
Lorenzo Bagnoli
Matteo Civillini

La storia dei visti per investitori in Italia è cominciata con Matteo Renzi e si è evoluta con Giuseppe Conte. I due protagonisti dell’attuale crisi di governo sono accomunati dalla stessa sete di fondi esteri da far atterrare in Italia. Con Matteo Renzi come primo ministro, l’Italia ha introdotto per la prima volta il concetto di “Investor visa”, un tappeto rosso per l’ingresso nel Paese in cambio di lauti investimenti. Si tratta della formula più light dei cosiddetti “passaporti d’oro” perché concede un visto di durata biennale, mentre i programmi di altre nazioni garantiscono cittadinanze a tutti gli effetti. Il senso però è lo stesso: dare la possibilità ai super ricchi di fissare la propria residenza in Italia pur senza avere legami che vanno al di là dei denari investiti. Il visto per un imprenditore non-comunitario ha molte attrattive, tra cui la possibilità di circolare nell’Eurozona senza limitazioni.

Con lo scoppiare dell’emergenza Covid, il governo italiano guidato da Giuseppe Conte ha introdotto un rafforzamento di questo programma in nome del rilancio del made in Italy, visti i risultati finora fallimentari in termini di numeri di domande d’ingresso. Sono gli esperti del settore a dire che ora l’Italia ha un suo golden visa vero e proprio. Con tutti i problemi che questo sistema si trascina, tanto è vero che in Europa inizia ad avere una lunga storia di controversie. In passato, i programmi di golden visa sono stati criticati dall’Unione europea, sia per la tipologia di bene ceduto – la residenza o la cittadinanza- sia per l’infiltrazione di investitori pregiudicati nelle liste di chi fa domanda di visto allo scopo di ricostruirsi un’identità.

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A questo poi si aggiunge un tema tutto italiano: la giustizia fiscale. Nel 2020, l’Agenzia delle entrate ha calcolato in 90 miliardi di euro il buco all’erario prodotto dall’evasione e, al contempo, la tassazione è sempre considerata troppo pesante, da imprenditori e dipendenti. Chi porta la propria residenza fiscale all’estero viaggia in un sistema parallelo, fuori dalla logica delle aliquote progressive. Lo sconto fiscale per i neo residenti è comune anche ad altri programmi europei, ma la durata – 15 anni – è una prerogativa italiana. La logica è chiara: meglio meno soldi subito, che zero soldi in futuro. Tuttavia l’interrogativo su quanto questa soluzione sia equa, soprattutto nel lungo periodo, rimane.
Il mantra del rilancio dell’Italia

A leggere le presentazioni del programma, la motivazione che ha spinto verso i golden visa è il rilancio del “made in Italy”, uno dei mantra che si ripetono ciclicamente, soprattutto in tempi di crisi economiche. Le infrastrutture per rendere l’Italia più attrattiva sono diventate più solide a partire dal varo dello Sblocca Italia, promosso sempre dal governo Renzi nel 2014. Il decreto ha introdotto il Comitato Attrazione Investimenti Esteri (Caie), un organismo interministeriale che ha lo scopo di proporre normative che favoriscano gli investimenti esteri; fare da osservatorio sulle politiche in atto e di raccordare le istituzioni che lo compongono (il ministero dello Sviluppo Economico, il ministero degli Esteri, Ministero delle Finanze, Ministero della Pubblica amministrazione e Conferenza Stato-Regioni) con gli uffici esteri dell’Agenzia per la promozione e l’internazionalizzazione dell imprese (Ice).

È una sorta di ufficio pubbliche relazioni che rappresenta l’Italia e le sue imprese nel grande libero mercato tra nazioni. La competizione è su due piani: quello delle aziende italiane nei Paesi esteri (per conquistarsi appalti, commesse e clienti, favorendo l’export) e quello tra nazioni, in cui il marchio Italia compete con quello degli altri Paesi. Tutto l’apparato di marketing si basa da un lato su luoghi comuni più o meno veri e più o meno instillati ormai nell’immaginario comune collegato all’Italia (mare, sole, città d’arte, buon cibo, gente simpatica – elementi di questo genere), dall’altro si gioca quanto l’Italia offre in termini di vantaggi (fiscali e non solo) a un investitore straniero.

L’investor visa dopo la pandemia

Introdotto con la legge di bilancio 2017, l'”Investor visa” italiano nella sua declinazione originale prevedeva che i richiedenti potessero scegliere tra quattro diversi investimenti: due milioni di euro in titoli di Stato, un milione di euro in azioni in società di capitali, 500mila in quote di startup innovative o un milione di euro in donazioni filantropiche, categoria quest’ultima che rappresenta una particolarità del sistema italiano, finalizzata a recuperare nuovi mecenati della cultura. Risultati per quest’ultima strada, al momento zero, alla faccia della cultura prodotto d’eccellenza del made in Italy. Oltre all’erogazione di denaro, come per tutti i possessori del permesso di soggiorno, agli investitori veniva chiesta la sottoscrizione dell’accordo di integrazione e l’obbligo della continuità di soggiorno sul territorio italiano.

Poi c’è stato il ribaltone. Durante la pandemia, il governo ha inserito una serie di modifiche chiave che hanno trasformato il primo timido tentativo di visto per investitori in un golden visa competitivo con quanti ne esistono in Europa. Il primo cambiamento è arrivato con il Decreto Rilancio, il primo provvedimento dell’esecutivo pensato per rispondere alla crisi economica innescata dalla pandemia da Covid-19. Le categorie d’investimento attraverso cui ottenere il visto sono rimaste le stesse, ma le somme necessarie per gli investimenti in società di capitali e startup sono state dimezzate (500mila e 250mila euro rispettivamente). Dopo cinque anni, stante la normativa attuale, il titolare di “Investor visa” può richiedere il «permesso di soggiorno permanente», che in pratica dà accesso agli stessi diritti, ma senza scadenza.

Originariamente, i richiedenti potevano scegliere tra quattro tipi di investimenti: due milioni di euro in titoli di Stato, un milione di euro in azioni in società di capitali, 500mila in quote di startup innovative o un milione di euro in donazioni filantropiche

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La seconda novità, ancor più decisiva, è stata apportata a settembre nel Dl Semplificazioni e riguarda l’abolizione dell’obbligo di permanenza fisica in Italia per tutta la durata del visto. «Quello della libertà di spostarsi tra diversi Paesi è un aspetto fondamentale per i cosiddetti high net worth individuals (cioè persone che dispongono di alti redditi, ndr)», spiega l’avvocato Marco Bersani, a capo di uno studio specializzato in diritto di immigrazione per investitori esteri. «Questa novità – prosegue Bersani – ha reso l’Investor Visa molto competitivo rispetto agli altri Paesi europei e questo ha scaturito un grande interesse nel programma italiano». Il punto di forza, evidenzia il Ministero dello Sviluppo Economico, sarebbe la sua rapidità: al richiedente, infatti, viene garantita la comunicazione dell’esito della sua candidatura entro 30 giorni dall’invio.

«Prima del Covid – aggiunge l’avvocato Bersani – avevamo trattato 3-4 domande, numeri irrisori. Nessuno conosceva questo programma». La svolta c’è stata con le modifiche dei Dl Rilancio e Semplificazioni: «Nell’ultimo anno abbiamo ricevuto una quarantina di richieste di interessamento per questo visto. Probabilmente nel 2021 le domande saranno ancora superiori perché vedo che, a differenza del passato, ora l’Investor Visa è molto pubblicizzato all’estero e – conclude Bersani – viene considerato un programma competitivo».

L’iter di approvazione

L’iter prevede la valutazione della domanda da parte di un comitato che comprende rappresentanti dei ministeri dello Sviluppo Economico, dell’Interno, degli Esteri, della Guardia di finanza e dell’Agenzia delle entrate. A loro spetta il compito di verificare la documentazione presentata dai candidati. Tra questa una dichiarazione che la somma da investire sia di provenienza lecita e un certificato di insussistenza di condanne penali definitive, oltre che, ovviamente, al prospetto dall’investimento proposto.

Se non ci sono obiezioni, il comitato concede il nulla osta all’emissione di un visto per investitori, che il richiedente può utilizzare entro sei mesi dal rilascio. Una volta ottenuto, il visto (della durata di due anni), al beneficiario non resta che fare ingresso in Italia e presentare domanda per il permesso di soggiorno.

I dati sul golden visa made in Italy

I dati che IrpiMedia ha ottenuto dal Ministero dello Sviluppo Economico coprono la prima fase temporale del golden visa all’italiana. Raccontano, in effetti, di un mezzo fallimento: dall’inizio del 2018 a metà giugno 2020 sono arrivate soltanto 17 candidature, di cui dieci hanno portato al rilascio del visto e una ancora in valutazione al momento della nostra richiesta. In cima alla lista delle nazioni di provenienza dei richiedenti troviamo Russia e Siria – con quattro a testa – seguite da Cina, Israele (con due) e Brasile, Canada, Corea del Sud, Emirati Arabi e Turchia (una).

Una geografia che, a detta degli operatori del settore, sarebbe parzialmente mutata negli ultimi mesi. Al fianco di un rafforzato interesse da parte di investitori asiatici e russi, si sono infatti trovati di fronte a un boom di richieste dagli Stati Uniti. «Soprattutto prima delle elezioni presidenziali, con il rischio percepito di instabilità politica – racconta l’avvocato Marco Bersani – siamo stati avvicinati da numerosi americani alla ricerca di una via d’uscita che hanno individuato anche nell’Investor Visa italiano».

Tra le opzioni di investimento disponibili, l’acquisto di quote di società di capitali e, in minor misura la startup innovativa (qui il registro imprese “speciale”), fa maggiormente gola ai richiedenti del golden visa. Le aziende di questo genere usufruiscono già di Smart&Start Italia, un sistema di incentivi che prevede agevolazioni, accesso al credito e un fondo per le imprese che nascono a Sud. A gestire il meccanismo è InvItalia, l’Agenzia nazionale per lo sviluppo che dipende dal Ministero delle Finanze di cui è amministratore delegato l’ubiquo Domenico Arcuri. È infatti lo stesso Commissario straordinario nominato dal governo «per l’attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica Covid-19».

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Matteo Civillini

Mappe

Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi

Passaporti d’oro: così si alimenta l’industria della diseguaglianza

9 Novembre 2020 | di Lorenzo Bagnoli

La mail è del 4 novembre. La casella di provenienza appartiene a Christian Kalin (o Kaelin, come scritto nel nuovo indirizzo di posta elettronica), il presidente del gruppo Henley & Partners. La società è tra i leader mondiali nei programmi di cittadinanza-per-investimento: i cosiddetti “passaporti d’oro”. Altri attori sono Apex Capital, Kylin Prime Group, Arton Capital, Civiquo Limited, ma l’elenco potrebbe essere molto più lungo. «Gli straordinari eventi intorno al Covid – scrive Kalin nell’email – hanno dimostrato ancora una volta quanto siano importanti i diritti di residenza e cittadinanza».

L’industria dei passaporti ha cominciato a espandersi nel 2007. Ha sfumature diverse, ma in sostanza permette a cittadini facoltosi di acquistare la cittadinanza o la residenza in cambio di investimenti: nelle isole caraibiche il contributo minimo per una residenza è pari a 100mila dollari, mentre a Cipro può richiedere fino a un investimento minimo di 2 milioni di euro. La stima di Apex Capital Partners è che alla fine del 2020 saranno circa 25mila gli acquirenti di cittadinanze, contro i circa 5mila del 2017. Sono questi i cosiddetti “programmi di migrazione”, un insieme che include cittadinanza e residenza, attivi in oltre cento Paesi in tutto il mondo.

Avvocato svizzero, Kalin ha trasformato questi due diritti in prodotti acquistabili. È l’inventore dello Ius Doni, il diritto della residenza e dell’indice che misura la potenza, e l’attrattività, dei passaporti. «L’uomo che vende passaporti» lo chiama il giornalista Oliver Bullough in Moneyland, libro che investiga come i ricchi dominano il mondo. È il loro ciambellano, il genio che ha intuito l’esistenza di un nuovo mercato dalla portata mondiale di circa tre miliardi di dollari l’anno e l’uomo verso il quale convergono anche le critiche sulla legittimità del business.

La procedura d’infrazione europea verso Malta e Cipro

Inizialmente avallato dalla stessa Commissione Europea, il sistema di cessione della cittadinanza è stato più recentemente accusato di mettere in pericolo la stessa tenuta dell’Unione. L’onda è diventata impossibile da cavalcare negli ultimi due anni. Ha cominciato a montare nel 2016, anno delle prime inchieste sui beneficiari della cittadinanza sui quali pesavano indagini per reati di varia natura o addirittura condanne. La stessa giornalista Daphne Caruana Galizia dalle colonne del suo blog Running Commentary aveva avviato inchieste e approfondimenti sul tema. I sospetti che le operazioni di acquisto celassero corruzione e riciclaggio si sono moltiplicati ovunque, in Europa e non solo.

Per approfondire

The Daphne Project

L’omicidio della giornalista maltese Daphne Caruana Galizia ha segnato un punto di svolta nella storia dell’isola. 45 giornalisti da 18 Paesi nel mondo hanno proseguito il suo lavoro

18 Ottobre 2020
Alla fine la Commissione Europa, il 20 ottobre scorso, ha iniziato una procedura di infrazione nei confronti di Malta e Cipro, i due Paesi capofila dei passaporti d’oro europei. La vendita di cittadinanza, rileva la stessa Commissione, viola il «principio di leale cooperazione», stabilito all’articolo 4 del Trattato sull’Unione Europea, e «l’integrità dello status di cittadino dell’Unione» così come sancito dall’articolo 20 del Trattato sul funzionamento dell’Ue.

Ora i due Paesi hanno due mesi per adeguarsi ed evitare di trovarsi di fronte alla Corte di giustizia europea. Le procedure colpiscono gli Stati membri e non riguardano in alcun modo Henley & Partners e le altre società che forniscono i servizi, le quali restano libere di poter continuare il proprio business.

La spinta finale che ha innescato la procedura è stata l’ultima inchiesta di Al Jazeera, che ha svelato come politici di Cipro abbiano guadagnato laute mazzette dalla compravendita delle cittadinanze dei super ricchi.

A Malta, Paese dove il sistema è stato concepito e implementato dal governo insieme allo studio legale svizzero (Henley & Partners è “unico concessionario”), la reazione alla mossa europea è stata di sdegno: Bruxelles ne fa una questione morale, più che una questione legale. A Malta Today il Segretario maltese per la cittadinanza al Parlamento Europeo Alex Muscat ha rivendicato la qualità dei controlli maltesi, a suo avviso non paragonabile a quella cipriota.

A Nicosia il procedimento europeo ha persuaso il governo a interrompere il programma a partire da novembre: si esauriranno le richieste in coda, ma non se ne accetteranno di nuove. Dal 2013, l’anno in cui Cipro è andata in bancarotta e ha deciso di convertirsi a paradiso dei servizi finanziari, ha incassato 8 miliardi di euro attraverso lo schema della cittadinanza per investimento. Intanto però fuori dal Palazzo presidenziale gruppi di cittadini hanno cominciato a protestare contro il governo chiedendo dimissioni di massa.

Storie di nuovi cittadini non graditi

Tra gli ultimi beneficiari di cittadinanze-su-investimento con una fedina penale che avrebbe dovuto escluderli dalla lista dei possibili richiedenti, uno dei nomi di maggiore rilevanza è quello di Jho Low, un finanziere nativo della Malesia molto noto a Hollywood. Low era un habitué delle feste delle star del cinema, che frequentava assiduamente grazie al potere acquistato con il suo fondo d’investimento, 1MDB. Peccato che la sua ricchezza esibita non fosse reale e che secondo il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti fosse in realtà uno strumento per commettere crimini finanziari. Le polizie internazionali indagano su di lui dal 2016 e nel 2019 ha patteggiato con gli Stati Uniti la restituzione di 700 milioni di dollari. Dal 2015 è cittadino cipriota.

Thaksin Shinawatra, ex primo ministro della Thailandia, è coinvolto in scandali finanziari dal 1994. È entrato in politica proprio a seguito di una bancarotta. Dal 2001 ha concentrato sulle società di famiglia i più grossi interessi economici del Paese (come le telecomunicazioni) e ha subito la prima condanna per evasione fiscale in patria nel 2007. Il suo governo ha provocato enormi manifestazioni di piazza e per due volte è stato costretto a lasciare il Paese. Ha ottenuto il “visto permanente” in Montenegro dal 2010.

Ex membro delle forze speciali di Difesa e imprenditore nel settore della sicurezza, l’israliano Anatoly Hurgin è cittadino maltese dal 2016. Nel 2019 è stato accusato di frode in Israele e negli Stati Uniti.

Mehul Choksi è un ricco imprenditore indiano nel settore dei diamanti. Per l’India è un latitante: ha lasciato il Paese a seguito di una scandalo giudiziario che lo vede incriminato per frode insieme ad ex dipendenti della Punjab National Bank, una delle più grosse banche del Paese. Dal 2017 ha acquistato la cittadinanza nell’arcipelago caraibico di Antigua e Barbuda.

L’industria ai tempi della pandemia

Per quanto il Covid abbia impattato in modo violento il mondo del turismo e la concezione stessa della libertà di movimento, il mercato dei passaporti non sembra attraversare una crisi. Cambiano forse le caratteristiche di alcuni clienti. Mentre in particolare nel Mediterraneo erano i russi a cercare riparo per i loro investimenti in caso di nuove sanzioni europee contro Mosca, la pandemia ha spostato l’attenzione verso le isole caraibiche, destinazione privilegiata dei ricchi nordamericani. La seconda cittadinanza è come «un elicottero da combattimento venuto a salvarti» dalla pandemia, per usare la metafora che un manager ha utilizzato con Forbes.

L’imprevedibilità del futuro, secondo Henley & Partners, è uno dei motivi per cui è meglio avere in tasca un passaporto alternativo. Ora che i “passaporti premium”, quelli che aprono le porte di un numero maggiore di Paesi, sono di fatto inutilizzabili, è preferibile una seconda opzione, in Paesi piccoli dove i contagi sono contenuti.

Tra i programmi che scalano la classifica c’è quello del Montenegro, lanciato nel 2019, sul quale Henley & Partners punta molto. Diceva a luglio l’amministratore delegato della società svizzera Juerg Steffen: «Dal momento in cui entriamo nella peggiore recessione dalla Grande Depressione, un Paese piccolo come il Montenegro è meglio equipaggiato per superare la tempesta. Il programma di recente lancio di cittadinanza-per-investimento fornisce accesso permanente e il permesso di restare in questo Paese europeo bello e sicuro». L’Osce nell’analisi pubblicata a ottobre sulla situazione del coronavirus ha indicato per il Montenegro un enorme incremento nella curva dei contagi a partire da giugno, tale da rendere oggi il Paese l’undicesimo al mondo nella classifica dei più colpiti.

Una questione di equità fiscale

Quando la questione è finita sulla stampa internazionale, Kalin ha parlato di un pregiudizio della stampa stessa nei confronti dell’industria e ha bollato tutte le inchieste come «fake news» nel corso di un’intervista con un giornale specializzato. Che l’industria dell’immigrazione per super ricchi possa minare la tenuta dei sistemi di monitoraggio fiscali però è un timore di tanti, basato principalmente su una valutazione, più che un pregiudizio.

C’è infatti un tema politico che sottende alla vendita dei passaporti: la competitività e la giustizia fiscale. Fare dell’industria dei passaporti un traino della propria economia implica gareggiare sull’attrattività di una minuscola fetta di mercato ricchissimo. Questo significa modellare il proprio sistema fiscale in modo che possa favorire questi ultimi, con il rischio che sia a discapito di tutti gli altri. Più che ogni altro elemento sul curriculum di chi si aggiudica la cittadinanza, è questo che rende pericoloso il sistema, specialmente nel contesto europeo, ma non solo.

La partita della giustizia fiscale in Europa, fondamentale per la stessa tenuta dell’Unione, ora si gioca anche all’interno di una sottocommissione apposita che ha preso piede a giugno. Kalin ha tutto il diritto di difendere l’onorabilità sua e dell’azienda che presiede, ma non può eliminare dal discorso pubblico il tema di quanto abbia senso oppure no investire nell’industria delle disuguaglianze.

Così Malta mette in vendita la cittadinanza europea ai ricchi del mondo

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Così Malta mette in vendita la cittadinanza europea ai ricchi del mondo

Lorenzo Bagnoli

LA VALLETTA

«Sono più che infastidita dal fatto che un’azienda si senta autorizzata a vendere la cittadinanza di un Paese contro la volontà dei suoi cittadini, dopo un subdolo accordo sottoscritto con un governo che non ha avuto, su questo, alcun mandato». Le parole sono di Daphne Caruana Galizia. Era il 12 maggio 2017, e in un post del suo blog Running Commentary scriveva a Christian Kalin, presidente della società di consulenza Henley&Partners. Una società specializzata nel costruire sistemi per attrarre ricchi che vogliono acquistare una seconda cittadinanza europea. Il governo di La Valletta ha un contratto con loro che scadrà nel 2019. Ma non sono i soli: Henley&Partners lavora da decenni in tutto il mondo, e da due anni spinge per l’introduzione di un sistema simile anche in Italia.

Le domande che Daphne si poneva erano semplici: chi sono i nuovi cittadini maltesi? Caruana Galizia aveva trovato alcune risposte. Il consorzio Daphne Project è partito dal suo lavoro per scavare più a fondo sulle conseguenze di questo sistema e sull’azienda che lo ha lanciato a Malta.

Dal 2014 (anno d’inizio del programma) ad oggi, circa mille stranieri hanno ottenuto la cittadinanza maltese, al costo minimo di un milione di euro: 650 mila per depositare la domanda principale (quella del capofamiglia. Gli altri componenti del nucleo familiare pagano invece meno), a cui se ne aggiungono 150 mila, per almeno cinque anni, da investire in bond o azioni di aziende maltesi. Da ultimo, è necessario comprare abitazioni dal valore di almeno 350 mila euro, o pagare almeno 80 mila euro di affitto per cinque anni. Da un conto fatto gli unici a trovare “conveniente” un investimento di questo tipo sono persone con un patrimonio personale da non meno di 5 milioni di euro.

Non incassa però tutto Malta. Dall’ultimo rapporto dell’autorità maltese responsabile del programma di vendita delle cittadinanze è Henley che ha incassato fin qui non meno di 20 milioni di euro. E non è l’unico ingresso: Henley incassa anche sugli investimenti immobiliari. Il contratto tra Henley&Partners e il governo maltese prevede la possibilità di mettere in vendita fino a 1.800 cittadinanze.

Nel caso in cui si arrivi a 1.200, la percentuale corrisposta all’azienda di Kalin su ogni domanda principale salirà dal 4 al 4,5%, secondo fonti del consorzio non smentite dall’azienda. Nel caso in cui si superassero le 1.900, quindi oltre il tetto previsto dal contratto, il tasso salirebbe al 5%. Il governo laburista ha già in programma di rinnovare, visti i risultati: ha indetto delle consultazioni online chiuse il 28 febbraio, delle quali ancora non sono stati resi pubblici i risultati.

Una parte del tesoro prodotto dall’industria della cittadinanza è diventato uno dei pilastri su cui si poggia parte del welfare del Paese: pesa per circa il 2,5% del Pil. Ormai l’economia maltese ne è dipendente: “A Malta si investe solo in costruzioni e passaporti”, spiega Michael Briguglio, sociologo e consigliere d’opposizione del partito nazionalista a Sliema.

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Gli intoccabili, la bomba e la mafia

C’è un gruppo di criminali a Malta, i Maksar, che gestisce i traffici più redditizi e può vantare contatti con cosa nostra. Secondo testimonianze inedite hanno fornito la bomba che ha ucciso la giornalista Daphne

I segreti Offshore di Henley & Partners

Si diceva che soltanto da Malta, Henley & Partners ha incassato almeno 20 milioni di euro di provvigioni per le domande di cittadinanza, in cui vanno considerati anche più 70 mila euro “flat” su ogni singola domanda di ogni singolo capofamiglia. Almeno. La cifra non tiene conto, però, di un altro 4% che Henley ottiene sul valore dell’investimento immobiliare che il cliente è tenuto a fare sull’isola.

Difficile stabilire il patrimonio complessivo della società. Così come la reale identità dei suoi azionisti (la società, sul punto, ha deciso di non rispondere al Daphne Project). Né sono a disposizione documenti di bilancio, con conti ben nascosti in forzieri offshore: il quartier generale di Henley è infatti a Jersey, mentre le sue sussidiarie sono alle Bahamas, a Panama, a Hong Kong, a Cipro, in Svizzera, a Singapore, in Gran Bretagna e, appunto, a Malta. Gli uffici sono in tutto 27 in tutto il mondo.

La Henley & Partners Holdings Plc di Jersey compare sui Panama Papers. I proprietari principali sono due trust, Devonport e Parula, che portano a un nome che sembra non avere alcuna traccia: Uma Sathia, una donna di Singapore, che secondo quanto dichiarato a un giornalista del consorzio da Henley & Partner è una familiare di Kalin.

Dalla pubblicazione dei Panama Papers, la società cambia struttura societaria. I giornalisti di Daphne Project hanno potuto riscontrare la situazione fino alla primavera del 2017. Il socio di maggioranza appare ancora lei, seppur con una quota più bassa. La società londinese ha smentito la ricostruzione dei giornalisti. Interessante, piuttosto, e perché alla luce del sole, osservare l’effetto dello schema messo in piedi da Henley su Malta.

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Joseph Muscat, ex primo ministro maltese

La Malta di Muscat tra Singapore e Dubai

Vista dall’altra sponda del Golfo di Valletta, Sliema è una selva di gru e palazzoni in costruzione. La marina dove approdano i traghetti da Valletta è perennemente punteggiata di gente che si sposta, chi per andare a locali, chi a fare shopping, chi per giocare d’azzardo. È uno dei distretti della nuova Malta “Dubaificata”, trasformata in una Dubai mediterranea. Il copyright della definizione è di Simon Busuttill, parlamentare nazionalista ostile all’introduzione della cittadinanza in vendita. Il primo ministro dell’isola, il socialista Joseph Muscat, prima di essere eletto aveva dichiarato di voler trasformare l’isola in una “Singapore del Mediterraneo”: un paradiso per le aziende di servizi finanziari, un centro di ritrovo per imprese emergenti, un porto d’approdo per i business più all’avanguardia, poco importa se controversi. Per quanto Muscat non abbia mai dichiarato in campagna elettorale, la trasformazione della cittadinanza in un bene di scambio è in piena sintonia con la sua visione.

Sliema è il posto dove abitano la maggior parte dei maltesi “nuovi maltesi”: secondo l’ultimo rapporto dell’ufficio statale maltese che controlla la vendita delle cittadinanze sono il 78% del totale. L’effetto – alla lunga – potrebbe farsi sentire sull’economia locale: il Fondo Monetario Internazionale riporta che per acquistare casa a Malta gli interessi sono sempre più alti, così come il prezzo.

Il programma di vendita dei passaporti è stato introdotto nel 2014 dopo un lungo negoziato con le istituzioni europee a cui ha partecipato anche Henley & Partners. Da un lato, la missione a Malta del Parlamento europeo guidata dalla socialista Ana Gomes a gennaio 2018 ha prodotto un rapporto molto critico nei confronti dei “passaporti in vendita”, definiti in modo così spregiativo dagli stessi europarlamentari. La missione, nel rapporto, scrive che il programma produce rischi d’infiltrazione della criminalità finanziaria, di riciclaggio, di evasione ed elusione fiscale. Dall’altro lato, però, il programma maltese è l’unico ad aver ottenuto, alla sua nascita, un via libera dalla Commissione europea. A patto che fossero introdotti alcuni requisiti, il più importante dei quali è l’esistenza di un effettivo “legame concreto” con l’isola. In altre parole, chi chiede la cittadinanza a Malta, deve averci risieduto almeno un anno.

Peccato non sia così. O, almeno, non sempre così.

Le case vuote

Vasim Vasilyev è diventato cittadino nel 2017. Di mestiere fa il vicepresidente del “Monaco”, il club calcistico del Principato di Montecarlo. Nato in Russia, a Malta ha investito, dopo aver ottenuto il passaporto, in un’azienda locale. “Sono fiero di condividere i valori maltesi”, spiega Vasilyev al consorzio. Non chiarisce però se a Malta risieda davvero o meno.

I giornalisti hanno visitato diversi degli indirizzi in cui si sa che abitano i “nuovi maltesi”. Non hanno mai trovato nessuno di loro.

Le luci degli appartamenti di Sliema, la sera, sono spente: in particolare a Fort Cambridge, una della più grandi operazioni immobiliari dell’isola. È un residence autosufficiente, che dà l’impressione a chi lo attraversa di poter vivere senza mescolarsi al resto della città. Come un’enorme villaggio vacanze, un po’ triste per il prezzo per cui i nuovi maltesi ne acquistano gli appartamenti.

Nel 2015 il New York Times citava uno degli agenti che procacciano i nuovi cittadini, Mark George Hyzler: “I nuovi maltesi si vedono due volte l’anno, una per prendere la residenza, l’altra per prendere il passaporto”. A questi agenti spettano i primi controlli sull’identità dei richiedenti, a cui seguono quelli dell’agenzia statale che stampa fisicamente i passaporti: Identity Malta. Anche per loro la grande industria della cittadinanza è una gallina dalle uova d’oro.

Del resto clienti liquidi non mancano.

L’armata di Putin 

Prendete ad esempio Arkady Volozh, Boris Mints e Alexander Nesis. Sono tre russi che hanno in comune un secondo passaporto maltese, un conto in banca miliardario e una (presunta) stretta vicinanza a Vladimir Putin. Gli Stati Uniti li hanno inseriti in una lista, la Kremlin list, in cui sono inclusi miliardari russi ritenuti vicini al Cremlino. Per loro, la cittadinanza maltese è una carta da giocarsi nel caso in cui l’elenco si dovesse trasformare in effettive sanzioni. Secondo una ricerca interna di Henley & Partners, il motivo principale per cui gli imprenditori comprano la cittadinanza è la possibilità di viaggiare in tutta Europa senza visto. Una porta aperta in tutta l’Europa.

Volozh è l’inventore del Google russo, Yandex. In Ucraina la magistratura ha ordinato a maggio 2017 il sequestro degli uffici del motore di ricerca a Odessa e Kiev, con l’accusa di aver aiutato la Russia nel conflitto ucraino accumulando illegalmente dati degli utenti, per poi girarli ai servizi segreti russi. Ha confermato a media russi l’acquisto della cittadinanza maltese.

Boris Mints è il classico oligarca: un passato da politico, un presente da magnate della holding di investimenti Group 01. Dal 2010 è presidente della Confindustria russa, dopo che nel 2001 ha provato a fare opposizione a Putin. Alexander Nesis, il più ricco dei tre, con un patrimonio che Forbes ritiene essere di almeno 1,9 miliardi di dollari, è azionista di minoranza della società di Mints e co-proprietario della più grande banca privata russa, Otkritie Bank. Questi ultimi non hanno risposto alle domande dei giornalisti.

Il melting pot dei miliardari

Non ci sono solo russi, nel melting pot di miliardari con documento maltese. C’è una famiglia di banchieri dal Kenya, ex parlamentari dal Vietnam, imprenditori del petrolio nigeriani e moltissimi nomi di imprenditori cinesi a cui è difficile risalire, visto che la lista presentata dal governo una volta all’anno contiene solo nomi e cognomi di persone naturalizzate maltesi e di acquirenti della cittadinanza, senza date di nascita o indicazioni del Paese d’origine. Poi ci sono gli arabi, altrettanto difficili da rintracciare. Uno di questi è l’emiro Waleed al-Ibrahim, presidente ed ex proprietario della Middle East Broadcasting Center, una delle più grosse compagnie radiotelevisive di proprietà araba. È stato in arresto all’hotel Ritz Carlton di Riad con l’accusa di corruzione. Una delle 11 vittime illustri della purga ordinata dal principe ereditario Mohamed bin Salman.

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Autori

Lorenzo Bagnoli

In partnership con

La Repubblica
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Foto

Edin Pasovic/OCCRP

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