I segreti di Eliminalia, la “lavanderia” della reputazione online

#StoryKillers

I segreti di Eliminalia, la “lavanderia” della reputazione online

Lorenzo Bagnoli
(con Raffaele Angius, Riccardo Coluccini)

La trama inizia a disvelarsi con l’inoltro di un’email alla mia casella di posta, il 2 febbraio 2021. Proviene dalla redazione di Osservatorio Diritti, testata online con cui spesso ho collaborato. L’oggetto è un’inchiesta che avevo scritto l’anno precedente. La pubblicazione, si legge, risale a «quasi un anno fa, quindi configura un profilo inadeguato». Il pezzo manca «di interesse sociale ad oggigiorno». Al netto dell’italiano un po’ traballante, il concetto è chiaro: la storia è vecchia e inattuale. La permanenza online delle notizie contenute nell’articolo, secondo l’obiezione del mittente, non è di alcun interesse e danneggia invece il protagonista dell’articolo a norma del Regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr). Non è messa in discussione la verità dei fatti, quanto l’opportunità di rappresentarli in quel modo.

La missiva offre tre possibilità: la rimozione per intero dell’articolo, la deindicizzazione (ovvero l’oscuramento dell’articolo agli occhi dei motori di ricerca), oppure la sostituzione delle generalità dell’assistito con le iniziali di nome e cognome.

Le sfumature dell’oblio

Il General data protection regulation (Gdpr) è un regolamento europeo che disciplina il trattamento e la circolazione dei dati personali di cittadini e organizzazioni. In vigore dal 25 maggio 2018 in tutta l’Unione europea, si pone l’obiettivo di porre fine al Far West della gestione dei dati. Il termine comprende non solo informazioni anagrafiche e di contatto ma anche informazioni sanitarie, coordinate geografiche, informazioni storiche sulla nostra vita online, l’orientamento sessuale, le appartenenze politiche o religiose e molto altro.

Per quanto sia ancora difficile metterlo pienamente in atto, il regolamento Gdpr è la più avanzata legge in materia di tutela della privacy esistente. È anche la base su cui si poggia la richiesta di rimozione di articoli dal web. Il cuore è l’articolo 17: semplificando, afferma che quando i dati personali sono usati al di fuori dei confini stabiliti da chi li ha concessi, allora si può chiederne la rimozione. Tra le eccezioni, però, la prima riguarda il caso in cui un dato sia necessario per l’esercizio della libertà di espressione e di informazione. Quale diritto debba prevalere è spesso una decisione da prendere caso per caso. Qui però si apre il conflitto tra interpretazioni diverse di quali siano le implicazioni di deindicizzare o anonimizzare. La tendenza più recente, in Italia e in Europa, è spingere verso un’applicazione più ampia del diritto all’oblio. La riforma della Giustizia che porta il nome dell’ex ministra Marta Cartabia ha ulteriormente allargato l’ambito dell’oblio: dal primo gennaio 2023, chi è stato archiviato o assolto può chiedere la deindicizzazione dei propri dati personali.

La Corte europea dei diritti dell’uomo si è espressa due volte, nel 2021, sul limite tra libertà di espressione e diritto all’oblio. In entrambi i casi – uno riguardante il sito italiano (oggi chiuso) Prima da noi, l’altro riguardante l’archivio online del giornale belga Le Soir – ha stabilito che la deindicizzazione non è in contrasto con la libertà di espressione. In particolare, nella sentenza che riguarda Le Soir, ha affermato che la misura non ha modificato l’articolo in sé, in quanto l’originale cartaceo non era modificabile, «ma solamente la sua accessibilità sul sito del giornale». Il rischio però è stabilire per le notizie una “data di scadenza” e rendere sostanzialmente impraticabile la costruzione di archivi online con articoli di cronaca giudiziaria. Sul tema torneremo nell’ultima puntata della serie #StoryKillers.

Il pezzo della discordia, in realtà, è estremamente attuale, specialmente allora: parla di Piero Amara, ex legale esterno di Eni. La procura di Milano sospetta che abbia ordito, con altri complici, una trama per far deragliare il processo Opl 245. Le parole di Amara in quei giorni stanno spaccando la procura di Milano. Amara è la fonte che nel 2018 ha cominciato a rivelare i contorni di una presunta Loggia Ungheria, un sistema di potere che avrebbe avuto una grande capacità di influenzare la vita politica e giudiziaria del Paese, decidendo nomine e arrivando, in qualche caso, a influenzare l’andamento dei processi. Almeno fino al suo primo arresto nel febbraio 2018, è stato un depistatore reo confesso. Ancora nel 2023, le deposizioni di Amara continuano ad avere conseguenze giudiziarie. Resta ancora indagato o imputato in diversi procedimenti per calunnia, corruzione e frode fiscale.

Ho letto e riletto la mail, insieme a Marco Ratti, il direttore di Osservatorio Diritti. Non avevamo mai ricevuto un’email simile prima. Da un lato ci preoccupava, dall’altro, però, ci sembrava quasi “spam”. La firma in calce suonava posticcia:

Per quale motivo qualcuno di uno sconosciuto dipartimento che sembra legato alla Commissione europea avrebbe dovuto mandare un’email del genere? Perché non era un avvocato a prendersi carico della richiesta? Abbiamo così cominciato a cercare: l’indirizzo porta a un coworking di Bruxelles; Abuse-report.eu è un dominio inesistente; l’unico Raùl Soto di cui si trova traccia online è un deputato cileno che fa l’avvocato. Dopo una consulenza della legale dell’Ordine dei giornalisti di Milano, Marco ha deciso di ignorare la richiesta. Non c’erano scorrettezze, la notizia era ancora attuale.

Presa la decisione, l’email è finita immediatamente nel dimenticatoio sia per me, sia per Marco Ratti. A rileggerla oggi, appare invece come un presagio: messaggi simili sono diventati col tempo pressoché settimanali. Arrivano alle caselle di posta personali dei giornalisti e alle email delle redazioni, compresa la nostra. A volte sembrano “spam”, come quella di Raùl Soto; a volte prima di identificare l’articolo da rimuovere, cercano di instaurare un rapporto con i giornalisti, come se si trattasse di un favore da chiedere a un amico. Ogni email, che sia legittima o pretestuosa, va vagliata, perché contestare gli articoli è un diritto e correggerli in caso di errore è un dovere per chi scrive. Esiste il pericolo che altrimenti restino online dei contenuti effettivamente lesivi.

Trattare con attenzione i dati personali e glissare sugli aspetti del passato che non sono rilevanti per l’opinione pubblica sono due comportamenti prescritti dal Testo unico dei doveri del giornalista. Capita che, dopo la valutazione, qualche richiesta venga ignorata o che il nostro avvocato suggerisca una replica per respingere la richiesta al mittente. In entrambi i casi, segue spesso uno strano silenzio da parte degli scriventi.

L’inerzia, in realtà, è solo apparente: c’è un lavorio sotterraneo sugli url – le sequenze di lettere e numeri che identificano univocamente una pagina web – di cui nemmeno gli autori degli articoli o le testate si accorgono. È teso a “screditare” agli occhi di Google le notizie contestate, quindi farle scendere nella classifica dei risultati forniti dai motori di ricerca. Il lavoro è legale, per quanto a volte discutibile: chi cura l’immagine pubblica di aziende e volti noti può trovarsi a cercare di giustificare scelte ingiustificabili o cercare di cancellare indelebili macchie del passato. A svolgerlo al mondo ci sono circa duemila agenzie di “web reputation”.

Solo che alcune, come quella dell’avatar Raùl Soto, adottano tecniche fraudolente per arrivare al loro obiettivo. Negli ultimi anni, l’azienda per cui “lavora” Soto non solo si è specializzata nel manipolare l’indicizzazione dei siti web, ma ha anche cercato in silenzio di acquisire una fetta del mondo dell’informazione. Ha anche gestito clienti “in subappalto”, senza che questi ultimi ne fossero al corrente. Per scoprirlo, però, c’è voluto un database di 50 mila documenti che Forbidden Stories, l’organizzazione che ha coordinato l’inchiesta #StoryKillers, ha messo a disposizione di oltre cento colleghi grazie al supporto tecnico di Occrp.

Il progetto #StoryKillers

La disinformazione è un mostro a più teste: censura, autocensura, minaccia fisica, minaccia legale. La disinformazione distorce i fenomeni, cambia la percezione dell’opinione pubblica sugli eventi, radica falsi miti nell’immaginario collettivo. Tra le teste dell’idra, c’è anche la deindicizzazione o la rimozione degli articoli, come dimostra un database di 50 mila documenti ottenuto da Forbidden Stories.

L’organizzazione francese ha coordinato più di cento giornalisti di trenta testate internazionali. L’inchiesta si intitola #StoryKillers, un progetto collaborativo che nasce per indagare i mercenari della disinformazione, a partire dall’omicidio della giornalista indiana Gauri Lankesh, editor del giornale Lankesh Patrike, avvenuto nel 2017.

Invisibile, scomparso, anzi peggio, in seconda pagina di Google

Qurium – The media foundation è un’organizzazione non profit registrata in Svezia che si occupa di proteggere media indipendenti e attivisti nel campo dei diritti umani. Tord Lundström ne è il direttore tecnico ed è stato consulente di Forbidden Stories per #StoryKillers. Insieme ai suoi colleghi, ha scoperto che le email di Raùl Soto e di altri alias partivano sempre dall’Ucraina, da un’organizzazione che si chiama Eliminalia ed è stata fondata nel 2013 dal giovane imprenditore Diego Sanchez Jimenez, meglio conosciuto come Didac Sanchez. Nel gennaio di quest’anno ha cambiato nome in iData Protection.

La sede principale è in Spagna, gli uffici sono in Italia, Ucraina, Messico, Bolivia, Repubblica Dominicana, Ecuador, Georgia, Portogallo, Taiwan, Turchia, Svizzera, Gran Bretagna e Stati Uniti. In un volantino pubblicitario del 2018, dichiaravano di avere oltre 900 clienti da tutto il mondo e di aver rimosso «10.000 link». La controlla una holding con sede a Kyiv, in Ucraina, la Maidan Holding, a cui appartiene una galassia che conta oltre 50 società impegnate in vari settori, con sedi in nove giurisdizioni diverse. La Maidan Holding controlla una fondazione, una banca, una società di analisi dei contenuti online, uno studio legale, una società d’investigazione privata e, sorprendentemente, anche delle cliniche per madri surrogate.

«L’orientamento e il contenuto della maggior parte delle vostre domande dimostra un approccio fazioso e disonesto», è stata l’unica risposta che hanno ottenuto i giornalisti dalla società.

Di certo, la mission di Eliminalia è far sparire ciò che non è gradito ai propri clienti. Cancellarli non è l’unica strategia. Infatti un contenuto è tanto più “di valore” – cioè in grado di ottenere più click – quanto più appare in alto nei motori di ricerca: il 92,81% degli utenti desktop, infatti, clicca solo le strisce che si trovano nella prima pagina di Google e fa lo stesso l’84,22% di quelli mobile, secondo il rilevamento del 2019 di Advanced Web Ranking. Stabilire che cosa esce nella prima pagina di Google significa quindi decidere che cosa la stragrande maggioranza della popolazione leggerà di un determinato tema.

Se Google fosse la Borsa dei contenuti online, quindi, le chiavi di ricerca sarebbero diversi listini “chiusi”, mentre gli url sarebbero i titoli azionari. Coloro i quali fanno scendere e salire le quotazioni degli url, gli operatori della Borsa di Google, sono i reputation manager. Secondo la percezione comune, l’algoritmo che stabilisce la classifica dei risultati del motore di ricerca è una cabala misteriosa. Almeno in parte, in realtà, esistono strumenti tecnici, come certi accorgimenti nel linguaggio o l’uso di certe parole chiave, che possono rendere un tema più o meno interessante per il motore di ricerca.

Un’altra credenza è che siano i personaggi popolari – i cosiddetti influencer – a rendere “virale” un contenuto. È vero per l’istante, ma non per il lungo periodo. I reputation manager sono i veri influencer di internet, professionisti che lavorano affinché i contenuti permangano stabilmente nella prima pagina dei risultati, e possibilmente fra i primi tre; sono ingegneri reputazionali, strateghi della comunicazione, broker che “vendono” al motore di ricerca le pagine web con i contenuti che più aggradano ai loro clienti.

Ma la Borsa ha impiegato secoli prima di dotarsi di un regolamento interno che proibisse la manipolazione del mercato, mentre internet solo adesso si sta accorgendo di quanto sia facile dirottare l’opinione pubblica dentro il mare delle pagine e post, troppo esteso e tempestoso per essere scandagliato in ogni angolo. Per ora quindi gli interventi sui motori di ricerca che abbiamo potuto rilevare non possono essere definiti illegali: sono acque ancora inesplorate, dove si sono avventurati solo alcuni pionieri.

Come opera Eliminalia

Eliminalia dispone di diversi strumenti per spingere o distruggere i contenuti.

Richieste di rimozioni articoli alle testate

Il primo strumento è il form utilizzato da Raùl Soto con Osservatorio Diritti. Anche IrpiMedia ne ha ricevuti diversi e non solo da Eliminalia. Il database di documenti ottenuto da Forbidden Stories conta centinaia di richieste simili inviate indicando come indirizzo email di contatto legal-abuse.eu@pec.it o italy@abuse-report.eu. La maggior parte sono a nome di Soto. Le richieste seguono un modello pre-configurato: la struttura e i riferimenti legali si ripetono e hanno un tono intimidatorio – anche l’indirizzo email indicato allude in modo fraudolento a un ufficio della Commissione europea.

A una lettura più attenta, però, le motivazioni della richiesta di diritto all’oblio non sono mai ben dettagliate tranne che per l’aspetto temporale: la notizia sarebbe «vecchia e irrilevante». Spesso non si specifica se effettivamente i dettagli relativi alla persona coinvolta siano scorretti o se la situazione processuale sia cambiata, sembra che nessuno abbia davvero letto il pezzo in questione. In alcuni casi, le richieste fanno riferimento a un potenziale reato di diffamazione, mentre in altri casi si parla solo di violazione dei dati personali in riferimento alla possibilità di esercitare il diritto all’oblio. Le richieste non sono accompagnate nemmeno dall’atto del cliente con il quale conferisce potere a Eliminalia di agire a suo nome, come è stato fatto notare dal Tribunale di Civitavecchia in una risposta inviata dopo aver ricevuto la richiesta da Raùl Soto.

Richieste di rimozione articoli a Google

Negli Stati Uniti la legge sul copyright si chiama Digital Millennium Copyright Act (Dmca). Dà la possibilità agli utenti di chiedere alle aziende con sede negli Usa che offrono servizi online, vedi Google, di rimuovere i link di contenuti copiati. Nel caso di Eliminalia, centinaia di richieste per rimuovere articoli in italiano sono state depositate spacciandosi per impiegati di gruppi editoriali, da Repubblica a Il Giornale, da La Stampa a Il Sole 24 Ore. Spesso Eliminalia copia e retrodata il contenuto che vuole sia rimosso.

Lo scopo è fare da esca con centinaia di blog e siti creati appositamente: attraverso l’articolo retrodatato chiedono la rimozione dell’originale. Se Google ci casca, l’obiettivo è raggiunto. Nel database di #StoryKillers risultano oltre duemila richieste di rimozione Dmca fatte da Eliminalia. Il proprietario della società di reputazione, Didac Sanchez, secondo diversi professionisti che abbiamo sentito, si è presentato come “l’inventore” dell’impiego delle false richieste per la violazione del copyright. Google, nelle risposte ai reporter di #StoryKillers, sostiene di opporsi attivamente alle richieste finte e afferma di accogliere principalmente quelle di giornalisti con un pregresso di domande già accolte. Ciò non toglie che Google, per il Dmca, possa ritenersi estraneo alla violazione solo se interviene dopo poco (l’azienda dichiara in media sei ore) che è al corrente di un contenuto copiato. Il fattore tempo, in casi “in bilico”, può quindi spingere per la rimozione. Rimettere online un contenuto rimosso è un procedimento molto difficile. Google riceve anche richieste di rimozione per violazione del Gdpr.

Secondo i dati della società, nel corso del 2022 sono state depositate 1,4 milioni di richieste per 5,3 milioni di link. Sono numeri doppi rispetto a quelli registrati nel 2017, e per i quali è impossibile stabilire gli effetti. L’aumento delle richieste è esponenziale, quello delle rimozioni ha una curva meno accentuata.

Costruzione e diffusione di fake news

Quando Eliminalia non riesce a far rimuovere i link allora cerca di farli scomparire “sotterrandoli” sotto una mole di articoli falsi che, sfruttando tecniche di posizionamento sui motori di ricerca, riescono a scalzare gli articoli legittimi spingendoli nel dimenticatoio della seconda o terza pagina di Google.

Qurium ha individuato oltre tremila articoli falsi, raccolti su 600 siti web, collegati ai nomi di 48 clienti di Eliminalia. Gli articoli includono il nome del cliente nell’url del link e riportano spesso il suo nome nel testo del pezzo. Il contenuto è totalmente inventato.

Tutti questi siti web presentano degli elementi in comune, come la stessa informativa privacy e pagina sui diritti d’autore, e tutti erano registrati in un primo momento a nome dell’azienda Communication Media Group Ltd, con sede in un business center del paradiso fiscale caraibico di Saint Kitts & Nevis. IrpiMedia ha verificato la presenza nel leak di screenshot che mostrano la tecnica in azione: in rosso sono indicati articoli negativi, in verde invece quelli positivi pubblicati su siti web sotto il controllo di Eliminalia che avanzano nei risultati di ricerca.

Backlinking

Tra le tecniche usate da Eliminalia per far scalare la classifica dei risultati ai propri articoli fasulli, c’è quella di condividere i link su forum e blog. Infatti, tra i fattori che Google tiene in considerazione per decidere la posizione di un link tra i risultati di ricerca c’è il backlink, ovvero quante volte quel link sia stato incluso in altri siti web. Un’inchiesta esclusiva finirà in alto tra i risultati anche perché tutte le altre testate includono il link all’inchiesta nei propri articoli. Per manipolare i risultati di ricerca si possono quindi creare backlink verso siti web fasulli. Qurium ha individuato un forum su cui Eliminalia ha postato migliaia di backlink per permettere di far scalare i risultati della ricerca ai propri articoli falsi. In questo modo le notizie rilevanti sarebbero sommerse dai risultati scelti da Eliminalia.

Come opera Eliminalia

Eliminalia dispone di diversi strumenti per spingere o distruggere i contenuti.

Richieste di rimozioni articoli alle testate

Il primo strumento è il form utilizzato da Raùl Soto con Osservatorio Diritti. Anche IrpiMedia ne ha ricevuti diversi e non solo da Eliminalia. Il database di documenti ottenuto da Forbidden Stories conta centinaia di richieste simili inviate indicando come indirizzo email di contatto legal-abuse.eu@pec.it o italy@abuse-report.eu. La maggior parte sono a nome di Soto. Le richieste seguono un modello pre-configurato: la struttura e i riferimenti legali si ripetono e hanno un tono intimidatorio – anche l’indirizzo email indicato allude in modo fraudolento a un ufficio della Commissione europea.

A una lettura più attenta, però, le motivazioni della richiesta di diritto all’oblio non sono mai ben dettagliate tranne che per l’aspetto temporale: la notizia sarebbe «vecchia e irrilevante». Spesso non si specifica se effettivamente i dettagli relativi alla persona coinvolta siano scorretti o se la situazione processuale sia cambiata, sembra che nessuno abbia davvero letto il pezzo in questione. In alcuni casi, le richieste fanno riferimento a un potenziale reato di diffamazione, mentre in altri casi si parla solo di violazione dei dati personali in riferimento alla possibilità di esercitare il diritto all’oblio. Le richieste non sono accompagnate nemmeno dall’atto del cliente con il quale conferisce potere a Eliminalia di agire a suo nome, come è stato fatto notare dal Tribunale di Civitavecchia in una risposta inviata dopo aver ricevuto la richiesta da Raùl Soto.

Richieste di rimozione articoli a Google

Negli Stati Uniti la legge sul copyright si chiama Digital Millennium Copyright Act (Dmca). Dà la possibilità agli utenti di chiedere alle aziende con sede negli Usa che offrono servizi online, vedi Google, di rimuovere i link di contenuti copiati. Nel caso di Eliminalia, centinaia di richieste per rimuovere articoli in italiano sono state depositate spacciandosi per impiegati di gruppi editoriali, da Repubblica a Il Giornale, da La Stampa a Il Sole 24 Ore. Spesso Eliminalia copia e retrodata il contenuto che vuole sia rimosso.

Lo scopo è fare da esca con centinaia di blog e siti creati appositamente: attraverso l’articolo retrodatato chiedono la rimozione dell’originale. Se Google ci casca, l’obiettivo è raggiunto. Nel database di #StoryKillers risultano oltre duemila richieste di rimozione Dmca fatte da Eliminalia. Il proprietario della società di reputazione, Didac Sanchez, secondo diversi professionisti che abbiamo sentito, si è presentato come “l’inventore” dell’impiego delle false richieste per la violazione del copyright. Google, nelle risposte ai reporter di #StoryKillers, sostiene di opporsi attivamente alle richieste finte e afferma di accogliere principalmente quelle di giornalisti con un pregresso di domande già accolte. Ciò non toglie che Google, per il Dmca, possa ritenersi estraneo alla violazione solo se interviene dopo poco (l’azienda dichiara in media sei ore) che è al corrente di un contenuto copiato. Il fattore tempo, in casi “in bilico”, può quindi spingere per la rimozione.

Rimettere online un contenuto rimosso è un procedimento molto difficile. Google riceve anche richieste di rimozione per violazione del Gdpr.

Secondo i dati della società, nel corso del 2022 sono state depositate 1,4 milioni di richieste per 5,3 milioni di link. Sono numeri doppi rispetto a quelli registrati nel 2017, e per i quali è impossibile stabilire gli effetti. L’aumento delle richieste è esponenziale, quello delle rimozioni ha una curva meno accentuata.

Costruzione e diffusione di fake news

Quando Eliminalia non riesce a far rimuovere i link allora cerca di farli scomparire “sotterrandoli” sotto una mole di articoli falsi che, sfruttando tecniche di posizionamento sui motori di ricerca, riescono a scalzare gli articoli legittimi spingendoli nel dimenticatoio della seconda o terza pagina di Google.

Qurium ha individuato oltre tremila articoli falsi, raccolti su 600 siti web, collegati ai nomi di 48 clienti di Eliminalia. Gli articoli includono il nome del cliente nell’url del link e riportano spesso il suo nome nel testo del pezzo. Il contenuto è totalmente inventato.

Tutti questi siti web presentano degli elementi in comune, come la stessa informativa privacy e pagina sui diritti d’autore, e tutti erano registrati in un primo momento a nome dell’azienda Communication Media Group Ltd, con sede in un business center del paradiso fiscale caraibico di Saint Kitts & Nevis. IrpiMedia ha verificato la presenza nel leak di screenshot che mostrano la tecnica in azione: in rosso sono indicati articoli negativi, in verde invece quelli positivi pubblicati su siti web sotto il controllo di Eliminalia che avanzano nei risultati di ricerca.

Backlinking

Tra le tecniche usate da Eliminalia per far scalare la classifica dei risultati ai propri articoli fasulli, c’è quella di condividere i link su forum e blog. Infatti, tra i fattori che Google tiene in considerazione per decidere la posizione di un link tra i risultati di ricerca c’è il backlink, ovvero quante volte quel link sia stato incluso in altri siti web. Un’inchiesta esclusiva finirà in alto tra i risultati anche perché tutte le altre testate includono il link all’inchiesta nei propri articoli. Per manipolare i risultati di ricerca si possono quindi creare backlink verso siti web fasulli. Qurium ha individuato un forum su cui Eliminalia ha postato migliaia di backlink per permettere di far scalare i risultati della ricerca ai propri articoli falsi. In questo modo le notizie rilevanti sarebbero sommerse dai risultati scelti da Eliminalia.

Riciclatori di reputazione

I segreti di Eliminalia sono stati svelati attraverso un database di 50 mila contratti, scambi di email, screenshot di richieste a testate e piattaforme online per rimuovere contenuti e altri documenti. Al loro interno sono nominati circa 1.500 clienti provenienti da una cinquantina di Paesi, datati per lo più tra 2017 e 2021. Dai dati, emerge che per rimuovere un singolo link si pagano cifre tra duecento e duemila euro, a seconda dei casi. Ci sono 25 clienti che hanno sborsato più di 50 mila euro per ripulire la rete dal loro nome.

Tra i clienti stranieri ci sono banchieri condannati per riciclaggio, corruttori, trafficanti di droga, uomini dello spettacolo accusati di molestie sessuali, professionisti coinvolti in frodi finanziarie internazionali. Tra le banche, due casi rilevanti riguardano la Compagnie Bancaire Helvetique e Bandenia Plc: la prima è stata accusata di non aver impedito alcune operazioni di riciclaggio di denaro sporco, il direttore della seconda è stato condannato a quattro anni di carcere per aver ripulito i soldi di una trafficante di droga a settembre 2022. Ci sono imprenditori con un passato controverso. Ci sono riciclatori di denaro sporco.

Un articolo falso creato ad hoc e pubblicato su un sito sconosciuto in modo da influire sui risultati proposti dai motori di ricerca
Questa tecnica, utilizzata qui per la società Area Spa, consiste nella creazione di una mole di articoli falsi in modo da “sotterrare” l’indicizzazione dei link reputati dannosi

Tra le decine di clienti italiani, ci sono soprattutto imprenditori, manager, avvocati, contabili. Fra coloro che hanno risposto alle nostre domande, nessuno però si era rivolto direttamente a Eliminalia. I loro contratti sono spesso firmati con altre agenzie: in fasi diverse, tra il 2017 e il 2021, Sofiswiss, ReputationUp e Digitallex. Dei rapporti tra queste diverse agenzie ed Eliminalia parleremo nella prossima puntata. Ora è importante dire che, ciascuna di queste, durante un preciso lasso di tempo, ha collaborato con Eliminalia nella gestione dello stesso cliente, offrendo servizi leggermente diversi. Per quanto è stato possibile ricostruire, la collaborazione tra le agenzie con cui si stipula il contratto ed Eliminalia non è comunicata ai clienti.

Lo ha confermato lo stesso Piero Amara, rispondendo alle domande di IrpiMedia: non conosce Eliminalia ma solo ReputatioUp, trovata online. Non era al corrente di metodi illegittimi o illegali e ha al contrario interrotto il rapporto ritenendo il servizio non soddisfacente.

Gli fa eco nelle risposte Leonardo Bellodi, ex manager di Eni e della Libyan Investment Authorities che dai dati a nostra disposizione risulta abbia cercato di far sparire gli articoli che raccontavano i suoi legami con il mondo della politica e dell’imprenditoria.

«Apprendo solo ora da voi delle attività svolte dalla società Eliminalia, che non conosco e con cui non ho mai avuto alcun tipo di rapporto. Nel 2020 ho stipulato un contratto con la società italiana Digital Lex – avente come ragione sociale Prontoavvocato Srl – che si occupa di tutela del diritto all’oblio, per alcuni articoli che contenevano informazioni inaccurate e superate, dunque non più coerenti con il mio posizionamento attuale», spiega Bellodi. «All’interno del rapporto di collaborazione stipulato con la società italiana Digital Lex – aggiunge – mi sono stati notificati gli articoli per i quali sarebbe stata richiesta la deindicizzazione». «Gli articoli – conclude Bellodi – contenevano, per ciò che mi riguardava, informazioni inaccurate e superate, dunque non più coerenti con il mio posizionamento attuale e con il mio piano di Personal Branding».

Per approfondire

L’idra della disinformazione

Giornalisti uccisi, campagne di delegittimazione, strumenti per insabbiare notizie negative, eserciti di avatar che alimentano finti dibattiti: come si mette il giornalismo sotto attacco

Tra i clienti italiani di Eliminalia, ci sono anche i fratelli Steinkeller, promotori finanziari finiti al centro della truffa con la moneta virtuale OneCoin, scoperta dalla Guardia di finanza di Bolzano nel 2019. C’è ArcelorMittal, il gruppo proprietario dell’ex Ilva di Taranto e la sua manager Lucia Morselli. Le chiavi di ricerca monitorate da Eliminalia erano “Lucia Morselli inchiesta”, “Lucia Morselli crisi”, “Lucia Morselli pagando”. Tra gli articoli bersaglio ci sono anche pezzi di cronaca sindacale di testate nazionali, come Repubblica. C’è Studium srl, società che offre servizi didattici e legali di proprietà della famiglia Polidori, neo proprietario del Gruppo Corriere dell’Umbria e di altre testate locali coinvolto in un’inchiesta per evasione fiscale attraverso le società che gestiscono un altro pezzo del suo impero, le università telematiche.

C’è Area Spa, la società che vende sistemi di sorveglianza, tra le poche ad aver contattato direttamente Eliminalia (lo scorso dicembre abbiamo raccontato la sua vicenda processuale in Italia, dove è stata archiviata). «Mancata completa veridicità ed accuratezza», degli articoli, spiegano dalla società in una nota di commento, sono i motivi per cui si sono rivolti al servizio. Area aggiunge di essersi rivolta a Eliminalia «affinché tale rimozione avvenisse esclusivamente in piena ottemperanza alle norme nazionali, comunitarie ed internazionali in materia di diritto all’oblio, alla tutela della vita privata delle persone coinvolte e alla protezione dei dati personali oltre che in ottemperanza agli obblighi deontologici del giornalismo».

La ricerca di Qurium è partita proprio da alcuni contenuti su siti sconosciuti in cui si descrive Area Spa, citata insieme al luogo dove ha la sua sede legale, Vizzola Ticino in provincia di Varese, come una scuola di danza o il suo manager Andrea Formenti come un esperto di intelligenza artificiale e smartphone. Sono temi completamente scollegati dal settore in cui opera Area. Il loro scopo è annegare il nome in una serie di parole chiave che non c’entrano nulla con le attività in Siria per cui Area Spa è finita al centro delle cronache internazionali.

Alla ricerca dell’oblio in rete

Alcuni dei personaggi e delle entità che hanno usufruito dei servizi di Eliminalia

«I contenuti restano online per sempre e ti marchiano in un certo senso – spiega Marisa Maraffino, avvocata specializzata nel digitale e nelle nuove tecnologie – però non tutti hanno disponibilità economiche per spendere quei soldi. I clienti di queste società di solito sono imprenditori che hanno certe disponibilità».

Aggiunge che dal suo punto di vista, il diritto all’oblio dovrebbe essere trattato come una materia per avvocati. È una materia in divenire: da un lato, se ne disegnano i confini con la giurisprudenza, prosegue, dall’altro è diventata legge con la riforma promossa dall’ex ministro della Giustizia Marta Cartabia, che ha introdotto dallo scorso ottobre la possibilità per chi è stato prosciolto di richiedere la deindicizzazione dei contenuti che lo riguardano. «Queste società però di base mandano pacchi di diffide, ma non so che effetto poi sortiscano», conclude.

Di parere diverso Stefano Sutti, avvocato che in passato ha lavorato in partnership con Eliminalia in Italia, oggi diventata una società indipendente, Ealixir (dello scontro tra Eliminalia ed Ealixir parleremo nella prossima puntata).

«I risultati [delle richieste dell’agenzia] sono spettacolari, nel senso che in tempi relativamente brevi e con dei costi che sono infinitamente inferiori a quelli che un qualsiasi studio legale presenterebbe [per gestire la rimozione o deindicizzazione di grandi quantità di link], risolvono il 90-95% dei problemi». Quel che resta finisce con i metodi tradizionali: querele per diffamazione oppure cause civili. La giurisprudenza, aggiunge, è relativamente scarsa «perché bisogna arrivare fino in fondo», in Cassazione. E se non c’è un business case (da intendersi come vantaggio economico, ndr) per entrambe le parti ad andare fino in fondo uno dei due si arrende». Il risultato, inevitabile, è che «sia per la diffamazione, sia per l’utilizzo delle immagini ci sono una serie di zone grigie», dice Sutti. Da un lato c’è il diritto della persona, dall’altro il diritto di cronaca. In mezzo, delle agenzie che gestiscono una massa enorme di richieste a fronte di pagamenti proibitivi. Il diritto all’oblio rischia così di configurarsi solo come un diritto per ricchi.

Una parte del modulo di Twitter per richiedere la rimozione di contenuti

La tana del bianconiglio

Database come quello di Eliminalia sono tane del bianconiglio: si continua a scavare, a scavare tanto che a volte sembra impossibile fermarsi, tanto che a volte sembra impossibile, alla fine, districarsi in mezzo a quella mole di informazioni. Il dettaglio che mi ha riportato fuori dalla tana è stato ritrovare il link del mio pezzo di Osservatorio Diritti tra i bersagli di Eliminalia. Mi ha dato una chiave per cominciare a trovare e non solo a cercare. Ho recuperato così tre contratti firmati da una società che non è mai finita tra i fascicoli giudiziari che riguardano Amara. Ha sede in Bulgaria, a Sofia, e si chiama Company H20 Ltd. Si occupa di assistenza nell’acquisizione di impianti di energia elettrica da fonti rinnovabili, spiega lo stesso Amara rispondendo alle domande di IrpiMedia attraverso il suo legale. È controllata da una società italiana il cui proprietario è il figlio dell’ex avvocato. Risulta che abbia pagato circa 82.800 euro in tre tranches, tra settembre 2020 e febbraio 2021. I soldi sono stati intascati almeno in parte da Eliminalia, anche se il contratto è con ReputationUp, una società che è stata partner di Eliminalia.

Nel corso di tutta la sua storia, la società di Didac Sanchez si è spesso appoggiata a terzi per la gestione di clienti in alcuni Paesi, come l’Italia. Secondo quanto raccolto attraverso le testimonianze di diversi dipendenti sparsi in tutto il mondo, Eliminalia si occupa della parte tecnica, mentre il recupero dei clienti passa per le altre agenzie oppure da altri professionisti. In un commento interno registrato nel database di Eliminalia insieme all’ultimo pagamento di Piero Amara, si legge che è stato «tolto il 10% per l’agente». Il 10% va inteso quindi come la quota riservata da Eliminalia a chi ha procurato il cliente.

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Per Piero Amara la decisione di rivolgersi a una società di reputazione online «è collegata alla comprensibile volontà di migliorare la propria immagine, anche per evitare la circolazione di informazioni improprie o distorte», spiega. Oggi è collaboratore di «almeno sei procure», scrive Il Riformista, per quanto le dichiarazioni di Amara, quando appaiono sulla stampa, vengano commentate spesso come un intreccio quasi inestricabile di vero, falso e verosimile. Vero o falso pentito? Nelle risposte che ha fatto pervenire a IrpiMedia tramite il suo avvocato, Piero Amara «affida il giudizio sulla sua credibilità alle sentenze dei Tribunali italiani e non ad altro» specificando «di non essere mai stato condannato per calunnia e le uniche sentenze che hanno valutato le sue dichiarazioni ne hanno ribadito la piena attendibilità».

Il lavorio sui link che lo riguardano è proseguito anche dopo il 2021. C’è stata per esempio un’improbabile segnalazione a Google che sarebbe stata inviata da Il Fatto Quotidiano per violazione di copyright da parte di Press reader, la piattaforma che permette di leggere online la versione cartacea di quotidiani. La richiesta è del settembre 2022, il pezzo è del 2020 e compare tra i bersagli di Eliminalia.

Uno scontro in atto

Nel novembre 2021 l’opinionista del Financial Times Jemima Kelly ha definito l’intera industria della reputazione «un business torbido». Alterare un contenuto online, a prescindere dalla sua attinenza alla realtà, è sempre un fatto grave. Esistono differenze tra chi sceglie di evitare alcuni clienti e alcune tattiche, ma l’attività è di per sé controversa, soprattutto dal punto di vista di chi produce informazione, la vittima di questa storia.

In Italia, grazie al lavoro di organizzazioni come Ossigeno per l’Informazione, è chiaro che le querele temerarie, procedimenti per diffamazione a mezzo stampa intentati solo a scopo intimidatorio, sono la principale arma di censura dei giornalisti, soprattutto freelance. È altrettanto un fatto che oltre la metà dei siti di fake news impiegati da Eliminalia tra quelli individuati da Qurium siano in italiano. Non è ancora chiaro come leggere questo dato, ma una valida ipotesi è che l’Italia sia tra i principali bersagli di questa forma di disinformazione che fa sparire dai primi risultati di Google gli articoli “scomodi” su un certo argomento.

In Messico, uno dei Paesi più pericolosi al mondo per i giornalisti, l’organizzazione per la libertà di stampa Articulo 19 ha evidenziato in un report tre casi di giornalisti che sono stati censurati attraverso false dichiarazioni di violazione del copyright. Il diritto all’oblio è già legge, ma farlo applicare in fretta alle aziende che fanno da piattaforme per i contenuti – da Google ai social network, per intendersi – implica due conseguenze: da un lato una delega alle piattaforme di decidere ciò che ha diritto e ciò che non ha diritto di essere dimenticato; dall’altro di ottenere risposte standardizzate per tutti i casi, a prescindere dal merito, dato che le aziende private non hanno alcuna voglia di entrare in conflitto con una controparte a difesa della legittimità di un contenuto giornalistico prodotto da terzi.

Fake news è un termine che è diventato di uso comune dall’inizio degli anni Duemila e da allora il mondo del giornalismo – soprattutto online – sta cercando, con fatica, di riaffermare la propria autorevolezza. Un ultimo studio del Reuters Institute pubblicato lo scorso settembre ha evidenziato come nei Paesi presi in esame – Brasile, India, Stati Uniti e Gran Bretagna – le piattaforme virtuali abbiano sempre meno credibilità dei media tradizionali. Le notizie sono una merce da quando sono stati fondati i giornali e fare il giornalista è una professione remunerata. Però nel contesto online la loro proprietà è sostanzialmente in mano alle piattaforme, più che agli editori o ai giornalisti. Farle apparire o farle scomparire, renderle facili o difficili da trovare, quindi, da trent’anni almeno non è più appannaggio di chi sta nelle redazioni. Ammesso che sia mai stato così, non è più una questione di deontologia professionale darle in modo corretto oppure no. È una mera questione economica: basta pagare tanto il tecnico giusto.

Il 18 febbraio il pezzo è stato modificato per chiarire la ragione sociale di Studium srl.

 

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
(con Raffaele Angius, Riccardo Coluccini)

Ha collaborato

Rita Martone
Simone Olivelli

Editing

Giulio Rubino

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Illustrazioni

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