Tra le campagne dell’Aspromonte, dove si coltiva marijuana

Tra le campagne dell’Aspromonte, dove si coltiva marijuana

Testi: Cecilia Anesi
Foto: Luca Quagliato

In Aspromonte nascono i più importanti casati della ‘ndrangheta. Da qui, durante la stagione dei sequestri degli anni ‘70, le famiglie della criminalità organizzata calabrese si sono arricchite accrescendo il loro potere criminale ed economico. La grande quantità di banconote accumulate iniziò a diventare un problema, così i clan decisero di investire nel narcotraffico, diventando una potenza mondiale nell’ambito del traffico di cocaina.

Dall’America Latina all’Europa, passando per gli Stati Uniti d’America e l’Australia la droga è diventata una stabile fonte di guadagno per la ‘ndrangheta. Ma non sono solo le rotte internazionali a portare denaro nelle casse dei clan: gli affari si curano anche sotto casa e la coltivazione di marijuana tra le impervie montagne dell’Aspromonte si affianca al redditizio traffico di cocaina, accorciando la filiera e con la possibilità di sorvegliare al meglio la produzione. Ogni pianta, stimano le autorità, può arrivare un valore di circa mille euro. Nella sola provincia di Reggio Calabria – che include buona parte dell’Aspromonte – quest’anno sono state sequestrate circa 33 mila piante e oltre 80 chili di marijuana già essiccata e pronta all’immissione sul mercato per un valore di circa 30 milioni di euro.

In lontananza si scorge San Luca. Conosciuto come “la mamma della ‘ndrangheta” questo borgo di poco più di 3.600 abitanti è diventato un simbolo nella storia della criminalità organizzata calabrese. Da qui arrivano alcune tra le famiglie più importanti attive nel narcotraffico mondiale. 

Un toro sbarra il sentiero verso la fiumara Santa Venere

San Luca, 26 settembre

La Squadra di San Luca dei Cacciatori di Calabria pattuglia le campagne dell’Aspromonte

Aspromonte, 26 settembre

È un venerdì pomeriggio di fine settembre. L’afa è terribile. Si appiccica sulla pelle, sulle mimetiche, sotto ai baschi rossi. Ci sono oltre trenta gradi, con un tasso di umidità altissimo. Gli uomini dello squadrone eliportato Cacciatori di Calabria, basco rosso in testa, zaini e machete alla mano si avviano verso la fiumara che li separa dal bosco dove sono diretti. Istituito nel 1991 e replicato in Sardegna durante la stagione dei sequestri, compongono un corpo specializzato nel pattugliamento di zone impervie, in appostamenti e incursioni improvvise: cercano latitanti, covi e nascondigli di soldi e armi, perlustrano la montagna alla ricerca di tracce lasciate dalla ‘ndrangheta e, tra queste, ci sono anche le piantagioni di marijuana. Qui, dove gli alberi sono arroccati su pezzi di roccia che ricordano le dita di un gigante, e le fronde non lasciano intravedere il suolo, le piantagioni si scovano a naso.

L’elicottero a volte è un buon mezzo per trovarle ma, nella maggior parte dei casi qui in Aspromonte i Cacciatori le trovano quando, durante le perlustrazioni, sentono l’inconfondibile odore di marijuana. O quando, prima della fioritura, notano terrazzamenti e piazzole in mezzo al bosco o tubi dell’irrigazione fatti correre lungo i versanti della montagna.

Un toro si frappone tra i militari e la meta che devono raggiungere. Uno dei cacciatori rassicura: «Si sposterà». Dopo un richiamo e un gesto deciso l’animale si fa da parte tenendo costantemente sott’occhio la situazione. Stiamo camminando lungo la fiumara Santa Venere di San Luca, a pochi chilometri dal centro abitato. Alcuni mesi fa i Cacciatori hanno scovato i terrazzamenti creati tagliando alberi e arbusti lungo una parete di bosco in pendenza. A quel punto, con la stazione dei carabinieri di San Luca, hanno posizionato le fototrappaole. Servono per identificare e incriminare i responsabili, i coltivatori, ma a volte non si fa vivo nessuno per mesi ed è a quel punto che la magistratura firma un ordine di sequestro e distruzione sul posto. Un atto necessario per evitare che la marijuana venga immessa sul mercato, fruttando migliaia di euro alla criminalità organizzata calabrese.

I Cacciatori di Calabria camminano lungo la fiumara Santa Venere per raggiungere la piantagione da sequestrare

San Luca, 26 settembre

Il machete serve ai militari per farsi strada tra la vegetazione impervia e per eradicare le piante di marijuana

San Luca, 26 settembre

Il tenente Ivan D’Errico

È tra queste montagne – in tutta la zona più impervia della Locride – che viene coltivata la maggior parte della marijuana in Calabria. Sul versante tirrenico dell’Aspromonte e nella piana di Gioia Tauro le piantagioni di certo non mancano (i numeri dicono tra le 4mila e le 10mila piante), ma essendo più facilmente individuabili la quantità è decisamente inferiore rispetto a quella coltivata qui.

«I numeri ci dicono che l’azione di individuazione e sequestro di piantagioni che, come Cacciatori, facciamo da oltre un decennio ha dato i suoi frutti», spiega il giovane tenente Ivan D’Errico, comandante dello Squadrone Eliportato Cacciatori Calabria. Barba, occhi verde militare, marcato accento toscano. Siede in una stanza d’ufficio che ricorda la “stanza dei bottoni” delle strategie militari. Spoglia, ha solo un grande tavolo di legno e a fianco una cartina topografica, alta fino al soffitto, della Calabria.

Siamo nel quartier generale dello Squadrone, una città-caserma a Vibo Valentia. Ogni giorno da qui escono i fuoristrada verde militare, sputando fumo dal boccaglio che spunta dal cofano. Serve per non fare affogare il motore se i mezzi dovessero attraversare un fiume o fango.

«Parliamo della zona aspromontana, che è quella di nostra competenza. Qui prima le piantagioni erano più estese, con più piante. E si coltivava in zone meno impervie. Adesso, dopo questi anni di repressione, hanno iniziato a coltivare in appezzamenti più piccoli, e decisamente più nascosti», spiega D’Errico.

Nel 2020, i Cacciatori hanno sequestrato 28 mila piante all’interno di una ventina di piantagioni. Negli anni passati invece si sono trovate più piante in un minor numero di piantagioni, segno che si frammenta di più, così che i sequestri non possano mettere del tutto a rischio questa attività di coltivazione clandestina.

I Cacciatori entrano nella piantagione di marijuana dopo aver abbassato la rete e il filo spinato

San Luca, 26 settembre

Dentro la piantagione:
tre terrazzamenti e due piazzole ospitano 170 piante di marijuana

San Luca, 26 settembre

Ciò che rimane dopo l’eradicamento delle piante di marijuana tra i terrazzamenti della piantagione posizionata su un fronte di bosco a lato della fiumara Santa Venere

Aspromonte, 26 settembre

«Il territorio è impervio quindi da un lato fornisce riparo rispetto alla possibilità che venga trovata la piantagione dall’altro però deve comunque offrire le condizioni affinché la piantagione possa crescere. Chi coltiva opera delle vere e proprie modifiche del terreno, dei terrazzamenti e anche degli impianti di irrigazione attraverso dei tubi di plastica connessi a delle cisterne», spiega il capitano Luigi Garrì. La giovane età nascosta dall’alta uniforme, ha un compito per pochi: comandare la compagnia dei carabinieri di Bianco, che coordina dieci stazioni nel tratto più critico della Locride.

«Una volta individuata la piantagione cerchiamo di risalire a chi può essere il coltivatore. In molti casi si tratta di persone che avevano già coltivato stupefacenti, a volte hanno legami di parentela con ‘ndranghetisti. Sicuramente è un fenomeno in espansione che anche quest’anno ha conservato il suo trend», specifica Garrì.

Capitano Luigi Garrì

Comandante carabinieri Bianco

Chi coltiva la marijuana da queste parti, oltre ad avere un vero pollice verde e grande conoscenza del terreno e del territorio, nella maggior parte dei casi è un manovale. Si tratta di persone che hanno avuto poche alternative, cresciute tra queste montagne, e a cui la ‘ndrangheta ha promesso un guadagno (nemmeno così lauto) per coltivare marijuana. In molti casi, quando i coltivatori vengono arrestati, mantengono totale omertà rispetto a chi li ha ingaggiati e così sono gli unici a pagare con la detenzione.

La ‘ndrangheta nel frattempo fattura. Milioni di euro. In Aspromonte la coltivazione di piantagioni di canapa sativa è sempre più massiccia. Non è il vezzo di qualche contadino o qualche estimatore come poteva accadere per la varietà autoctona conosciuta da queste parti come “erba rossa calabrese” (per via dei “peli” rossi dell’infiorescenza). La coltivazione di marijuana qui è oggi una strutturata impresa di narcotraffico il cui scopo finale è il profitto da reinvestire nel sostentamente e nelle attività dell’organizzazione mafiosa. Lo sanno bene clan storici come gli Strangio e i Vottari di San Luca, oppure i Pesce, Bellocco e Piromalli per il versante della Piana.

La distruzione della marijuana in loco. Quando i carabinieri non riescono a identificare i responsabili della piantagione, l’autorità giudiziaria autorizza la distruzione dello stupefacente sul posto. Nel caso in cui invece i responsabili vengano identificati, le piante vengono eradicate e portate a spalla fino alla caserma, dove vengono messe sotto sequestro e poi portate ad incenerire

San Luca, 26 settembre

Il fuoristrada dei Cacciatori pattuglia le campagne sopra San Luca. A destra la fiumara arriva fino al mar Jonio

San Luca, 27 settembre

L’ingresso di una piantagione di marijuana nelle campagne di San Luca

San Luca, 27 settembre

La discesa per raggiungere una piantagione di marijuana rinvenuta dai cacciatori

San Luca, 27 settembre

«La coltivazione di marijuana in Aspromonte è una delle prime fonti di reddito per la criminalità organizzata. Ogni pianta ha un valore medio di mille euro e quindi ogni piantagione che viene trovata infligge un duro colpo alla capacità di autofinanziarsi della ‘ndrangheta», spiega Garrì. «In questi anni – conclude il comandante dei carabinieri di Bianco – siamo riusciti a documentare la reimmissione dello stupefacente nei mercati dello spaccio delle piazze di spaccio delle grandi città italiane. Una di queste è stata Roma ma anche Milano».

Ricordando un po’ la vicina Albania, la Calabria è sfruttata come terra di coltivazione – anche grazie alle particolari condizioni climatiche – da quella stessa mafia che è diventata la principale importatrice di cocaina dalla Colombia, nonché la più grande distributrice mondiale della stessa nel mondo.

Anche grazie ai contatti con i paesi del nord Europa, acquisiti con il traffico di cocaina, e in special modo con l’Olanda, che la ‘ndrangheta può ottenere semi per coltivare massicciamente la marijuana in Aspromonte. Anche se ormai, spiegano gli investigatori, molti coltivatori si sono organizzati mettendo da parte i semi dell’anno precedente. Così da non doverli ordinare online e rischiando così di essere rintracciati.

Grandi capacità agricole, quindi, che se incanalate al di fuori del contesto criminale potrebbero diventare una vera risorsa per queste terre. Vi sono infatti sempre più imprenditori agricoli che in Calabria stanno prendendo in considerazione la coltivazione legale della cannabis come fibra tessile, per la fabbricazione di carta e materiali edili o come biocarburante. Proprio a luglio 2020, l’assessore regionale all’agricoltura Gianluca Gallo aveva incontrato una delegazione di produttori calabresi di canapa, poco più 200 aziende, per valutare le possibilità dello sviluppo di questa coltivazione e di una filiera virtuosa. Una filiera legale che per il momento resta ai margini ma che potrebbe offrire una valida alternativa al business delle mafie.

«La coltivazione di marijuana in Aspromonte è una delle prime fonti di reddito per la criminalità organizzata. Ogni pianta ha un valore medio di mille euro»

Capitano Luigi Garrì, Comandante compagnia carabinieiri di Bianco

L’arcobaleno taglia il cielo e la strada sopra San Luca, arrivando a toccare Pietra Cappa. É ai piedi di questo masso, il monolite più alto d’Europa, che fu nascosto il corpo del fotografo Adolfo Lollò Cartisano rapito nel 1993 e fatto ritrovare solo dieci anni dopo

San Luca, 27 settembre

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi

Foto e video

Luca Quagliato

Editing & Layout

Luca Rinaldi

Tra le campagne dell’Aspromonte, dove si coltiva marijuana

Testi: Cecilia Anesi
Foto: Luca Quagliato

In Aspromonte nascono i più importanti casati della ‘ndrangheta. Da qui, durante la stagione dei sequestri degli anni ‘70, le famiglie della criminalità organizzata calabrese si sono arricchite accrescendo il loro potere criminale ed economico. La grande quantità di banconote accumulate iniziò a diventare un problema, così i clan decisero di investire nel narcotraffico, diventando una potenza mondiale nell’ambito del traffico di cocaina.

Dall’America Latina all’Europa, passando per gli Stati Uniti d’America e l’Australia la droga è diventata una stabile fonte di guadagno per la ‘ndrangheta. Ma non sono solo le rotte internazionali a portare denaro nelle casse dei clan: gli affari si curano anche sotto casa e la coltivazione di marijuana tra le impervie montagne dell’Aspromonte si affianca al redditizio traffico di cocaina, accorciando la filiera e con la possibilità di sorvegliare al meglio la produzione. Ogni pianta, stimano le autorità, può arrivare un valore di circa mille euro. Nella sola provincia di Reggio Calabria – che include buona parte dell’Aspromonte – quest’anno sono state sequestrate circa 33 mila piante e oltre 80 chili di marijuana già essiccata e pronta all’immissione sul mercato per un valore di circa 30 milioni di euro.

In lontananza si scorge San Luca. Conosciuto come “la mamma della ‘ndrangheta” questo borgo di poco più di 3.600 abitanti è diventato un simbolo nella storia della criminalità organizzata calabrese. Da qui arrivano alcune tra le famiglie più importanti attive nel narcotraffico mondiale

Un toro sbarra il sentiero verso la fiumara Santa Venere
San Luca, 26 settembre

La Squadra di San Luca dei Cacciatori di Calabria pattuglia le campagne dell’Aspromonte
Aspromonte, 26 settembre

È un venerdì pomeriggio di fine settembre. L’afa è terribile. Si appiccica sulla pelle, sulle mimetiche, sotto ai baschi rossi. Ci sono oltre trenta gradi, con un tasso di umidità altissimo. Gli uomini dello squadrone eliportato Cacciatori di Calabria, basco rosso in testa, zaini e machete alla mano si avviano verso la fiumara che li separa dal bosco dove sono diretti. Istituito nel 1991 e replicato in Sardegna durante la stagione dei sequestri, compongono un corpo specializzato nel pattugliamento di zone impervie, in appostamenti e incursioni improvvise: cercano latitanti, covi e nascondigli di soldi e armi, perlustrano la montagna alla ricerca di tracce lasciate dalla ‘ndrangheta e, tra queste, ci sono anche le piantagioni di marijuana. Qui, dove gli alberi sono arroccati su pezzi di roccia che ricordano le dita di un gigante, e le fronde non lasciano intravedere il suolo, le piantagioni si scovano a naso.
L’elicottero a volte è un buon mezzo per trovarle ma, nella maggior parte dei casi qui in Aspromonte i Cacciatori le trovano quando, durante le perlustrazioni, sentono l’inconfondibile odore di marijuana. O quando, prima della fioritura, notano terrazzamenti e piazzole in mezzo al bosco o tubi dell’irrigazione fatti correre lungo i versanti della montagna.

Un toro si frappone tra i militari e la meta che devono raggiungere. Uno dei cacciatori rassicura: «Si sposterà». Dopo un richiamo e un gesto deciso l’animale si fa da parte tenendo costantemente sott’occhio la situazione. Stiamo camminando lungo la fiumara Santa Venere di San Luca, a pochi chilometri dal centro abitato. Alcuni mesi fa i Cacciatori hanno scovato i terrazzamenti creati tagliando alberi e arbusti lungo una parete di bosco in pendenza. A quel punto, con la stazione dei carabinieri di San Luca, hanno posizionato le fototrappaole. Servono per identificare e incriminare i responsabili, i coltivatori, ma a volte non si fa vivo nessuno per mesi ed è a quel punto che la magistratura firma un ordine di sequestro e distruzione sul posto. Un atto necessario per evitare che la marijuana venga immessa sul mercato, fruttando migliaia di euro alla criminalità organizzata calabrese.

I Cacciatori di Calabria camminano lungo la fiumara Santa Venere per raggiungere la piantagione da sequestrare
San Luca, 26 settembre

Il machete serve ai militari per farsi strada tra la vegetazione impervia e per eradicare le piante di marijuana
San Luca, 26 settembre

È tra queste montagne – in tutta la zona più impervia della Locride – che viene coltivata la maggior parte della marijuana in Calabria. Sul versante tirrenico dell’Aspromonte e nella piana di Gioia Tauro le piantagioni di certo non mancano (i numeri dicono tra le 4mila e le 10mila piante), ma essendo più facilmente individuabili la quantità è decisamente inferiore rispetto a quella coltivata qui.

«I numeri ci dicono che l’azione di individuazione e sequestro di piantagioni che, come Cacciatori, facciamo da oltre un decennio ha dato i suoi frutti», spiega il giovane tenente Ivan D’Errico, comandante dello Squadrone Eliportato Cacciatori Calabria. Barba, occhi verde militare, marcato accento toscano. Siede in una stanza d’ufficio che ricorda la “stanza dei bottoni” delle strategie militari. Spoglia, ha solo un grande tavolo di legno e a fianco una cartina topografica, alta fino al soffitto, della Calabria.

Siamo nel quartier generale dello Squadrone, una città-caserma a Vibo Valentia. Ogni giorno da qui escono i fuoristrada verde militare, sputando fumo dal boccaglio che spunta dal cofano. Serve per non fare affogare il motore se i mezzi dovessero attraversare un fiume o fango.

«Parliamo della zona aspromontana, che è quella di nostra competenza. Qui prima le piantagioni erano più estese, con più piante. E si coltivava in zone meno impervie. Adesso, dopo questi anni di repressione, hanno iniziato a coltivare in appezzamenti più piccoli, e decisamente più nascosti», spiega D’Errico.

Nel 2020, i Cacciatori hanno sequestrato 28 mila piante all’interno di una ventina di piantagioni. Negli anni passati invece si sono trovate più piante in un minor numero di piantagioni, segno che si frammenta di più, così che i sequestri non possano mettere del tutto a rischio questa attività di coltivazione clandestina.

I Cacciatori entrano nella piantagione di marijuana dopo aver abbassato la rete e il filo spinato
San Luca, 26 settembre

Dentro la piantagione:
tre terrazzamenti e due piazzole ospitano 170 piante di marijuana
San Luca, 26 settembre

Ciò che rimane dopo l’eradicamento delle piante di marijuana tra i terrazzamenti della piantagione posizionata su un fronte di bosco a lato della fiumara Santa Venere
San Luca, 26 settembre

«Il territorio è impervio quindi da un lato fornisce riparo rispetto alla possibilità che venga trovata la piantagione dall’altro però deve comunque offrire le condizioni affinché la piantagione possa crescere. Chi coltiva opera delle vere e proprie modifiche del terreno, dei terrazzamenti e anche degli impianti di irrigazione attraverso dei tubi di plastica connessi a delle cisterne», spiega il capitano Luigi Garrì. La giovane età nascosta dall’alta uniforme, ha un compito per pochi: comandare la compagnia dei carabinieri di Bianco, che coordina dieci stazioni nel tratto più critico della Locride.

«Una volta individuata la piantagione cerchiamo di risalire a chi può essere il coltivatore. In molti casi si tratta di persone che avevano già coltivato stupefacenti, a volte hanno legami di parentela con ‘ndranghetisti. Sicuramente è un fenomeno in espansione che anche quest’anno ha conservato il suo trend», specifica Garrì.

Capitano Luigi Garrì

Comandante carabinieri Bianco

Chi coltiva la marijuana da queste parti, oltre ad avere un vero pollice verde e grande conoscenza del terreno e del territorio, nella maggior parte dei casi è un manovale. Si tratta di persone che hanno avuto poche alternative, cresciute tra queste montagne, e a cui la ‘ndrangheta ha promesso un guadagno (nemmeno così lauto) per coltivare marijuana. In molti casi, quando i coltivatori vengono arrestati, mantengono totale omertà rispetto a chi li ha ingaggiati e così sono gli unici a pagare con la detenzione.

La ‘ndrangheta nel frattempo fattura. Milioni di euro. In Aspromonte la coltivazione di piantagioni di canapa sativa è sempre più massiccia. Non è il vezzo di qualche contadino o qualche estimatore come poteva accadere per la varietà autoctona conosciuta da queste parti come “erba rossa calabrese” (per via dei “peli” rossi dell’infiorescenza). La coltivazione di marijuana qui è oggi una strutturata impresa di narcotraffico il cui scopo finale è il profitto da reinvestire nel sostentamente e nelle attività dell’organizzazione mafiosa. Lo sanno bene clan storici come gli Strangio e i Vottari di San Luca, oppure i Pesce, Bellocco e Piromalli per il versante della Piana.

La distruzione della marijuana in loco. Quando i carabinieri non riescono a identificare i responsabili della piantagione, l’autorità giudiziaria autorizza la distruzione dello stupefacente sul posto. Nel caso in cui invece i responsabili vengano identificati, le piante vengono eradicate e portate a spalla fino alla caserma, dove vengono messe sotto sequestro e poi portate ad incenerire
San Luca, 26 settembre

Il fuoristrada dei Cacciatori pattuglia le campagne sopra San Luca. A destra la fiumara arriva fino al mar Jonio
San Luca, 27 settembre

L’ingresso di una piantagione di marijuana nelle campagne di San Luca
San Luca, 27 settembre

La discesa per raggiungere una piantagione di marijuana rinvenuta dai cacciatori
San Luca, 27 settembre

«La coltivazione di marijuana in Aspromonte è una delle prime fonti di reddito per la criminalità organizzata. Ogni pianta ha un valore medio di mille euro e quindi ogni piantagione che viene trovata infligge un duro colpo alla capacità di autofinanziarsi della ‘ndrangheta», spiega Garrì. «In questi anni – conclude il comandante dei carabinieri di Bianco – siamo riusciti a documentare la remissione dello stupefacente nei mercati dello spaccio delle piazze di spaccio delle grandi città italiane. Una di queste è stata Roma ma anche Milano».

Ricordando un po’ la vicina Albania, la Calabria è sfruttata come terra di coltivazione – anche grazie alle particolari condizioni climatiche – da quella stessa mafia che è diventata la principale importatrice di cocaina dalla Colombia, nonché la più grande distributrice mondiale della stessa nel mondo.

Anche grazie ai contatti con i paesi del nord Europa, acquisiti con il traffico di cocaina, e in special modo con l’Olanda, che la ‘ndrangheta può ottenere semi per coltivare massicciamente la marijuana in Aspromonte. Anche se ormai, spiegano gli investigatori, molti coltivatori si sono organizzati mettendo da parte i semi dell’anno precedente. Così da non doverli ordinare online e rischiando così di essere rintracciati.

Grandi capacità agricole, quindi, che se incanalate al di fuori del contesto criminale potrebbero diventare una vera risorsa per queste terre. Vi sono infatti sempre più imprenditori agricoli che in Calabria stanno prendendo in considerazione la coltivazione legale della cannabis come fibra tessile, per la fabbricazione di carta e materiali edili o come biocarburante. Proprio a luglio 2020, l’assessore regionale all’agricoltura Gianluca Gallo aveva incontrato una delegazione di produttori calabresi di canapa, poco più 200 aziende, per valutare le possibilità dello sviluppo di questa coltivazione e di una filiera virtuosa. Una filiera legale che per il momento resta ai margini ma che potrebbe offrire una valida alternativa al business delle mafie.

«La coltivazione di marijuana in Aspromonte è una delle prime fonti di reddito per la criminalità organizzata. Ogni pianta ha un valore medio di mille euro»

Capitano Luigi Garrì

Comandante compagnia carabinieri di Bianco

pietra-cappa-san-luca

L’arcobaleno taglia il cielo e la strada sopra San Luca, arrivando a toccare Pietra Cappa. É ai piedi di questo masso, il monolite più alto d’Europa, che fu nascosto il corpo del fotografo Adolfo Lollò Cartisano rapito nel 1993 e fatto ritrovare solo dieci anni dopo
San Luca, 27 settembre

pietra-cappa-san-luca-arcobaleno

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Cecilia Anesi

Foto e video

Luca Quagliato

Editing & Layout

Luca Rinaldi

La faida di ‘ndrangheta che ha insanguinato il Piemonte

#ArchiviCriminali

La faida di ‘ndrangheta che ha insanguinato il Piemonte
Lorenzo Bodrero

Torino, 3 maggio 1996. Sul tavolo di un obitorio giace il corpo di un uomo completamente carbonizzato. Quel cadavere, trovato il giorno prima in provincia di Torino nei boschi di Chianocco, in Valsusa, ancora non ha un nome. Ci penserà il medico legale a risolvere il mistero: al dito è infatti ancora presente la fede nuziale, sul lato interno sono incisi un nome e una data: “Maria. 09-06-1990”. Lei è Maria Stefanelli, da sei anni moglie di Francesco Marando, noto a tutti come “Ciccio”. Marando-Stefanelli rappresenta, per le cronache di oggi, una faida di ‘ndrangheta, una guerra intestina tra due famiglie che in trent’anni fatti di omicidi, cadaveri mai trovati, suicidi, sentenze annullate e processi rifatti, non ha sancito alcun vincitore ma ha decretato, invece, il crollo di un impero del crimine.

Lo scorso 12 giugno, il processo-bis a carico di cinque presunti personaggi coinvolti nella faida si è concluso con l’assoluzione per tutti gli imputati, lasciando aperti ancora molti interrogativi su un lungo spaccato della storia della ‘ndrangheta in Piemonte. È questa una storia incompleta, se non dal punto di vista processuale certamente da quello fattuale, scritta col sangue degli affiliati alle cosche di entrambe le famiglie e costruita sul traffico di fiumi di eroina prima e di cocaina poi.

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Ma prima che il sangue cominciasse a scorrere, Marando-Stefanelli era sinonimo di una florida impresa criminale avviata con le solide basi economiche garantite dai sequestri di persona degli anni ’70 e ’80. Quei miliardi di lire, frutto dei riscatti e tutti rigorosamente in contanti, hanno permesso a entrambe le famiglie di trasferirsi al nord e qui imporsi nel traffico di stupefacenti: i Marando, insediati a Volpiano, paese a 12 chilometri da Torino, rifornivano l’area nord del capoluogo piemontese e il basso Piemonte, con interessi anche a Milano, in Veneto e in Trentino Alto Adige. Gli Stefanelli, trovato riparo a Varazze, in Liguria, smerciavano la droga nella provincia di Savona.

Ciccio Marando

nel suo “mestiere” ci sapeva fare. Appena ventenne si era già guadagnato il rispetto dei suoi famigliari e dei boss che da Platì, paese di origine dei Marando, gestivano buona parte dei suoi traffici al nord. Nei primi anni ’80 tratta soprattutto eroina, un mercato che allora era ancora saldamente nelle mani di cosa nostra siciliana. Ma Ciccio è abile e, nella rotta che dal Pakistan arriva in Italia attraverso la Turchia, sa rifornirsi dalle persone giuste senza pestare i piedi a troppi. È proprio facendo affari tra il Piemonte e la Liguria, zona controllata dagli Stefanelli, che conoscerà la sua futura sposa, Maria. Una consegna però finisce male e nel 1984 cade nella trappola degli inquirenti quando viene pizzicato con quattro chili di brown sugar. È il primo arresto “importante” per Ciccio, che a 24 anni deve farsi la galera, un passaggio comunque obbligato per qualsiasi ‘ndranghetista di rispetto. Ma Ciccio, come vedremo, in famiglia non è l’unico enfant prodige del crimine.

La Stampa del 17 giugno 1984 riporta l’arresto di Francesco Marando
Gli Stefanelli ormai sono di base a Varazze. Antonino e Antonio, rispettivamente zio e nipote, in Riviera gestiscono lo spaccio di droga, il racket della prostituzione e le scommesse clandestine. Anche loro, come i Marando, devono la scalata nel mercato della droga alle basi gettate con sequestri più o meno eccellenti. Maria, futura moglie di Ciccio, è ancora a Oppido Mamertina, loro paese di origine, dove con la madre e le sorelle manda avanti un forno gestito dal padre.

Un incendio, però, manda letteralmente in fumo l’attività e la famiglia è costretta a trasferirsi e raggiungere i parenti in Liguria. Quando il padre di Maria muore per cause naturali è lo zio Antonino a prendere in mano le redini degli Stefanelli, sposando proprio la ormai vedova di suo fratello. Antonino è un mafioso scafato. Prudente, pieno di risorse, profondo conoscitore dei traffici illeciti, mai spietato (se non nei confronti delle sue nipoti e della sua nuova moglie) e soprattutto cosciente dei fragili equilibri criminali. Sa, per esempio, che i Marando dispongono di un pedigree criminale ben più alto del loro ed è attento a non invadere il terreno altrui.

Gli albori della 'ndrangheta in Piemonte

La ‘ndrangheta in Piemonte deve le sue origini all’arrivo nel 1962 di Rocco Lo Presti nella città montana di Bardonecchia, allora come oggi tra le località sciistiche più famose della regione subalpina. Legato ai potenti clan dei Mazzaferro e degli Ursino di Marina di Gioiosa Jonica (Reggio Calabria), Lo Presti in breve tempo sfrutta a suo favore il massiccio flusso migratorio che dalla Calabria porta in Piemonte decine di migliaia di persone di origine calabrese, avviando e controllando il mercato del lavoro dei settori dell’edilizia e del movimento terra. Il primo omicidio mafioso in Piemonte si registra proprio a “Bardonecchia nel 1969, quando viene ucciso Vincenzo Timpano ad opera di Giuseppe Oppedisano, cognato di Rocco Lo Presti”, scrive Rocco Sciarrone in Mafie vecchie, mafie nuove (Donzelli, 2009). L’influenza e il potere esercitato da Lo Presti sarà tale che nel 1995 Bardonecchia diventerà il primo comune del nord Italia sciolto per mafia.

I sequestri di persona sono stati funzionali all’insediamento delle cosche aspromontane. Il mensile Narcomafie ne ha registrati 37 in Piemonte tra il 1973 e il 1984. Secondo recenti indagini il traffico di droga passa gradualmente e poi definitivamente nelle mani della ‘ndrangheta a partire dai primi anni ‘80. Eroina in primis, ma sarà il controllo del traffico di cocaina a sancire quella calabrese come la mafia predominante in Piemonte. Con l’indagine “Minotauro”, che ha visto 191 persone indagate nel 2011, sono state individuate almeno undici locali di ‘ndrangheta nella sola provincia di Torino.

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Ma Ciccio è stato ammazzato. Il giorno in cui al cadavere viene dato un nome, la sentenza di colpevolezza è già emessa. Non dall’autorità giudiziaria bensì dal tribunale della ‘ndrangheta. Non serve un processo, la famiglia Marando conosce già i colpevoli e medita vendetta. È questo il momento a cui le cronache giudiziarie fanno risalire l’inizio della faida tra i Marando e gli Stefanelli. In realtà l’uccisione di Ciccio non rappresenta l’incipit, bensì l’apice della faida, destinata a durare per molti anni.

Intanto, nella prima metà degli anni ’80 uno dei fratelli Marando dimostrava ambizioni criminali pari se non superiori a quelle di Ciccio. Pasquale Marando, noto a tutti come

Pasqualino,

neanche venticinquenne ha già due indagini per omicidio sulle spalle quando nella colonia ‘ndranghetista ai piedi delle Alpi capisce che c’è da riempire un vuoto. Pasqualino non si accontenta delle piccole dosi, intende risalire la catena distributiva e mettere le mani su carichi di droga più cospicui e venderli all’ingrosso. Per farlo, si mette in affari con Bruno Minasi, esperto broker della droga che già era in affari con gli Stefanelli, ai quali cedeva l’eroina da smerciare in Liguria. Su Minasi, le carte della procura di Torino, che anni dopo indagherà sulla faida, riportano scarne informazioni. Le uniche disponibili provengono da un collaboratore di giustizia, messe nero su bianco dai magistrati torinesi: Pasqualino compra da Minasi “20-30 kg di eroina per volta e paga in contanti con i soldi provenienti dai sequestri di persona”. Gli inquirenti annotano però una crescente tensione tra i due. Secondo il pentito, infatti, dopo i primi successi “i rapporti tra Bruno Minasi e Pasquale Marando erano diventati tesi”.

Pasqualino non è tipo da accontentarsi. Vuole conoscere di persona il fornitore di Minasi e le sue pressioni si fanno sempre più insistenti. L’oggetto del contendere questa volta è un carico di 400 chili di eroina purissima. La pressione è tale che Minasi si sente minacciato e chiede consiglio ad Antonino Stefanelli. Il capo cosca, dall’alto della sua esperienza, raccomanda prudenza: Pasqualino è un uomo pericoloso, dice, potrebbe impadronirsi dell’intero carico e uccidere il rivale in affari, come già fatto in passato.

Di Minasi, da allora, non si avranno più notizie. La suascomparsa verrà denunciata poche settimane dopo quel consiglio raccolto da Stefanelli ma il suo corpo non verrà mai trovato. Bruno Minasi non era solo un importante trafficante. Era anche il fratello della moglie di Antonio Stefanelli che insieme allo zio Antonino gestiva la locale di ‘ndrangheta (cellula criminale strutturata) di Savona. La sparizione di Minasi è ancora oggi un mistero giudiziario ma sia gli Stefanelli sia i Minasi hanno più di un motivo per sospettare di Pasquale Marando. Una prima crepa prende forma tra le due famiglie e si fa più profonda quando nel 1992 due collaboratori di giustizia fanno il nome di Pasqualino agli inquirenti per l’omicidio dello stesso Minasi.

La faida,

di fatto, è già cominciata. Due anni prima, Ciccio Marando e Maria Stefanelli erano convolati a nozze. Sono questi gli anni in cui la carriera criminale di Pasqualino spicca il volo. La sua intraprendenza lo ha portato di persona dall’altro lato dell’Atlantico. Il suo sogno di controllare la filiera si è realizzato: è lui stesso ora a trattare con i narcos colombiani, a pagare in contanti tonnellate di cocaina pura e a farle arrivare in Europa. Con la cocaina dal Sud America, l’eroina dalla Turchia e l’hashish dal Libano, Pasqualino è il nuovo giovanissimo broker dei broker, una vera e propria gallina dalle uova d’oro per la famiglia Marando e i suoi numerosi affiliati. Antonino Stefanelli, a capo dell’omonima cosca di Savona, deve lui stesso tenere a bada le mire espansionistiche di Pasqualino quando, quest’ultimo, intende allargare il proprio bacino di spaccio alla Riviera di ponente. Stefanelli comunica il suo “no”, quello è territorio suo. Pasqualino incassa ma l’offesa rimane. È il secondo segnale di frizione tra le due famiglie.

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Ha un nome il cadavere ritrovato a Chianocco

Quando il corpo di suo fratello Ciccio viene trovato nei boschi di Chianocco, Pasqualino è in prigione per traffico di stupefacenti. L’isolamento di una cella del carcere di Saluzzo, però, non gli impedisce di conoscere l’identità dei sicari di suo fratello Ciccio. Il boss sa o quantomeno nutre forti sospetti nei confronti di Antonio Stefanelli. Per mesi e mesi Pasqualino Marando impartisce al fratello Domenico una precisa istruzione: incontrare Antonio e Antonino Stefanelli di persona e “chiarire la questione”. Per altrettanti mesi Domenico fa pressioni su Antonino perché convinca suo nipote a partecipare all’incontro. Il giovane Stefanelli però non si fa trovare. A fare opera di mediazione viene chiamato anche Giuseppe Leuzzi, imprenditore edile trapiantato a Torino, fedelissimo della cosca Marando e in buoni rapporti anche con gli Stefanelli. Ma il risultato è sempre lo stesso, Antonio nicchia. Alla lunga però l’opera di convincimento porta i frutti sperati e i due Stefanelli accettano. A una condizione, però. Di incontrarsi in un luogo pubblico. La scelta cade sul centro commerciale Le Gru, nella prima cintura di Torino. I dettagli di quell’incontro sono stati a lungo un mistero, fino a quando uno dei fratelli Stefanelli decide di collaborare con la giustizia. Il suo racconto è ricco di particolari.

Ad un tavolino circondato da centinaia di ignare persone, siedono da un lato Domenico Marando e il cugino Rocco Trimboli; dall’altro, Antonio e Antonino insieme a Francesco Mancuso. Su una scalinata, Roberto Romeo, un compare degli Stefanelli che tiene d’occhio la scena armato di pistola nella cinta, pronto al peggio. L’aria è tesa, la domanda la pone Domenico: che ne è stato di mio fratello quel giorno? Sa che Ciccio in quel periodo faceva affari con Antonio e che i due si sarebbero dovuti incontrare il giorno in cui è sparito. Uno sguardo titubante, un tremolio della voce, o semplicemente incongruenze nella ricostruzione degli Stefanelli, sta di fatto che i Marando non sono affatto convinti. L’incontro dura pochi minuti. Si congedano con l’intesa di incontrarsi nuovamente dopo aver riferito dell’incontro a Pasqualino. Le “prove” sono state raccolte, gli “imputati” ascoltati. Dalla sua cella, il boss, emetterà la “sentenza”.

Antonio e Antonino Stefanelli

Colpevoli.

Poche settimane più tardi, Antonio e Antonino Stefanelli e Francesco Mancuso vengono di nuovo convinti a partecipare a un “incontro risolutivo” con i Marando. I più riluttanti sono Mancuso e il giovane Stefanelli. Lo zio però li tranquillizza. A fare da garante, dice, c’è Giuseppe Leuzzi. Questa volta l’incontro è a porte chiuse, in una delle ville di Volpiano a disposizione dei Marando. I tre ci arrivano accompagnati da Leuzzi. Roberto Romeo, ancora una volta, è di scorta. Osserva da lontano mentre segue in macchina il gruppo e si apposta a poche decine di metri dalla villa. Da questa posizione vede i quattro entrare nella tana del lupo. Gli sembra, come poi racconterà a due conoscenti interrogati dai pm, di notare un movimento inconsulto da parte di Antonio proprio nel momento in cui varca la soglia. Un ripensamento dell’ultimo momento?

Le tapparelle vengono abbassate. Le telefonate di Romeo verso i suoi compari sono vane. Mezz’ora più tardi, due auto escono in fretta e furia dalla villa di Volpiano. Romeo ne segue una ma la tensione prevale sulla prudenza e viene scoperto. L’autista dell’altra auto apre il fuoco ma Romeo riesce a uscirne incolume e a dileguarsi. Probabilmente però il danno è ormai fatto. Lo hanno riconosciuto? E soprattutto, che fine hanno fatti gli Stefanelli e il Mancuso? I mesi successivi per Romeo sono schizofrenici. Alterna lunghe sparizioni a imprudenti confessioni ad amici e parenti. In una di queste, raccolte dai magistrati, dice di aver ammazzato lui Ciccio Marando. In realtà, precisa, il primo a sparargli era stato Antonio Stefanelli. Un colpo solo, alla testa. Lui l’aveva poi finito con due colpi al torace. I Marando dunque avevano ragione a sospettare dei cognati di Ciccio. Lo avevano attirato a casa di Romeo per dirimere una questione di una partita di droga andata male. Le ammissioni di Romeo al suo confidente sono ricche di dettagli: i tre erano appena giunti nei boschi di Chianocco quando dovevano decidere in che modo occultare il cadavere di Ciccio. Lui e Mancuso preferivano seppellirlo ma Antonio si era opposto. Il cadavere, dice, deve essere ritrovato, altrimenti

Maria non lascerà mai la Calabria.

Lo impongono la ‘ndrangheta e le sue leggi non scritte che formano ciò che è impropriamente chiamato “codice d’onore”.  Regole inviolabili, tramandate di generazione in generazione e inculcate fin dai primissimi anni di età. Una di queste prevede che se il marito scompare e il corpo non viene mai ritrovato, la moglie non può considerarsi vedova. Dovrà invece attendere il ritorno del marito in paziente devozione. Vietato intraprendere altre relazioni, proibito risposarsi.

Francesco “Ciccio” Marando

Senza cadavere non c’è vedova. Antonio lo sa e non è il futuro che vuole per sua sorella. Per questo motivo insiste perché il corpo di Ciccio venga bruciato. Maria Stefanelli ha visto e contribuito a stravolgere più di una volta il corso della propria vita, raccontata senza censure in Loro mi cercano ancora, libro scritto a quattro mani con la giornalista Manuela Mareso. Nei giorni e nelle settimane successive all’omicidio di Ciccio, anche lei, come i Marando, vuole sapere chi è stato. Ma a differenza dei suoi cognati, non sospetta nessuno, non ha idea.

Sono mesi convulsi per Maria. Ma il peggio deve ancora arrivare e si presenta undici mesi dopo quando sua madre le comunica che suo fratello e suo zio sono irreperibili. La faida di Volpiano si è appena compiuta. Con la famiglia si reca a Torino alla ricerca di indizi, di informazioni. 

Nel capoluogo torinese conosce la madre di Roberto Romeo. La donna le confida che il figlio “si è nascosto perché aveva assistito all’omicidio” di Antonio, Antonino e di Mancuso. È la prima volta che alla sparizione degli Stefanelli viene associata la parola “omicidio”. Il ritorno in auto a Varazze con la madre e la sorella è un lungo straziante silenzio per Maria, rotto solo da una cantilena: «Li hanno ammazzati tutti», ripete continuamente sua madre.

Maria però non si dà pace e appena due settimane dopo il triplice omicidio riesce a incontrare Roberto Romeo, unico testimone della mattanza. Sarà lei stessa, anni più tardi, a raccontare tutto ai magistrati di Torino. Il luogo è di nuovo Le Gru. Qui Romeo vuota il sacco. Racconta a Maria per filo e per segno cosa è successo quel primo giugno: l’incontro degli Stefanelli e Mancuso con il garante Giuseppe Leuzzi, l’arrivo alla villa di Volpiano dei Marando, la fuga precipitosa. Al cospetto di Maria Romeo è teso, sa di essere l’unico testimone oculare. Riuscirà a scampare al tribunale della ‘ndrangheta per sette mesi ma anche lui cadrà vittima della vendetta dei Marando. Sarà trovato esanime presso lo stabilimento Fiat di Rivalta il 30 gennaio del 1998.

Per approfondire

Se potessi tornare

Nella Locride si combatte una lotta lenta e silenziosa. La portano avanti quelle donne che, dapprima funzionali ai clan, oggi decidono di ribellarsi alla ‘ndrangheta e ne rappresentano la minaccia più forte

La faida a questo punto è completa, la rottura totale. I corpi degli Stefanelli e di Mancuso non saranno mai trovati, la stessa sorte patita da Bruno Minasi sei anni prima. Maria Stefanelli decide di raccontare tutto quello che sa ai magistrati torinesi pochi giorni dopo l’omicidio Romeo. Avvia così una lunga collaborazione con le autorità che decreterà per sempre il definitivo distacco dalla sua famiglia. Rinnegata dalla madre, abbandonata dai fratelli e sorelle scampate alla faida, le sue dichiarazioni faranno luce sull’omicidio del marito e su quelli di suo zio e di suo fratello. L’ultimo strazio per lei si consuma agli inizi del 2000 quando il fratello Rocco, da due anni collaboratore di giustizia, viene trovato morto nel carcere di Alessandria con un sacchetto di plastica intorno alla testa. Accanto alla branda, un biglietto in cui riporta tutta l’angoscia dell’abbandono da parte dei suoi familiari: “Solo mi avete lasciato tutti e solo me ne vado… Chiedo scusa solo a te. Un bacio alla tua bambina. Ho ucciso mio cognato. Chi sono per averlo fatto!”, riporta La Stampa. La confessione per l’omicidio di Ciccio Marando suona nuova anche agli inquirenti.

Per gli omicidi Stefanelli e Mancuso saranno condannati Domenico Marando e Giuseppe Leuzzi rispettivamente a trenta e vent’anni di carcere. Rosario Marando e Natale Trimboli (insieme ad Antonio Spagnolo, Gaetano Napoli e Giuseppe Santo Aligi), il 12 giugno 2020 vengono assolti dall’accusa di omicidio dopo oltre dieci anni di processo. Nel frattempo la famiglia Marando ha subito un altro grave colpo che ne ha decretato, forse, il definitivo crollo. Dal 2001 Pasqualino, l’ex enfant prodige della ‘ndrangheta nonché mandante degli omicidi Stefanelli, è scomparso. Forse latitante all’estero, più probabilmente eliminato nell’ambito di un’altra faida scoppiata con la potente cosca Trimboli. Ma, questa, è tutta un’altra storia.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi

Illustrazioni

Piemonte e Covid: cronaca di un delitto nei vent’anni di tagli alla sanità regionale

22 Maggio 2020 | di Lorenzo Bodrero, Matteo Civillini

La malagestione dell’emergenza Covid non è solo un affare lombardo. Esiste anche un “caso Piemonte”, meno clamoroso, ma altrettanto significativo. Per numero di contagi la regione è seconda in Italia ma ha registrato il tasso più alto di persone positive al coronavirus rispetto alla popolazione: a fine aprile erano 356 ogni centomila abitanti, contro i 343 della Lombardia, al primo posto per numero assoluto di contagi. Quest’indice, in Piemonte, è circa il doppio che nel resto del Paese. La diagnosi è univoca: la regione guidata da Alberto Cirio è la più malata d’Italia.

Il poco invidiabile primato è figlio, da un lato, di scelte molto simili a quelle che hanno travolto la sanità lombarda e, dall’altro, delle forti restrizioni economiche patite negli ultimi vent’anni e che hanno coinvolto tutto lo Stivale. In mezzo, l’incapacità di alcune amministrazioni regionali di prendere le distanze da quella mafia calabrese che in Piemonte – come nelle principali regioni settentrionali – ha portato voti e influenze.

Qui i tagli al sistema sanitario hanno aggravato più che altrove la gestione dell’emergenza. Lo preannunciava, seppur indirettamente, l’assessore alla Sanità Luigi Icardi lo scorso 4 febbraio, pochi giorni prima dell’inizio della tempesta, mentre commentava i debiti del comparto sanità: «La situazione è drammatica, non c’è più nulla di risorse straordinarie una tantum da usare a copertura delle perdite. Abbiamo raschiato il fondo del barile».

Con l’inizio della Fase 2 vale la pena ripercorrere le ragioni storiche di questa situazione. Per farlo, bisogna riavvolgere il nastro fino ai primi anni Duemila.

La Sanità in Italia e in Piemonte: breve cronistoria

La legge 833 del 1978 istituiva il Sistema sanitario nazionale, basato su una visione solidaristica, universale e gratuita della copertura sanitaria. Viene cioè realizzato un diritto fondamentale, quello sancito dall’articolo 32 della Costituzione. Il diritto alla salute non è più un privilegio per pochi dunque, bensì un diritto per tutti.

Durante gli anni ‘90 prendono vita le Aziende sanitarie locali, le Regioni rafforzano il proprio potere in tema sanità e viene introdotto il concetto di “aziendalizzazione” in cui, assicurati dalle Regioni, i livelli essenziali di assistenza vengono erogati a tutti i cittadini proprio attraverso le Asl. Da un lato, le Regioni diventano, di fatto, economicamente e politicamente responsabili dei rispettivi sistemi sanitari; dall’altro, le Asl mutano in vere e proprie aziende pubbliche dotate di indipendenza imprenditoriale, soggette a criteri di efficienza e sostenibilità.

Nel 2001 si mette mano alla Costituzione modificandone il titolo V e ridisegnando le competenze tra Stato, Regioni e Province e la Sanità è il banco di prova cui si sperimenta una sorta di “federalismo”. È un cambiamento radicale. Da allora, quelli che contano davvero sono i sistemi sanitari regionali in cui la Salute diventa materia concorrente tra Stato e Regioni: il primo, stabilisce i Livelli essenziali di assistenza (Lea); le seconde, acquisiscono competenza esclusiva nella regolamentazione e nell’organizzazione dei servizi sanitari e nel finanziamento delle aziende sanitarie.

Nel 2010, al Piemonte viene imposto il Piano di rientro: troppe le spese sostenute e i debiti accumulati fino ad allora. L’accordo stabiliva di «riqualificare, riorganizzare e individuare gli interventi per il perseguimento dell’equilibrio economico». In altre parole, bisognava tagliare ovunque fosse possibile. E così è stato.

Delle Regioni più colpite dall’emergenza Covid, il Piemonte è l’unica passata dal Piano di rientro.

Parola d’ordine: rigore

I tagli alla sanità regionale piemontese iniziano con la giunta di Enzo Ghigo, presidente di Forza Italia che tra il 2000 e il 2005 ha guidato la Regione per il secondo mandato consecutivo. Nel 2000 il governo impose a tutti gli enti locali maggiore rigore su spese e deficit, introducendo il sistema dei finanziamenti regionali che vige ancora oggi: «Fu una svolta – commenta Gabriella Viberti dell’Istituto di Ricerche Economiche e Sociali per il Piemonte (Ires) – oggi i fondi destinati alle Regioni sono stabiliti da parametri valutati ogni anno, mentre allora l’erogazione si stabiliva in base alla spesa del periodo precedente».

In Piemonte il nuovo modello ha dimostrato che i debiti accumulati nei 22 anni precedenti, cioè dall’avvento del Sistema sanitario nazionale nel 1978, da Comuni e Regioni erano ormai insostenibili (vedi box). E così, secondo i dati forniti a IrpiMedia dal centro studi Nebo, i 21mila posti letto pubblici del 1992 sono diventati 13mila nel 2018, mentre i 3mila privati sono rimasti pressoché invariati, e le Asl sono passate da 22 a 12. La cura dimagrante ha causato anche il blocco dei turnover e delle assunzioni (salvo sporadiche eccezioni), con progressiva riduzione degli organici.

L’evoluzione del numero di posti letto e delle Asl in Piemonte | Fonte: Centro studi Nebo | IrpiMedia

Il diktat nazionale non ha risparmiato neanche la giunta di Mercedes Bresso, governatrice per Democratici di Sinistra dal 2005 al 2010. L’amministrazione di centro-sinistra, per alleggerire il carico sugli ospedali e migliorare l’assistenza sul territorio, si è però cimentata in un esperimento che sembrava promettente. Al progetto ha collaborato Mario Nejrotti, allora segretario dell’ordine dei medici della provincia di Torino: «Mettemmo in piedi un sistema organizzativo ed economico sperimentale per far confluire i medici di medicina primaria, cioè i medici generali e pediatri di libera scelta, in sedi uniche dislocate sul territorio e organizzate insieme a specialisti ambulatoriali, infermieri e collaboratori».

L’obiettivo era potenziare quella “medicina territoriale” la cui mancanza in queste settimane ha determinato un ampio afflusso di contagiati verso gli ospedali e che è stata spesso indicata come causa principale dello scoppio dell’emergenza covid. «Avevamo coinvolto circa 200 tra medici, infermieri e personale amministrativo per un target di circa 150mila pazienti», spiega Nejrotti.

Tagli bipartisan

Con l’avvento della giunta leghista di Roberto Cota (2010-2014) l’esperimento è stato stoppato. La nuova amministrazione ha spostato l’attenzione sui grandi centri ospedalieri. Una strategia del “pochi ma grossi”, si potrebbe riassumere. Il simbolo di questo scelta era l’imponente area di Torino che corre lungo tutto Corso Unità d’Italia: il 1° luglio 2012, su iniziativa portata avanti dalla giunta regionale, l’ospedale infantile Regina Margherita, il ginecologico Sant’Anna, il Centro traumatologico ortopedico e il presidio ospedaliero Le Molinette convergevano in un’unica azienda ospedaliera, nota oggi come la “La città della salute e della scienza”.

L’area di Torino che comprende “La città della salute e della scienza”/IrpiMedia

Nel frattempo però un’altra scure era calata sulla sanità piemontese. Due anni prima, nel 2010, la regione era entrata nel Piano di rientro, un accordo tra Stato e Regione volto al «perseguimento dell’equilibrio economico». La giunta leghista pagava i debiti accumulati dalla giunta Bresso e, prima ancora, dalle due amministrazioni Ghigo. L’accordo segnava l’inizio di una politica sanitaria fatta di blocchi delle assunzioni, chiusura di presidi, ticket salati, liste d’attesa, indebolimento della medicina territoriale, ed eliminazione e accorpamento di quei servizi che non possono giustificare la loro utilità o la loro sostenibilità economica.

Il Piano prevedeva un contenimento dei costi per 162 milioni di euro nel 2013 e, in modo cumulativo, di 248 milioni per il 2014 e 360 per il 2015. A farne maggiormente le spese furono le solite voci: posti letto, personale, presidi territoriali. Di riflesso, anche la spesa sanitaria cresceva meno velocemente: tra il 2010 e il 2018 la spesa pro-capite per la sanità piemontese è salita del 2,5% contro una media nazionale del 6,6% (dati Ires). Tradotto, si è speso di più in termini assoluti ma meno rispetto alle necessità. Il Piemonte era l’unica regione del Nord Italia entrata nel piano di rientro (insieme alla Liguria, che però ci è rimasta un solo anno), una condizione che rientra tra le concause dell’emergenza patita per la diffusione del Covid-19. Sette lunghi anni di tagli che, in teoria, terminano nel 2017 quando la giunta Chiamparino (2014-2019) annuncia la fine del piano di rientro.

La ‘ndrangheta nel palazzo della Regione

La giunta Cota, tra quelle prese qui in considerazione, è l’unica a non aver portato a termine il mandato. A un anno dalla fine naturale dell’amministrazione, nel 2014, il Tar piemontese ha annullato il voto di quattro anni prima, e di conseguenza l’esito delle urne, sulla base delle firme false portate dalla lista Pensionati per Cota durante la corsa elettorale. L’annullamento delle elezioni e le conseguenti dimissioni di Cota chiudevano una stagione di scandali giudiziari al Palazzo della Regione.

Nei mesi in cui la vicenda delle firme false scuoteva il Palazzo di Piazza Castello, sede della giunta regionale, i pm torinesi portavano a giudizio Cota e altri 37 consiglieri regionali nell’ambito della vicenda nota alle cronache come «Rimborsopoli», accusati di peculato e, in particolare, di aver utilizzato in modo illecito fondi per 900mila euro destinati ai gruppi consiliari. Dopo l’assoluzione in primo grado e la condanna in appello, la Cassazione lo scorso novembre ha assolto sia Cota sia l’attuale capogruppo della Lega alla Camera, Riccardo Molinari. Sono invece state confermate le condanne agli ex consiglieri regionali Michele Giovine (Pensionati per Cota) e Massimiliano Motta (Popolo delle Libertà).

A metà giugno del 2011 l’allora assessore alla sanità, Caterina Ferrero è stata arrestata. Venti giorni prima si era dimessa a seguito dell’arresto del suo braccio destro, Pietro Gambarino. Con l’operazione “Dark side”, la guardia di finanza contestava a entrambi i reati di turbativa d’asta, concussione e abuso d’ufficio. Al centro delle carte degli inquirenti figuravano la fornitura di pannoloni per anziani affidata senza gara e a prezzi gonfiati a Federfarma, la realizzazione di residenze per anziani, l’apertura di un centro di cardiologia nella prima cintura di Torino e la gestione di alcuni concorsi. Negli stessi giorni è stato arrestato anche il suocero di Ferrero, Nevio Coral, potente sindaco di Leinì, alle porte di Torino. L’arresto rientrava nell’ambito della maxi-operazione Minotauro, la più imponente indagine contro le infiltrazioni della ‘ndrangheta in Piemonte. L’inchiesta ha portato a galla la presenza di almeno nove “locali” della mafia calabrese in altrettanti Comuni. Coral, condannato poi a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa, era considerato l’uomo dell’accordo tra politica locale, in cerca di elettori e mazzette, e gli esponenti della ‘ndrangheta, in cerca di protezione e appalti.

Nelle motivazioni della sentenza si legge che, in virtù di questo patto, Coral ha condizionato l’esito delle elezioni comunali di Leinì (2009) e Volpiano (2011), di quelle provinciali (2009) per l’elezione del figlio Ivano e delle Regionali (2011) con l’apporto dato, appunto, alla nuora Caterina Ferrero.

Un “delitto” irrisolto e domande senza risposte

Sono questi gli anni in cui si consuma un “delitto” ancora irrisolto: quello del sistema sanitario pubblico piemontese, lasciato morire senza più risorse pubbliche. Ne ha parlato un convegno realizzato a Torino nel novembre 2016 dal titolo “Falso deficit, tagli veri: salute a rischio?”, di cui ha scritto il mensile TorinoMedica. «Per anni – si legge nell’articolo – è stata convinzione comune che il bilancio della Sanità regionale fosse la causa dell’incredibile “buco nero” (disavanzo) di sette miliardi, ma analisi approfondite dimostrano che la Sanità piemontese non è mai stata in deficit dal 2005». Lo aveva certificato nel 2015 un’indagine del Senato. «Una parte dei finanziamenti provenienti da Roma per la Sanità (4,3 miliardi di euro, ndr) sono stati negli anni utilizzati come cassa per spese extra-sanitarie, come ammesso dall’assessore al bilancio», scriveva il mensile.

In altre parole, il fondo sanitario regionale era stato sacrificato e utilizzato come cassa da cui attingere per spese che con la sanità non avevano niente a che fare.

Le giunte regionali del Piemonte dal 2000 a oggi/IrpiMedia

E così anche l’amministrazione di Sergio Chiamparino, pur uscendo dal Piano di rientro nel marzo 2017, si è trovata ben presto a corto di fondi. Lo ha ammesso anche la giunta successiva in una conferenza stampa di pochi mesi fa: «Dal 2017 le Asl hanno ricominciato ad avere forte difficoltà di sostenibilità dei propri costi ricorrendo alle sole fonti ordinarie di finanziamento, cioè il Fondo sanitario regionale e le cosiddette entrate proprie (ad esempio il ticket)». Secondo questa analisi, nel 2019 sono stati spesi 407 milioni di euro in più rispetto al fondo sanitario regionale, 302 milioni nel 2018 e 107 nel 2017. Ad oggi, il Piemonte ha sulle spalle un debito che ammonta a 9,3 miliardi di euro, sanità compresa.

Da qui al «raschiare il fondo del barile», come annunciato dall’assessore Icardi i primi di febbraio, il passo è breve. La ricerca dei responsabili di quel “delitto” irrisolto è un gioco a ritroso in cui ciascuna giunta punta l’indice verso la precedente, fino a che coloro che dovrebbero risponderne diventano figure indistinguibili. Al contrario del debito pubblico piemontese: questo, sì, ben visibile e in costante crescita.

Il sistema sanitario in affanno con l’emergenza Covid

Il Piemonte era prevedibilmente una regione in cui il Covid avrebbe colpito duro. Per età media, infatti, la Regione è seconda solo al Friuli laddove, secondo i dati dell’Istituto superiore di sanità, due terzi dei deceduti italiani ha tra i 70 e i 90 anni. Ma non solo. Il centro Ires stima che la popolazione piemontese sopra i 75 anni è aumentata del 47% rispetto al 2001. Superiore alla media nazionale è anche il dato relativo alle patologie croniche: sono 41 su 100 i piemontesi che ne dichiarano almeno una e, come ormai sappiamo, il coronavirus non risparmia i portatori di malattie gravi: il 96% dei morti presentava infatti almeno una patologia concomitante.

All’aspetto demografico particolarmente vulnerabile si è accompagnata una risposta istituzionale all’emergenza giudicata non all’altezza da più parti. Tanto che da almeno tre settimane l’opposizione chiede le dimissioni dell’assessore alla sanità regionale Luigi Icardi. Che il Piemonte non fosse preparato ad assorbire il contraccolpo è risultato chiaro fin da subito. Al 19 aprile, per esempio, risultavano 96 mila tamponi effettuati, contro i 264mila della Lombardia e i 255 mila del Veneto. Scarsa disponibilità dei test ma anche minima disponibilità di analisi di laboratorio: tra marzo e aprile erano soltanto due i laboratori in grado di gestire l’afflusso di test in entrata.

Come la Lombardia, anche il Piemonte è riparato ben presto verso le Rsa per accogliere i casi positivi e alleggerire così il carico sugli ospedali. E come per la regione confinante, l’incendio è divampato. Sotto accusa, due versioni di una stessa delibera: la prima datata 20 marzo, sostanzialmente identica a quella lombarda, autorizzava il ricovero nelle Rsa (750 strutture per 40 mila ospiti e 15 mila dipendenti) degli anziani contagiati; la seconda pubblicata sul sito ufficiale molti giorni dopo, corregge il tiro precisando che il trasferimento doveva avvenire verso strutture vuote o inutilizzate. Tra la prima e la seconda versione erano però passate tre settimane. Risultato: a fine aprile le Rsa piemontesi contavano circa 5 mila contagiati tra pazienti e personale. Rispetto allo stesso periodo del 2019, si sono registrati 660 decessi in più, di cui 400 risultati positivi al covid.

Sull’indice di mortalità, che rispetto alla popolazione è il più alto tra le regioni italiane, ha certamente influito anche il tardivo rifornimento di dispositivi di protezione individuale, tanto tra il personale medico quanto nelle Rsa. Secondo fonti giudiziarie sarebbero fin qui una settantina i fascicoli di indagine aperti dalla procura di Torino e frutto degli esposti dei parenti delle vittime.
Ma lo scontro più feroce si è consumato, oltre che tra giunta regionale e opposizione, tra gli ordini provinciali dei medici e i vertici regionali. I primi, con una lettera inviata a metà aprile, accusavano l’Unità di crisi regionale di non aver sorvegliato abbastanza le Rsa e di averle invece «trasformate in obitori». Uno scontro che prosegue da almeno due mesi e che ha raggiunto il suo apice con il pasticcio delle mail.

Si è scoperto, infatti, che nelle prime e tragiche settimane della crisi il Servizio di igiene e sanità pubblica (Sisp) è andato in tilt per le troppe mail in arrivo. Il sistema prevedeva che i medici di base inviassero al Sisp le segnalazioni su quei pazienti con sintomi compatibili con il covid. Ma quando le comunicazioni sono diventate nell’ordine delle centinaia al giorno, il sistema è imploso, causando mancati o tardivi ricoveri e, in taluni casi, la morte dei pazienti.

Le cause di questa crisi sono tanto lontane quanto recenti, forse riassunte al meglio nella lettera inviata alla regione dall’Associazione dei medici e dei dirigenti sanitari piemontesi: «Negli ultimi anni tutte le Giunte che si sono susseguite hanno inflitto tagli pesantissimi al Sistema Sanitario Regionale», scrivono i medici.

I tagli al personale e ai presidi ospedalieri hanno coinvolto tanto il Piemonte quanto le altre Regioni ma i medici piemontesi aggiungono che «prima dell’epidemia, i posti letto in rianimazione, erano, rispetto alla popolazione, il 30% in meno rispetto al Veneto. E se le responsabilità vanno distribuite negli anni, a chi sta governando ora ricordiamo che avevano minacciato un nuovo piano di rientro, sottolineando ripetutamente l’importanza della sanità privata. Senza aver riaperto o potenziato nulla della Sanità Pubblica».

Editing: Lorenzo Bagnoli | Foto: uno scorcio di Piazza San Carlo, Torino, durante il lockdown/cr.piemonte.it

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