La zona grigia dello strascico: il pesce illegale del Mediterraneo nei supermercati europei

La zona grigia dello strascico: il pesce illegale del Mediterraneo nei supermercati europei

Davide Mancini
Sara Manisera
Arianna Poletti

Quando Ahmed Taktak era poco più che un bambino, durante l’estate lasciava Tunisi per dare una mano allo zio, un pescatore artigianale che seguiva il ciclo delle stagioni del pesce. Ahmed percorreva la strada che dalla capitale porta alla città più popolosa del Sud, Sfax. Dal porto dove stazionano grandi navi merci, si imbarcava su un vecchio traghetto, lasciandosi alle spalle fumi, traffico e rumori. Sbarcava nel porticciolo di Sidi Yousef, dove attraccano ancora oggi le navi che trasportano da una costa all’altra i passeggeri diretti sulle isole di Kerkennah e i camion frigo carichi del pescato del giorno.

Un’ora di traghetto separa la città industriale di Sfax da tutt’altro panorama. A Kerkennah, i fumi delle industrie di Sfax in lontananza lasciano spazio a lunghe distese di sabbia che costeggiano palmeti sempre più secchi a causa della salinizzazione dei suoli. Qualche casa squadrata dall’intonaco bianco o ancora in cemento costeggia la strada che porta a Remla, la cittadina principale di quest’arcipelago circondato da acque basse e cristalline. La punta di uno dei due triangoli speculari che lo compongono indica Lampedusa, a soli 120 chilometri di distanza. Meno del tragitto Roma-Napoli.

A collegare le due isole principali, le uniche abitate, c’è un ponte. Sotto la passerella in cemento armato, l’acqua scorre da un lato all’altro secondo l’effetto delle maree, che a Kerkennah è visibile a occhio nudo. Quando, all’ora del tramonto, il mare si ritira, i pescatori si dirigono a raccogliere le nasse. I fondali poco profondi che circondano l’arcipelago, infatti, permettono di praticare tecniche ancestrali di pesca artigianale, «sostenibili e rispettose dei tempi del mare», spiega Ahmed.

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Proprio nel punto in cui le due isole si toccano, Ahmed Taktak possiede una “parcella di mare”. Per evitare conflitti, infatti, le famiglie di Kerkennah si sono divise l’ampia fascia di battigia lungo la costa dell’arcipelago, come fosse un grande campo. A segnare il confine con l’“appezzamento” vicino è una charfiya, ovvero una lunga distesa di foglie di palma piantate una accanto all’altra, all’interno delle quali i pesci restano intrappolati quando la marea si abbassa. Ancora oggi, Ahmed ricostruisce ogni anno la propria charfiya, anche se ormai «non conviene più». E ricorda: «Insieme a mio zio, da ragazzino pescavo tra i venti e i trenta polpi con le mani, solo camminando lungo la riva, ancora prima di salire in barca. Questo mare pullulava di vita, oggi non c’è più niente».

Affascinato dalle immagini colorate che vedeva su Rai 1, l’unico canale oltre alla TV di Stato tunisina disponibile nel Paese, negli anni ‘90 Ahmed tentava fortuna in Italia, seguendo la stessa rotta che oggi ripercorre per andare a pesca. Ma la vita in Europa si è rivelata più ostile del previsto e così, dopo vent’anni e un matrimonio, si è ritrovato al porto di partenza. Oggi solleva le reti come faceva suo zio. Ad aiutarlo, c’è un giovane apprendista che lo accompagna in barca in cambio di qualche dinaro. Le sue braccia forti, però, non sono più necessarie a sorreggere il peso delle reti, sempre più vuote.

Ahmed Taktak mentre installa una rete di tremaglio al tramonto a Kerkennah – Foto: Davide Mancini
Ahmed Taktak mentre installa una rete tremaglio durante i giorni di bassa marea – Foto: Davide Mancini

«Prima che io partissi per l’Italia, questo era il golfo più pescoso del Paese, perché molte specie del Mediterraneo vengono a riprodursi qui. Non lasciamo neanche più ai pesci il tempo di farlo. Peschiamo sempre, giorno e notte, quattro stagioni all’anno», spiega mentre ripulisce le reti dalla plastica e getta in acqua le lische dei pesci di piccola taglia mangiati dal granchio blu, una specie invasiva venuta dal Mar Rosso che i pescatori tunisini, per la sua voracità, hanno ribattezzato Daesh, come viene chiamato in arabo l’autoproclamato Stato islamico. «Non trovo più pesce, trovo solamente granchi. Porto cinquanta chili di Daesh ogni giorno, me ne prendono 20, mi pagano due dinari al chilo (60 centesimi di euro)». Lo stesso granchio viene esportato dalla Tunisia verso l’Asia, il Nord America o l’Australia in scatole di polistirolo. Il prezzo sul mercato internazionale è di 70 dollari al chilo.

Il ricatto dello strascico

Di pesca artigianale – spiega Ahmed Taktak – oggi non si vive più. Accanto alle piccole imbarcazioni in legno che ancora costellano le coste di Kerkennah, sono comparse barche lunghe meno di 10 metri, con motori più grandi, spesso cariche di frigo per il congelato a bordo. Sono registrate come vascelli per pesca artigianale, sfuggendo così alle restrizioni per la pesca industriale. Sul retro, una carrucola arrugginita stretta e lunga viene usata per calare le reti. «Le vedete queste?», fa notare Nagui, 63 anni, uno dei pescatori più esperti che, durante una giornata di tempesta, si aggira per il porto con un caffè in mano, gli stivali di gomma fino alle ginocchia e un turbante verde in testa. «Queste barche praticano la pesca a strascico», spiega, indicando tre imbarcazioni ferme nel porticciolo di Kraten, il villaggio più a Nord di Kerkennah.

La pesca a strascico consiste nel trainare una rete sul fondale, chiamata kiss in arabo, che significa “sacco”. La rete raccoglie tutto ciò che trova, senza distinzione, comprese alghe, specie sottotaglia e specie non commerciabili, distruggendo così l’ecosistema marino, specialmente quando praticata a basse profondità, come nel Golfo di Gabès.

Pescherecci perla pesca a strascico ormeggiati nel porto di Tunisi – Foto: Davide Mancini
Peschereggi per la pesca a strascico ormeggiati nel porto di Bizerte – Foto: Davide Mancini

Qui si trova una delle riserve più importanti del Mediterraneo di posidonia oceanica, una pianta acquatica che contribuisce a evitare l’erosione delle coste, chiamata dai pescatori “il polmone del mare”, e che oggi, strappata dalle reti, rischia di scomparire. Eppure la Tunisia ha messo al bando questa tecnica di pesca a basse profondità con la legge n. 94 del 1994. Ma sono sempre di più i pescatori che si riconvertono allo strascico illegale, mettendosi a servizio di un armatore che agisce in un clima d’impunità, ingranaggio di un sistema più grande: quello della pesca industriale.

La pesca a strascico

Nelle acque del Mediterraneo in cui si applica la legislazione dell’Ue, la pesca a strascico è vietata a meno di tre miglia nautiche dalla costa, o ad un profondità compresa tra zero e 50 metri, e oltre gli 800 metri. È inoltre vietata in habitat sensibili in cui esistono barriere coralline, prati di posidonia e in alcune aree marine protette designate. I fondali marini, una volta scossi dalle reti a strascico, impiegano tra i 7,5 e i 15 anni a recuperare la loro funzione nell’ecosistema marino, come il trattenimento della CO2. La pesca a strascico è la seconda tecnica più utilizzata nell’Unione europea, rappresentando il 32% delle catture di pesce. Ma contribuisce al 93% della pesca accidentale, in quanto è la pesca indiscriminata per eccellenza. Si stima che circa un milione di tonnellate di pesca accidentale (della quale la maggior parte viene rigettata in mare priva di vita) sia causata ogni anno dalla pesca a strascico praticata nell’Unione europea.

«Vent’anni fa, si poteva pescare a traino a una profondità maggiore di 15-20 metri. A praticarlo erano piccole barche artigianali, che uscivano la mattina con il tramaglio. Poi è iniziata la corruzione. Lo strascico dei pescherecci più grandi è entrato nel Golfo di Gabes, a basse profondità, dove c’erano le uova e molto pesce. Così i grandi pescherecci hanno iniziato a competere con i pescatori artigianali che, poco a poco, hanno iniziato anche loro a montare motori più potenti e fare strascico», riassume un commerciante europeo installatosi in Tunisia nel 1998. Nagui, volto del porto di Kraten, non si rassegna: «Siamo una delle ultime località che si oppongono allo strascico illegale, anche se non guadagnamo più da vivere». Il pescatore si ritiene fortunato: con il ricavato della sua pesca, anni fa è riuscito a costruire la casa dove abita ancora oggi.

I più giovani, invece, si ritrovano intrappolati in una sorta di circolo vizioso. A causa della pesca a strascico, unita al riscaldamento del Mediterraneo e all’arrivo di specie invasive come il granchio blu, lungo le coste tunisine pesce, molluschi e crostacei si sono fatti sempre più rari. «Negli anni ‘90, pescavo cinque o sei branzini», continua Ahmed Taktak, mostrando sul cellulare una vecchia foto di decine di spigole argentate accumulate in una cassa. «Oggi sono contento se ne trovo uno, perché riesco a guadagnarci da vivere per qualche giorno». In assenza del pescato sufficiente per sfamare la famiglia, allora, molti pescatori si mettono a servizio degli armatori dello strascico, finendo per contribuire loro stessi alla penuria di fauna marina. «Se il granchio blu ha invaso il Golfo di Gabes è anche perché abbiamo spezzato la catena alimentare. L’unico predatore di questa specie è il polpo, ma non fa in tempo a crescere che già finisce nelle loro reti», conclude Ahmed Taktak.

Il granchio blu

Il Portunus segnis, conosciuto come granchio blu, è una specie nativa dell’oceano Pacifico e Indiano, che si sta espandendo velocemente come specie invasiva nel Mar Mediterraneo. Con l’apertura del Canale di Suez alla fine dell’Ottocento comincia a notarsi la comparsa di questo granchio. Ma è con l’aumento delle temperature del Meditrraneo degli ultimi due decenni che il granchio blu trova un habitat ideale in alcune zone costiere poco profonde, come nel Golfo di Gabes. Questa specie è molto aggressiva e vorace, alimentandosi principalmente di altri crostacei, molluschi e pesci, che spesso sono a loro volta target dell’industria ittica. Negli ultimi anni, il granchio blu ha trovato un forte sbocco commerciale nei mercati asiatici, come in Corea del Sud e in Nord America, anche grazie a sostegni economici statali che hanno promosso la commercializzazione di questa specie per controllarne la proliferazione.

Una cesta di granchi blu in un’azienda esportatrice di Sfax – Foto: Davide Mancini
Foto: Davide Mancini

Un ingranaggio della pesca industriale

Se da una parte l’Unione europea continua ad abbattere i pescherecci italiani, spagnoli e greci in cambio di sovvenzioni nel tentativo di ridurre lo sforzo di pesca nel Mediterraneo e salvaguardare le specie a rischio, dall’altra la domanda del mercato europeo non è diminuita. Nel Paese nordafricano non viene consumata la grande varietà di pesce che si osserva nei mercati all’ingrosso dei porti tunisini: buona parte del pescato, infatti, viene esportato verso l’Ue, Italia in primis con il 42% delle esportazioni totali. «Indirizziamo il pescato secondo i gusti del cliente. In Spagna vendiamo i polpi più grandi, per esempio, mentre in Italia piacciono quelli più piccoli», racconta il direttore di una delle più importanti aziende di esportazione situata nel trafficato porto di Sfax, il più grande del Paese.

È qui che opererebbe la potente lobby dello strascico con barchette kiss, che da anni agisce al di sopra delle leggi in un clima di omertà, raccontano i pescatori di Kerkennah, e confermano altri operatori del settore: «Chi lavora con i kiss? Gli stessi armatori che praticano lo strascico [industriale]. I piccoli lavorano con i grandi!», afferma un esportatore tunisino basato in uno dei porti della costa più a nord, a circa 200 km da Sfax. Ma è nel porto di Sfax – una vera e propria piccola cittadina, con banche, poste, cantieri e supermarket al suo interno – che arriva il pescato del Golfo di Gabès, il mare più pescoso della Tunisia, compreso il pesce in arrivo dalle isole Kerkennah, poi rivenduto nei due grandi mercati all’ingrosso riservati ai commercianti e ai loro referenti: quello del pesce, e quello dei crostacei.

«Ogni mattina, un intermediario si presenta al porto e compra il nostro pesce per pochi dinari al chilo. Spesso non riceviamo nemmeno il pagamento subito, ma dopo che il pescato è stato rivenduto a un intermediario più grande», descrive Nagui, pescatore che ha visto cambiare il porticciolo di Kraten e, anche quando non è in mare, non abbandona mai il suo tipico turbante verde. Per le strade di Kerkennah si vedono sfrecciare camioncini frigo tutti uguali: raccolgono il pesce del giorno nei piccoli porti dell’arcipelago, e poi si imbarcano sul traghetto verso la città di Sfax.

A quel punto il pescato passa di mano in mano, da intermediario più piccolo a intermediario più grande, seguendo uno schema rodato. Arriva poi negli stabilimenti di una manciata di aziende esportatrici che commerciano con i Paesi del Sud dell’Europa, in particolar modo Italia e Spagna. Le principali – Golden Fish, Novogel, Ben Ayed Sea Food e poche altre, rappresentate dall’Utica, l’Unione tunisina dell’industria, del commercio e dell’artigianato – sono aziende tunisine classificate come totalmente esportatrici. Spesso hanno alle spalle capitale europeo e sono direttamente in contatto con i commercianti dall’altra parte del Mediterraneo.

Un granchio blu intrappolato in una rete a tremaglio. Questa specie invasiva è particolarmente dannosa per le reti tradizionali, che vengono danneggiate dalle chele del granchio – Foto: Davide Mancini
Un polipo moscardino trovato nella rete da Ahmed Taktak – Foto: Davide Mancini

A recuperare il pescato esportato, sono una manciata di grossisti alimentari. Citato da diverse aziende tunisine, tra questi c’è la società di distribuzione di prodotti ittici Marr, filiale del gruppo italiano Cremonini, colosso della ristorazione e servizi di catering. Che assicura a IrpiMedia: «I prodotti ittici importati dalla Tunisia rappresentano meno dello 0,2% dell’acquisto di ittico totale, e sono scortati da certificati di cattura emessi dalle autorità competenti e sottoposti ad un programma di verifiche alla ricezione». Marr inoltre specifica che l’azienda ha conseguito la certificazione secondo lo Standard MSC (Marine Stewardship Council), che dovrebbe garantire «la provenienza dei prodotti da zone di pesca gestite nel rispetto degli stock, habitat ed ecosistemi marini».

Il pescato entra così nei magazzini dei maggiori rivenditori italiani. La versione del manager di una delle grandi aziende presenti nel porto di Sfax, che accetta di parlare protetto dall’anonimato, è però molto diversa da quella ufficiale: è difficile verificare che quel pesce sia stato pescato rispettando le norme tunisine e europee. E nemmeno le certificazioni richieste dall’Ue sarebbero una garanzia: «Per vendere nei Paesi dell’Unione europea serve tracciabilità. Qui invece è tutto un teatro. Il sistema di controllo europeo è adatto alle grandi barche da pesca che operano nell’Atlantico, che rientrano con 40 tonnellate di pescato a volta. Io qui vendo un prodotto che mi arriva da 50 piccole barche diverse tutti i giorni, ciascuna con 40, 60 chili di pesce al massimo. E l’Ue chiude gli occhi», accusa dal suo ufficio il direttore dell’azienda. Punta il dito contro amministrazioni corrotte, veterinari inesistenti e mancanza di controlli a bordo e nei porti tunisini.

L’associazione degli imprenditori tunisini Utica, però, smentisce le accuse di pescatori e manager. Contattata da IrpiMedia, l’Utica garantisce che «i pescherecci sono tracciati da apparecchi di sorveglianza di tipo VMS (Vessel Monitoring Systems, un sistema che permette di tracciare le attività dei pescherecci, ndr)», che «hanno tutte le autorizzazioni sanitarie necessarie e il pescato viene controllato da un veterinario al porto». «I centri di spedizione sono egualmente oggetto di un controllo sanitario rigoroso, e si limitano a esportare i prodotti pescati da pescherecci recensiti e regolarmente registrati», fanno sapere.

L’associazione ammette però che «come ovunque, c’è chi prova a sfuggire alle regole. Ma i servizi competenti e le autorità locali perseguono le frodi». Anche il grossista Marr, che commercia il pescato tunisino in Italia, ribadisce: «Al fine di contrastare la pesca illegale, ai fornitori di prodotti ittici viene richiesto di sottoscrivere un accordo specifico di fornitura che prevede il rispetto della legalità in tutte le fasi del processo produttivo secondo le norme FAO, nonché il divieto di commercializzazione dei prodotti derivanti dalla pesca illegale».

L’UE e l’alibi dei controlli

Il sistema dei controlli, però, non sembra funzionare perfettamente come assicurano aziende e grossisti. A garantire, dovrebbe essere la Commissione generale per la pesca nel Mediterraneo (General Fisheries Commission for the Mediterranean, Cgpm), un organo regionale che raggruppa tutti i Paesi che si affaciano sul Mediterraneo e Mar Nero, più l’Unione europea.

Questa commissione ha l’obiettivo di gestire i controlli sugli stock di pesca del Mediterraneo, ma delega il monitoraggio e l’applicazione delle direttive alle autorità degli Stati membri. In Tunisia, quindi, alle autorità tunisine, le stesse che – anche grazie a cospicui finanziamenti italiani, come raccontato da IrpiMedia – pattugliano la rotta migratoria più trafficata del Mediterraneo Centrale.

Ahmed Taktak e il suo aiutante Mohamed si imbarcano per controllare le reti – Foto: Davide Mancini
Ahmed Taktak nella sua “parcella” di mare a Kerkennah – Foto: Davide Mancini

Seduto nel dehors di un caffè decorato con le tipiche piastrelle colorate in ceramica tunisina, Ahmed Taktak attende l’ora del tramonto per andare a recuperare le sue reti. Secondo il pescatore, il Mediterraneo centrale è un buco nero, e la pesca è solo uno dei tanti business informali o di contrabbando che legano la Tunisia alla Libia, all’Italia, alla Spagna, alla Grecia. «Basti pensare alla differenza di prezzo tra il carburante tunisino sovvenzionato e quello europeo…», sospira. In tanti, sull’isola, raccontano che alcuni piccoli pescherecci sarebbero addirittura proprietà di agenti della guardia costiera che dovrebbe controllarli e che, invece, secondo alcuni pescatori, parteciperebbe addirittura alla compra-vendita del pescato.

Nel Paese, eludere i controlli durante la pesca e nei porti sembra tutt’altro che complesso, specialmente nel Golfo di Gabes, dove agisce la lobby dello strascico. A raccontarlo è Abdelmadjid Dabbar, presidente dell’associazione Tunisie Écologie, che da anni, insieme all’ong FishAct, indaga sulla pesca illegale: «Nel 2018 abbiamo contato circa 450 imbarcazioni per lo strascico illegale solo nel governatorato di Sfax. Molte di queste barche non sono neanche registrate, e quasi mai appartengono ai pescatori che ci lavorano». Anche l’assistente di Ahmed Taktak, racconta, ha lavorato su un peschereccio a traino, per poi abbandonare perché «la paga del manovale era troppo misera, le reti cariche troppo pesanti». Il nuovo conteggio di pescherecci kiss, intanto, è salito a 576 negli ultimi due anni, secondo una ricerca svolta dalle organizzazioni FishAct e Environmental Justice Foundation.

A determinare la paga giornaliera di Ahmed, ancora prima del suo capo, è quindi il mercato internazionale dell’export, che sembra non solo tollerare, ma appoggiarsi alla zona grigia della pesca a strascico illegale: grandi quantità di pescato per prezzi bassissimi, in cui si mescolano catture regolari e irregolari. Per il fresco, per esempio, il prezzo si fa con una compravendita al telefono.

«A volte si fa prima della pesca, a volte si fa con l’asta», spiega un intermediario siciliano incontrato a Bizerte, da dove, ogni notte, risponde alle chiamate dei clienti per informarli sul pescato. «Da me arriva un rappresentante che raccoglie il pescato da più barche, e mi fa un prezzo. Io non parlo direttamente con i pescatori, ma con il grande armatore, o con l’intermediario che raccoglie dai piccoli pescatori».

Quando il pescato tunisino lascia il Paese con certificati di cattura spesso falsi o doppi, allora, le garanzie della sua provenienza sono ben poche. Il problema dei certificati di cattura è stato segnalato anche dalla Corte dei conti europea lo scorso settembre. La Corte dei conti sottolinea infatti che le certificazioni cartacee attualmente richieste sono facilmente falsificabili, e che si dovrebbe rendere obbligatorio un sistema digitalizzato comunitario (già esistente, ma non obbligatorio). Inoltre, i singoli Stati membri, non sono tenuti attualmente a confrontare tra loro i certificati di cattura a loro presentati dagli esportatori, perciò un solo certificato può essere usato più volte in diversi Paesi, eludendo i controlli degli enti nazionali responsabili dei i controlli.

Ad ammetterlo è proprio il direttore dell’azienda di esportazione, che confida: «Tutti sanno che anche chi fa strascico nel Golfo di Gabes vende alle aziende esportatrici. In teoria non potrebbero, perché non possiedono la documentazione necessaria per essere in regola. In pratica, però, la ottengono facilmente, perché esiste un traffico di certificazioni rilasciate dai veterinari, che non sono in numero sufficiente per rilasciare certificati al volume attuale di pescato. A quel punto come posso imporre le regole io, se arrivano con le carte e le certificazioni sufficienti per entrare nell’Ue?», si chiede.

In assenza di sufficienti controlli alla fonte, quindi, quali misure adottano i Paesi importatori, come l’Italia? Secondo il rapporto pubblicato da una coalizione di Ong internazionali che prende in esame il numero di certificazioni comunicate alla Commissione europea, si nota che l’Italia ha ricevuto 96.736 certificati di cattura nel periodo 2018-2019 (terza per numero dopo Spagna e Francia). Questi certificati, stando al documento ufficiale analizzato, sono stati tutti verificati dalle autorità italiane, ma solamente in un caso le autorità hanno richiesto di verificare l’attendibilità del documento cartaceo in quanto sospettoso.

L’installazione di una charfia nella “parcella di mare” di Ahmed Taktak – Foto: Davide Mancini
La tecnica di pesca passiva, riconosciuto come bene immateriale dall’UNESCO, sfrutta l’abbassamento della marea per canalizzare e intrappolare pesci e molluschi – Foto: Davide Mancini

A fine febbraio 2023, nel frattempo, la Commissione europea ha tentato di rispondere ai danni dello strascico nel Mediterraneo presentando un pacchetto di misure per fermare la pesca a strascico in aree protette entro il 2030, ma solo in acque europee.

«Chiederemo agli Stati membri di darci una tabella di marcia entro il 2024, crediamo siano tutti consapevoli della necessità di fare progressi sulla pesca sostenibile e la tutela degli ecosistemi, soprattutto nel Mediterraneo», si legge nel loro comunicato. Le misure introdotte dalla Commissione, però, hanno mandato su tutte le furie i pescatori dei Paesi dell’Ue che si affacciano sul Mediterraneo, compresa l’Italia, che puntano il dito contro la concorrenza “sleale” delle flotte dei Paesi a Sud, come la Tunisia. A servirsi dell’esternalizzazione della produzione lì dove i controlli si raggirano più facilmente, però, sarebbero proprio i grossisti europei, in cerca di margini di profitto migliori. In assenza di controlli sufficienti, il prezzo del pescato non tiene conto dei danni ambientali e sociali.

La pesca artigianale contro l’inquinamento

Nel frattempo, alcuni gruppi di pescatori o ex pescatori continuano a battersi per una pesca lenta, sostenibile e garante del futuro di un Mediterraneo già colpito dagli effetti devastanti della crisi climatica. Nella vicina città di Gabès – conosciuta per l’industria dei fosfati che scarica direttamente in mare, ed è responsabile dell’inquinamento del Golfo – un gruppo di pescatori si è auto-organizzato in comitato per opporsi agli armatori dello strascico. Anche a Kerkennah, nel porto di Kraten, sulla punta dell’isola, i membri dell’Associazione locale per lo sviluppo sostenibile e la cultura hanno ridipinto i depositi per le reti e gli affari da pesca con una serie di graffiti contro la pesca a strascico.

Solo in questo porto i pescherecci a traino sono la minoranza: «Noi proviamo a resistere al loro ricatto – racconta Ahmed Souissi, presidente dell’associazione e fiero abitante di Kerkennah che, a differenza di tanti altri giovani della sua generazione, ha deciso di non lasciare l’arcipelago dove è nato. Senza pesce i tunisini partiranno», è il monito di Ahmed Taktak, che conosce bene le difficoltà di chi sbarca in Italia, ma non biasima i giovani che si imbarcano dalle spiagge di un’isola sempre più vuota.

Mentre accende un fuoco per grigliare il pesce tra le palme, il pescatore ricorda le tante battaglie dei pescatori-cittadini di Kerkennah per salvare il fragile ecosistema dell’arcipelago. Delle luci in lontananza illuminano il mare all’orizzonte: non la città sulla costa di fronte, ma due piattaforme petrolifere offshore. «Nel 2016, un incidente in uno degli impianti della compagnia tuniso-britannica Thyna Petroleum Services ha causato una marea nera lungo le coste di Kerkennah. Noi pescatori siamo scesi in piazza a protestare e abbiamo bloccato la sede della compagnia», ricorda.

Secondo il pescatore, i danni di allora sono visibili ancora oggi e, insieme alla pesca a strascico, al riscaldamento delle acque e all’inquinamento del Golfo, il petrolio ha contribuito alla desertificazione dei fondali dell’arcipelago. «Anche se ci fermassimo adesso, ci vorrebbero decenni per recuperare la fauna persa, fauna che lo strascico continua a sradicare. Questi banditi del mare non distruggono solo la fauna, ma anche l’habitat. Come possiamo pensare che un domani ci sarà ancora pesce nel Mediterraneo se non ci saranno più le condizioni necessarie per la vita?», si chiede l’attivista Abdelmajid Dabbar di Tunisie Écologie, che ogni anno, durante le sue missioni in mare aperto, constata i danni di «politiche irresponsabili e inadeguate all’urgenza della situazione».

Come lui, Nagui, l’anziano pescatore del porto di Kraten, non ha dubbi: «La natura va rispettata o si vendica sempre», sospira mentre sorseggia il caffè freddo sotto il cielo plumbeo, di fronte al mare in tempesta che trascina a riva la plastica depositata sui fondali e fa dondolare le barche ferme al molo. Nagui, Ahmed e gli altri pescatori, abitanti di questo arcipelago un tempo incontaminato osservano impensieriti il Mediterraneo. Chi conosce il mare, come loro, sa che il fragile equilibrio tra uomo e natura si è rotto: «Ed è anche per questo, perché non c’è futuro su queste isole, che i nostri giovani partono».

CREDITI

Autori

Davide Mancini
Sara Manisera
Arianna Poletti

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

Davide Mancini

Con il sostegno di

La mattanza invisibile

La mattanza invisibile

Cecilia Anesi
Simone Olivelli

Tutt’attorno al rimorchiatore, in cerchio, si muovono grandi pescherecci. Cercano il banco di tonni rossi. Alcuni pescherecci del gruppo sono lontanissimi, anche a 50 miglia. Un peschereccio avvista il banco, si avvicina, cala la rete e lo circonda. I tonni restano intrappolati, migliaia di pesci enormi che continuano a nuotare in circolo. È allora che si avvicina il rimorchiatore. A bordo ci sono sei sommozzatori, devono scendere a controllare che il banco non sia di pesci troppo giovani. I sub si preparano: infilano la muta, le pinne, la maschera e il boccaglio. E controllano la pressione della bombola: deve essere piena.

Qui si scende a 30 metri, a volte anche 50-60, non è lavoro da principianti. I sub scendono dal rimorchiatore su di un piccolo gommone d’appoggio, e navigano fino al cianciolo, la grande rete che ha catturato il banco. L’operazione deve essere fatta in fretta. Tempo per le ultime istruzioni concitate, un tuffo e poi è il silenzio. Dal caos della superficie si entra in un mondo sommerso e ovattato: iniziano a parlarsi a gesti, la missione deve essere chiara prima di tuffarsi.

Una premessa sulla sostenibilità

di Giulio Rubino

Si è conclusa la settimana scorsa l’annuale riunione di Iccat a Lisbona. Iccat, organismo intergovernativo che regola gli accordi internazionali per la pesca ai grandi pelagici migratori, in particolare del tonno rosso (bluefin tuna), è un entità intergovernativa e gode, nella sua sede di Madrid, di uno status diplomatico simile a quello delle ambasciate.
Non è quindi interrogabile con richieste di accesso agli atti e, a parte alcuni specifici “osservatori” accreditati come il WWF, opera al di sopra della maggior parte degli scrutini possibili alla società civile.

Dalla conferenza di quest’anno sono usciti fuori comunicati con toni di soddisfazione, che annunciano una nuova strategia per “ garantire pesca sostenibile e redditizia a lungo termine” nella gestione dello stock ittico. Forti dell’indiscutibile crescita degli stock di tonno rosso, che solo 15 anni fa appariva quasi a rischio estinzione, è facile vedere nella gestione Iccat della risorsa “tonno rosso” un modello di successo. Ma ci sono ombre scure su questa idilliaca rappresentazione dei fatti.

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Giovanni si tuffa all’indietro, dentro l’acqua scura. Lo seguono gli altri sub. Il Mediterraneo li inghiotte, le bolle d’aria e la luce si allontanano e nella rapida discesa c’è sempre più buio. Finalmente la rete del cianciolo, e al suo interno il banco di pesci. Giovanni cerca l’apertura, afferra la cucitura con le mani, ne scioglie i nodi e si fa spazio per entrare. Lo seguono i colleghi, nuotando come pesci.

I tonni non hanno mai visto esseri umani, e non ne hanno paura. Con quelle lunghe pinne forse sembrano a loro solo un’altra strana specie marina. Ma agli occhi dei sub il panorama è molto diverso. I tonni, pesci da 400-500 chili, sfrecciano grandi come automobili accanto ai sommozzatori. È un movimento continuo, e i sub sono in confusione mentre controllano che il banco sia composto da pesci abbastanza grossi. Sì, i pesci sono enormi, sono quelli giusti. Adesso si può tornare in superficie, e organizzare la seconda discesa, quella del trasferimento.

A tracolla hanno la fiocina, armata con cariche esplosive. «Pallettoni da cinghiale», li chiamano gli addetti ai lavori. Mentre si danno il comando per uscire dalla rete, un pesce spada catturato per sbaglio in mezzo ai tonni, inferocito, si lancia contro di loro. Giovanni vede la spada puntare contro di lui, prova a nuotare all’indietro guardando l’enorme pesce tramutarsi in un’esplosione di rosso. Un altro sub ha sparato, salvandolo.

Un peschereccio durante la caccia al tonno – Foto: Gema Alvarez Fernandez/Getty

«Siamo tutti d’accordo già dall’inizio, queste cose si sanno. O lavori così o non ti imbarchi». Al largo delle coste del Mediterraneo, ogni primavera, si svolge una delle attività più redditizie legate al mare: la caccia ai tonni. A essere coinvolti sono Paesi di tre continenti. Europei e africani per la pesca e l’allevamento, asiatici – leggasi Giappone – nella veste di acquirente finale di quello che, sempre più a ragion veduta, viene definito l’oro rosso. E come per tutti i beni preziosi, anche attorno al tonno ruota un mondo i cui protagonisti – ormai lontani dai riti della tradizione, come la mattanza, che segnavano i ritmi delle comunità locali – si muovono su scala internazionale, comunicano in inglese e, soprattutto, fatturano cifre a parecchi zeri.

Un mondo governato da regole sulla carta molto rigorose sotto l’egida dell’Iccat – l’organismo transnazionale nato per tutelare la specie – ma sul cui rispetto è lecito nutrire seri dubbi. Sono tanti, infatti, gli elementi che fanno temere l’esistenza di ampie falle nei controlli e l’impossibilità di garantire un monitoraggio puntuale e indipendente di ciò che avviene nelle varie fasi della filiera.

Un primo squarcio su una realtà che, per sua natura, si svolge lontano dagli occhi dei non addetti ai lavori è stato aperto nel primo capitolo dell’inchiesta Tonno Nero, con cui IrpiMedia ha posto al centro dell’attenzione il ruolo delle società che si occupano della formazione degli osservatori chiamati a verificare che le operazioni di pesca e trasbordo dei tonni vengano effettuate secondo le regole. Adesso, invece, a gettare ombre sulle attività che si svolgono in mare aperto è qualcuno che, accanto ai tonni, trascorre lunghi periodi. Si tratta di uno delle decine di sommozzatori che, ogni anno, vengono chiamati a lavorare a fianco dei pescherecci che utilizzano il sistema della circuizione, ovvero le amplissime reti circolari in cui i tonni vengono imprigionati per poi essere trasferiti vivi nelle gabbie che, a loro volta, verranno trasportate fino alle cosiddette farm.

Queste ultime sono dei veri e propri allevamenti, o meglio, delle gabbie di ingrasso, e si trovano a Malta. L’isola dei cavalieri rappresenta il capolinea della filiera nel Mediterraneo, l’ultima tappa prima del trasferimento dei tonni nei mercati del Sol Levante, previo però il loro oculato – e fortemente preteso – ingrassamento.

Un allevamento ittico nel Mediterraneo – Foto: Getty

Fondali trasformati in cimiteri

«Non ti puoi mettere contro questa gente, non è nemmeno una mafia, è più di una mafia». A parlare è Giovanni. Il nome è di fantasia perché ha paura di essere riconosciuto e di subire ritorsioni che, sostiene, potrebbero andare ben oltre la semplice perdita del lavoro. Giovanni si sbilancia nel paragone con la criminalità organizzata, quando gli si chiede se, a fronte delle tante cose illecite viste e fatte in mezzo al mare, ci sarebbe la possibilità di dire di no, di opporsi. «Stiamo parlando di un business enorme, milioni e milioni di euro», avverte.

Quella del sub è una figura che entra in gioco in più momenti della pesca. I compiti vanno dal coinvolgimento nelle fasi successive alle catture al contributo richiesto nelle operazioni di controllo. Un ruolo particolare, non tutelato da leggi internazionali come quello dell’osservatore, eppure cruciale per il tipo di informazioni che raccoglie di prima mano, senza la supervisione di nessuno. Proprio per questo, quella di Giovanni diventa la posizione privilegiata per poter affermare che, dichiarazioni ufficiali e proclami a parte, quello del tonno è un mondo in cui la trasparenza sembra essere ancora un miraggio.

C’è di più: al netto dei dati scientifici che confermano il trend positivo sul fronte del ripopolamento dei mari, la pesca con la circuizione sarebbe tutt’altro che un sistema sostenibile. Questo perché, in nome del profitto, si accetterebbero enormi sprechi sotto forma di animali morti lasciati marcire nei fondali, con il principale obiettivo di sfuggire al calcolo relativo al raggiungimento delle quote.

Un banco di tonni – Foto: Getty

«Faccio questo lavoro da molti anni – racconta Giovanni -. Siamo assunti dalle farm maltesi e inviati con un rimorchiatore a partecipare alle joint fishing operations (JFO), le grandi operazioni di pesca congiunta che coinvolgono anche 20 barche a circuizione, a volte anche di più Paesi: Italia, Malta, Francia, Spagna, Tunisia, Libia. Il nostro compito iniziale è quello di prendere i tonni dalla rete a circuizione e portarli nella gabbia da trasporto. Per farlo – spiega – entriamo nella rete per spaventare il banco di tonni e spingerlo verso l’ingresso della gabbia. Già in questo primo trasbordo muoiono centinaia di pesci».

Stando al racconto del sub, si tratta di un fatto ineluttabile, un costo messo in conto nel momento in cui si calano le reti. Ma a suo modo indolore poiché di fatto non pagato da nessuno: quello che accade a decine di metri di profondità, lì rimane. Anzi, cola a picco.

«Vengono tagliate le reti e questi tonni morti calano giù nei fondali. A volte riemergono in superficie e vengono recuperati in putrefazione dalle paranze a strascico che navigano», prosegue.

All’origine di quella che sembrerebbe una mattanza inevitabile ci sarebbero più motivi. Il primo riguarda il sovraffollamento nelle reti e nelle gabbie: «Capita che ce ne siano per tre o quattro volte il peso massimo che si potrebbe raggiungere. Il tonno a quel punto è molto stressato e in tanti finiscono per morire. I primi controlli che facciamo sono devastanti».

I tonni morti vanno “liberati”, ovvero presi di peso da almeno due sommozzatori, e portati fuori dalla rete. Per due ragioni: la prima, troppi tonni morti rischierebbero di trascinare a fondo anche l’imbarcazione a cui è legata la rete o la gabbia, come sembrerebbe essere già successo. La seconda è invece una ragione venale: se venissero dichiarati, andrebbero scalati dalla quota del peschereccio.

«Andiamo giù e apriamo le cuciture perché tonni morti, in superficie, non ne possono arrivare — chiarisce il sub – Sennò l’osservatore deve per forza togliere quel peso dalla quota e ogni tonno ha un prezzo». Specialmente se si considera il fattore moltiplicatore una volta che ogni esemplare arriva nelle farm, per ingrassare, e poi successivamente essere rivenduto ai ricchi commercianti giapponesi. «Non è il nostro mercato, dove il tonno lo vendono a otto o dieci euro al chilo. Lì parliamo di 130-150 euro al chilo».

Lorenzo, anche questo un nome di fantasia per proteggerne l’identità, è un osservatore regionale che lavora sulle barche a circuizione durante la campagna di pesca al tonno rosso. L’abbiamo raggiunto per corroborare le dichiarazioni di Giovanni. Spiega a IrpiMedia che è noto a tutti, anche a Iccat, che molti tonni possono morire durante le campagne di pesca, data l’estrema delicatezza di questo animale, ma che di fatto l’osservatore non riesce a conteggiarli dato che non può immergersi sott’acqua come il sub. Non essendo previsti video durante i controlli dei sommozzatori, ma soltanto durante il trasferimento dei tonni dal cianciolo alla gabbia di trasferimento, è impossibile per l’osservatore quantificare realmente l’entità della moria.

«Sicuramente a me è successo di aver visto dei tonni morti durante il trasferimento, ma si trovavano a 30-40 metri sott’acqua e non sono testimoniabili – racconta Lorenzo a IrpiMedia -. Io posso dire “guarda, è morto un tonno”, ma loro possono dire “ma no, non era morto, lo abbiamo liberato, perché poi si è ripreso ed è scappato”. È la tua parola contro la loro».

Insomma ci si basa solo su quello che viene dichiarato dai sommozzatori, e quindi poi dagli armatori, e su ciò che si riesce a vedere: se i tonni morti vengono a galla oppure se restano intrappolati nella rete una volta issata dopo il trasferimento. È per questo che a volte, nei rapporti degli osservatori regionali 2020 che IrpiMedia ha potuto visionare, sono stati dichiarati alcuni tonni morti, solitamente meno dell’1% rispetto al pescato, non certo le centinaia di pesci che Giovanni dichiara di avere buttato nei fondali.

Pescherecci ormeggiati al porto di La Valletta, Malta – Foto: Daphne Project

Antonio Di Natale, biologo marino che ha lavorato vari anni in Iccat e in prima linea nella battaglia per la protezione del tonno rosso, raggiunto da IrpiMedia ha confermato di avere ricevuto varie segnalazioni sulla mattanza invisibile del tonno rosso durante le campagne di pesca. Anche IrpiMedia ha ricevuto delle segnalazioni, tra cui una che rappresentava la rabbia e la frustrazione di pescatori di pesce spatola (Lepidopus caudatus) siciliani che, durante operazioni di pesca demersale (sul fondale) nelle zone specifiche per il pesce spatola, si sono trovati a raccogliere centinaia di tonni in decomposizione. Pochi invece i pesci spatola, probabilmente disturbati dalla presenza dei “cimiteri” di tonni, e quei pochi affetti da cattivo odore e sapore.

Sono almeno tre i “cimiteri” identificati dai pescatori e localizzati in tre punti d’altura tra Sicilia e Malta secondo coordinate condivise con IrpiMedia. Nell’area più estesa, secondo le stime dei pescatori, si parla di almeno cento tonnellate di tonno.

Fonti informate sui fatti riferiscono che la moria sia avvenuta alla fine di maggio 2020, quando una circuizione siciliana e una algerina hanno cercato di liberare una parte di tonni che non sarebbe entrata nelle gabbie di trasporto perché in misura nettamente superiore alla quota. Gli altri due cimiteri sono nel punto in cui sono avvenute JFO tra pescherecci italiani e di altri Paesi. A detta dei pescatori di pesce spatola, alcuni dei tonni morti rinvenuti superavano i 400 chili. IrpiMedia ha mandato una richiesta di commento alla maggiore associazione di categoria delle barche a circuizione italiane, l’associazione Tonnieri del Tirreno, con sede a Salerno, ma non ha ricevuto risposta.

Falsi d’autore

Gli anni di esperienza a bordo dei pescherecci hanno portato Giovanni a un convincimento: affinché tutto vada avanti senza intoppi è necessario che a fare la propria parte, fuori dalle regole, sia ogni ingranaggio del sistema. Tutti gli attori sarebbero al corrente di ciò che accade. «Sanno cosa succede, ma nessuno va a controllare. Anche gli osservatori sono loro amici», è l’accusa di Giovanni, secondo il quale le principali farm e gli armatori dei pescherecci, per garantirsi trattamenti di favore, avrebbero anche la possibilità di influenzare l’assegnazione degli osservatori.

Tra i momenti più significativi in cui emergerebbero le complicità, ci sono le riprese subacquee realizzate durante le fasi di trasbordo dei tonni. L’operazione, sulla carta, dovrebbe contribuire alla quantificazione dei tonni pescati e, di conseguenza, alla stima del peso complessivo da decurtare dalla quota assegnata. Un computo che inevitabilmente soffrirebbe di un margine di errore, ma che, stando all’esperienza di Giovanni, verrebbe volutamente falsificato. «È tutta una cosa fatta da noi sommozzatori, gestita prima sott’acqua e poi in superficie, con la collaborazione degli armatori e degli osservatori che visionano i filmati al computer».

Secondo Giovanni, gli armatori dei pescherecci hanno l’occhio allenato rispetto al peso dei tonni, quindi si renderebbero conto quando nella gabbia di trasporto è entrata la quantità di tonno concessa dalla quota. A quel punto viene fermato il video e la seconda parte del trasferimento viene tagliata. «Stimano per esempio una quota e il proseguimento del passaggio dei tonni lo cancellano».

Pescatori maltesi issano un tonno a bordo della propria imbarcazione nell’area tra Malta e Tunisia – Foto: Victor Borg

Lorenzo, l’osservatore regionale, non ha mai vissuto in prima persona una situazione del genere ma spiega che lui, osservatore onesto, si accorgerebbe immediatamente del video truccato. «Se c’è una taglia e cuci e un salto nel video, io osservatore devo dirlo, lo devo dichiarare – sottolinea – perché poi chi riguarda il video in Iccat si accorgerebbe che non hai svolto bene il tuo lavoro. Certo, se sei un osservatore superficiale, che si annoia a guardare tre ore di video, e vai avanti veloce, non ti accorgi che c’è stato un secondo in cui è saltato».

Secondo Antonio Di Natale, al momento non c’è la garanzia che eventuali video truccati vengano scoperti dagli ispettori presenti nella sede Iccat, perché «attualmente Iccat si trova molto sotto organico, quando arrivano centinaia di video è impossibile verificarli bene. Il punto è stato sollevato, e si vorrebbe implementare un metodo automatico più efficace».

Ma al di là di eventuali montaggi di video, secondo l’osservatore Lorenzo, il problema principale è che Iccat ha creato un sistema che ha delle gravi falle. Iccat permette di dichiarare il 10% di margine di errore rispetto alla quantità di pesci, ma questo è chiaramente un paravento dietro cui si nasconde altro. Oltre ai tonni che muoiono e che non vengono registrati, perché solo i sommozzatori assunti dalle farm ne conoscono davvero l’entità (e sono costretti al silenzio), c’è anche il problema della certezza della reale quantità di tonni vivi catturati e trasferiti.

«Ormai i proprietari delle farm e i loro operatori hanno capito come aggirare le regole. Io saprei come fregare il sistema, sarei anche in grado di andare sott’acqua e fare un video in cui l’osservatore non riesce a capire che succede».

Iccat richiede che il video inizi con la porta chiusa della gabbia, poi la si deve aprire filmando il passaggio dei tonni, e infine la si deve chiudere. Soltanto in quel momento il video può essere interrotto. «Ma questo requisito minimo che non devi mai fermare il video è ridicolo – esclama Lorenzo – sarebbe molto facile, e penso che lo facciano, aprire la porta, far passare i tonni, chiudere la porta, stoppare il video, e riaprire la porta, perché il video non inquadra il resto della gabbia o del cianciolo, inquadra solo la porta».

Tale modus operandi, sia che si tratti di un video girato ad arte o di uno manipolato, avrebbe come effetto quello di rendere una pura formalità la gestione dei contingenti assegnati dai singoli governi, trovando una convergenza di interessi sia nei pescatori che negli allevatori di tonno. I primi sono consapevoli della maggiore remunerazione ricavata dalla vendita dei pesci vivi alle farm, i secondi, a loro volta, tengono lo sguardo fisso verso l’Oriente e il periodico arrivo dei giapponesi ben disposti a sborsare cifre da capogiro per avere tonni grassi, capaci di soddisfare le esigenti richieste del mercato di casa.

Gli allevamenti

Gli acquirenti giapponesi richiedono un tonno ingrassato, ed è per questo che è nato il business degli allevamenti a Malta, dove le acque sono più calme e con più facilità si possono ingrassare i tonni. Questi sono pesci che non si riproducono in cattività, pertanto l’unico scopo di queste enormi fattorie – delle reti molto più ampie del cianciolo e ancorate al fondale nonostante già in mare aperto – è quello di ingrassare gli animali a suon di aringhe per prepararli alla, inevitabile, mattanza. Dopo mesi e mesi di ingrassatura, i proprietari delle farm impiegano i sommozzatori per svolgere la mattanza.

Curve di crescita del peso del tonno

Una delle potenziali debolezze dei regolamenti Iccat, che già è stata segnalata da diverse fonti in passato a IrpiMedia, è la “curva di crescita” dei tonni all’ingrasso accettata da Iccat.
Ovviamente lo scopo delle gabbie d’ingrasso è di far crescere di peso i tonni nei 4-5 mesi in cui sono tenuti lì e alimentati ad aringhe, ma quanto può ragionevolmente ingrassare un tonno già adulto in quel periodo?

Fino ad ora la crescita permessa era del 40%, e già questo delta era considerato molto alto da alcuni, e lasciava sospettare che gli allevamenti ottenessero quest’aumento di peso non già ingrassando i tonni, quanto inserendone di nuovi illecitamente. Dall’ultima conferenza di Iccat, sulla base di uno studio fatto su di un singolo allevamento nell’oceano Atlantico, a largo delle coste del Marocco, è raddoppiata la percentuale di crescita accettata, dal 40% fino addirittura all’80%.

Che un tonno adulto possa quasi raddoppiare di peso in 4-5 mesi, e che la regola venga cambiata sulla base di un singolo studio, appare un ennesimo trattamento di favore riservato ai proprietari delle farm già oggi i più ricchi e potenti attori dell’intera filiera.

Arrivano alla farm con un rimorchiatore, lo stesso tipo di imbarcazione di supporto su cui i sub si trovano durante la campagna di pesca, e qui inizia di nuovo la preparazione per l’immersione. Appena fuori dalla farm è parcheggiata la nave-mattanza giapponese. Tre sommozzatori sono gli addetti a sparare ai tonni, che cadono a fondo, giù ci sono altri tre colleghi a cui spetta prendere i tonni e legarli con un cappio alla coda. I pesci vengono sollevati da una gru direttamente sulla nave mattanza dove vengono sfilettati dai giapponesi.

«La mattanza si fa con dei fucili subacquei, con un’asta da fucile però davanti viene messa… si chiama lupara, si svita e viene armata con bossoli che ammazzano i cinghiali – spiega Giovanni -. Il tonno va ucciso sparandogli in testa, perché se viene colpito in qualche altra parte del corpo il giapponese lo scarta e hai perso 45 mila euro». Ma nessuno controlla se la quantità di tonni corrisponde a quelli che erano stati dichiarati durante la campagna di pesca. Secondo Giovanni, ogni anno nelle farm ne entrano molti di più di quelli dichiarati, e avviene tutto alla luce del sole, perché i proprietari si «sentono intoccabili», visto che anche Tarantelo, la più famosa indagine internazionale sulle irregolarità del loro lavoro, si è arenata e da anni non riesce ad arrivare al processo. IrpiMedia ha mandato una richiesta di commento all’associazione di categoria delle farm maltesi, la Maltese Federation of Aquaculture, ma non ha ricevuto risposta.

Un allevamento ittico nel Mediterraneo – Foto: Getty

«A tuo rischio e pericolo»

Il paradosso di questa storia, contrassegnata da molteplici presunte irregolarità, è rappresentato dal fatto che, nonostante i ricchi ricavi in ballo, le attività spiccherebbero anche per una ridotta attenzione alla sicurezza. Quello del sub, si sa, è un mestiere tutt’altro che esente dai rischi.

«Siamo sottoposti per tantissimo tempo a decompressione a profondità che arrivano fino ai cinquanta metri – spiega Giovanni -. E sotto sforzo, perché spostare tonni di centinaia di chili è un grande sforzo. Se succede qualcosa, loro (i titolari dei pescherecci, ndr) non sono attrezzati. A bordo non hanno camera iperbarica, nonostante sia prassi per le attività lavorative in mare. Una volta – rivela – uno di noi si è rifiutato di scendere dopo la terza bombola. Gli abbiamo spiegato cosa può succedere a un corpo immerso così tante ore per compiere sforzi di quel tipo. Molti di noi hanno avuto problemi da malattia da decompressione».

A muoversi fuori dalle regole sarebbe l’intero rapporto di lavoro. Oltre alla questione sicurezza – «non ci sono esami per iniziare, se sai nuotare, ti metti le bombole sulle spalle e vai giù» -, le prestazioni a Malta avverrebbero anche in nero, con sommozzatori pagati in contanti duecento euro al giorno. «E se ti fai male il rischio è tuo, come è successo a parecchie persone. Funziona che se lavori ti pagano, se ti fai male non ti danno nulla e se ti lamenti ti minacciano. Sono persone potenti».

Il clima da prendere o lasciare, a detta di Giovanni, caratterizzerebbe anche l’attività degli osservatori e sarebbe tra i motivi all’origine degli scarsi controlli. «Le società che fanno la formazione organizzano corsi che durano pochi giorni, poi ti mandano a bordo. Ogni anno ne cercano altri. Se c’è qualcuno che rimane per tanti anni – sostiene – è perché accetta di mantenere il gioco. Altrimenti non sarà richiamato. Non guadagnano tanto, magari ogni tanto ricevono un regalo».

Un mondo denunciato anche da Lorenzo, l’osservatore regionale che crede fermamente nella sua professione e cerca di svolgere il lavoro con tutti i crismi. «È pieno di osservatori che non osservano, e le società di formazione puntano a formare osservatori nuovi ogni anno per avere gente meno preparata possibile e più controllabile sulle barche».

Un mondo per pochi

Se dovesse decidere di continuare ad accettare queste condizioni, a Giovanni il lavoro, grazie alla profonda esperienza alle spalle, non mancherà. Il sub, però, fa il punto sul settore e su chi ne è tagliato fuori per la concentrazione delle quote in poche mani. «Più volte ci siamo imbattuti in banchi di tonni enormi, al punto che i pescherecci prima di calare le reti hanno atteso più giorni per il timore di prenderne troppi e mettere a rischio le stesse imbarcazioni – commenta il sub – Assistere a queste cose fa rabbia, perché è inevitabile pensare a quei pescatori a cui viene vietato di pescare anche un solo tonno, per rivenderlo al mercato a pochi euro al chilo, mentre questi ne ammazzano quanti ne vogliono».

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Simone Olivelli

Video

Diego Parbuono

Editing

Giulio Rubino

Mappe

Lorenzo Bodrero

Con il supporto di

Foto di copertina

Un banco di tonni
(Getty)

I segreti della flotta cinese di pescherecci pirata

I segreti della flotta cinese di pescherecci pirata
Ian Urbina

Per anni, nessuno ha saputo perché decine di fatiscenti barchette di legno – note come “barche fantasma” – si sono regolarmente arenate lungo le coste del Giappone. Spesso avevano a bordo cadaveri ridotti a scheletri di pescatori nordcoreani, morti di fame e stenti in mezzo al mare.

Una risposta la fornisce la recente inchiesta di The Outlaw Ocean, realizzata con l’ausilio di nuovi dati satellitari. Oggi è ritenuta da diversi ricercatori del mare la spiegazione più plausibile di questo fenomeno: la Cina ha inviato e continua a inviare una flotta di pescherecci finora mai tracciati allo scopo di pescare illegalmente nelle acque nordcoreane. L’invasione delle imbarcazioni cinesi ha costretto le barche di pescatori della Corea del Nord ad allontanarsi da quell’area e sta provocando a un calo del 70% delle scorte di calamari, finora abbondanti in questo mare. Quei pescatori senza vita finiti sulle spiagge giapponesi probabilmente si erano allontanati troppo dalla costa, alla vana ricerca dei preziosi molluschi, fino a morire.

La presenza delle imbarcazioni cinesi – più di 700 lo scorso anno – viola le risoluzioni Onu che proibiscono la pesca di operatori stranieri nelle acque della Corea del Nord. Sono state imposte nel 2017 in risposta ai test nucleari di Pyongyang e avevano l’obiettivo di impedire la vendita dei diritti, licenze e quote di pesca in Corea del Nord in cambio di valuta straniera, preziosa risorsa per il Paese.

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Le stime sulla reale dimensione della flotta di pescherecci cinesi variano molto. Secondo gli ultimi calcoli, si attesta tra le 200 mila e le 800 mila imbarcazioni, ossia quasi la metà dell’intero parco pescherecci mondiale. Il governo cinese afferma che i suoi pescherecci d’alto mare, ovvero quelli che operano più lontano dalla costa, sono circa 2.600. Una ricerca dell’Overseas Development Institute, tuttavia, ne ha calcolati 17.000, molti dei quali ancora sconosciuti, come quelli scoperti di recente nelle acque nordcoreane. Per capire la dimensione del fenomeno, la flotta americana di pesca in alto mare conta meno di trecento imbarcazioni.

La Cina non è solo il più grande esportatore al mondo di prodotti ittici: la popolazione del Paese ne consuma anche più di un terzo della produzione mondiale. Avendo esaurito le risorse dei propri mari, la flotta cinese è ormai solita navigare al largo allo scopo di sfruttare altre acque territoriali, comprese quelle di regioni come l’Africa occidentale e l’America Latina, dove le autorità nazionali non hanno le risorse – o la volontà – per proteggere la propria sovranità marittima. Inoltre, le dimensioni dei pescherecci d’alto mare cinesi sono tali che in una sola settimana sono in grado di pescare tanto quanto un’imbarcazione senegalese o messicana raccoglie in un anno.

Le stime sulla reale dimensione della flotta di pescherecci cinesi variano molto. Secondo gli ultimi calcoli, si attesta tra le 200 mila e le 800 mila imbarcazioni, ossia quasi la metà dell’intero parco pescherecci mondiale

Molti dei pescherecci cinesi che setacciano le acque del Sudamerica sono a caccia dei cosiddetti “pesci esca”, ricchi di proteine e particolarmente preziosi quando utilizzati come cibo per i pesci d’allevamento. Anche i gamberetti sono stati a lungo tra i loro principali obiettivi, mentre oggi la caccia è al totoaba, una specie in via di estinzione e particolarmente ricercata in Cina per le presunte proprietà curative della sua vescica natatoria, che può essere venduta a prezzi che vanno tra i 1.400 e i 4.000 dollari.
LA DEFINIZIONE - Pesce esca e totoaba

Si definisce “pesce esca” o “pesce foraggio” l’insieme dei pesci che stanno nella parte più bassa della catena alimentare. Sono i pesci di cui si cibano gli altri predatori, soprattutto altri pesci ma anche uccelli. Fanno parte di questa categoria pesci molto comuni come sardine e acciughe. Il “pesce foraggio” è importante per l’allevamento di polli e maiali. Il totoaba, pesce simile al branzino, vive principalmente nelle acque di California e Messico. È diventato oggetto di pesca intensiva dal momento in cui ha trovato un enorme mercato in Cina.

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Il caso Bonnie B e la flotta contesa

Da un procedimento giudiziario si scopre il tentativo di uomini di mare di aggiudicarsi alcune delle navi protagoniste di episodi di contrabbando tra Libia, Malta e Italia dal 2015 al 2017

Ma il vero primato della Cina riguarda i calamari. Tra il 50 e il 70% di quelli pescati in alto mare è catturato da pescherecci cinesi, circostanza che rende la flotta della Repubblica popolare il leader incontrastato nella pesca di questo mollusco. Metà dei calamari pescati dai cinesi finiscono in Europa, Asia settentrionale e Stati Uniti.

Per prenderli, i pescherecci cinesi utilizzano reti da pesca che vengono tirate tra due imbarcazioni: una pratica largamente criticata dai conservazionisti, i difensori dell’equilibrio del pianeta, poiché causa la morte di grandi quantità di altri tipi di pesce. La Cina è inoltre accusata di destinare i calamari di alta qualità al solo consumo domestico mentre quello di qualità inferiore viene esportato a prezzi gonfiati. A ciò, dicono i critici, si aggiunge il fatto che la Cina annienta ogni imbarcazione straniera che si trova nelle principali zone di riproduzione del calamaro e si trova in una posizione privilegiata per poter indirizzare a proprio favore i negoziati internazionali sulla conservazione e la distribuzione delle quote globali di calamari.

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Come far galleggiare le finanze di una flottiglia

La flotta di pescherecci cinesi non è diventata un gigante solamente con le sue forze. L’industria beneficia dei ricchi sussidi concessi dal governo, che ogni anno spende miliardi di yuan (centinaia di milioni di euro) per sostenere il settore. Le imbarcazioni cinesi possono spingersi così a largo anche grazie alle sovvenzioni per l’acquisto del diesel, decuplicate tra il 2006 e il 2011. Da quell’anno Pechino non ha più rilasciato dati pubblici a riguardo.

Nell’ultimo decennio il governo cinese ha contribuito economicamente alla costruzione di pescherecci con scafo in acciaio sempre più grandi e tecnologici. In alcuni casi, navi ospedale sono state inviate nelle zone di pesca affinché le flotte potessere rimanere in mare aperto più a lungo. Ma, soprattutto, il governo cinese supporta la flotta di pescherecci con una preziosa attività di intelligence: funzionari statali identificano le zone più pescose grazie a satelliti e navi da ricerca e trasmettono le informazioni ai pescatori.

Senza questi aiuti la pesca dei calamari sarebbe un business in perdita. A dirlo e il professor Enric Sala, fondatore del progetto Pristine Seas (Mari immacolati) della National Geographic Society americana. Secondo uno studio condotto da Sala il prezzo di vendita dei calamari non permette nemmeno di coprire il costo del carburante necessario per pescare i molluschi in mare aperto.

La flotta illegale in mare fotografata al tramonto nel Mar Cinese Meridionale – Foto: The Outlaw Ocean Project

A detta dei conservazionisti, le sovvenzioni statali sono tra le cause principali dello spopolamento negli oceani, insieme alla pesca illegale e alla sovraccapacità dei pescherecci. Tuttavia, la Cina non è l’unico Paese che puntella la propria industria ittica con sussidi di questo tipo. Il Giappone guida questa speciale classifica, elargendo da solo il 20% dei sussidi globali, seguito dalla Spagna con il 14%. Più staccate Cina, Corea del Sud e Stati Uniti.

Recentemente, il governo cinese ha annunciato che porrà un freno all’espansione della propria flotta di pescherecci d’altura e nel 2017 ha dato il via a un piano quinquennale che prevede la riduzione del numero di imbarcazioni sotto le 3.000 unità entro il 2021. Secondo il biologo marino Daniel Pauly, la Repubblica popolare è genuinamente determinata a ridimensionare la propria flotta. «Che riescano a farlo è tutto un altro discorso», spiega Pauly, il quale dirige il progetto Sea Around Us (Il mare intorno a noi) iniziativa di ricerca dell’università della British Columbia, in Canada e di quella dell’Australia Occidentale.

Altri tentativi di tenere a freno la flotta si sono dimostrati poco efficaci. Progettare e implementare delle riforme è complicato poiché le leggi cinesi sono particolarmente permissive, ma non solo. La forza lavoro a bordo delle imbarcazioni è in gran parte analfabeta, molte barche sono prive di licenza oppure prive di nome o di codice identificativo, e i centri di ricerca sulla pesca sono restii a pubblicare dati in modo uniforme e condividerli sia internamente sia all’estero.

Le motivazioni al di là della pesca

Oltre alle risorse ittiche, in gioco ci sono anche le ambizioni e la grandezza della flotta peschereccia cinese. Con le aspirazioni geopolitiche della Cina sullo sfondo, i pescatori sono spesso utili come personale paramilitare de facto, le cui operazioni sono definite dal governo di Pechino iniziative private. Dietro le sembianze civili, questa flottiglia privata contribuisce ad affermare il dominio territoriale cinese. Lo fa, in particolare, allontanando i pescatori o i governi che sfidano le rivendicazioni di sovranità cinesi che si estendono su quasi tutto il Mar Cinese Meridionale.

«Quello che sta facendo la Cina è mettersi le mani dietro la schiena e usare la sua grande pancia per spingerti fuori, per sfidarti a colpire per primo», sostiene Huang Jing, il direttore del Centro sull’Asia e la Globalizzazione presso la Lee Kuan Yew School of Public Policy di Singapore.

Noti per la loro aggressività, i pescherecci cinesi sono spesso fiancheggiati da imbarcazioni della Guardia costiera nazionale, perfino in alto mare e in acque territoriali straniere. Abbiamo filmato dieci pescherecci cinesi a caccia di calamari mentre si spingevano in acque nordcoreane. Dopo essere stati avvistati, il comandante di uno dei pescherecci cinesi ha virato bruscamente nella nostra direzione, con il probabile intento di tenerci a distanza. Per evitare una collisione siamo stati costretti a cambiare rotta.

Noti per la loro aggressività, i pescherecci cinesi sono spesso fiancheggiati da imbarcazioni della Guardia costiera nazionale, perfino in alto mare e in acque territoriali straniere

Una imbarcazione fantasma abbandonata – Foto: The Outlaw Ocean Project

«Questa flotta è di fatto una forza senza uniforme e senza una formazione adeguata, fuori dalle cornici legislative del diritto marittimo internazionale, delle regole di ingaggio militari e dei meccanismi multilaterali istituiti per prevenire incidenti in mare»

Greg Poling

Center For Strategic & International Studies

La Cina ha tentato di accrescere la propria potenza marittima anche attraverso metodi più tradizionali. Per esempio, il governo ha ampliato la propria flotta navale più velocemente di qualsiasi altro Paese. Ci sono almeno tre flotte di navi militari in costruzione, mentre una dozzina di navi da ricerca tecnologicamente avanzate sono state inviate a perlustrare i mari alla ricerca di minerali, petrolio e altre risorse naturali. Ma a livello globale la presenza cinese più aggressiva e diffusa in mare aperto resta comunque la flotta dei pescherecci. Queste imbarcazioni sono abitualmente indicate dagli analisti militari occidentali come una «milizia civile» d’avanguardia che funziona come «una forza senza uniforme e senza una formazione adeguata, fuori dalle cornici legislative del diritto marittimo internazionale, delle regole di ingaggio militari e dei meccanismi multilaterali istituiti per prevenire incidenti in mare», come ha scritto recentemente Greg Poling su Foreign Policy. Non c’è nessun posto dove la flotta peschereccia cinese sia più onnipresente che il Mar Meridionale Cinese. Si tratta di una delle aree più contese al mondo, dove si scontrano rivendicazioni storiche e persino morali di Cina, Vietnam, Filippine, Malesia, Brunei, Taiwan e Indonesia. Oltre ai diritti di pesca, gli interessi in queste acque derivano da un intricato mix di orgoglio nazionale, lucrosi giacimenti sottomarini di petrolio e gas e il desiderio politico di controllare una zona dalla quale passa un terzo del commercio marittimo mondiale. A catalizzare l’attenzione internazionale nel Mar Cinese Meridionale sono state le Isole Spratly: qui il governo cinese ha trasformato scogliere e secche in isolotti, poi militarizzati con piste di atterraggio, porti e apparecchiature radar. I pescherecci cinesi sostengono gli sforzi del governo, affollandosi nell’area e intimidendo potenziali rivali. Un chiaro esempio di questa strategia collaterale lo si è visto nel 2018: 90 pescherecci sono stati inviati a mollare gli ormeggi alcune miglia al largo dell’isola filippina di Thitu Island, dopo che il governo di Manila aveva iniziato a fare dei lavori infrastrutturali sull’isola.

La zona di azione nel Mar Cinese Meridionale

Le rivendicazioni di Pechino corrono su quella che viene definita la «linea dei nove trattini»: una teoria che si basa su una storica mappa delle aree di pesca che attribuisce una vasta porzione del Mar Cinese Meridionale alla Cina. Tra i media occidentali c’è la tendenza a incolpare la Cina per le stesse azioni di cui Stati Uniti o Paesi europei sono stati colpevoli in passato. In parte perché la Cina ignora la maggior parte delle critiche e in parte perché la Cina è economicamente dominante sulla scena globale. Definire cosa sia giusto o sbagliato nel Mar Cinese Mediterraneo non è un compito semplice ma la maggior parte degli storici e degli esperti legali sostengono che la «linea dei nove trattini» non abbia fondamento nelle leggi internazionali. Nel 2016 una sentenza del tribunale internazionale ha dichiarato la teoria «non valida».
La linea dei nove trattini

Le rivendicazioni di Pechino sul Mar Cinese Meridionale cominciano nel 1947, due anni prima della nascita della Repubblica popolare cinese. È da allora che la Cina ha iniziato a pretendere di avere la sovranità su questa enorme porzione di mare – 3,5 milioni di chilometri quadrati – senza mai formalizzare chiaramente quali sarebbero i confini di quest’area né su cosa si basi questa rivendicazione. Allora la linea contava addirittura undici trattini. La linea attuale, scesa a nove dopo le concessioni agli alleati del Vietnam del Nord negli anni Cinquanta, corre lungo le acque territoriali di Indonesia, Brunei, Filippine, Vietnam e Malesia, erodendo loro parte della sovranità marittima. La porzione di mare è contesa perché ricca di possibili giacimenti petroliferi e molto pescosa. Il confine disegnato dai cinesi (con il supporto di Taiwan) è stato portato davanti a tribunali internazionali dalle Filippine, che hanno ottenuto sempre un riconoscimento delle loro richieste contro Pechino. La Repubblica popolare cinese non ha tuttavia rinunciato, ciclicamente, a schierare i propri assetti navali per presidiare il territorio.

Ma il Mar cinese meridionale non è l’unico teatro di scontri. Giappone e Cina sono ai ferri corti anche nell’area intorno alle isole Senkaku, piccolo arcipelago disabitato a nord-est di Taiwan, soprannominate dai cinesi le “isole della pesca”. Nel marzo 2016, inoltre, la guardia costiera argentina ha aperto il fuoco contro un’imbarcazione cinese per evitare che entrasse in acque internazionali. Dopo un tentativo di speronamento fallito, la Lu Yan Yuan è stata rovesciata dalla nave argentina. L’equipaggio cinese è poi sfuggito all’arresto trovando riparo su un altro peschereccio asiatico. Dalle acque della Corea del Nord al Messico, passando per l’Indonesia, le incursioni ci pescherecci cinesi sono diventate più frequenti oltre che più sfrontate e aggressive. E il passo da un semplice scontro tra navi civili a una crisi militare tra due Paesi potrebbe rivelarsi più breve di quanto si pensi. Questo tipo di conflitti solleva, inoltre, preoccupazioni dal punto di vista dei diritti umani nel momento in cui i pescatori vengono utilizzati come merce di scambio/rappresentano un danno collaterale. Per non parlare della questione ambientale, con politiche marine sempre più aggressive e mari sempre più depredati. Quel che è certo è che le ripercussioni e le ambizioni della Cina sulle acque internazionali dimostrano che il reale prezzo del pesce raramente è quello che appare sul menu di un ristorante.

Ian Urbina è un giornalista investigativo vincitore di un premio Pulitzer. Precedentemente al New York Times, oggi Urbina dirige The Outlaw Ocean, un’organizzazione non profit che si concentra sui diritti umani, del lavoro e lo sfruttamento ambientale del  mare. In Italia, nel 2020, Urbina ha pubblicato con Mondadori Oceani fuorilegge, libro che raccoglie cinque anni di reportage e inchieste in giro per il mondo.

CREDITI

Autori

Ian Urbina

Editing

Lorenzo Bagnoli

Foto

The Outlaw Ocean Project

Tunisia, la mattanza degli squali

Tunisia, la mattanza degli squali

Cecilia Anesi
Giulio Rubino

Porto di Kelibia, nord-ovest della Tunisia. Di fronte, l’isola di Pantelleria e a poco meno di cento miglia nautiche Mazara del Vallo, la punta più occidentale del sud della Sicilia. È uno dei tratti di mare dove si pescano gli squali, a 400 metri di profondità.

È il 3 aprile 2020. Non è ancora sorto il sole, ma al mercato del pesce del porto non si dorme. Una dozzina di grossi squali, sanguinanti, pescati e riversati su dei bancali di legno, attirano l’attenzione e la curiosità dei compratori. Sono tutti requin griset, come li chiamano i pescatori qui, in italiano detti “capopiatto” e in latino Hexanchus griseus. Giacciono appoggiati in bella mostra a pancia in giù, pronti ad essere acquistati da intermediari che poi li distribuiranno ai supermercati. Tutt’attorno, in una morsa, una quarantina di uomini con mascherine: siamo in pieno lockdown, ma la pesca non si ferma. Neppure quella allo squalo.

Lo squalo capopiatto non è, in Tunisia, una specie protetta. In Europa la sua pesca è regolamentata e limitata, ma trattandosi di una specie molto migratoria è difficile che si possa proteggere efficacemente se non si armonizzano le legislazioni. Secondo l’Iucn (Unione internazionale per la conservazione della natura) il suo stato di conservazione è Near Threatened, che vuol dire meno in pericolo di altre specie, ma comunque in declino.

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Localizzazione di Kelibia, Tunisia 

In tutto il Sahel tunisino, la regione costiera che va dal golfo di Hammamet fino a quello di Gabès, lo squalo è parte della cucina tradizionale. Con i numeri delle catture in costante crescita e nessuna vera e propria distinzione fra la cattura di specie protette e quelle invece consentite, questa pratica rischia però di distruggere per sempre non solo gli squali, ma tutte le riserve ittiche del Paese. Su circa 63 specie di squalo presenti, oltre il 40% rientrano nella categoria protetta. Per Kelibia, piccola cittadina famosa per le sue spiagge meravigliose, la pesca è una delle principali fonti di reddito, specialmente da quando il turismo internazionale soffre di alterne fortune. Da qui andando a sud fino a Zarzis, accanto all’isola di Djerba, la pesca è un’attività di primaria importanza.

Ci sono migliaia di barche da pesca nel Golfo di Gabes, che catturano squali ogni giorno. E se la maggior parte delle catture registrate avviene per errore (bycatch è il termine tecnico, “catture accessorie”) non mancano barche che cercano attivamente squali di grosse dimensioni. Queste flotte di pescatori utilizzano i palangari (lunghe reti attaccate tra loro e con lenze nel mezzo) per catturare gli squali e mentre a sud si catturano solo durante certe stagioni, a nord, a Kelibia, la caccia avviene durante l’intero arco dell’anno. Nonostante la carne di squalo non sia particolarmente redditizia dal punto di vista commerciale, e la maggior parte delle specie siano protette.

Con i numeri delle catture in costante crescita e nessuna vera e propria distinzione fra la cattura di specie protette e quelle invece consentite, questa pratica rischia però di distruggere per sempre non solo gli squali, ma tutte le riserve ittiche del Paese

Il palangaro

Il palangaro – detto anche palamito o coffa – è una tipologia di rete da pesca. È costituita da un cavetto detto “lenza madre” a cui si applicano in tutto fino a duecento “braccioli” (lenze più piccole), alla cui estremità è applicato un amo con un’esca. I “braccioli” sono disposti a distanza regolare l’uno dall’altro. I palangari tradizionali hanno in tutto cento ami. A intervalli regolari vengono posizionati galleggianti e piccole boe satellitari che permettono il posizionamento a giusta profondità dell’attrezzo e il suo recupero qualora la lenza madre si spezzasse. Il palangaro “derivante” (detto così perché in balìa delle correnti marine) di regola, ha una lunghezza massima di 50 chilometri dall’inizio alla fine. Viene “calato” la sera in mare a circa 20-25 metri dalla superficie e il suo recupero – che in gergo è definito “allestire” – avviene la mattina presto.

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Gli scatti su Facebook prova della mattanza

Le prove della mattanza degli squali a Kelibia sono ingenuamente scattate dagli stessi pescatori. Quella stessa mattina del 3 aprile, ad esempio, un profilo Facebook chiamato “Il marinaio di Kelibia” pubblica un video dei venti squali capopiatto esposti al mercato del porto. Dietro, un edificio riconoscibile in foto pubblicate dal profilo Facebook ufficiale del mercato del pesce del porto: Il Marchi. Dai social network si evince che è in questo magazzino che viene venduto tutto il pesce raccolto dalla flotta di Kelibia, squali inclusi. Il pesce si può acquistare di persona, oppure online direttamente dal sito de Il Marchi che, pubblicizza, può farlo arrivare fresco in qualsiasi parte del Paese entro 24 ore.

Un grosso squalo è anche un trofeo; sbarcato sulle banchine del porto attira curiosi e, soprattutto, clienti. È anche per questo che i pescatori tunisini tendono a mettere sui social network tutte le fotografie di squali che pescano e che riportano a riva, tanto i capopiatto, quanto quelle di specie espressamente protette, che non possono essere in alcun modo catturate ne tantomeno commercializzate. Come gli squali bianchi, i mako, gli squali grigi, le mante, le razze, i pesci chitarra: tutti pesci protetti anche in Tunisia che vengono ugualmente presi ed esposti come macabri trofei. Una ricerca sui profili Facebook legati al porto di Kelibia e alle aziende di pesca della zona rivela un bollettino di morte per squali, razze ed elasmobranchi di ogni tipo. Solo nel 2019, stando a i post, sono stati catturati ed esposti squali bianchi, mako, anche un esemplare di diavolo di mare, una manta abbastanza rara. Andando indietro nel tempo, non si contano i casi di specie protette finite nel mercato del pesce locale.

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Gli scatti dei pescatori su Facebook / IrpiMedia. Scorri le immagini

«La maggior parte degli squali pescati in Tunisia sono pescati per errore, ma c’è un 20% che invece è proprio pesca illegale. Ci sono due flotte pescherecce che li vanno a cercare, una è quella di Kelibia e una è quella di Zarzis, nel sud, vicino alla Libia».

Sami Mhenni

Houtyat

Mediterraneo zona di pesca e di incroci pericolosi

Secondo Sami Mhenni, presidente e fondatore di Houtyat, associazione che si occupa di ricerca e sensibilizzazione rispetto al problema della pesca delle specie protette, la maggior parte delle catture avviene per errore e il mercato interno assorbe la quasi totalità del consumo di carne di squalo. Ma non a Kelibia e Zarzis: «È qui che avviene la maggior parte della pesca illegale allo squalo», spiega Jamel Jrijer, marine program manager al WWF nord-Africa. «La maggior parte degli squali pescati in Tunisia avviene per errore, ma c’è un 20% che invece è proprio pesca illegale. Ci sono due flotte pescherecce che li vanno a cercare, una è quella di Kelibia e una è quella di Zarzis, nel sud, vicino alla Libia».

Houtyat ha raccolto alcune testimonianze tra i pescatori, ma nessuno vuole metterci la faccia per paura di ritorsioni: il tratto di mare tra Kelibia e la Sicilia non è solo la zona dove si pescano gli squali. È anche la zona dove si incontrano le due flotte pescherecce, quella tunisina e quella siciliana: i tunisini vendono soprattutto tabacco e pesce di contrabbando ai siciliani. Diversi studi dimostrano che una quota importante di ciò che viene venduto in Italia come pesce spada in realtà è squalo: le due specie hanno infatti una tipologia di carne apparentemente simile, almeno a uno sguardo inesperto. L’ipotesi è quindi che parte di questo finto pesce spada sia in realtà squalo pescato dai tunisini e venduto di contrabbando.

La zona grigia delle catture non dichiarate

Alla vendita all’estero si aggiunge il ricco mercato delle pinne di squalo, usate in Asia o nei ristoranti cinesi d’Europa per preparare zuppe considerate una leccornia. Secondo Fabrizio Serena, Co-Regional Vice Chair dello IUCN Shark Specialist Group for Mediterranean e Ricercatore dell’Istituto per le Risorse Biologiche e le Biotecnologie del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), il problema principale è la mancanza di informazione e preparazione, tanto nei pescatori, quanto nelle autorità che sarebbero preposte al controllo. «I pescatori non sanno riconoscere quali specie sono protette – spiega – i regolamenti si aggiornano di continuo ed è necessario prevedere dei programmi di informazione diretti a loro. Il Gfcm (Consiglio generale della pesca nel Mediterraneo) sta lavorando molto sui Paesi del Nord Africa. Dovevo io stesso fare un intervento proprio in Tunisia questa primavera, ma la pandemia ci ha bloccato».

La Tunisia non fa parte dell’Unione europea naturalmente, ma tramite il Gfcm recepisce in teoria il regolamento stabilito dalla convenzione di Barcellona, che stabilisce quali specie devono essere rilasciate immediatamente, vive, e quali devono essere perlomeno registrate e la loro cattura accidentale comunicata alle autorità preposte. La registrazione però non avviene, anche perché non tutte le catture “accidentali” avvengono in buona fede. Jamel Jrijer ci racconta che ci sono almeno due attori che rendono più difficile l’adozione di misure a tutela degli squali: gli intermediari che rivendono il pesce a supermercati e hotel e i pescatori di frodo veri e propri. Questi ultimi non hanno problemi a mettersi contro le autorità. Sono compatti e protetti. «Sono come una mafia – spiega Jamel – ben organizzati: se vengono attaccati dal governo o dai media, rispondono. E hanno entrature in alto, hanno l’appoggio dei sindacati, che in Tunisia sono fortissimi, tanto da decidere chi deve guidare un ministero e come». Chi ha provato ad opporsi, o anche solamente a controllare i pescherecci e a sequestrare gli squali pescati, ha fatto una brutta fine. Quei guardacoste che ci hanno provato, ci spiegano gli attivisti locali, sono stati picchiati e le loro auto sono state date alle fiamme.

Il Consiglio generale della pesca nel Mediterraneo

Il Consiglio generale della pesca nel Mediterraneo è un organismo che regolamenta la pesca nel Mediterraneo. Ne fanno parte 23 Paesi che si affacciano su questo mare, più l’Unione Europea. Il Gfcm ha il potere di introdurre regolamentazioni vincolanti per i suoi membri per tutto quanto riguarda la pesca e l’acquacoltura. Ha competenza per tutto il Mediterraneo e per il Mar Nero.

«I pescatori non sanno riconoscere quali specie sono protette – spiega – i regolamenti si aggiornano di continuo ed è necessario prevedere dei programmi di informazione diretti a loro».

Fabrizio Serena

IUCN e CNR

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Omertà e complicità tra pescatori di frodo e intermediari

Quel che è certo, è che c’è molta omertà. Gli intermediari che acquistano lo squalo da porti come Kelibia, sanno che le specie sono protette e che potrebbero incorrere in problemi. Allora, per farle entrare nel circuito legale, tagliano gli squali a pezzi così da venderli mischiati a specie non protette o a fare passare le fette come pesce spada. Ristoranti, supermercati, catene di grande distribuzione e hotel che acquistano poi questi pezzi di squalo, sanno bene cosa acquistano. E lo fanno perché conviene: la carne di squalo ha un ottimo rapporto peso – prezzo. È una carne economica rispetto ad altri pesci. Così, con il diffondersi dei pacchetti turistici all inclusive offerti da molti hotel di zona, un grosso squalo può rappresentare al contempo un significativo risparmio economico per “riempire” un buffet di pesce e un’attrazione turistica vera e propria.

Gli intermediari che acquistano lo squalo da porti come Kelibia, sanno che le specie sono protette e che potrebbero incorrere in problemi. Allora, per farle entrare nel circuito legale, tagliano gli squali a pezzi così da venderli mischiati a specie non protette o a fare passare le fette come pesce spada

Naturalmente per fermare chi pesca di frodo non basta certo una campagna d’informazione rivolta ai pescatori. Secondo Fabrizio Serena, però, nella maggior parte dei casi adottare misure repressive nei confronti dei pescatori potrebbe essere addirittura controproducenti.

«Il rischio di sanzioni, che in Italia possono anche andare nel penale, desta molte preoccupazioni nei pescatori – spiega Serena -. Noi chiediamo invece un sistema simile a quello che già esiste per tartarughe e mammiferi marini, dove il pescatore può comunicare alla capitaneria di porto la cattura. Questa a sua volta contatta il più vicino istituto di ricerca, che procede alla registrazione e alla liberazione dell’esemplare catturato. Se non si fa così il pescatore che prende lo squalo, per evitare problemi, finisce per venderlo illegalmente».

L’importanza della protezione della specie

La popolazione di squali del Golfo di Gabès è una risorsa preziosa e tutelarla è importante per tutto il Mediterraneo, ma in particolare per gli stessi pescatori tunisini. Lo squalo, chiarisce Fabrizio Serena, è un predatore apicale, in cima alla catena alimentare del mare e la sua scomparsa può avere effetti devastanti sugli stock di pesce della zona. «In North Carolina quando hanno sterminato gli squali grigi che tenevano sotto controllo la popolazione delle rinottere (una specie di razza, ndr) queste si sono moltiplicate enormemente, distruggendo del tutto gli stock di capesante da cui i pescatori dipendevano», aggiunge il ricercatore. Risultato: l’intera industria è fallita.

Gli stessi squali grigi, assieme ai Mako, ai pesci chitarra e pesci violino che nel nord del Mediterraneo sono già considerati localmente estinti, hanno nel Golfo di Gabès il loro habitat di riproduzione e sono una preziosissima risorsa faunistica per la Tunisia. Proteggerli non sarebbe nemmeno particolarmente difficile.

Secondo il dati del Wwf che IrpiMedia ha potuto consultare, una porzione significativa degli squali presi per errore nelle reti e nei palangari viene ritrovata viva, e potrebbe essere facilmente rilasciata. Eppure, in contrasto con le raccomandazioni del Gfcm, la ricerca rileva che il 100% di questi esemplari viene abbattuta e commercializzata.

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