Trento, gli effetti del Pnrr sul progetto della Circonvallazione ferroviaria

#LeManiSullaRipartenza

Trento, gli effetti del Pnrr sul progetto della Circonvallazione ferroviaria

Francesca Cicculli
Carlotta Indiano

Ogni sabato mattina, a Trento, un centinaio di persone si riunisce in un presidio permanente nel piazzale dell’officina meccanica Odorizzi. Il luogo non è stato scelto a caso: nei prossimi mesi l’officina potrebbe essere espropriata per far passare la Circonvallazione di Trento. Proposta da Rete ferroviaria italiana (Rfi), l’opera è il terzo tratto ferroviario da realizzare per il quadruplicamento della linea Fortezza (Trentino) – Verona (Veneto), parte integrante del corridoio Scandinavo-Mediterraneo, uno dei nove corridoi pensati per aumentare la capacità di transito merci in Europa. Questo, in particolare, collegherà Finlandia e Malta.

La Circonvallazione di Trento è stata inserita tra le opere strategiche finanziate con i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Definita “Grande Mala Opera” dal Comitato No Tav Trento, che si oppone al progetto, la ferrovia ha ricevuto 930 milioni di euro, circa due terzi delle risorse Pnrr assegnate al Trentino (1,6 miliardi di euro).

L’iter per la sua approvazione ha goduto delle accelerazioni introdotte dal Decreto semplificazioni del 28 luglio 2021, tra cui le procedure più veloci per ottenere la Valutazione di impatto ambientale (Via), necessaria a far partire i progetti.

Il tracciato prevede tredici chilometri di ferrovia, di cui undici di gallerie. Nel dossier dedicato al progetto, Rfi parla di «massimo beneficio per il territorio», ma una parte dei cittadini di Trento, riuniti in comitati, ritiene l’opera inutile. La ferrovia non potrà essere messa in funzione, infatti, se non si completerà prima la galleria ferroviaria del Brennero, necessaria a eliminare una strozzatura che impedirebbe il quadruplicamento dei binari. Ma l’apertura del traforo è al momento prevista per il 2032. I lavori per la Circonvallazione di Trento devono invece rispettare i tempi previsti dal Pnrr che la finanzia e quindi concludersi entro il 30 giugno 2026. Il pericolo è di avere una Circonvallazione inutilizzata fino alla fine dei lavori al Brennero, ma nel frattempo gli scavi per la ferrovia di Trento potrebbero esporre la popolazione al piombo tetraetile, un metallo molto tossico.

La mappa del percorso della linea ferroviaria Brennero – Verona – IrpiMedia

L’opera attraverserà infatti un Sito di interesse nazionale (Sin), un luogo inquinato che, stando al Programma nazionale di bonifica e ripristino ambientale, andrebbe bonificato dal 2005. Tuttavia le bonifiche non sono ancora state completate. Nonostante questo, Rfi sostiene che l’opera rispetti il principio di «non arrecare un danno significativo» (definito in inglese Do no significant harm) all’ambiente, come richiesto dal Pnrr e in generale dai regolamenti europei. IrpiMedia ha contattato l’ingegnere Claudio Geat, presidente del Consiglio circoscrizionale centro-storico Piedicastello di Trento, che ha presentato sette delibere, in opposizione al progetto.

«La paura è che i lavori vadano avanti, magari durino dieci anni e massacrino la città», racconta Geat che spiega i limiti e le problematiche della grande opera di Rfi, a partire dall’iter che ha portato alla sua approvazione.

Il progetto cambia l’abito per il Pnrr

«Erano a un bivio: strada destra con pericolo caduta massi, ma in fondo c’erano 930 milioni. Strada sinistra, più lunga e senza caduta massi, ma senza 930 milioni». Con questa metafora Claudio Geat spiega come mai, secondo lui, le amministrazioni aubbliche abbiano approvato e finanziato la Circonvallazione di Trento. Il motivo sarebbero i fondi del Pnrr, a cui era impossibile rinunciare e che hanno rivitalizzato un progetto già respinto in passato.

La storia dell’infrastruttura parte infatti nel 2003, quando Rfi presenta un primo tracciato alla Provincia autonoma di Trento (PAT), ottenendo parere contrario. La PAT «richiede una maggiore attenzione circa gli aspetti ambientali» e richiede un tracciato che passi alla sinistra dell’Adige.

Dopo 15 anni di discussioni per realizzare il progetto, nel 2018 viene avviata la verifica di compatibilità tra questo e la proposta del Comune di Trento, di interrare una parte della ferrovia storica della città. La nuova proposta di Rfi con le integrazioni richieste dal Comune, viene sostenuta anche dall’allora Commissario straordinario per le opere del Tunnel del Brennero, Ezio Facchin, che nel suo curriculum ha anche un passato come dirigente di Rfi. Comune di Trento, Provincia e Rfi firmano allora un Protocollo di Intesa che integra i due progetti.

IrpiMedia ha visionato l’accordo e ha scoperto che l’ultimo articolo vincola i firmatari a «mantenere strettamente riservati i contenuti degli impegni reciprocamente assunti». Le parti, quindi, si impegnano a non divulgare nessun particolare della progettazione, nonostante si tratti di un accordo tra pubbliche amministrazioni e non tra privati. Contattato da IrpiMedia, il Comune di Trento ha spiegato che «la clausola di riservatezza è un consueto meccanismo contrattuale riproposto anche in queste occasioni a tutela del lavoro che si stava sviluppando. Concluso il lavoro, i contenuti dei protocolli e gli esiti degli studi a cui i protocolli si riferivano sono stati resi pubblici in specifici convegni aperti al pubblico […]. Va precisato che il Piano di fattibilità tecnica-economica è stato pubblicato solo nel novembre 2021 ed è comunque stato oggetto di dibattito pubblico».

A febbraio 2021 il progetto viene presentato alla cittadinanza con una spesa prevista di 930 milioni e «un tempo di realizzazione di dieci anni», racconta Geat. A luglio 2021, con l’approvazione del Decreto semplificazioni, la Circonvallazione viene inserita tra le «opere pubbliche di particolare complessità o di rilevante impatto, la cui realizzazione dovrà rispettare una tempistica particolarmente stringente» e che saranno finanziate con il Pnrr. Contestualmente, viene nominata anche la commissaria straordinaria dell’opera, Paola Firmi, che in quel momento era a capo della Direzione tecnica di Rfi e da luglio 2022 è vicedirettrice generale Sviluppo e standard di Rfi.

Intravista la possibilità di ottenere i finanziamenti del Pnrr, il progetto viene significativamente modificato dai proponenti. Nello studio di fattibilità tecnico-economica presentato a ottobre 2021, infatti, per ridurre i tempi di realizzazione a quattro anni – e quindi rientrare nelle tempistiche del Piano europeo – Rfi aumenta il numero di frese da utilizzare, ma non modifica la spesa prevista.

«È da sottolineare che il costo di ogni fresa, può essere compreso tra i 20 ed i 30 milioni di euro», spiega Geat. Contattata da IrpiMedia, Rfi ha confermato che l’opera, grazie ai fondi del Pnrr «ha potuto beneficiare di una significativa accelerazione, pur salvaguardandone la qualità, completezza e partecipazione, con conseguente riduzione dei tempi. In termini realizzativi, le modalità di scavo sono state rese più efficienti impostando un sistema di cantierizzazione con quattro fronti di scavo meccanizzato».

Una maggiore efficienza quindi, con due scavi in più, ma senza un aumento dei costi previsti. Questo perché, come sostiene l’azienda, «dal 2003 al 2015 il progetto conteneva anche la circonvallazione di Rovereto (in provincia di Trento, ndr) quindi i costi delle opere non sono confrontabili con i costi del progetto della sola circonvallazione di Trento di ottobre 2021. I costi dell’opera, e quindi anche delle frese, sono stati puntualmente computati nella documentazione economica predisposta dal progettista».

La commissaria Firmi, in una conferenza stampa di settembre 2022 ammetterà, però, che i costi dell’opera sono aumentati a un miliardo e 270 milioni, a causa dell’aumento dei costi delle materie prime. La parte non coperta dai fondi Pnrr è stata finanziata dal terzo decreto aiuti del governo.

A dicembre 2021 è partito il dibattito pubblico sull’opera, organizzato da Rfi. I tempi, previsti sempre dal Decreto semplificazioni, sono stati molto stringenti e sul loro decorso sono state sollevate diverse critiche. Il Comitato No Tav di Trento, sulla propria pagina Facebook, lo ha definito una farsa per le modalità con cui è stato condotto: «Pochissimi in città erano a conoscenza degli appuntamenti che Rfi ha dedicato al dibattito. Nemmeno tutti i destinatari degli espropri lo sapevano. Gli orari e i tempi, poi, sono stati inadeguati. Avevano pensato di fissare gli appuntamenti nel pomeriggio ma, dopo pressioni, li hanno spostati in orario serale perché la gente il pomeriggio lavora. Il tutto, infine, si è giocato a dieci giorni dalle feste natalizie». L’azienda ci ha tenuto a precisare che sono stati condotti «numerosi tavoli di confronto con il territorio».

A gennaio 2022 si insedia la Commissione tecnica Pnrr-Pniec, introdotta sempre dal Decreto semplificazioni, per la valutazione di impatto ambientale dei progetti finanziati dal Pnrr. La Commissione è alle dipendenze del ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica (Mase, ex-Mite). Da decreto, doveva essere composta da quaranta membri, ma a novembre 2022, il suo dirigente, Massimiliano Atelli, ha richiesto e ottenuto trenta unità in più. IrpiMedia ha ricercato la lista dei componenti, riscontrando l’ennesimo problema di trasparenza legato al Pnrr. La lista non è pubblica e quindi è anche impossibile accertarsi dell’assenza di eventuali e potenziali conflitti di interessi.

La Commissione tecnica ha avuto circa 45 giorni per valutare le integrazioni richieste al progetto. Questi tempi ristretti sono stati introdotti sempre dal Decreto semplificazioni, che non prevede eccezioni neanche per i progetti più complessi e costosi come quello di Trento. Il parere della Commissione è stato favorevole perché ha considerato «trascurabili» i rischi sul territorio, l’ambiente e la salute pubblica.

Un altro parere favorevole è arrivato dal Comune di Trento. Interrogata da IrpiMedia, la pubblica amministrazione ci ha tenuto a precisare che «il parere positivo del Consiglio comunale espresso con le delibere 25 e 27 del 23 febbraio 2022 includeva un notevole numero di prescrizioni e osservazioni data la complessità dell’intervento e la delicatezza di alcuni siti interessati dal nuovo tracciato ferroviario», specificando, inoltre, che «il progetto in discussione era un Progetto di fattibilità tecnico ed economica (Pfte), ovvero un progetto con grado di dettaglio assimilabile a un progetto preliminare che quindi necessitava di ulteriori approfondimenti di analisi e di sviluppo progettuale» per cui «l’impresa che si è aggiudicata i lavori dovrà tener conto delle integrazioni al progetto votate dal Consiglio e completare gli approfondimenti delle analisi necessarie».

IrpiMedia ha contattato Ezio Facchin, l’assessore esterno con delega in materia di transizione ecologica e mobilità del Comune di Trento ed ex Commissario straordinario del Brennero, che ha precisato: «Il Consiglio comunale attuale ha espresso, pur con tutta una serie di osservazioni e prescrizioni, parere favorevole al progetto di circonvallazione ferroviaria in assoluta continuità con quanto espresso dal Consiglio comunale precedente in occasione della Variante al Piano Regolatore Generale 2019».

Più cauta nelle valutazioni ambientali la Provincia autonoma di Trento, che ha inviato la propria relazione senza esprimere un parere ma allegando le note ricevute dai vari servizi provinciali – faunistico, urbanistico, idrico, per citarne alcuni. I venti pareri ricevuti sono quasi tutti favorevoli, ma prescrivono indagini più approfondite sui vari settori di competenza.

Il 31 maggio 2022 arriva la Valutazione di impatto ambientale della Commissione tecnica Pnrr-Pniec, completata in 175 giorni rispetto ai 360 giorni della procedura ordinaria. L’iter si conclude con la determina positiva della Conferenza dei Servizi (19 luglio 2022) e quella del Comitato speciale del consiglio superiore dei lavori pubblici ad agosto 2022. Quest’ultimo dà parere favorevole al progetto, anche se Rfi non ha modificato il tracciato della ferrovia come richiesto in un primo parere espresso a dicembre 2021. Nell’ambito del dibattito pubblico (17 dicembre 2021), il Comitato speciale aveva infatti consigliato a Rfi di addentrarsi più in profondità nella montagna, per evitare una possibile frana che, secondo dati satellitari del servizio geologico provinciale, si starebbe spostando in direzione della futura ferrovia.

Per il Comitato «le trattazioni relative all’influenza […] delle frane esistenti sono state affrontate in modo sintetico, non completo e non approfondito». Rfi ha specificato a IrpiMedia che la richiesta del Comitato speciale era semplicemente di valutare questa ipotesi, ma che alla fine è stato approvato comunque il tracciato di progetto. Va sottolineato però che il Comitato speciale nel parere di agosto 2022 specifica che la sua proposta di modifica è «stata esclusa sulla base di un approccio semplificato» e di un’analisi non esaustiva.

Il Comitato speciale avanza dubbi anche sui tempi di realizzazione. L’azienda conferma le tempistiche previste poiché hanno intenzione di procedere a una «velocità media di avanzamento di 18 metri al giorno», come è stato calcolato per la tratta Fortezza- Ponte Gardena, «che attraversa contesti geotecnici molto simili a quelli della galleria Trento». Peccato che i lavori di questa tratta, come confermato da Geat, non siano ancora partiti e quindi è difficile considerarla come metro di riferimento.

Rfi ribatte: «Le previsioni riguardo le tempistiche di realizzazione delle opere si basano sull’esperienza del progettista Italferr e sui dati bibliografici disponibili per scenari paragonabili al territorio in argomento. Nel caso dello scavo del Tunnel base del Brennero si sono raggiunte velocità di avanzamento anche di 860 m/mese».

Gli oppositori dell’opera sostengono che Rfi, per verificare l’integrazione delle prescrizioni suggerite, avrebbe fatto valutare il progetto a dei validatori interni all’azienda stessa. «Un consigliere comunale ha chiesto di avere copia del certificato dei validatori – racconta Claudio Geat -ma l’assessore Ezio Facchin, ha risposto che non serviva a niente perché non aveva nulla a che fare con le prescrizioni».

«Quella prodotta dai validatori dell’opera è documentazione interna al procedimento di cui nemmeno il Comune di Trento è in possesso – ha ribattuto a IrpiMedia l’assessore Facchin -. Le prescrizioni però erano già contenute nell’Ordinanza della Commissaria Straordinaria Firmi con evidenza inequivocabile del fatto che erano state recepite, comprese quelle del Comune di Trento. Per questo l’acquisizione di quel documento non aveva significato e non aveva senso attribuire un ruolo decisorio ai validatori», conclude.

La minaccia di una bomba ecologica

Assegnare una Via favorevole al progetto di Rfi, in un territorio come quello di Trento Nord, rischia di avere conseguenze pericolose sulla salute umana. Dal 2005, infatti, l’area è inserita in un Sito di interesse nazionale da bonificare per la presenza nel terreno e nelle acque di falda di piombo tetraetile e derivati del catrame, dispersi rispettivamente da due aziende chimiche, la Sloi e la Carbochimica, ora chiuse. La Circonvallazione di Trento attraverserà proprio questo sito inquinato.

Cosa sono i Siti di interesse nazionale (Sin)

I siti di interesse nazionale (Sin) rappresentano delle aree contaminate molto estese classificate pericolose dallo Stato Italiano. Istituiti nel 1998 all’interno di un programma di bonifica nazionale, sono considerati tra i luoghi più inquinati del territorio nazionale e necessitano di interventi di bonifica del suolo, del sottosuolo e/o delle acque superficiali e sotterranee per evitare danni ambientali e sanitari. La superficie complessiva dei Sin è di circa 170.000 ettari e rappresenta lo 0,57% della superficie del territorio italiano. Passati da 15 a 42 negli ultimi vent’anni, i Sin sono riconosciuti dallo Stato in relazione alle caratteristiche del sito, alle quantità e pericolosità degli inquinanti presenti, al rilievo dell’impatto sull’ambiente circostante in termini di rischio sanitario ed ecologico, nonché di pregiudizio per i beni culturali ed ambientali. Secondo l’ultimo report del Mite sulla stato delle procedure, aggiornato a giugno 2022, solo l’area della Valle d’Aosta è stata attualmente bonificata.

Scheletro dell’edificio forni dell’ex Sloi, fabbrica che produceva piombo tetraetile, chiusa a luglio del 1978, a seguito di un incendio – Foto: Chiara Segalla
Vista interna dell’edificio forni dell’ex Sloi – Foto: Chiara Segalla

Ricercatori e medici da anni parlano di bomba ecologica: come descritto dal report Sentieri (Studio epidemiologico nazionale territori e insediamenti esposti a rischio da inquinamento) c’è correlazione tra l’esposizione al piombo tetraetile e l’incidenza di alcune malattie del sistema nervoso centrale, come Parkinson e Sclerosi laterale amiotrofica, oltre che di alcune tipologie di cancro. Il disinquinamento delle aree ex Sloi è estremamente problematico tanto che da oltre quarant’anni i terreni sono abbandonati, in quanto la bonifica è difficile ed estremamente costosa.

«Ovvio che quando arrivano 930 miliardi dall’Europa, lo Stato cerca di accaparrarseli, ma questi soldi potevano essere utilizzati per il risanamento dell’area», lamenta a IrpiMedia Elio Bonfanti del comitato No Tav Trento, che si oppone all’opera fin dalla sua a presentazione nel 2021. La bonifica dei Sin spetta allo Stato, ma la Circonvallazione passerà per una roggia, Fossa Armanelli, che è di proprietà di Rfi. La bonifica di questo canale spetta quindi all’azienda, ma non c’è traccia dell’intervento nel piano di fattibilità tecnico-economica presentato per ottenere la Via.

In merito, Rfi sostiene: «Le opere interferiscono solo parzialmente con i Siti contaminati di interesse nazionale di Trento Nord. Le aree interferite saranno bonificate da Rfi (inclusa la Roggia Armanelli). Importi economici e tempi sono già considerati nelle attività di appalto», rimandando la questione bonifiche a chi effettuerà i lavori. Eppure l’Agenzia provinciale per la protezione dell’ambiente (Appa), nel parere inviato alla provincia, è stata molto critica sul progetto, proprio perché il proponente non menzionava nel progetto la necessità di bonificare l’area.

«Non risulta definito alcun intervento di tutela della popolazione circostante rispetto alle emissioni di contaminanti volatili derivanti dall’escavazione dei terreni contaminati nelle aree ex Sloi, ex Carbochimica e roggia Armanelli», scrive l’Appa. Nonostante questo Rfi scrive a IrpiMedia che «l’intervento non comporta impatti ambientali significativi negativi permanenti». Eppure, a novembre 2022, nell’ultima legge di bilancio, è stato approvato un emendamento a firma delle deputate Sara Ferrari (Partito democratico) e Vanessa Cattoi (Lega) per «individuare con precisione l’estensione e la profondità delle sostanze inquinanti presenti nelle aree interessate dalla realizzazione della Circonvallazione di Trento». Il governo ha stanziato due milioni di euro da spendere entro il 2024, confermando la presenza di inquinanti nell’area. Questo potrebbe ritardare ulteriormente l’inizio dei lavori, ​​ma non è ancora chiaro se l’Europa concederà proroghe al progetto. Sicuro è che i ritardi potrebbero negare all’Italia le prossime tranche del Recovery Fund.

Il dibattito sui monitoraggi ambientali

I cittadini che si oppongono al progetto criticano anche le modalità con cui si è ricercato l’inquinamento nell’area di passaggio della ferrovia. Le operazioni di monitoraggio prescritte dal Consiglio comunale a febbraio 2022 sono state portate avanti dall’Appa, che, in seguito alla richiesta di informazioni sui Sin da parte dell’onorevole del Partito democratico Sara Ferrari (fino al 2022 nel Consiglio della provincia autonoma di Trento) ha precisato che «si è ben consci che il piombo tetraetile è presente nel rio Lavisotto, anche se non nel primo tratto attualmente in fase di scavo, bensì a valle della confluenza con la roggia Armanelli. Le tracce di Piombo tetraetile rilevate in alcune delle indagini eseguite in passato (2003) in questo primo tratto del rio Lavisotto, attualmente in fase di bonifica, non hanno trovato alcuna conferma nelle analisi dei numerosi campioni prelevati nell’ambito delle recenti indagini che hanno interessato lo strato di sedimento oggetto di bonifica (2-3 metri di profondità). Infatti in tutti i campioni eseguiti non è mai stato rilevato Piombo tetraetile seppur ricercato».

Se si guarda ai documenti relativi all’inquadramento del Sin di Trento Nord presentati durante la XVII legislatura alla Camera, si legge però che la Roggia Armanelli presenta una forte contaminazione da piombo tetraetile fino alla profondità di 4,8 metri mentre il rio Lavisotto presenta una contaminazione da piombo, piombo tetraetile, ipa e altri inquinanti che per alcuni parametri raggiunge gli 11 metri di profondità dal fondo roggia sul lato Carbochimica, profondità maggiori di quelle oggetto dei monitoraggi più recenti. «I monitoraggi che hanno fatto fare non colgono il problema. Perché se cerco l’inquinante dove non c’è è difficile trovarlo», conferma l’ingegnere Claudio Geat.

Un’opera inutile

Per il Comitato No Tav di Trento, la ferrovia è un’opera inutile perché non motivata da un reale aumento del trasporto merci, che invece era stato previsto da Rfi al momento della presentazione del progetto nel 2003. Al contrario di quanto dichiarato da Rfi, «la ferrovia del Brennero può trasportare fino a trenta milioni di tonnellate all’anno, ma attualmente, senza traforo, ne trasporta quattordici, molte meno di quella che è la sua capacità», dichiara Elio Bonfanti del Comitato No Tav Trento, per cui, se si volesse veramente favorire la transizione ecologica, sarebbe più utile investire sul trasferimento del traffico dalla gomma alla ruota, piuttosto che su un progetto di allargamento di un’infrastruttura ancora non satura.

«Non serve la Circonvallazione, serve una politica trasportistica che adegui il prezzo della tariffa autostradale e le accise. Solo questo spingerebbe il traffico sulla sua via più naturale, che è l’attraversamento della Svizzera», afferma Bonfanti, ricordando che attualmente i governi austriaci e italiani hanno sempre favorito la circolazione di mezzi pesanti sull’A22, grazie a prezzi bassi del diesel, incentivati in Austria, e a un basso costo del pedaggio al valico del Brennero, da parte italiana. «Ogni autocarro arriva a risparmiare circa trecento euro per ogni singolo pieno», conclude Bonfanti, sottolineando come mai le aziende di logistica preferiscano ancora il trasporto su gomma.

Opposto il parere di Rfi e del Comune di Trento per cui la Circonvallazione favorirà proprio il passaggio il trasporto su rotaia, con benefici sull’inquinamento atmosferico e acustico.

L’8 febbraio, Rfi ha annunciato l’aggiudicamento dei lavori per la progettazione esecutiva e la realizzazione della Circonvallazione a un consorzio di imprese. «In questi giorni verranno consegnate le prestazioni al consorzio che realizzerà la progettazione esecutiva entro l’autunno», ha specificato Rfi a IrpiMedia, confermando un ulteriore ritardo nel cronoprogramma. Le opposizioni al progetto degli ultimi due anni quindi non sono state sufficienti. La comunità di Trento che si oppone è piccola in confronto ai giganti con cui si scontra.

L’ultimo capitolo di questa battaglia è iniziato il 17 ottobre 2022, quando 23 cittadini residenti lungo il tracciato della Circonvallazione o proprietarie di abitazioni che saranno espropriate e abbattute, hanno presentato un ricorso al Tar di Trento per annullare i gli atti adottati da Rfi e dalle pubbliche amministrazioni coinvolte. Il Tar trentino ha rimandato la decisione al Tar del Lazio, perché l’opera figura tra le opere strategiche finanziate dal Pnrr. Questo, l’11 gennaio 2023, ha rigettato il ricorso in quanto «non sussistono i requisiti per la concessione della richiesta», perché per l’opera è stato seguito un iter «lineare e privo di criticità», come prescritto dal decreto semplificazioni «per le opere di particolare complessità o di rilevante impatto».

Le risposte complete di Rfi e del Comune di Trento alle richieste di IrpiMedia

CREDITI

Autori

Francesca Cicculli
Carlotta Indiano

Editing

Giulio Rubino

In partnership con

The Good Lobby Italia

Infografiche & Mappe

Lorenzo Bodrero

Foto di copertina

Il tunnel del Brennero ad agosto 2017 durante i lavori di realizzazione
(Picture alliance/Getty)

Pochi, mal pagati e non formati: sono i dipendenti pubblici italiani. E il Pnrr resta al palo

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Pochi, mal pagati e non formati: sono i dipendenti pubblici italiani. E il Pnrr resta al palo

Andrea Ballone

Iritardi nella realizzazione del Piano di ripresa e resilienza sono imputabili alle piccole amministrazioni territoriali: impreparate e sotto organico. A dirlo è la Corte dei conti. La seconda rata del Recovery Fund prevista per l’Italia è arrivata, ma prima del suo accredito, del quale il nuovo ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti si è detto orgoglioso, è arrivata anche la bacchettata della Corte dei conti italiana.

Più che una vera e propria bacchettata è stata una tirata d’orecchi, che la dice lunga però sullo stato della pubblica amministrazione italiana, in modo particolare quella locale, che sembra arrancare dietro ai progetti del Pnrr. Le amministrazioni locali sono quelle in maggiore difficoltà nella realizzazione dei target imposti dall’Unione europea. Ed è un vero peccato, perché a disposizione ci sono molti fondi che potrebbero intervenire a sistemare il patrimonio immobiliare dei comuni, che in Italia è tutt’altro che nuovo, ma anche i servizi, provati da un decennio di patti di stabilità, che vincolavano la spesa corrente (quella che copre in prevalenza i servizi) a una percentuale legata ai precedenti bilanci.

Fin dalla metà degli anni 2000 fu l’amministrazione centrale, su precisa indicazione dell’Unione europea, a imporre limiti di spesa. L’obiettivo era tenere sotto controllo gli sprechi e l’indebitamento, ma il risultato è stato quello di impoverire in modo progressivo anche gli organici delle amministrazioni. Soprattutto di quelle comunali, che oggi si arrovellano su come spendere i fondi che proprio dall’Europa stanno arrivando.

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Il Pnrr potrebbe essere quella boccata d’ossigeno che alle amministrazioni manca, ma senza un’adeguata capacità di respirare si può solo rimandare il soffocamento. Come è successo negli ultimi 12 anni ad esempio a Ischia, l’isola travolta dall’alluvione lo scorso novembre. Il Ministero dell’ambiente aveva stanziato tre milioni di euro per prevenire il dissesto idrogeologico. Ma non sono mai stati spesi. Altri ne arriveranno proprio con il Pnrr e si sta già chiedendo il supporto dell’Istituto Ispra (specializzato in studi ambientali) per spendere quei fondi che rischiano di ritornare all’Europa.

Chi ha in mano il pallino sono i cosiddetti Rup (Responsabili unici di progetto) cioè i tecnici comunali, che rischiano di essere però numericamente insufficienti, e tecnicamente impreparati a gestire questi fondi. «Siamo noi – racconta l’assessore di un piccolo comune lombardo – alla sera a guardare i bandi e capire quelli ai quali si può partecipare». Di questo gap di competenze se n’è accorta a luglio anche la Corte dei conti che nel suo report sul Pnrr di luglio scriveva delle difficoltà delle «amministrazioni per finanziare i progetti previsti dal piano, tenuto conto che le ultime stime elaborate dell’Ufficio parlamentare di bilancio evidenziano come nel 2021 ci sia stata una realizzazione degli interventi del Pnrr inferiore a quanto ipotizzato, con una spesa pari al 37,2 per cento di quanto preventivato».

Lo strumento di controllo punta poi il dito proprio contro le amministrazioni. Se da un lato si spiega come l’andamento della realizzazione del piano sia nel complesso positivo nel raggiungimento di obiettivi e target intermedi, la struttura di controllo segnala come sia «emersa la problematica connessa alla capacità di spesa delle singole amministrazioni».

Esclusi perché senza impiegati

Il Pnrr ha scoperchiato così il vaso di Pandora della pubblica amministrazione italiana, i cui impiegati sono sempre meno, spesso impreparati e incapaci di gestire una situazione di questo tipo. «Le difficoltà che gli enti beneficiari potrebbero riscontrare sono di natura amministrativa. – scrive la Corte – Infatti, soprattutto i comuni più piccoli da tempo rappresentano carenza di risorse umane qualificate, nonché numerose complessità burocratiche e contrattuali che aggravano la procedura di affidamento delle opere».

Quello che scrive la Corte dei conti è una relativa novità. Perché già nel giugno 2021 il Ministero per la pubblica amministrazione denunciava una carenza di personale in rapporto agli altri paesi europei e parlava di una pubblica amministrazione «anziana» con un’età media di cinquantadue anni per gli impiegati comunali e cinquantasei per i dirigenti. Il rapporto presentato al Forum della pubblica amministrazione parlava di una spesa per il personale inferiore di 110 milioni di euro rispetto a dieci anni prima. Ma nel 2021 nel rapporto sulla pubblica amministrazione si scriveva: «Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza saranno previsti investimenti in Capacità amministrativa della Pa per 1,3 miliardi, e ulteriori 0,4 miliardi di fondi strutturali Ue e cofinanziamento nazionale».

Se si analizzano i milestone per la pubblica amministrazione si scopre però che la prima scadenza era prevista per il 30 giugno 2022 e quella definitiva per il 30 giugno 2023. In pratica gli investimenti per rimpolpare il personale sarebbero arrivati in un secondo momento rispetto ai fondi per realizzare le opere, che necessitano di maggiore personale.

I numeri della Pubblica amministrazione
Che l’amministrazione pubblica sia in una crisi pesante lo certifica anche il rapporto della Fondazione Ifel, che ha il compito di vigilare sull’andamento della Pa. Scrive, infatti, il rapporto: «Negli ultimi 14 anni il personale comunale in servizio ha subito una progressiva e sensibile riduzione. Se, infatti, nel 2007 ammontava a 479.233 unità, nel 2020 il valore diminuisce del 27,4%. Le riduzioni percentuali più significative, pari al -3,2%, al -3,1% e al -4,0%, sono quelle rilevate nel passaggio tra il 2011 e il 2012, tra il 2014 e il 2015 e tra il 2017 e il 2018: nel primo periodo, infatti, il personale comunale in servizio è diminuito, in valore assoluto, di oltre 14 mila unità, nel secondo periodo di 13mila e nel terzo di oltre 15mila unità. Anche nel passaggio dal 2019 al 2020 la variazione percentuale è significativa e pari al -3,8%. Anche ponderando il numero di unità di personale comunale in servizio per 1.000 abitanti nell’intervallo temporale osservato, si registra una riduzione del dato, passato da 8,04 nel 2007 a 5,94 nel 2020».

Nel 2020 il blocco dei concorsi non ha permesso al turnover di ritrovare un equilibrio

Eppure qualcosa era stato fatto. Nel 2020 si erano aperte molte possibilità per integrare le piante organiche. Era stato predisposto lo sblocco del turn over che ormai da anni impediva gli ingressi di nuove leve nel settore pubblico. All’inizio si parlava di una nuova assunzione ogni quattro licenziamenti, poi progressivamente le maglie si sono aperte, ma non a sufficienza, anche perché si prevede un’ulteriore fuoriuscita di 300 mila lavoratori nei prossimi anni, dopo l’esodo legato alla decisione di quota 101, che ha visto andare in pensione soprattutto lavoratori del pubblico impiego.

«Abbiamo avuto un regime di turnover negativo fino al 2018 – spiega Alessandro Purificato della Cgil Fp – Gli enti pubblici potevano assumere sempre meno personale di quello che andava in pensione. Siamo arrivati al 100% soltanto nel 2019, ma sono stati poi stabiliti criteri che non sono pratici».

La possibilità di assumere è data oggi, infatti, dal rapporto tra le entrate correnti e la spesa media. Ci sono tre fasce. In una di queste ci sono i comuni in condizioni finanziarie difficili che hanno meno possibilità di turnover. I centri dove la popolazione è mediamente più ricca, e che di conseguenza hanno un gettito Irpef maggiore, hanno anche più possibilità di assumere nuove forze e di garantire quel ricambio generazionale che rende le amministrazioni più competitive quando partecipano ai bandi. Al contrario, difficilmente in un piccolo centro arriverà un giovane ingegnere preparato e aggiornato, che possa far fare quel salto di qualità al comune.

Il fatto che si sia deciso di tornare ad assumere nel pubblico impiego, inoltre, non sta a significare che i giovani ci vogliano andare. Il posto fisso, tanto gradito alle vecchie generazioni, oggi sembra piacere meno a quelle nuove. Soprattutto a coloro che hanno competenze tecniche spendibili sul mercato.

«Il lavoro nel pubblico – dice Purificato – è sempre meno appetibile. Innanzitutto dal punto di vista economico. Se da un lato il contratto base è simile agli altri, non ci sono integrazioni. Nell’ultimo contratto nazionale di categoria non sono previsti i quadri. Un funzionario amministrativo in Italia può arrivare al massimo a 35 mila euro di ral, mentre nei comuni si sta sui 24 mila euro. L’unica integrazione è quella della cosiddetta posizione organizzativa». Che viene assegnata di solito in modo arbitrario dalla giunta nei comuni.

«L’altro punto- continua Purificato – che va affrontato è quello dei concorsi. Qualcosa aveva fatto il decreto semplificazione di Brunetta, riducendo i concorsi a domande con risposta multipla». Anche il ricorso ai precari, che potrebbero essere utilizzati per la progettualità del Pnrr non è semplice. «Le offerte a tempo determinato – continua il sindacalista – se non sono economicamente remunerative, subiscono la concorrenza del privato. Un tempo determinato nel pubblico percepisce meno di uno nel privato, quindi significa che si spostano a lavorare nel privato».

Il Pnrr non ha risolto i problemi, ma li ha fatti emergere: in primis la formazione

Ma chi sono i dipendenti comunali italiani e quali sono le loro competenze?

La formazione in questi anni è stato un nodo cruciale. Il rapporto Ifel, che si dedica allo studio della finanza locale rivela innanzitutto come il livello dei titoli di studio degli impiegati della Pa non sia altissimo. «Poco più della metà dei dipendenti comunali a tempo indeterminato, il 54,9%, – scrive il rapporto – è in possesso di un diploma di scuola superiore come massimo titolo di studio conseguito. Il 18,1% ha terminato gli studi con la scuola dell’obbligo, il 27% ha conseguito la laurea (breve o magistrale) o titoli superiori».

Ma anche la formazione in corso d’opera lascia a desiderare. Lo spiega sempre il rapporto: «A peggiorare il quadro appena descritto si aggiunge l’imposizione, da parte del legislatore, di vincoli alle spese per la formazione del personale comunale che si attestano su livelli dimezzati rispetto a quelli pre 2011. Nonostante una lieve ripresa nel 2019, negli ultimi 4 anni tali spese si aggirano infatti tra i 18 e 19 milioni di euro complessivamente, ossia circa 50 euro per unità di personale, contro la media 2007-2010 di 42 milioni di euro in valori assoluti e di 89 euro pro capite».

Lo stesso rapporto specifica poi come: «Il rilancio della formazione dei dipendenti pubblici è uno snodo cruciale per la “transizione amministrativa”, elemento imprescindibile per il raggiungimento degli obiettivi di crescita economica e di benessere collettivo previsti dal Pnrr».

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Da anni i sindacati chiedono di puntare sulla formazione e forse ora qualcosa si sta muovendo. «Sono previste – dice Purificato – nuovi ingressi nelle amministrazioni comunali e nuove risorse per la formazione delle risorse umane impegnate in tali realtà». Ma in chiave Pnrr potrebbe essere tardi, perché intanto la marea di chi sta abbandonando il lavoro non si ferma. «Nel momento stesso in cui stiamo parlando – continua – sono andate in pensione tre o quattro lavoratori del pubblico. Il rischio è che si debba ricorrere nell’immediato a consulenti esterni».

Il problema è capire chi li potrebbe pagare. Un modo per evitare l’assurdo che vedrebbe i comuni pagare un consulente esterno per poter accedere a un bando che gli porti denaro di cui necessita, c’è. «Si possono utilizzare – spiega Purificato – quote di Pnrr per la realizzazione di un progetto specifico, ma ci si trova a ricaricare la spesa sui fondi che si vanno a prendere. Questo accade quando l’ente non ha al proprio interno gli skill necessari per creare un bando».

C’è il rischio quindi di ricaricare il costo di chi fa il progetto del bando sul bando stesso, andando ad assottigliare la quota di fondi che effettivamente vengono spesi per le opere. L’alternativa è quella di accontentarsi, cioè partecipare non ai bandi che permetterebbero la realizzazione di progetti che si vogliono o si devono fare, ma solo a quelli che si possono fare con le professionalità interne già presenti.

In parte è già stato così e lo dimostrano il proliferare di aree fitness nei parchi in Lombardia, che spesso giacciono inutilizzate, o gli interventi di efficientamento scolastico su edifici nella migliore delle ipotesi da ristrutturare perché troppo vecchi. Ma i bandi erano abbordabili per tutti e i soldi, quindi, disponibili subito. «C’è il rischio – continua Purificato – che l’eccessivo ricorso ai consulenti lasci un giorno gli enti prosciugati, perché a volte serve una filiera più composta».

La nascita della Pnrr Academy che si occupa di formazione per amministratori

Lo stesso legislatore si era reso conto nei mesi scorsi che la partita del Pnrr rischiava di passare sopra le teste delle piccole realtà territoriali. Anche per questo è stata chiamata in causa la Scuola nazionale dell’amministrazione, che già da settembre 2021 ha iniziato a realizzare corsi indirizzati ai Rup (responsabili unici di progetto). La proposta formativa è stata messa in campo. Nei programmi di quest’anno la scuola propone 260 corsi, che si dividono tra 234 di formazione continua e 120 di nuovi corsi dedicati al Pnrr. I dipendenti comunali vi hanno partecipato, grazie anche alla possibilità di collegarsi da remoto.

I dati Ifel parlano di una partecipazione media di 477 persone per evento organizzato in collaborazione con la Pnrr Academy, diretta emanazione della Scuola nazionale di amministrazione, presieduta dall’ex ministro Paola Severino. Un terzo delle stesse attività formative erogate dalla Fondazione Ifel si è concentrata su “Appalti, Contratti ed Investimenti”. Poco meno del 40% dei webinar ha affrontato questioni ed approfondimenti legati a tale tematica. In particolare, degli 82 webinar realizzati, 49 sono stati erogati nell’ambito della Pnrr Academy. I webinar incentrati sulle novità normative in materia di personale comunale e di lavoro agile hanno avuto un’ampia diffusione: sebbene rappresentino il 10% del totale dei webinar erogati da Ifel, i partecipanti sono poco meno di un quinto del totale dei discenti.

Ma non è stata l’unica risorsa messa in campo. La stessa Corte dei conti sottolinea come per raggiungere l’obiettivo di aiutare i comuni si sia cercato di fare accordi con Invitalia e Ministero dell’economia e delle finanze, ma questi in gran parte sono naufragati. È stato così aperto il portale Italia Domani, che nei prossimi mesi verrà passato al setaccio da parte della Corte dei conti.

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Andrea Ballone

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L’inaugurazione del “Governo Meloni” con i suoi 24 rappresentanti nella foto ufficiale di ottobre 2022
(Antonio Masiello/Getty)

Bassa saturazione. L’Appennino bolognese tra mafie, spopolamento e soldi del Pnrr

#LeManiSullaRipartenza

Bassa saturazione. L’Appennino bolognese tra mafie, spopolamento e soldi del Pnrr

Cecilia Fasciani
Andrea Giagnorio
Sofia Nardacchione

Le alte vallate dell’Appennino bolognese sono costellate di fabbriche, piccole e grandi, non più in attività o con sempre meno lavoratori. Intorno, piccoli comuni caratterizzati da indici di fragilità sociale, demografica ed economica sempre più alti. Così nell’area montana che divide l’Emilia dalla Toscana lo spopolamento e la diminuzione dei posti di lavoro vanno di pari passo: gli ultimi casi riguardano tutti il settore delle macchine per caffè, che occupava più di 1.500 persone solo nella vallata di Gaggio Montano, comune che conta poco meno di cinquemila abitanti. Anche lo storico “distretto delle macchinette” è infatti colpito da chiusure e delocalizzazioni: «Se iniziano a chiudere queste fabbriche la montagna inizia a morire», afferma Elisa Pedrini, lavoratrice che in sette anni ha vissuto il rischio di due delocalizzazioni: quella della Saeco Vending nel 2015 e quella della Saga Coffee nel 2021.

In entrambi i casi, gli scioperi delle persone che ci lavoravano, per la maggioranza donne, sono andati avanti per settimane: «Qui il lavoro è vitale – spiega il sindacalista della Fiom Cgil di Bologna Primo Sacchetti – perché l’economia di tutto l’Appennino si basava su questi stabilimenti: chiudere uno stabilimento mette a rischio l’intera tenuta sociale del territorio».

La mafia dei pascoli nei luoghi dell’eccidio nazifascista

Mentre lo spopolamento aumenta, aumenta anche la disattenzione e, di pari passo, il rischio di infiltrazioni mafiose, ancora di più con l’arrivo di una quantità di soldi che non si è mai vista prima, come quelli che arriveranno dal Piano nazionale di ripresa e resilienza: 90 milioni solo sull’Appennino bolognese.

«Ormai l’ambiente montano è un territorio marginale che viene abbandonato in maniera inesorabile da vent’anni a questa parte», spiega Isidoro Furlan, Generale dei Carabinieri in riserva che nel corso della sua vita lavorativa si è specializzato in operazioni anti bracconaggio e contro truffe e sofisticazioni agroalimentari. «Gli appennini – continua – sono aree marginali e l’abbandono ha portato al loro depauperamento: neanche i legittimi proprietari sanno più i confini dei propri terreni, perché sono abbandonati da anni. Per cui i territori sono alla mercé di chi fa le truffe». E infatti di truffe ce ne sono state, su terre abbandonate ma non solo, anche in luoghi dove ogni anno camminano migliaia di persone: nei luoghi dell’eccidio di Marzabotto, dove solo nell’autunno del 1944 i nazifascisti hanno trucidato 775 persone tra civili e partigiani, è arrivata quella che è stata definita “mafia dei pascoli”.

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La compagine criminale finita al centro del maxiprocesso Nebrodi, che prende il nome dal parco naturale che si estende tra le province di Messina, Catania ed Enna e che è giunto a sentenza nella notte del 31 ottobre scorso con 91 condanne per più di 600 anni di carcere, è riuscita a guadagnare anche sui terreni del Parco storico di Monte Sole, grazie ai fondi europei per l’agricoltura. Un meccanismo che collega la Sicilia all’Emilia-Romagna e non solo: le truffe della mafia dei pascoli hanno coinvolto terre di tutta Italia. Truffe che si basano sulla falsificazione di carte che attestino il possesso o l’affitto di terreni invece abbandonati o non utilizzati a fini agricoli dai reali proprietari, per portare i fondi europei che avrebbero dovuto aiutare allevatori e agricoltori nelle mani dei clan dei Batanesi (per cui è stata riconosciuta la mafiosità) e dei Bontempo Scavo.

Truffe da milioni di euro – 10 milioni in sette anni su tutto il territorio nazionale, duecentomila solo sull’Appennino bolognese – portate a termine anche grazie a professionisti compiacenti: tra questi c’è Giuseppe Scinardo Tenghi, che per anni è stato operatore del Centro autorizzato di assistenza agricola tra Enna e Trapani e, prima, impiegato dell’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (Agea). Tenghi, condannato in primo grado a quattro anni per le truffe sui terreni, grazie alla conoscenza acquisita sul sistema di controllo dei fascicoli aziendali dei produttori agricoli e sulle vulnerabilità del sistema gestionale per i pagamenti dei contributi comunitari erogati da Agea, era il soggetto ideale per riuscire a inserirsi nel business milionario: secondo i giudici, nel 2014, 2015 e 2016 (unico anno in cui il contributo non venne erogato) attraverso la sua impresa Geo-Zoot ha indotto in errore l’Agea, falsificando la carte per dimostrare che la sua impresa avesse in uso ettari di terreno del Parco storico di Monte Sole e facendosi quindi erogare contributi dal Fondo Europeo Agricolo di Garanzia.

«L’operazione Nebrodi ha tirato fuori delle forti interconnessioni con altri pezzi di territorio: sono coinvolti l’Abruzzo, l’Emilia-Romagna con Marzabotto e tanti altri luoghi. Non è quindi solo un fenomeno siciliano, ma un fenomeno più ampio che riguarda il nostro Paese e non solo. In questi lunghi anni intorno al fenomeno ha vinto il silenzio. E, dentro a questo silenzio, ci sono altri due protagonisti: la paura e le connivenze. Questa vicenda dimostra il mutamento delle mafie: sono sempre state liquide, si sono adattate ai contenitori». A raccontarlo è Giuseppe Antoci: ex presidente del Parco dei Nebrodi, tra i primi a portare alla luce il meccanismo di pressioni ed intimidazioni che subivano gli agricoltori e il giro milionario di soldi legato alle truffe sui fondi europei, è stato minacciato più volte ed è sopravvissuto a un attentato.

Il silenzio di cui parla Antoci attraversa anche l’Appennino bolognese e lo fa in un luogo simbolico per la comunità di tutta la regione: quello dove ogni anno migliaia di persone festeggiano il 25 aprile, camminando sui luoghi delle stragi avvenute quasi ottant’anni fa, dalla Scuola di Pace fino al cippo con la Stella Rossa della Brigata partigiana, in cima a Monte Sole, passando per il Cimitero di Casaglia.

Qua il silenzio è quello dei proprietari dei terreni finiti al centro della truffa: non è detto che ne fossero a conoscenza, ma contattati non hanno comunque voluto parlare. Uno dei casi riguarda una cittadina privata, proprietaria di terreni in parte dati in affitto e coltivati, in parte completamente abbandonati, come ha dichiarato la sua segretaria: «È stata convocata per testimoniare perché sembrava che ci fosse una truffa dietro ma lei non ne sa niente ed è completamente all’oscuro». Ma altri casi coinvolgono anche istituzioni pubbliche, come l’Ente di gestione per i Parchi e la Biodiversità – Emilia Orientale, istituito dalla Regione Emilia-Romagna per la gestione di aree protette, a cui appartengono i terreni nel cuore del Parco storico.

Il memoriale per le vittime dell’eccidio di Monte Sole all’interno del Parco Storico – Foto: Cecilia Fasciani

Sandro Ceccoli, presidente dell’ente regionale, ha affermato più volte – raggiunto telefonicamente, per mail e di persona nella sede lavorativa – di non essere in alcun modo a conoscenza della vicenda e di non essersi informato in merito, neanche dopo le segnalazioni inviate: «Non abbiamo niente da dire e qui non abbiamo neanche le persone che possano dare queste indicazioni», ha dichiarato.

Reticoli mafiosi

Così, mentre silenzio e disattenzione sembrano imperversare, nelle vallate dell’Appennino a sud di Bologna ci sono già stati anche altri casi di infiltrazioni mafiose. Ce n’è uno in particolare di cui in pochi parlano ma che racconta bene il rischio dell’arrivo delle mafie dove ci sono soldi e dove c’è silenzio: è il caso emerso con l’inchiesta Reticolo, che colpisce uno dei comuni più grandi del territorio, Porretta Terme. E in particolare un luogo: una casa di riposo a pochi passi dalle storiche terme, costruita lungo uno degli affluenti del fiume che attraversa la città prima di scendere a valle.

«Un affare ideale», lo chiamano gli inquirenti nell’ordinanza dell’operazione che nell’ottobre del 2021 ha portato a numerose misure cautelari con l’accusa di associazione mafiosa: la casa di riposo Sassocardo secondo l’accusa è stata depredata da due persone – Fiore Moliterni e Francesco Zuccalà – ritenute vicine al clan di ‘ndrangheta Barilari-Foschini. Da Crotone e da Milano, nel 2015 i due arrivano sull’Appennino per subentrare nella proprietà della srl Albergo Residenziale Sassocardo facendosi carico dei quattro milioni di euro di debiti della precedente proprietaria, Stefania Semprini. Il motivo, rilevare l’immobile di pregio.

«La proprietà si è messa in mano a qualcuno, disponibile a rilevare la proprietà con il fine ultimo di dismettere l’attività e probabilmente impadronirsi di quello che era l’elemento di maggior pregio, cioè dell’immobile».

A spiegarlo è il sindacalista della Funzione Pubblica della Cgil di Bologna Simone Raffaelli, che ha seguito il caso per il lato che riguarda le lavoratrici della casa di riposo. Prima di dare voce a loro, però, bisogna capire il meccanismo che c’era dietro al progetto criminale: dopo diversi passaggi societari e la creazione di nuove entità, accompagnate, secondo quanto emerge dall’inchiesta, da fatturazioni fittizie e riciclaggio, Moliterni e Zuccalà avrebbero spogliato la casa di riposo con lo scopo di portarla al definitivo fallimento. In mezzo finiscono proprio le lavoratrici, costrette a dimissioni volontarie dalle società che man mano fallivano e venivano sostituite da nuove create ad hoc. Vittime, se non accettavano nuovi contratti che nulla avevano a che fare con le loro mansioni, di minacce di licenziamento e di mancati pagamenti: «Loro cercavano un’azienda in difficoltà e il Sassocardo era veramente in grossa difficoltà e la dottoressa Stefania Semprini non ha saputo vedere il pericolo», spiega Francesca Accorsi, l’unica delle lavoratrici che ha voluto parlare di quello che è successo e che, comunque, non vuole fare nomi.

Un meccanismo, anche in questo caso, di silenzio, che si lega strettamente al luogo dove si è inserito il progetto criminale: una piccola comunità dove le voci circolano in fretta. «Il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore è molto più stretto, molto più vicino, si incontrano, si conoscono tutti», spiega l’avvocata giuslavorista Antonella Gavaudan. «Se il lavoratore fa valere un suo diritto tutta la comunità ne viene a conoscenza: persone che potrebbero denunciare o segnalare si tirano indietro e temono di farlo proprio perché in una piccola realtà i riflessi potrebbero essere importanti».

Ma c’è anche un altro tema che torna: quello del lavoro e dello stato di bisogno su cui fanno leva, tradizionalmente, le organizzazioni criminali: «Il primo gruppo di lavoratrici sicuramente avevano bisogno di quel lavoro e hanno fatto fatica a trovarne un altro in un contesto come quello di Porretta Terme, dove non è facile trovare un’occupazione. E hanno quindi accettato di soggiacere a delle condizioni che non erano buone», dice sempre Raffaelli. Per le lavoratrici, secondo quanto emerge dall’ordinanza dell’operazione, c’erano due opzioni: perdere il lavoro e anche gli arretrati che non erano stati pagati o accettare le condizioni imposte. «Noi non abbiamo considerato il ricatto o l’intimidazione vera e propria – ricostruisce Francesca Accorsi – perché ci si prospettava l’idea di continuare un rapporto di lavoro».

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Intimidazione, ricatto, riciclaggio, fatturazioni false: elementi che emergono dall’inchiesta e che si collegano alle aggravanti contestate, a partire da quella del metodo mafioso. Nelle carte, tra l’altro, emergono due nomi noti in Aemilia, il maxiprocesso alla ‘ndrangheta emiliana. C’è Pasquale Battaglia, condannato in via definitiva a otto anni per associazione mafiosa ed estorsioni: prima dell’arresto, è stato amministratore unico della B.P. una delle società che avrebbe emesso fatture false per lavori mai eseguiti all’interno della Sassocardo. E c’è Luigi Muto condannato in via definitiva a 12 anni per associazione mafiosa: è lui che interviene direttamente per risolvere un problema che riguarda il figlio di Francesco Zuccalà. Zuccalà, così come l’altro principale indagato, Fiore Moliterni, non ha voluto rilasciare dichiarazioni.

La scuola fantasma

«Secondo me quello che è successo alla Sassocardo è una cosa un po’ circoscritta però è una mia impressione». A dirlo è Franco Rubini, sindaco di Grizzana Morandi, città di neanche quattromila abitanti che prende il nome dal pittore bolognese Giorgio Morandi. Anche qua di problemi ce ne sono già stati: in questo caso partono dall’appalto per la costruzione di una nuova scuola che avrebbe dovuto accogliere studenti e studentesse anche dai paesi vicini. I lavori sono cominciati all’inizio degli anni Duemila ma oggi la scuola è ancora uno scheletro. C’è la struttura a nudo, qualche materiale da costruzione dentro e le grate da cantiere a ridosso con i nomi delle società che ci hanno lavorato: ce n’è uno in particolare che cattura l’attenzione, quello della Pi.Ca Costruzioni. A segnalarlo è lo stesso sindaco che afferma che la società che ha lavorato inizialmente nei lavori «ha avuto un’infiltrazione mafiosa» e, specifica, «era accusata di mafia, poi è fallita ed è sparita».

La storia è però più complessa, tra responsabilità poco chiare e qualche colpo di scena. Nel 2004 il Comune fa partire i lavori: l’appalto vale un milione e quattrocentomila euro per creare il polo scolastico di Riola Ponte. I fondi però non erano sufficienti: i lavori, quindi, si fermano e la scuola – al di là della palestra, inaugurata solo quest’anno – non viene mai completata. Neanche la Pi.Ca Costruzioni c’è più: è fallita qualche anno dopo i lavori alla scuola. Uno dei soci della ditta, Francesco Piccolo, non si occupa più di edilizia dopo un’interdittiva antimafia che ha colpito nel 2015 la Pi.Ca Holding, un’altra società di cui era amministratore.

«Prima di creare questo romanzo, vedete prima chi sono, cosa ho fatto, se ho avuto qualche interesse a farlo, perché se tu mi dici che ho avuto interesse a denunciare un clan che mi ha cercato di ammazzare…».

Piccolo parla di una situazione precisa: insieme al socio Raffaele Cantile, compaesano di Casapesenna, vicino Caserta, nel 2012 sale all’onore delle cronache perché denuncia di essere vittime di estorsioni da parte del clan dei casalesi per tramite di un ex socio in affari. Ma la storia non regge: nel 2015 la Prefettura di Modena emette un interdittiva antimafia verso la Pi.ca Holding per gli stretti rapporti con Giuseppe Fontana, un imprenditore legato al clan camorristico degli Zagaria e condannato a dieci anni proprio per concorso esterno in associazione mafiosa.

Secondo l’imprenditore si tratta di un malinteso: «Ci sono degli eventi che vengono percepiti diversamente al Sud e al Nord, perché al Nord non si capisce bene qual è il sistema». Ma la situazione pare chiara. Per il Consiglio di Stato, nell’atto che conferma l’interdittiva, da un’intercettazione ambientale emerge la strategia di Giuseppe Fontana: partecipare a bandi pubblici, in accordo con il boss Zagaria, attraverso una società al di sopra di ogni sospetto, la Pi.Ca di Francesco Piccolo. Proprio l’imprenditore che agli occhi dell’opinione pubblica passava come vittima della criminalità organizzata.

Dietro a un bando da poco più di un milione di euro si nasconde una storia di criminalità e infiltrazioni, ma nessuno se n’è mai interessato. E secondo il sindaco Rubini per risolvere il rischio di infiltrazioni mafiose basta affidarsi a imprese locali, ma anche solo per il bando per la riqualificazione dell’edificio del municipio, da un milione e 200 mila euro, dice di avere avuto delle difficoltà: «Noi abbiamo delle aziende locali a cui ci affidiamo. Quando facciamo delle gare per cinque ditte siamo tranquilli. Abbiamo fatto una gara per 20 ditte sulla riqualificazione del Municipio e non le avevamo tutte in zona».

Le colline del Parco Regionale Storico di Monte Sole, sull’Appennino bolognese – Foto: Sofia Nardacchione

Un tema non da poco perché il comune di Grizzana Morandi è stato selezionato per il progetto del Piano nazionale di ripresa e resilienza più grande: il Progetto Borghi, che ha l’obiettivo di «creare una crescita sostenibile e di qualità e di distribuirla su tutto il territorio nazionale». La linea A del progetto prevede la realizzazione di ventuno progetti pilota, uno a regione, che riceveranno 20 milioni a testa. In Emilia-Romagna il progetto selezionato è quello contro lo spopolamento di Campolo e La Scola, frazioni di Grizzana Morandi. Un piccolo borgo medievale e un altro fatto di case di pietra che, insieme, contano poco più di cinquanta residenti.

Milioni di euro dal Pnrr

Sull’Appennino bolognese, la leggenda delle piccole comunità che controllano il territorio e sanno chi arriva e cosa succede nei paesini di montagna sembra svanire. Quando si cammina per le strade dei paesi appenninici praticamente nessuno conosce i casi di infiltrazioni mafiose che ci sono stati, così come in pochi conoscono i progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Per tutti il problema principale rimane quello legata alla viabilità, sicuramente non le infiltrazioni criminali.

È in questo contesto che arriveranno 90 milioni di euro dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, in piccoli comuni con pochi dipendenti e una struttura che non è abituata a gestire così tanti soldi: «Il rischio che finiscano nelle mani sbagliate o che i comuni non abbiano la capacità tecnica è reale – afferma Igor Taruffi, Assessore al Welfare della Regione Emilia-Romagna con delega alle aree interne e storico amministratore dell’Appennino – perché i piccoli comuni di montagna hanno personale ridotto, uffici tecnici ridotti, uffici di ragioneria con poco personale». E c’è anche un altro tema, che riguarda gli strumenti di monitoraggio: «La pioggia di denaro che arriverà in Italia, 235 miliardi di euro, sono un’attrattiva fortissima per la criminalità organizzata. Non aver previsto la logica del monitoraggio dei fondi del Pnrr ci espone ad oggi a rischi giganteschi». Leonardo Ferrante, responsabile del settore anticorruzione civica di Libera e del Gruppo Abele, non è l’unico a mettere in guardia. Lo fa anche Giuseppe Antoci che da anni cerca di mettere in campo strumenti per far sì che i fondi europei – nello specifico quelli legati all’agricoltura – non finiscano in mani mafiose: «Il Pnrr – dice – può diventare il precipizio dove crollano tutti e dal quale non riusciremo più a risalire».

Mancata trasparenza, scarsa consapevolezza del rischio di infiltrazioni mafiose, strutture non abituate a gestire così tanti soldi sono elementi che riguardano l’Appennino bolognese ma non solo: milioni di euro arriveranno su altri appennini, in altre aree interne del Paese, in piccoli comuni che non hanno il personale né le competenze per gestirli. Milioni e miliardi di euro che sono da spendere, in tutti i casi, in pochissimo tempo: entro il marzo del 2026.

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Autori

Cecilia Fasciani
Andrea Giagnorio
Sofia Nardacchione

Editing

Giulio Rubino

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The Good Lobby

Foto di copertina

Le colline del Parco Regionale Storico di Monte Sole, sull’Appennino bolognese
(Sofia Nardacchione)

La marea delle consulenze per le riforme dei Pnrr europei

#RecoveryFiles

La marea delle consulenze per le riforme dei Pnrr europei

Francesca Cicculli
Carlotta Indiano

Amarzo 2021, il premier Mario Draghi ingaggia la società di consulenza McKinsey nell’ambito della redazione del Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) nazionale stipulando un contratto da 25.000 euro. Lo stesso giorno, il Ministero delle finanze italiano pubblica una dichiarazione per chiarire che McKinsey «non è coinvolta nella definizione dei progetti del Pnrr», ma che questi sono saldamente in mano alle amministrazioni pubbliche competenti. Due giorni dopo però, Domani svelava che il contratto con McKinsey era da 30.000 euro e che «prevedeva l’attività di confronto con gli altri piani europei e anche di project management e di monitoraggio sull’avanzamento dei progetti».

Si tratta di una piccola voce di spesa, praticamente una nota a margine a confronto dell’enorme budget del più grande piano di investimenti pubblici in Europa dai tempi del Piano Marshall, eppure il coinvolgimento di società come McKinsey è significativo, e problematico.

Il ricorso alle grandi società di consulenza internazionali che offrono assistenza ad aziende e pubbliche amministrazioni, come McKinsey, è infatti una pratica sempre più diffusa sia in Italia sia in Europa. A queste vengono appaltati continuamente servizi che le amministrazioni pubbliche sarebbero in grado di svolgere da sole con le proprie competenze interne.

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L’attività di confronto tra i piani europei che McKinsey ha fatto per l’Italia infatti, poteva essere svolta gratuitamente dalla Commissione. Il regolamento sul Recovery and Resilience Fund (RRF) prevede infatti che: «Nel preparare i loro piani di ripresa e di resilienza, gli Stati membri possono chiedere alla Commissione di organizzare uno scambio di buone pratiche per consentire agli Stati membri richiedenti di beneficiare dell’esperienza di altri Stati membri». In altre parole: se il governo italiano era interessato a sapere cosa stavano facendo gli altri Paesi, avrebbe potuto inviare una richiesta gratuita a Bruxelles.

Come sottolinea la Federazione sindacale europea dei servizi pubblici (Epsu), nel suo ultimo report pubblicato il 5 ottobre, a partire dagli anni ‘70 le funzioni della pubblica amministrazione sono state sempre più esternalizzate al settore privato. In particolare, nell’ultimo ventennio la delega di funzioni governative è aumentata notevolmente, allargandosi a nuovi settori come la sanità e il welfare, nella convinzione che le aziende e le istituzioni pubbliche debbano dedicarsi solo alle loro attività principali e delegare gli altri compiti a società “specializzate” del settore privato, inclusa la stesura di testi di legge e di contratti pubblici, l’elaborazione di politiche e la dislocazione di dipendenti pubblici.

Società come McKinsey, sottolinea il report dell’Epsu, non solo sono fortemente coinvolte nelle funzioni di base della pubblica amministrazione, ma spingono anche per ristrutturazioni del settore pubblico tramite tagli al personale che crea ancora più domanda per consulenti esterni.

Il Segretario generale dell’Epsu Jan Willem Goudriaan parla di una vera e propria «cultura della consulenza», dove il ricorso ai consulenti esterni si autoalimenta. Tra il 2017 e il 2020 la Commissione europea, per esempio, avrebbe stipulato 8.009 contratti con consulenti esterni – non solo con società di consulenza – per un valore complessivo di 2,7 miliardi di euro, di cui 462 milioni di euro solo per le grandi società di consulenza.

Il rischio è che la Commissione sempre secondo Goudriaan stia finanziando «la sua stessa distruzione», con un impatto negativo «sulla [sua] capacità di prendere decisioni nell’interesse pubblico».

Recovery Files

Questa è la quinta uscita di Recovery Files, un progetto di ricerca paneuropeo che indaga le spese dei fondi di ripresa e resilienza nei mesi a venire. Il progetto è coordinato da Follow the Money, piattaforma di giornalismo olandese.

Il progetto d’inchiesta è importante non solo in termini di quantità di investimenti pubblici – circa 725 miliardi di euro – ma anche per il modo in cui questa enorme quantità di denaro verrà spesa.

IrpiMedia lavora al progetto insieme al resto del team di Recovery Files:

Ada Homolova, Follow the Money, Olanda
Adrien Senecat, Le Monde, Francia
Ante Pavić, Oštro, Croazia
Attila Biro, Context Investigative Reporting Project Romania, Romania
Beatriz Jimenez, Grupo Merca2, Spagna
Carlotta Indiano, IrpiMedia, Italia
Francesca Cicculli, IrpiMedia, Italia
Emilia Garcia Morales, Grupo Merca2, Spagna
Giulio Rubino, IrpiMedia, Italia
Hans-Martin Tillack, Die Welt, Germania
Janine Louloudi, Reporters United, Grecia
Karin Kőváry Sólymos, Investigatívne centrum Ján Kuciak, Slovacchia
Lars Bové, De Tijd, Belgio
Lise Witteman, Follow the Money, Olanda
Marcos Garcia Rey, Grupo Merca2, Spagna
Matej Zwitter, Oštro, Slovenia
Roberta Spiteri, Daphne Foundation, Malta
Steven Vanden Bussche, Apache, Belgio

La cultura della consulenza nel post pandemia

Tra i principali consulenti della Commissione europea ci sono le “Big Four”: Deloitte, Ernst & Young, KPMG, e PricewaterhouseCoopers (PwC). Queste quattro società di revisione e consulenza finanziaria si spartiscono il mercato mondiale. I loro nomi appaiono frequentemente in inchieste come Open Lux, dove sono accusate di aver aiutato alcune multinazionali a ottenere regimi fiscali agevolati grazie ad accordi con le autorità del Lussemburgo. In questo modo, hanno fatto perdere miliardi di entrate di tasse dovute ai governi nazionali dei Paesi dove le multinazionali in questione operano.

Il ruolo delle “Big Four” nei processi politici fondamentali dell’Ue solleva importanti preoccupazioni su potenziali conflitti di interessi. Un’indagine del 2018 dell’Osservatorio Corporate Europe ha mostrato come le grandi società di consulenza siano attive in potenti gruppi di lobby che cercano di influenzare la politica dell’Ue in materia di evasione fiscale, tra cui l’European Business Initiative on Taxation (EBIT) e l’European Contact Group (ECG). Le stesse spingono inoltre per l’approvazione di accordi di pianificazione fiscale che, secondo il Tax Justice Network non sono altro che «sistemi di evasione fiscale su larga scala» a favore delle multinazionali. Eppure, PwC, Deloitte e KPMG hanno ottenuto dalla Commissione più di 10 milioni di euro per consulenze in tema fiscale e doganale.

Nonostante l’aumento dei fondi destinati alle società di consulenza, un report del 2022 della Corte dei conti segnala che «la Commissione non dispone di informazioni accurate sul volume e sul tipo di servizi dei consulenti esterni di cui si avvale (…) e non gestisce il ricorso a consulenti esterni in modo da assicurare pienamente un rapporto costi-benefici ottimale». La Corte aggiunge che: «Il ricorso a consulenti ha inoltre comportato potenziali rischi di eccessiva dipendenza, di vantaggio competitivo, di concentrazione dei prestatori e di conflitti di interesse». Durante le sue indagini, la Corte ha inoltre rilevato quattro casi in cui «sebbene fossero state organizzate regolarmente procedure di appalto aperte, i medesimi prestatori si sono aggiudicati appalti consecutivi per diversi anni» riscontrando una specie di dipendenza, da parte della Commissione, dai consulenti esterni.

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La trasparenza a fasi alterne del Recovery Fund

All’inizio sembrava che la messa a disposizione dei dati sui beneficiari dovesse prevenire la corruzione. Oggi il quadro è cambiato. Così i nomi restano un segreto in tutta Europa

Il Pnrr italiano trascura la transizione dell’automotive

I Piani di Ripresa Ue puntano sulla mobilità elettrica senza abbandonare l’ibrido, l’Italia considera anche i carburanti sintetici. Lo spazio per il green si riduce. Come sarà la transizione dell’automotive in Europa?

Una spinta al ricorso a consulenze esterne si è registrata soprattutto dopo l’istituzione del Structural Reform Support Programme (SRSP), fondo creato nel 2017 per offrire assistenza tecnica agli Stati membri per ideare e implementare le riforme strutturali, quelle riforme che modificano il quadro normativo, economico e istituzionale di un Paese, le cosiddette “regole del gioco”. Le riforme strutturali sono fondamentali per incoraggiare gli investimenti, stimolare la crescita e la creazione di posti di lavoro, anche attraverso l’assistenza nell’uso dei fondi dell’Unione. Il sostegno nell’ambito del programma SRSP è fornito dalla Commissione, su richiesta di uno Stato membro, e può riguardare un’ampia gamma di settori.

Il budget dedicato alle consulenze esterne è aumentato con l’istituzione nel 2021 del Tecnical Support Instrument (SST), fondo nato per mitigare le conseguenze sociali ed economiche nate dalla pandemia e utilizzato per la gran parte per sostenere le riforme interne che gli Stati membri devono implementare per spendere i soldi del Recovery Fund. Nel 2021 i soldi spesi dalla Commissione per le consulenze esterne ammonta a 51,5 milioni di euro.

«Il Fondo per la ripresa e la resilienza offre un sostegno senza precedenti alle riforme e agli investimenti degli Stati membri, ma rappresenterà una sfida amministrativa enorme, una sfida che richiede forti capacità di gestione dei progetti e una solida capacità amministrativa», ha dichiarato al Parlamento europeo Mariya Gabriel, commissaria europea per l’innovazione, la ricerca, la cultura, l’istruzione e la gioventù nel gennaio 2021, per presentare l’SST, creato appunto per «sfruttare al meglio il Fondo di ripresa e resilienza».

Lo Stato europeo che vuole richiedere assistenza tecnica deve fare richiesta alla Commissione che poi approva, tramite la Direzione generale per il sostegno alle riforme strutturali (DG REFORM), il ricorso alla consulenza esterna.

Secondo la Commissione europea interrogata dal team di Recovery Files in merito all’attività di questo strumento, circa il 60% delle richieste approvate nell’ambito della prima fase del programma erano legate all’attuazione di piani nazionali di ripresa e resilienza.

Le riforme per l’Italia firmate dalla società accusata di cattiva condotta

Il caso della consulenza appaltata a McKinsey è sicuramente il più noto, ma non è l’unico in Italia attorno al Pnrr.

Deloitte Consulting and Advisory e KPMG Advisory Spa continuano tutt’oggi a offrire assistenza al nostro Paese sull’applicazione del piano europeo.

KPMG Advisory Spa, società di consulenza con sede a Milano, ha stipulato infatti undici contratti con la Commissione europea per fornire supporto tecnico alle pubbliche amministrazioni italiane su altrettante riforme comprese nel Pnrr. Lo ha verificato IrpiMedia, assieme al team di Recovery Files, consultando il Financial Transparency System europeo, una sorta di registro finanziario dell’Unione europea, dove risulta che KPMG ha firmato contratti dal valore di 3,24 milioni di euro per le consulenze fornite all’Italia.

Il dato, però, non trova corrispondenze sul sito del Technical Support Instrument, dove è riportato solo uno degli undici contratti in questione, solo quello per la riforma “Data drive approaches to tax evasion risk analysis”.

I conti non tornano quindi e su diversi siti che la Commissione dedica alla trasparenza delle sue spese appaiono dati molto diversi. Recovery Files ha chiesto alla Commissione di spiegare come mai il sito dell’SST non riportasse gli stessi dati del Financial Transparency System, ma non ha risposto sulla questione.

I contratti con KPMG sono stati stipulati tra gennaio e giugno del 2021, eppure solo un mese dopo la percezione della Commissione nei confronti della società sembra essere cambiata. Il 13 luglio 2021, infatti, KPMG viene inserita nella black list delle società che non possono ricevere fondi europei fino al 14 gennaio 2023. Il motivo della sanzione è uno: «Grave scorrettezza professionale», che secondo l’articolo 136 del regolamento finanziario dell’Unione europea, potrebbe essere una «violazione dei diritti di proprietà intellettuale» o addirittura il «tentativo di ottenere informazioni riservate che possano conferire vantaggi indebiti nella procedura di aggiudicazione».

Recovery Files ha chiesto alla Commissione di spiegare quale sia stata la grave scorrettezza e che conseguenze abbia avuto la procedura di esclusione della società sui contratti in corso. Alla prima domanda non abbiamo ricevuto risposta, ma l’ente europeo ha commentato che «considerati i rischi rispetto alla protezione degli interessi finanziari, l’Unione ha deciso di portare avanti i contratti in corso per garantire la business continuity. La Commissione ha inoltre chiarito che dopo luglio 2021 non ha stipulato nessun altro contratto con la società, che comunque continuerà a lavorare sui progetti fino al 2023, anno di scadenza dei contratti già firmati, perché l’inserimento di una società nella lista nera non ha effetti retroattivi».

A settembre 2021 la società milanese ha presentato un ricorso contro l’istituzione europea chiedendo di annullare la decisione perché illegittima secondo i regolamenti finanziari dell’Unione.

Sulla questione abbiamo interrogato le istituzioni italiane che hanno ricevuto una consulenza da KPMG. Di queste, solo l’Agenzia delle entrate, che ha avuto assistenza per la riforma “Data drive approaches to tax evasion risk analysis”, ha risposto che «non ha avuto alcun ruolo nella procedura di selezione e contrattualizzazione del support provider né è intervenuta nelle procedure di controllo successivamente svolte».

Anche il Dipartimento italiano per le politiche di coesione, il punto di contatto nazionale con il Dg Reform per il Sostegno alle riforme strutturali, nega qualsiasi responsabilità del governo italiano e delle varie amministrazioni nella scelta del consulente e nelle fasi di controllo. Alla nostra richiesta di visionare i contratti firmati da KPMG per la consulenza all’Italia il Dipartimento per la Coesione ha interrogato la DG Reform, che però ha risposto negativamente.

KPMG ha risposto che preferisce non commentare l’intera vicenda. Nel frattempo sul suo sito è possibile scaricare gratuitamente «la nuova guida al Pnrr» stilata in partnership con la​​ sorella Wolters Kluwer e messa a disposizione per aiutare pubbliche amministrazioni e aziende «a orientarsi tra i provvedimenti in attuazione del Pnrr e le numerose Riforme e Missioni in cui si articola». La società, quindi, offre consulenza anche alle imprese italiane che vogliono accedere ai fondi del Pnrr.

Conflitti di interesse: il caso spagnolo

Il ricorso a società di consulenza esterne ha aperto la porta a potenziali conflitti di interesse in alcuni Paesi, come hanno dimostrato le ricerche della squadra di Recovery Files.

A gennaio 2021, l’Istituto per la diversificazione e il risparmio energetico (Idae), filiale del Ministero per la transizione ecologica spagnolo, ha assegnato a Deloitte España SL un contratto del valore di 280.000 euro per «tutti i compiti relativi alla preparazione e alla giustificazione delle proposte energetiche del Piano di recupero, trasformazione e resilienza», il Piano di ripresa spagnolo.

L’appalto è stato assegnato senza rispettare l’obbligo di pubblicità, possibilità prevista dalle semplificazioni derivate dalla pandemia. Ma il governo spagnolo non è stato l’unico cliente di Deloitte in quel periodo. La compagnia petrolifera spagnola Cepsa ha assunto infatti la società di consulenza per aiutarla ad acquisire sovvenzioni dal fondo di ripresa.

Deloitte, inoltre, è coinvolta nella preparazione annuale dello Studio macroeconomico dell’impatto del settore eolico. Il suo cliente per questo lavoro è l’Associazione delle imprese dell’energia eolica, che riunisce le principali aziende del settore, comprese le grandi società elettriche. Inoltre, ha un chiaro impegno commerciale nella consulenza in settori come l’idrogeno verde, che è uno dei progetti strategici del Piano nazionale spagnolo.

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L’agenzia governativa spagnola ha quindi assunto Deloitte per contribuire alla stesura del capitolo sull’energia del suo piano di rilancio, mentre questa faceva da consulente a numerose aziende energetiche.

Il team spagnolo di Recovery Files ha chiesto un commento sia all’agenzia governativa Idae sia a Deloitte, che ha risposto: «In relazione alla vostra richiesta, noi di Deloitte non rilasciamo mai dichiarazioni sui contratti, i potenziali clienti o altre organizzazioni». Da parte sua, l’Idae ha invece dichiarato che il piano spagnolo è stato «redatto interamente dal personale del Segretario di Stato per l’energia, in particolare dal personale dell’Idae». Un portavoce ha aggiunto: «Questa società [Deloitte] non ha partecipato alla stesura del Prtr ma ha fornito assistenza tecnica nella compilazione delle informazioni» poi inserite nel Piano spagnolo.

Sui rischi di conflitti di interesse nei contratti di consulenza stipulati dalla Commissione, la Corte dei conti europea ha confermato che la Commissione non fa abbastanza per evitarli. In particolare: non viene analizzato se l’attività dei consulenti esterni sia in conflitto con i contratti conclusi con la Commissione, né se i servizi dei consulenti esterni entrino in conflitto tra loro e nemmeno se i consulenti esterni che forniscono servizi a diversi clienti (all’interno o all’esterno della Commissione) abbiano interessi contrastanti relativi a incarichi strettamente correlati.

Per la Corte, i conflitti di interesse possono inoltre insorgere dal fenomeno delle “porte girevoli”, ovvero quando un funzionario europeo lascia l’incarico pubblico per assumere incarichi esterni (ad esempio nel settore privato) o, al contrario, se una persona impiegata nel privato viene assunto dalla Commissione. Tali conflitti di interesse potrebbero comportare un uso improprio dell’accesso a informazioni riservate, ad esempio, quando ex funzionari della Commissione utilizzano le proprie conoscenze e i propri contatti per svolgere attività di lobbying nell’interesse dei datori di lavoro o dei clienti esterni.

È il caso della Grecia e dell’ingegnere Paris Bayias. Ex membro del team di redazione del Piano di ripresa e resilienza greco, Bayias dal settembre 2022 è direttore della società di consulenza PwC Grecia, come dichiarato sul suo profilo LinkedIn. Lo stesso, dall’aprile 2018 all’ottobre 2020, ha lavorato come «esperto chiave IT/Senior Project Manager» presso la direzione generale della Commissione europea per il sostegno alle riforme strutturali (Dg Reform), il dipartimento che, come già spiegato, firma i contratti con le società come PwC per realizzare il sostegno alle riforme nell’ambito del programma STI.

Sempre su LinkedIn, Bayias ha dichiarato di essere stato, tra l’ottobre 2020 e l’agosto 2022, il «team leader di PwC Grecia per la formulazione dei progetti di trasformazione digitale del piano greco di ripresa e resilienza e membro del team di redazione del Piano (2020-2021)».

Follow the Money ha chiesto alla Commissione come abbia gestito il rischio di conflitto di interessi in questo caso. «In base alle condizioni generali che regolano i contratti di servizio, i contraenti hanno la responsabilità di garantire la riservatezza delle informazioni», ha risposto un portavoce. Bayias invece ha affermato che non è «assolutamente» vero che il passaggio a PwC subito dopo la sua consulenza per la Dg Reform costituisca un conflitto di interessi, perché mentre lavorava per la Dg Reform non ha avuto alcun coinvolgimento nei contratti firmati tra questa e PwC.

Intervistato da Follow The Money, Kenneth Haar, campaigner per il Corporate Europe Observatory, centro di ricerca sul ruolo delle lobby e delle corporation in Europa, ha commentato dicendo che «il caso greco mostra un’esternalizzazione di grandi decisioni politiche che lascia a bocca aperta, ma con un programma così vasto come il Piano di ripresa è inevitabile il coinvolgimento delle quattro più grandi società di consulenza». Allo stesso tempo, per il ricercatore «è oltraggioso vedere come la Commissione si affidi a poche grandi società di consulenza per fornire supporto ai programmi di ripresa». Il coinvolgimento di queste società crea una «marea di conflitti di interesse», la maggior parte dei quali a favore dei loro clienti e non dell’interesse pubblico.

CREDITI

Autori

Francesca Cicculli
Carlotta Indiano

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

Il marchio McKinsey e, sullo sfondo, il Palazzo dell’Eliseo, residenza ufficiale del Presidente della repubblica francese
(Lionel Bonaventure/Getty)

Pnrr: il governo nomina i commissari alle grandi opere, ma alcuni sono già sotto processo

#LeManiSullaRipartenza

Pnrr: il governo nomina i commissari alle grandi opere, ma alcuni sono già sotto processo

Andrea Ballone

Le grandi opere sono nelle loro mani. Dovranno controllare che tutto venga fatto per il meglio con i soldi che l’Europa ha dato all’Italia con il Pnrr, per sistemare le strade, le dighe e le reti ferroviarie. Li chiamano commissari straordinari e sono una pattuglia di funzionari dello Stato nominati dal Ministero delle infrastrutture per vigilare sui lavori. Ma non sempre nelle loro carriere l’hanno fatto a dovere. Di questo almeno sono convinti alcuni pubblici ministeri, che a vario titolo avevano già messo sotto indagine negli anni scorsi alcuni dei nuovi commissari scelti, nonostante le accuse, dal governo Draghi per gestire i lavori della ripartenza. Hanno la responsabilità di lavori per un valore complessivo di 82,7 miliardi di euro (21,6 al nord, 24,8 al centro e 36,3 al sud), ai quali potrebbero aggiungersi altri fondi nazionali ed europei.

Alcuni di questi commissari però, dovranno dividere il loro tempo nei prossimi mesi tra l’attività di controllo sui progetti del Pnrr e i tribunali, dove sono chiamati a difendersi da accuse anche molto pesanti.

Fra questi uno dei più rilevanti è sicuramente Vincenzo Macello. Record man tra i commissari per le grandi opere, dirigente di Rete ferroviaria italiana, dovrà vigilare su sette grandi opere ferroviarie, che vanno dall’Alta velocità Brescia-Verona-Padova, al raddoppio della Genova- Ventimiglia, fino alla linea Roma Pescara, passando per il nodo di interscambio Pigneto, fino alla Ciampino-Capannelle, alla Venezia-Trieste e all’Orte- Falconara.

Da nord a sud le ferrovie italiane sono sotto la sua ala. Macello era direttore territoriale di Rfi (Rete ferroviaria italiana) Lombardia, ai tempi del deragliamento di Pioltello nel quale persero la vita tre persone e ne rimasero ferite a decine. Dopo quell’episodio passò a dirigere la divisione finanziamenti a Roma. Era il 25 gennaio del 2018 quando il treno Milano-Venezia, partito dalla stazione di Cremona e diretto a Milano Porta Garibaldi, composto da cinque carrozze e un locomotore, per effetto della rottura di un giunto isolante incollato, vide «lo svio della seconda sala del primo carrello della terza carrozza».

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L'inchiesta in breve

Questa è la prima puntata di un ciclo di inchieste sull’applicazione del Pnrr in Italia, organizzata in collaborazione fra IrpiMedia e The Good Lobby.

  • Una parte considerevole dei fondi in arrivo dall’Europa per stimolare a ripartenza in Italia verranno spese in infrastrutture, grandi opere pubbliche in campo ferroviario, marittimo e stradale
  • A vigilare su queste opere il Governo ha nominato alcuni commissari straordinari. Almeno quattro dei commissari straordinari scelti dal governo Draghi per vigilare sulle opere sono sotto indagine, a volte anche per reati gravi
  • Vincenzo Macello e Maurizio Gentile sono sotto processo per omicidio colposo per il deragliamento di Pioltello del 2018, in cui morirono quattro persone
  • Massimo Simonini controllerà la sistemazione della Ss 106 Ionica, la stessa opera che ha gestito come Ad di Anas, e per la quale la Corte dei Conti ha evidenziato gravi sprechi
  • Vincenzo Marzi, funzionario Anas di lungo corso, è stato nominato commissario per la Fondovalle del Biferno. In passato era stato rinviato a giudizio per il crollo del ponte ad Albiano Magra, frazione del comune toscano di Aulla

Fuori dal linguaggio tecnico il treno iniziò a deragliare e per due chilometri viaggiò fuori controllo, abbattendo pali della trazione elettrica e spezzandosi in tre parti. Nell’incidente sono morte tre persone, e altre 46 sono rimaste ferite. Ne scaturì un’indagine, ancora in corso, che portò all’imputazione di diversi funzionari e dirigenti di Rfi accusati in sostanza di non aver provveduto per tempo alla necessaria manutenzione della rete. Tra loro c’erano Vincenzo Macello e Maurizio Gentile, quest’ultimo all’epoca amministratore delegato di Rfi, poi commissario della linea C della metropolitana di Roma, fino alle sue dimissioni per motivi personali. Entrambi sono imputati per omicidio colposo e altri reati.

Le omissioni dei dirigenti secondo l’accusa

Macello è stato accusato di pesanti omissioni nelle procedure di sicurezza e nella manutenzione di quel tratto di linea ferroviaria. Di lui i pubblici ministeri scrivono: «Ometteva di mettere a disposizione dei lavoratori di Trenord e di tutti i viaggiatori della linea attrezzature idonee ai fini della sicurezza, non assicurando che l’infrastruttura fosse mantenuta in buono stato di efficienza». E poi «non disponeva l’urgente sostituzione del Gii (Giunti isolanti incollati) posto al chilometro 13+400 (quello dell’incidente, ndr) in pessime condizioni di manutenzione, in quanto scollato e collocato su ballast non più idoneo, perché privo delle caratteristiche geometriche, sia di dimensioni, sia di forma (spigoli), disciplinate dalle procedure tecniche emanate da Rfi, quindi con evidente ed elevato rischio di cricche interne in grado di propagarsi fino a determinare il distacco di parte della superficie di rotolamento e conseguente svio dei treni in transito dove la velocità massima prevista era di 180 chilometri orari».

a "talpa" all'opera durante i lavori di costruzione della linea C della metropolitana di Roma a dicembre 2019 - Foto: Corbis/Getty

La “talpa” all’opera durante i lavori di costruzione della linea C della metropolitana di Roma a dicembre 2019 – Foto: Corbis/Getty

Tra le carte emerge un’accusa che aggrava la posizione del dirigente perché si segnala che nel novembre 2017, nonostante l’urgenza dell’intervento, ne aveva programmato l’esecuzione solo per aprile 2018, quindi in notevole ritardo, non adottando, nell’intervallo, alcuna misura mitigativa come la riduzione della velocità dei treni. Proprio in quel lasso di tempo di “attesa” si è verificato l’incidente.

Pesano a livello di accusa anche la mancata disposizione di monitoraggi. Abbiamo chiesto un commento sulla sua nomina a Vincenzo Macello che non ha ancora risposto.

Maurizio Gentile in particolare è accusato di non aver dato disposizioni affinchè fossero intensificati i controlli e le sostituzioni delle parti a rischio rottura, nonostante i ripetuti guasti degli snodi. Secondo i giudici, Gentile avrebbe omesso di mettere tutti i lavoratori e i passeggeri nelle condizioni di sicurezza per poter viaggiare e lavorare.

Solo a novembre si saprà se è ancora sotto processo

Dopo la nomina a commissario straordinario, per l’ex amministratore delegato di Rfi Maurizio Gentile è arrivata un’altra tegola. Ad aprile è stato indagato per l’incidente del treno Frecciarossa di Livraga nel Lodigiano, nel quale hanno perso la vita due macchinisti. Si tratta dell’unico deragliamento che si è verificato sulle linee di alta velocità italiane. In quel caso era la Milano-Salerno.

Attorno alle 5:00 il treno passeggeri, composto da otto vetture, è sviato al chilometro 166+756 mentre percorreva il deviatoio 5. Il convoglio intero è deragliato, ma la vettura di testa, sganciatasi dalle altre, dopo aver urtato i mezzi di manutenzione che ci trovavano su un binario di ricovero, a sinistra rispetto al senso di marcia del treno, ha sfondato una recinzione e ha fermato la propria corsa su un fianco. Le altre sette vetture hanno continuato la loro corsa al di fuori delle rotaie e si sono arrestate nell’interbinario. Il punto iniziale dello svio è stato individuato in corrispondenza del deviatoio 5 dove, a causa del deragliamento, si è verificata la rottura delle rotaie.

Secondo la relazione pubblicata sul sito del Ministero delle infrastrutture, che però non ha alcun valore a livello giudiziario, si sarebbe trattato di un errore. L’esito delle verifiche ha evidenziato che l’attuatore del telaio di punta del deviatoio oleodinamico 5 aveva un comportamento anomalo. La causa dell’incidente è da attribuirsi all’erroneo posizionamento del deviatoio 5, disposto in posizione rovesciata, anziché in corretto tracciato.

Il 16 aprile di quest’anno la procura ha concluso le indagini e ha rinviato a giudizio 14 persone. Se di errore si tratta toccherà al processo chiarire chi l’abbia commesso. Sul tema vige la massima riservatezza. Il procuratore di Lodi si limita a spiegare che «un comunicato stampa è già stato mandato e sono contenute tutte le informazioni». Il testo è piuttosto stringato. «Gli originari indagati – spiega la procura – erano più di una ventina ma all’esito di interrogatori e memorie difensive e sulla base del precedente di Cassazione della sentenza per il disastro ferroviario di Viareggio, l’ufficio requirente lodigiano guidato da Domenico Chiaro che ha lavorato con la pm Giulia Aragno, ha deciso di chiedere l’archiviazione per alcune posizioni, a partire da quelle delle uniche due società indagate, Alstom Ferroviaria e Rfi, non contestando più l’ipotesi originaria di responsabilità amministrativa delle imprese. Le ipotesi di reato sono di disastro ferroviario colposo, duplice omicidio colposo e lesioni plurime colpose, in relazione alla violazione di norme sulla sicurezza dei trasporti. Per sette degli originari indagati (dei quali faceva parte Gentile) è stato, invece, disposto lo stralcio per una richiesta di archiviazione. L’udienza preliminare davanti al Gup di Lodi potrebbe tenersi prima della fine del 2022, probabilmente a novembre.

Per quanto, invece, attiene agli indagati per i quali si è chiesto il rinvio a giudizio, la stessa Procura spiega che «i reati per i quali è stata inoltrata la richiesta di rinvio sono frutto di prospettazioni accusatorie, la cui fondatezza sarà da considerarsi definitivamente accertata solo all’esito delle doverose verifiche giurisdizionali». La procura non ha chiarito chi delle persone fisiche alle quali in un primo tempo è stato notificato l’avviso di garanzia sia stato ora escluso dalle indagini. Nel frattempo però Gentile si è dimesso «per motivi personali» da tutti i suoi ruoli di commissario straordinario. Interpellato da IrpiMedia ha voluto comunque intervenire nel dibattito sull’opportunità che persone indagate o imputate ricevano l’incarico di esercitare il loro controllo su opere importanti, come quelle del Pnrr.

«Mi soffermo comunque sulle sull’opportunità di ricoprire un ruolo istituzionale in presenza di procedimenti penali, non tanto perchè la cosa ormai mi riguardi, ma perchè ancora una volta emerge il dubbio se un qualsiasi cittadino incensurato ma sottoposto ad indagini debba essere bandito dalla società, magari in attesa che dopo qualche anno venga scagionato da ogni responsabilità, magra consolazione dopo essere stati ormai dimenticati, soprattutto dai media, che quasi mai ne danno conto con la stessa evidenza data al momento delle indagini.In ogni caso, i miei due procedimenti, uno in corso l’altro ancora da valutare da parte del Giudice delle udienze preliminari, riguardano due incidenti ferroviari e non reati riferibili a delitti contro la morale o agli interessi dello Stato, quindi non esisteva e non esiste attualmente alcun motivo di inconferibilità»

Tutte le strade portano a Simonini

Se si parla di strade è senza dubbio un autorità. Massimo Simonini è un ingegnere di lungo corso che, grazie alla vittoria di un concorso in Anas, è stato amministratore delegato del gruppo dal 2018 al 2021. In questo periodo è finito sotto indagine ad Arezzo per i detriti all’amianto della piazzola franata a Pieve Santo Stefano nel 2017. Il pubblico ministero citò sia l’Anas che i vertici dell’azienda stessa per falso ideologico.

Anche la Corte dei Conti si è occupata del funzionario, che è stato nominato commissario della sistemazione della E78 Grosseto-Fano e della Ss 106 Ionica, enttrambe opere che rientrano nel Pnrr. A spiegarlo è Fabio Pugliese, blogger e attivista calabrese che da anni chiede interventi sulla strada statale 106 dello Jonio, tristemente nota per l’altissimo numero di incidenti anche mortali, della quale Simonini è già commissario straordinario. Nel suo libro Ecco chi è stato! dà conto di tutta la lunga e tragica vicenda che tocca la Calabria.

«È stato rilevato – dice Pugliese – che tutte le previsioni di spesa contenute nel contratto di programma per il 2020 non sono state rispettate e hanno letteralmente fatto saltare anche le previsioni di spesa contenute nel contratto di programma per il 2021. In parole povere la percentuale di scollamento tra la previsione di produzione per il 2020 e il consuntivo di quello stesso anno è stata un flop, registrando il -50,9%. Il che ha messo in luce quella che in gergo tecnico viene definita “la variazione negativa in termini di investimenti in nuove opere” e ciò è accaduto a cascata anche nel 2021. In pratica, in Anas Spa, per due anni non si è battuto un chiodo. O, meglio, lo si è battuto a metà». Interpellato da IrpiMedia, Simonini non ha ancora risposto alle nostre domande.

Vincenzo Marzi, funzionario Anas di lungo corso, è stato nominato commissario per la Fondovalle del Biferno Adriatica Garganica ed è l’unico intervento del quale si occupa. Nella sua vita c’è però già stata un’opera che ha un commissario straordinario. Si tratta del ponte crollato ad Albiano Magra, frazione del comune toscano di Aulla. Marzi è stato rinviato a giudizio assieme ad altri sette funzionari sia di Anas che dell’amministrazione provinciale, per il crollo di quel ponte. In quel caso secondo la procura ci fu proprio un difetto di vigilanza, come dimostra la richiesta del sindaco di Aulla Roberto Valettini, che chiedeva approfondimenti sullo stato del ponte prima del crollo. Nei giorni scorsi sono finiti i lavori i ricostruzione del ponte che crollò l’8 aprile del 2020. Lo scarso passaggio di mezzi in quel momento evitò una strage. Ci furono solo due feriti lievi, ma nella comunità di Aulla quel crollo rimane come una macchia pesante e oggi i cittadini chiedono ancora giustizia. Abbiamo provato a contattare Maurizio Marzi, ma non sono arrivate risposte.

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Autori

Andrea Ballone

Editing

Giulio Rubino

In partnership con

The Good Lobby

Foto di copertina

Uno scorcio della Stazione Centrale di Milano
(Getty)