Plusvalenze, il doping dei bilanci del calcio
#FuoriGioco
Lorenzo Bagnoli
Lorenzo Bodrero
Fu Antonio Giraudo, amministratore delegato della Juventus tra il 1994 e il 2006, a coniare il termine “doping amministrativo”. Definisce il sistema attraverso il quale le squadre di calcio gonfiano i prezzi a cui i calciatori vengono venduti, manipolando così alcune voci di bilancio per salvare conti che altrimenti sarebbero in rosso. Oggi come allora. In linea di massima, il meccanismo è piuttosto semplice. Il club che vende inserisce nel bilancio dell’anno corrente i ricavi generati dalla vendita di un calciatore. Le spese sostenute dal club acquirente per il medesimo calciatore sono invece rateizzate sui bilanci degli anni successivi. È questa la plusvalenza: la differenza, purché in positivo, tra il valore iscritto a bilancio di un calciatore e la cifra a cui poi è ceduto.
La plusvalenza può essere incrociata quando due club si scambiano uno o più giocatori alla stessa cifra. Non c’è reale movimento di denaro ma in questo modo i conti si aggiustano. E il sistema è tanto vantaggioso quanto maggiore è il “valore” del calciatore oggetto della transazione il quale, tuttavia, è stimato in base a fattori totalmente soggettivi. Non esiste infatti un modo univoco e obiettivo per valutarne il prezzo. Quest’ultimo è stabilito, solitamente, da chi vende e gonfiarlo è anche nell’interesse dell’acquirente, per questo motivo sono molto comuni intensi scambi di calciatori tra due stesse società in entrambe le direzioni.
In questo modo le società cercano di evitare il rischio di vedersi respinta l’iscrizione al campionato di calcio per i troppi debiti accumulati. Se non intervengono altre voci a rimpinguare pesantemente i ricavi dei club, alla lunga però il sistema esplode. Così è stato per gran parte degli anni Novanta, periodo d’oro del calcio italiano, quando la Serie A si fregiava dei più grandi campioni europei e sudamericani, con stipendi – e procuratori – pagati a peso d’oro.
Trucchi contabili
La formula “doping amministrativo” è diventata di dominio pubblico nel 2002, quando la procura di Torino ha rinviato a giudizio il presidente Giraudo e il medico sportivo della Juventus Gianluca Agricola per «frode sportiva» e «somministrazione di farmaci in modo pericoloso per la salute pubblica». Nel 2007 i due sono stati prescritti (dopo una condanna in primo grado e un’assoluzione in appello) dalle accuse di doping dei calciatori, mentre nel 2009 la dirigenza della Juve è stata assolta con formula piena dall’accusa di aver dopato i conti. Se il primo abuso fa capolino meno di frequente nelle cronache calcistiche più recenti, il secondo invece non è mai tramontato.
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Il 26 novembre scorso, l’attuale presidente della Juventus Andrea Agnelli, il vicepresidente Pavel Nedved e altri cinque dirigenti (ex e in carica) sono stati iscritti nel registro degli indagati dalla procura di Torino nell’ambito dell’operazione Prisma. I reati ipotizzati sono falso in bilancio e false fatturazioni. Secondo i magistrati, per tamponare i cronici bilanci in rosso, i dirigenti della Vecchia Signora utilizzavano fantasiose plusvalenze – dal valore di oltre 322 milioni di euro in tre anni – sulla compravendita di calciatori. Nel decreto di perquisizione si parla di «valori fraudolentemente maggiorati».
L’attenzione degli inquirenti si è concentrata sugli ultimi tre esercizi contabili e i numeri, se confermati, offrono l’immagine di un club in profonda crisi economica. Come riportato da Domani, i magistrati torinesi segnalano la differenza tra i bilanci ufficiali e quelli da loro stimati senza il ricorso alle plusvalenze incrociate: la perdita di esercizio, che si realizza quando i costi superano i ricavi, del 2019 è indicata a bilancio per quasi 40 milioni di euro contro i 171 milioni ipotizzati dai pm; nel 2020, quasi 90 milioni di euro contro 209; nel 2021, la perdita d’esercizio a bilancio sfiora i 210 milioni di euro invece dei 240 milioni stimati dai magistrati.
Juventus, Napoli, Genoa, Sampdoria ed Empoli (Serie A), Parma e Pisa (Serie B), Pro Vercelli e Pescara (Serie C), Novara (Serie D) e Chievo Verona (Terza Categoria) sono i club italiani coinvolti nell’indagine di Torino, più Barcellona, Manchester City, Lugano, Marsiglia, Basilea, Amiens e Lille
A sollevare dubbi circa la gestione economica della Juventus è stata per prima la Covisoc, la Commissione di vigilanza sulle società di calcio professionistiche della Federazione italiana giuoco calcio (Figc), la quale negli ultimi due anni ha identificato 42 operazioni sospette solo della Juventus su 62 totali. In tutto le società coinvolte sono 18: cinque di serie A (Juventus, Napoli, Genoa, Sampdoria ed Empoli); due di serie B (Parma e Pisa); due di serie C (Pro Vercelli e Pescara); una di serie D (Novara); sette straniere (Barcellona, Manchester City, Lugano, Marsiglia, Basilea, Amiens e Lille) e una in Terza Categoria, il Chievo Verona. Le plusvalenze sono tra le “sostanze vietate” dall’“antidoping amministrativo” perché fanno apparire in ordine anche i bilanci che non lo sono.
Il calcio, ma in generale nello sport professionistico in tutto il mondo, aiuta chi cerca soluzioni contabili ai suoi problemi di bilancio. L’ultimo caso riguarda Massimo Ferrero: il 6 dicembre l’ormai ex presidente della Sampdoria è stato arrestato per la bancarotta di quattro sue società e altri reati collegati alla loro gestione. La Samp è estranea, ma nell’indagine si scopre che Ferrero ha cercato di svuotare le sue società per coprire pesanti debiti. Ai futuri compratori resterà da estinguere un debito di 120 milioni quando invece all’acquisto, nel giugno 2014, Ferrero ha ereditato una squadra con 65 milioni di utile.
Il caso Ferrero
L’inchiesta della procura di Paola (Cosenza) che ha portato all’arresto il 6 dicembre scorso dell’ormai ex presidente della Sampdoria, Massimo Ferrero, non sembra coinvolgere in maniera diretta il club blucerchiato. Tuttavia la vicenda ha molto in comune con quelle che hanno coinvolto altri club negli ultimi trent’anni: dal Torino di Borsano al Parma di Tanzi, dalla Lazio di Cragnotti al Perugia di Gaucci e la Fiorentina di Cecchi Gori. Imprenditori solo all’apparenza solidi, auto-dichiaratisi portatori di nuova liquidità e intenzionati a rispolverare il prestigio sportivo del club che acquisiscono, si sono poi rivelati colmi di debiti o con lo Stato o con numerosi creditori privati. Le ragioni dietro il loro ingresso nell’industria del pallone nascondevano infatti la necessità di saldare quei debiti, con modalità che spieghiamo prima e dopo questo box, e di rilanciare i marchi associati alle loro attività imprenditoriali extra calcistiche. Riuscì a Berlusconi ma la stagione dei “presidenti-imprenditori” da lui inaugurata ha avuto più bassi che alti.
Ferrero è accusato di bancarotta fraudolenta, lo stesso capo di accusa che ha poi travolto Tanzi, Cragnotti e Borsano. «Adesso ho capito perché sta cercando di prendere i soldi dalla Sampdoria», diceva il commercialista di Ferrero, Gianluca Vidal, in una conversazione telefonica intercettata dagli inquirenti. Il riferimento è alla pesante crisi debitoria delle società Ellemme, Blu Cinematografica, Blu Line e Maestrale srl tutte amministrate da parenti e collaboratori stretti ma riconducibili al “er viperetta” quale amministratore di fatto. Ne avrebbe causato il dissesto economico distraendo fondi utilizzati per attività non attinenti alle imprese stesse. La Sampdoria, nelle valutazioni di Ferrero e dell’avvocato Francesco Cocola, è «l’unico asset di valore» nel portafoglio dell’imprenditore cinematografico, la cui messa in sicurezza ne avrebbe reso «più agevole la vendita e salvaguardarlo dall’eventuale aggressione da parte dei creditori», ha dichiarato l’avvocato alla figlia di Ferrero, Vanessa.
Gran parte dei crediti dovuti dalle società di Ferrero – oltre 70 milioni di euro su 120 – sono in mano a Hoist, colosso svedese specializzato nella gestione dei crediti in sofferenza. Per proteggere il club blucerchiato dai creditori di Ferrero era stato creato il trust Rosan, all’interno del quale erano state dirottate le quote della Sport Spettacolo Holding, la controllante del club blucerchiato. Quest’ultimo, in sostanza, rappresenta una garanzia di pagamento all’interno dei concordati avviati dall’ex patron doriano per evitare il fallimento di altre due sue aziende, la Farvem e la Eleven Finance.
Così fan tutti
Da oltre vent’anni, ogni volta che affiora un’inchiesta giudiziaria su qualche squadra, la replica d’ufficio prevede che marcio è il sistema, non un singolo club. Nel 2006 c’è stata Calciopoli, inchiesta incentrata su Luciano Moggi, potentissimo dirigente della Juve guidata da Giraudo, ritenuto il fulcro attorno al quale si appoggiava un’organizzazione a delinquere tesa a condizionare l’andamento del campionato, in primis attraverso le designazioni arbitrali. I reati sono stati prescritti dalla giustizia ordinaria, mentre quella sportiva – la Corte di giustizia federale della Figc – ha condannato i vertici juventini a cinque anni di radiazione da ogni società sportiva e la Juve a ripartire dalla serie B.
L’ex procuratore di Napoli Giovandomenico Lepore, che guidava il filone del processo Calciopoli per gli imputati che avevano scelto il rito abbreviato, intervenendo a giugno alla trasmissione Si gonfia la rete di Radio Marte, ha espresso rammarico per come è andata quella vicenda: «Le indagini dovevano riguardare tutte le squadre di Serie A, purtroppo invece ci fu un blitz negativo che fece uscire un volume con tutte le intercettazioni e fummo bloccati completamente». Il riferimento in particolare è alle anticipazioni de l’Espresso. Anche a Roma si indagava anche su Gea World, agenzia di procuratori del figlio di Moggi, Alessandro.
Nonostante i mille rivoli giudiziari e nonostante le società calcistiche coinvolte siano state – oltre alla Juve – anche Parma, Genoa, Sampdoria, Chievo Verona, Pescara e Napoli, nessuno ha mai provato a mettere sotto indagine l’industria nel suo complesso, a partire dalla sua gestione finanziaria. «Perché il calcio è questo qui», ha sentenziato Luciano Moggi a Report in una puntata andata in onda il 6 dicembre di quest’anno. Nella stessa intervista ha fatto riferimento al suo coinvolgimento nelle plusvalenze della Juventus, chiuso con un’archiviazione: «I capi del calcio – ha detto Moggi a Report – avevano chiesto alla Juventus di aiutare la Fiorentina che era in fallimento». È così che nel 2002 è stato comprato Emiliano Moretti, allo scopo di generare nei Viola delle entrate sulla carta senza che ci fosse in realtà un vero esborso di denaro.
Come i ricchi americani usano lo sport per evadere le tasse
Al di là dell’Oceano, più che una maschera sotto la quale nascondere i propri debiti, lo sport professionistico è impiegato di frequente come sistema per ottimizzare la tassazione degli ultraricchi. Unicorni per la contabilità, li definisce ProPublica, media statunitense di giornalismo investigativo non profit, che a giugno ha cominciato la serie The Secret IRS Files, un’inchiesta sulla tassazione dello 0,01% più ricco del Paese (l’IRS, Internal Revenue Service, è una sorta di Agenzia delle Entrate federale). Il lavoro si basa su una serie di documenti riservati che contengono le informazioni sulle tasse federali pagate dai più ricchi contribuenti americani.
Steve Ballmer, ex CEO di Microsoft, è il proprietario dei Los Angeles Clippers, la seconda squadra di basket cittadina, dal 2014. Ballmer, spiega ProPublica, gode di un’aliquota contributiva al 12% sul proprio reddito personale di un miliardo di dollari. In proporzione, paga meno tasse dei suoi giocatori o degli impiegati dello Staples Center, il palazzo dello sport losangelino. Merito della magia fiscale che l’IRS permette – legalmente – ai proprietari delle squadre professionistiche. Il prezzo di acquisto di una società sportiva viene infatti ammortizzato quasi interamente. In questo modo un super ricco può, anno dopo anno, ridurre il proprio imponibile fiscale. Considerare le squadre professionistiche un bene che perde di valore negli anni è un principio sbagliato, secondo ProPublica. I loro beni principali infatti sono diritti TV e contratti dei giocatori, che non deperiscono negli anni. Non possono quindi essere trattati come un’impresa qualsiasi.
Facendo i conti, Ballmer è riuscito a evitare di versare al fisco federale 140 milioni di euro. La legge americana prevede che una volta venduta la squadra, il contribuente restituisca quanto risparmiato all’IRS. C’è però una scappatoia, impiegata molto di frequente: il gettito dovuto può essere investito in altre attività a scopo di lucro. «È come un prestito a tasso zero da te, contribuente», commenta ProPublica.
Ballmer ovviamente è solo uno tra gli ultraricchi che ammortizzano la propria tassazione attraverso le proprietà di squadre professionistiche. Il modello americano è permeato dalla logica del facilitare l’impresa privata, ma secondo ProPublica il prezzo da pagare sono casse pubbliche sempre più povere, con tutto quello che ne consegue sul piano del welfare. In altri termini, i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sono sempre più poveri. E l’industria dello sport professionistico è solo l’ennesimo strumento per la conservazione delle disparità sociali.
Vent’anni di doping
Quando il termine “doping amministrativo” è stato coniato, erano già tante le squadre che ne facevano uso. La Lazio e il Parma hanno fatto scuola: gli scambi di calciatori tra le due società avevano mosso circa 400 miliardi di vecchie lire tra il 1998 e il 2004. Cifra astronomica per quei tempi e che in buona parte comprendeva il trasferimento dal Parma dell’attaccante argentino Hernan Crespo per 110 miliardi, segnando un record in quell’estate del 2000 (ma che non durò a lungo). In direzione opposta si mossero i centrocampisti Matias Almeyda e Sergio Conceiçao per, rispettivamente, 45 e 35 miliardi. Per pareggiare l’affare, alla squadra emiliana andarono dunque “solo” 30 miliardi di lire. Gli scambi tra i due club furono così frequenti che i tifosi allora coniarono l’espressione “Via Lattea”, un chiaro riferimento alle società Parmalat e Cirio guidate proprio da Calisto Tanzi (Parma) e Sergio Cragnotti (Lazio). In questa girandola di calciomercato rientravano anche i calciatori Diego Fuser, Juan Sebastian Veron, Nestor Sensini, Dino Baggio e altri.
Già da metà anni Novanta dentro e fuori i campi di gioco c’era una forte collaborazione tra Calisto Tanzi, patron del Parma e della Parmalat, e Sergio Cragnotti, patron di Lazio e Cirio.
Capitalia non era solo il quarto gruppo bancario italiano di fine millennio ma anche il pilastro su cui si reggeva – a suon di prestiti – il calcio italiano
Dopo i successi imprenditoriali a cavallo tra anni ‘80 e ‘90, Tanzi era oberato dai debiti ma la precaria situazione economica non gli impedì nel 1999 di acquistare da Cragnotti il ramo caseario Eurolat della Cirio per 765 miliardi di lire, una cifra ben superiore al reale valore dell’azienda. Il crollo imprenditoriale precedette quello sportivo. Calisto Tanzi fu condannato nel 2011 a 34 anni per aggiotaggio e bancarotta fraudolenta mentre bisognerà attendere il 2021 perché a Sergio Cragnotti vengano comminati 5 anni di carcere per bancarotta. Uomo chiave per le sorti dei due imprenditori, e non solo, era Cesare Geronzi, amministratore delegato di Capitalia, banchiere che ha scritto i destini del capitalismo italiano degli ultimi cinquant’anni. Il gruppo bancario non era solo la quarta società di credito italiana di fine millennio ma anche il pilastro su cui si reggeva il calcio italiano. Di fatto, teneva in piedi a suon di prestiti le attività imprenditoriali di Cecchi Gori (Fiorentina), Sergio Cragnotti (Lazio), Callisto Tanzi (Parma), Luciano Gaucci (Perugia), Franco Sensi (Roma) e Giorgio Corbelli (Napoli).
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La prima grande deflagrazione del sistema plusvalenze arriva alla fine della stagione 2001/2002. «Il pallone rotola in una crisi da 1.000 milioni» di lire, titolava il Corriere della Sera il 27 luglio 2002. Due club di Serie A (Lazio e Roma), sei di serie B e quindici di serie C erano oberati dai debiti a tal punto che mancavano dei requisiti per iscriversi ai rispettivi campionati. Da lì a pochi giorni la Fiorentina di Cecchi Gori sarebbe fallita, mentre per tutte le altre arrivava in soccorso dal governo Berlusconi il decreto “salva-calcio” il quale consentiva ai club di spalmare su dieci anni i debiti contratti dalla compravendita dei calciatori. Dal baratro si salvarono così Milan, Roma e Lazio. Il collasso del sistema travolse anche Capitalia (inglobata da Unicredit nel 2007) e Cesare Geronzi sarà coinvolto nei processi Parmalat e Cirio per le bancarotte delle quali verrà condannato rispettivamente a 5 e 4 anni di carcere.
Di quanto il “doping amministrativo” fosse sistemico, oltre che radicato ben dentro gli anni Novanta, lo si intuisce dalle parole di Victor Uckmar, presidente dal 1993 al 2001 del Covisoc, la commissione di vigilanza della Figc sui bilanci delle società di calcio, nonché tra i più apprezzati fiscalisti italiani di allora: «In otto anni – dichiarava al Corriere all’indomani del fallimento della Fiorentina – ho assistito a un lassismo crescente, a continue pressioni della Lega per salvaguardare certe squadre senza le quali il campionato sarebbe stato zoppo. Noi denunciavamo, ma la Federcalcio…».
«In otto anni ho assistito a un lassismo crescente, a continue pressioni della Lega per salvaguardare certe squadre senza le quali il campionato sarebbe stato zoppo. Noi denunciavamo, ma la Federcalcio…»
Quelle parole non caddero totalmente nel vuoto. Furono raccolte dalla magistratura che avviò accertamenti a tappeto su tutto il territorio nazionale a tutti i club di serie A, B e C. Almeno sette procure furono coinvolte ma con risultati scarsamente significativi. Accanto alla magistratura ordinaria, per il calcio si mosse anche la giustizia sportiva. I risultati, ancora una volta, arrivarono a fasi alterne. Il Chievo Verona ha sempre lamentato un eccessivo zelo nei suoi confronti, a differenza di altri più blasonati club della serie A.
Un sistema chiuso
La creatività finanziaria non coinvolge soltanto i calciatori di primo piano. È vero piuttosto il contrario: gli scambi più frequenti riguardano giovani professionisti e perfetti sconosciuti, noti ai soli addetti ai lavori e che svolgono un duplice ruolo: rintuzzare i bilanci senza attirare l’attenzione delle autorità competenti. Inoltre, più piccola la compagine e più probabile che i ritocchi ai conti tramite le plusvalenze siano comuni. Impossibile elencare qui tutti i club e tutti i calciatori coinvolti ma come abbiamo visto il sistema delle plusvalenze incrociate è prassi comune almeno fin dai primissimi anni Duemila: oltre vent’anni.
Se le sanzioni dal punto di vista sportivo, salvo rare eccezioni, sembrano quantomeno irrisorie, ancor meno impattanti sono i risultati dal punto di vista della giustizia ordinaria. Due sono i motivi alla base degli insuccessi giudiziari: da un lato, gonfiare le plusvalenze non costituisce reato, nel senso che non esistono parametri oggettivi per quantificare il valore di un calciatore; dall’altro, il reato di falso in bilancio è stato depenalizzato durante il governo Berlusconi proprio nel 2002. Per questi motivi vengono prosciolti Inter e Milan nel 2008 e nello stesso anno la Sampdoria paga un’ammenda di 36.000 euro mentre una multa da 400.000 ciascuna è comminata a Genoa, Udinese e Reggina. Per la Juventus, nel 2009, arriva l’assoluzione «perché il fatto non sussiste».
I riverberi del “doping amministrativo” causano invece un’ecatombe dal punto di vista sportivo: nel 2002 fallisce la Fiorentina, nel 2004 il Napoli, l’anno successivo la stessa sorte tocca a Perugia e Torino; il Parma entra in un vortice da cui ancora non si è ripreso, con la retrocessione nel 2008 e il fallimento nel 2015; nel 2018 tocca al Cesena e la scorsa estate è il Chievo a “scomparire”, per citare solo i casi più noti, mentre i debiti accumulati negli anni giocano un ruolo cruciale anche nei più recenti passaggi in mani straniere di Milan, Inter e Roma. Tra il 2013 e il 2018 si stima siano falliti almeno 38 club professionistici.
Fabio Paratici, Pavel Nedved, Andrea Agnelli, John Elkann e Federico Cherubini prima di un match all’Allianz Stadium a maggio 2021 – Foto: Chris Ricco/Getty Images
Quella del Chievo, inoltre, rimane a oggi l’unica sanzione sportiva comminata per plusvalenze irregolari: 3 punti di penalizzazione in classifica nella stagione 2018/2019. È evidente che una manciata di punti in meno e qualche decina di migliaia di euro di multa sono pene irrisorie per contrastare un fenomeno ormai insostenibile. Almeno fino all’ennesimo collasso o alla prossima legge salva-calcio.
Gabriele Volpi, tutto fuorché calcio
Nel 2010 l’allora presidente del Palermo Maurizio Zamparini è stato inibito dalla Commissione disciplinare della Figc per sei mesi per plusvalenze fittizie, mentre il collega – allora alla guida del Cagliari – Massimo Cellino è stato assolto. Il Palermo di Zamparini è fallito mentre le vicissitudini giudiziarie di Cellino si sono chiuse a suo favore. Almeno a Cagliari, mentre a Brescia, città di cui oggi presiede la società calcistica, è indagato per riciclaggio (la squadra non sembra coinvolta al momento). Come abbiamo raccontato su IrpiMedia, Cellino a Brescia ha preso un manager che viene dallo Spezia Calcio, gestione Gabriele Volpi. Con l’imprenditore italo-nigeriano Cellino condivide anche alcuni trust a schermo delle sue proprietà. Gabriele Volpi ha lasciato la presidenza dello Spezia Calcio a inizio 2021 e un mese dopo la squadra è stata multata dalla Fifa per le transazioni di giocatori minorenni provenienti dall’Accademia di calcio di Abuja – sempre nell’orbita Volpi – a due società di calcio dilettantistiche liguri e poi trasferiti allo Spezia, generando plusvalenze. Trasferimenti simili hanno riguardato anche il HNK Rijeka, società presieduta da Damir Miskovic, uomo d’affari croato a lungo partner di Volpi anche in Nigeria. Trasferimenti dalla Nigeria a Spezia e Rijeka erano già emersi nel 2018, ai tempi dell’inchiesta Football Leaks.
È del 2014 la più famosa plusvalenza in cui è stato coinvolto Gabriele Volpi: quella per Juan Iturbe, attaccante argentino naturalizzato paraguayano, passato dall’Hellas Verona, dopo riscossione della proprietà dal Porto, alla Roma per 22 milioni. A raccontare del ruolo di Volpi è stato l’Espresso, nel 2018: l’allora presidente dello Spezia era infatti proprietario del 20% del cartellino del giocatore attraverso delle società offshore. C’è un altro elemento: l’Hellas Verona era indebitata fino al collo con le società di Gabriele Volpi. Questa circostanza è emersa nel corso di un’indagine a carico del presidente dell’Hellas, Maurizio Setti, scattata nel maggio 2021 per appropriazione indebita e autoriciclaggio. Dal caso Iturbe in avanti, tra Volpi e Setti si è scatenata una guerra giudiziaria su diversi fronti: Lussemburgo, Genova e Bologna. In quest’ultimo caso, si attende il verdetto della Cassazione per stabilire se le società di Setti sono fallite oppure no.
Quest’insolubile intreccio di affari tra presidenti, direttori sportivi e procuratori rispecchia le considerazioni che Antonio Giraudo, all’epoca presidente della Juventus, fece durante Calciopoli agli ispettori della Figc. Venendo da un ambiente completamente diverso, diceva Giraudo, aveva dovuto «studiare il mondo del calcio». «Quello del calcio – sosteneva – è un mondo chiuso, composto nella sostanza da un numero ristretto di persone». Un piccolo universo diviso in galassie, ciascuna con i propri interessi che vanno ben al di là del rettangolo verde.
CREDITI
Autori
Lorenzo Bagnoli
Lorenzo Bodrero
Editing
Lorenzo Bagnoli
Foto di copertina
Roberto Bettega, Antonio Giraudo e Luciano Moggi, allora alla guida della Juventus, in una foto del 2004.
Alessandro Sabattini/Getty Images