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Visti d’oro in Italia: il lasciapassare per i “paperoni” del mondo
#GoldenVisa
Matteo Civillini
La storia dei visti per investitori in Italia è cominciata con Matteo Renzi e si è evoluta con Giuseppe Conte. I due protagonisti dell’attuale crisi di governo sono accomunati dalla stessa sete di fondi esteri da far atterrare in Italia. Con Matteo Renzi come primo ministro, l’Italia ha introdotto per la prima volta il concetto di “Investor visa”, un tappeto rosso per l’ingresso nel Paese in cambio di lauti investimenti. Si tratta della formula più light dei cosiddetti “passaporti d’oro” perché concede un visto di durata biennale, mentre i programmi di altre nazioni garantiscono cittadinanze a tutti gli effetti. Il senso però è lo stesso: dare la possibilità ai super ricchi di fissare la propria residenza in Italia pur senza avere legami che vanno al di là dei denari investiti. Il visto per un imprenditore non-comunitario ha molte attrattive, tra cui la possibilità di circolare nell’Eurozona senza limitazioni.
Con lo scoppiare dell’emergenza Covid, il governo italiano guidato da Giuseppe Conte ha introdotto un rafforzamento di questo programma in nome del rilancio del made in Italy, visti i risultati finora fallimentari in termini di numeri di domande d’ingresso. Sono gli esperti del settore a dire che ora l’Italia ha un suo golden visa vero e proprio. Con tutti i problemi che questo sistema si trascina, tanto è vero che in Europa inizia ad avere una lunga storia di controversie. In passato, i programmi di golden visa sono stati criticati dall’Unione europea, sia per la tipologia di bene ceduto – la residenza o la cittadinanza- sia per l’infiltrazione di investitori pregiudicati nelle liste di chi fa domanda di visto allo scopo di ricostruirsi un’identità.
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Il mantra del rilancio dell’Italia
A leggere le presentazioni del programma, la motivazione che ha spinto verso i golden visa è il rilancio del “made in Italy”, uno dei mantra che si ripetono ciclicamente, soprattutto in tempi di crisi economiche. Le infrastrutture per rendere l’Italia più attrattiva sono diventate più solide a partire dal varo dello Sblocca Italia, promosso sempre dal governo Renzi nel 2014. Il decreto ha introdotto il Comitato Attrazione Investimenti Esteri (Caie), un organismo interministeriale che ha lo scopo di proporre normative che favoriscano gli investimenti esteri; fare da osservatorio sulle politiche in atto e di raccordare le istituzioni che lo compongono (il ministero dello Sviluppo Economico, il ministero degli Esteri, Ministero delle Finanze, Ministero della Pubblica amministrazione e Conferenza Stato-Regioni) con gli uffici esteri dell’Agenzia per la promozione e l’internazionalizzazione dell imprese (Ice).
È una sorta di ufficio pubbliche relazioni che rappresenta l’Italia e le sue imprese nel grande libero mercato tra nazioni. La competizione è su due piani: quello delle aziende italiane nei Paesi esteri (per conquistarsi appalti, commesse e clienti, favorendo l’export) e quello tra nazioni, in cui il marchio Italia compete con quello degli altri Paesi. Tutto l’apparato di marketing si basa da un lato su luoghi comuni più o meno veri e più o meno instillati ormai nell’immaginario comune collegato all’Italia (mare, sole, città d’arte, buon cibo, gente simpatica – elementi di questo genere), dall’altro si gioca quanto l’Italia offre in termini di vantaggi (fiscali e non solo) a un investitore straniero.
L’investor visa dopo la pandemia
Introdotto con la legge di bilancio 2017, l'”Investor visa” italiano nella sua declinazione originale prevedeva che i richiedenti potessero scegliere tra quattro diversi investimenti: due milioni di euro in titoli di Stato, un milione di euro in azioni in società di capitali, 500mila in quote di startup innovative o un milione di euro in donazioni filantropiche, categoria quest’ultima che rappresenta una particolarità del sistema italiano, finalizzata a recuperare nuovi mecenati della cultura. Risultati per quest’ultima strada, al momento zero, alla faccia della cultura prodotto d’eccellenza del made in Italy. Oltre all’erogazione di denaro, come per tutti i possessori del permesso di soggiorno, agli investitori veniva chiesta la sottoscrizione dell’accordo di integrazione e l’obbligo della continuità di soggiorno sul territorio italiano.
Poi c’è stato il ribaltone. Durante la pandemia, il governo ha inserito una serie di modifiche chiave che hanno trasformato il primo timido tentativo di visto per investitori in un golden visa competitivo con quanti ne esistono in Europa. Il primo cambiamento è arrivato con il Decreto Rilancio, il primo provvedimento dell’esecutivo pensato per rispondere alla crisi economica innescata dalla pandemia da Covid-19. Le categorie d’investimento attraverso cui ottenere il visto sono rimaste le stesse, ma le somme necessarie per gli investimenti in società di capitali e startup sono state dimezzate (500mila e 250mila euro rispettivamente). Dopo cinque anni, stante la normativa attuale, il titolare di “Investor visa” può richiedere il «permesso di soggiorno permanente», che in pratica dà accesso agli stessi diritti, ma senza scadenza.
Originariamente, i richiedenti potevano scegliere tra quattro tipi di investimenti: due milioni di euro in titoli di Stato, un milione di euro in azioni in società di capitali, 500mila in quote di startup innovative o un milione di euro in donazioni filantropiche
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La seconda novità, ancor più decisiva, è stata apportata a settembre nel Dl Semplificazioni e riguarda l’abolizione dell’obbligo di permanenza fisica in Italia per tutta la durata del visto. «Quello della libertà di spostarsi tra diversi Paesi è un aspetto fondamentale per i cosiddetti high net worth individuals (cioè persone che dispongono di alti redditi, ndr)», spiega l’avvocato Marco Bersani, a capo di uno studio specializzato in diritto di immigrazione per investitori esteri. «Questa novità – prosegue Bersani – ha reso l’Investor Visa molto competitivo rispetto agli altri Paesi europei e questo ha scaturito un grande interesse nel programma italiano». Il punto di forza, evidenzia il Ministero dello Sviluppo Economico, sarebbe la sua rapidità: al richiedente, infatti, viene garantita la comunicazione dell’esito della sua candidatura entro 30 giorni dall’invio.
«Prima del Covid – aggiunge l’avvocato Bersani – avevamo trattato 3-4 domande, numeri irrisori. Nessuno conosceva questo programma». La svolta c’è stata con le modifiche dei Dl Rilancio e Semplificazioni: «Nell’ultimo anno abbiamo ricevuto una quarantina di richieste di interessamento per questo visto. Probabilmente nel 2021 le domande saranno ancora superiori perché vedo che, a differenza del passato, ora l’Investor Visa è molto pubblicizzato all’estero e – conclude Bersani – viene considerato un programma competitivo».
L’iter di approvazione
L’iter prevede la valutazione della domanda da parte di un comitato che comprende rappresentanti dei ministeri dello Sviluppo Economico, dell’Interno, degli Esteri, della Guardia di finanza e dell’Agenzia delle entrate. A loro spetta il compito di verificare la documentazione presentata dai candidati. Tra questa una dichiarazione che la somma da investire sia di provenienza lecita e un certificato di insussistenza di condanne penali definitive, oltre che, ovviamente, al prospetto dall’investimento proposto.
Se non ci sono obiezioni, il comitato concede il nulla osta all’emissione di un visto per investitori, che il richiedente può utilizzare entro sei mesi dal rilascio. Una volta ottenuto, il visto (della durata di due anni), al beneficiario non resta che fare ingresso in Italia e presentare domanda per il permesso di soggiorno.
I dati sul golden visa made in Italy
I dati che IrpiMedia ha ottenuto dal Ministero dello Sviluppo Economico coprono la prima fase temporale del golden visa all’italiana. Raccontano, in effetti, di un mezzo fallimento: dall’inizio del 2018 a metà giugno 2020 sono arrivate soltanto 17 candidature, di cui dieci hanno portato al rilascio del visto e una ancora in valutazione al momento della nostra richiesta. In cima alla lista delle nazioni di provenienza dei richiedenti troviamo Russia e Siria – con quattro a testa – seguite da Cina, Israele (con due) e Brasile, Canada, Corea del Sud, Emirati Arabi e Turchia (una).
Una geografia che, a detta degli operatori del settore, sarebbe parzialmente mutata negli ultimi mesi. Al fianco di un rafforzato interesse da parte di investitori asiatici e russi, si sono infatti trovati di fronte a un boom di richieste dagli Stati Uniti. «Soprattutto prima delle elezioni presidenziali, con il rischio percepito di instabilità politica – racconta l’avvocato Marco Bersani – siamo stati avvicinati da numerosi americani alla ricerca di una via d’uscita che hanno individuato anche nell’Investor Visa italiano».
Tra le opzioni di investimento disponibili, l’acquisto di quote di società di capitali e, in minor misura la startup innovativa (qui il registro imprese “speciale”), fa maggiormente gola ai richiedenti del golden visa. Le aziende di questo genere usufruiscono già di Smart&Start Italia, un sistema di incentivi che prevede agevolazioni, accesso al credito e un fondo per le imprese che nascono a Sud. A gestire il meccanismo è InvItalia, l’Agenzia nazionale per lo sviluppo che dipende dal Ministero delle Finanze di cui è amministratore delegato l’ubiquo Domenico Arcuri. È infatti lo stesso Commissario straordinario nominato dal governo «per l’attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica Covid-19».
CREDITI
Autori
Lorenzo Bagnoli
Matteo Civillini
Mappe
Lorenzo Bodrero
Editing
Luca Rinaldi