Una questione che brucia

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Una questione che brucia

Eleonora Vio

L’Estonia non è mai stata una meta di punta del turismo globale. Anche la capitale Tallinn, unica tappa estone del tour nordeuropeo, con l’avvento della pandemia si è svuotata dei visitatori stranieri. Ma, com’è successo in gran parte degli altri paesi europei, la chiusura dei confini esteri ha innescato negli abitanti della più lontana tra le repubbliche baltiche ed ex sovietiche la voglia di esplorare a fondo la propria terra. Così, una regione remota, ai più sconosciuta e per lungo tempo invisa anche agli stessi estoni, come quella nord-orientale di Ida Virumaa (o Ida Viru), a stragrande maggioranza russa, ha cominciato ad aprirsi a un turismo insolito.

“Industriale”, lo definiscono in molti, tra cui l’attivista ambientale e membro del comitato del Movimento Verde, Madis Vasser. Il paesaggio di Ida Viru è in effetti quanto di più artificioso si possa immaginare. Le stesse montagne e lagune che interrompono la noiosa continuità pianeggiante estone nelle sue propaggini orientali, più prossime a San Pietroburgo che a Tallinn, sono il risultato della mano dell’uomo. Qui, infatti, è stata una risorsa particolare, che, pur facendo parlare poco di sé, ha garantito stabilità e indipendenza energetica al Paese per cent’’anni, ad aver dato forma al paesaggio. Si tratta dell’industria di scisto bituminoso, una roccia sedimentaria ad alto contenuto energetico.

Scalare, sciare, andare in canoa o fare un pic-nic… sono alcune delle attività promosse dalle municipalità di Kivioli, Jõhvi, Kohtla-Järve e Narva, per attirare soldi e investimenti in una terra che, un po’ per i legami con la Russia e un po’ perché deve la sua sopravvivenza a un combustibile fossile obsoleto e inefficiente, è stata abbandonata a sé stessa. «Questi promontori, diventati il simbolo della regione, sono, in realtà, montagne di cenere di scisto, mentre lì c’è una cava convertita in centro sportivo» spiega Vasser, divertito dalle nostre espressioni. «A parte la montagna che brucia, che genera fumi e preoccupazione, le altre attrazioni stanno lì da anni e sembrano innocue».

Chiamate indistintamente montagne di cenere, consistono per la maggior parte in colline di semi-coke, ovvero residui di impianti di scisto di vecchia generazione. Il fenomeno di combustione spontanea, cui accenna Vasser, era comune in passato ma, grazie a decenni di copiose precipitazioni, oggi sembra quasi del tutto superato. C’è, però, ancora un promontorio da cui fuoriescono gas tossici, derivanti dalla combustione spontanea, generata dalla penetrazione dello scisto nelle pareti rocciose e dalla conseguente acidificazione del solfuro di ferro, avvenuta negli anni ‘60 e ‘70. Sul perché questa montagna – nota come aherainemägi in estone e come “vulcano” in tutte le altre lingue – stia ancora bruciando dopo così tanto tempo, non è dato saperlo. Tanto più che, come sostiene Michel Khangur, a capo dell’Istituto di Ecologia dell’Università di Tartu, «nessuno osa vedere cosa c’è dentro o pensare a delle soluzioni. Per spegnere quel fuoco ci servirebbe moltissima acqua, che, a sua volta, verrebbe contaminata con gravi conseguenze per l’ambiente». 

Sebbene le riserve di scisto si nascondano in tante parti del mondo, anche in Italia, sono in pochi i paesi che vi si sono affidati completamente, come l’Estonia. «Lo scisto bituminoso non ha nulla ha a che vedere con lo shale derivato dalla fratturazione idraulica (o fracking), come in molti credono» spiega Vasser, «ma consiste in una roccia sedimentaria e millenaria (costituita da una materia organica ricca di idrogeno e da una inorganica fatta, principalmente di calcare, nda), situata sul fondo degli oceani e portata in superficie dall’uomo, per ricavare sia elettricità che petrolio». Nel primo caso, la pietra è lasciata bruciare direttamente con una grandissima dispersione di anidride carbonica nell’atmosfera, mentre, nel secondo, è riscaldata ad alte temperature, generando, almeno inizialmente, un’intensità di carbonio tre volte inferiore.

Non poter condividere questo primato con nessuno, a malapena con Brasile e Cina, fa sì che gli studi in merito siano pochi e scarsamente approfonditi. È indubbio, comunque, che «la cenere diventi tossica quando entra in contatto con l’acqua», aggiunge Vasser. Un fenomeno, questo, cui assistiamo durante la terza tappa del tour, che prevede una sosta alle “lagune blu”, ovvero le distese d’acqua cristallina che circondano i maggiori complessi energetici del Paese tramite un complesso sistema di tubature. «Queste piscine sono altamente alcaline. Guai a toccarle, si rischia l’ustione», afferma Vasser, mentre coppie di fidanzati e famiglie con bambini, noncuranti del pericolo, in bilico come sono a pochi centimetri da acque corrosive e prive di recinzione, ridono e scattano foto a raffica.

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L’Italia è il secondo Paese produttore di pomodori, dopo gli Usa. La Puglia produce più della metà dei pomodori in scatola italiani, in particolare nella zona di Foggia.

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Ida Virumaa, una regione in bilico

È indirettamente, solo dopo essere venuti a conoscenza delle sue peculiarità paesaggistiche, che IrpiMedia ha scoperto come Ida Viru sia stata scelta come sola beneficiaria del Just Transition Fund (JTF) in Estonia, un fondo da 17.5 miliardi di euro complessivi, istituito nel 2020 come uno dei pilastri del Green Deal, cioè la strategia di leggi e investimenti con cui l’Unione Europea punta ad azzerare le proprie emissioni inquinanti entro il 2050. Se nel resto d’Europa al centro del dibattito sulla transizione ecologica è soprattutto il carbone con le sue tante varietà, qui è lo scisto bituminoso, ovvero un combustibile fossile ad altissima intensità di carbonio. 

Negli anni Venti, quando gli standard ambientali erano ancora una chimera, agli abitanti di questo staterello incastrato tra il Mar Baltico e il gigante russo, non era sembrato vero di poter raggiungere l’autosufficienza energetica e, addirittura, di poter produrre elettricità in esubero da vendere altrove. In seguito, con la crisi energetica degli anni Trenta risultata dalla Grande Guerra, i russi non hanno avuto altra scelta se non sfruttare l’esperienza accumulata dal vicino estone e farla propria. Finché negli anni Cinquanta, dopo la Seconda Guerra Mondiale, e ancora negli anni Sessanta e Settanta, l’industria di scisto non è diventata il cuore pulsante dell’Unione Sovietica. Se gli estoni venivano sradicati dalla loro terra e rieducati nei gulag siberiani, migliaia di cittadini russi prendevano il loro posto, contribuendo al sogno energetico e industriale di Ida Viru, ma cambiando, al contempo, il suo assetto demografico. Gli anni Ottanta hanno visto il boom della produzione, con 14mila impiegati e oltre 30 milioni di tonnellate di scisto estratte in un anno. Dai primi anni Novanta si è assistito, invece, a un costante tracollo, fino alle stime più recenti, risalenti al 2021, che contavano una forza lavoro di poco più di 4.700 dipendenti e circa 20 milioni di tonnellate di scisto in lavorazione in meno rispetto al passato.

Le deportazioni estoni

Il 23 agosto 1939, poco prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale, l’Unione Sovietica e la Germania nazista strinsero il tristemente noto Patto di Molotov-Ribbentrop, con cui l’Europa centrale e orientale furono divise secondo aree di rispettiva influenza. Ecco perché, nonostante il governo estone avesse dichiarato la sua completa neutralità rispetto al conflitto, dopo ripetute minacce di aggressione all’Unione Sovietica non ci volle molto, per costringerlo a siglare un accordo di mutua assistenza militare e, così, a sparpagliare basi militari sul suo territorio. 

Da lì all’occupazione territoriale dell’Estonia, e delle vicine Lettonia e Lituania, fu un attimo. Il controllo sovietico su questa lingua di terra si tradusse in breve in uno dei capitoli più bui della recente storia europea. Con l’intento di seminare il terrore, di soffocare qualunque tentativo di resistenza interna e di minare per anni la società ed economia del Paese, l’Unione Sovietica organizzò almeno due massicce deportazioni, che videro migliaia di estoni abbandonare le proprie case e, solo in alcuni casi, farci ritorno alcuni decenni dopo. Si stima che al termine della Seconda Guerra Mondiale la popolazione estone fosse calata di quasi il 17.5%.

Il primo episodio di deportazione di cui si ha un riferimento scritto, grazie alle lettere del funzionario staliniano Andrei Zhdanov, risale alla notte tra il 13 e il 14 giugno 1941. Centinaia di famiglie furono svegliate di soprassalto al suono di urla e di ripetuti colpi alla porta. Un nuovo decreto li dichiarava in arresto o li costringeva all’espulsione immediata. Avevano a disposizione solo un’ora per fare le valigie, mentre tutte le proprietà venivano requisite all’istante. Nel giro di qualche ora il regime riempì almeno 490 carrozze ferroviarie e, da lì alla mattina del 16 giugno, gli storici stimano che quasi 10,000 persone furono allontanate senza motivo dalle loro case. Donne, bambini, anziani e malati inclusi.

Se questa deportazione di massa è la prima in ordine temporale, la più vasta e scioccante risale a qualche anno dopo, precisamente al 25 marzo 1949, quando 20,000 persone – quasi il 3% dell’intera popolazione estone dell’epoca – furono prelevate dalle loro case, caricate sui treni e spedite con la forza in alcune aree remote della Siberia.

Entrambi gli episodi oggi vengono ricordati e osservati come giorni di lutto nazionale.

Oggi Ida Viru, al pari di altre regioni carbonifere europee, porta i segni dell’incapacità del suo governo di proporre in tempo alternative e soluzioni a una necessità di transizione energetica, ma anche economica e sociale, che risale a molto prima che il Sistema di Scambio di quote di emissione dall’Unione Europea (ETS), volto a ridurre la produzione di gas serra responsabili del riscaldamento globale, si facesse sentire. 

Se è stato, infatti, solo nel 2019 che il prezzo dell’anidride carbonica è passato da 5 a 25 euro a tonnellata, sfiorando i 90 euro attuali, il divario tra le fabbriche, la dirigenza e le istituzioni era giunto a un punto di non ritorno ben prima di allora. «Con la proclamazione del nuovo stato nazione, molte persone non si sono più sentite benvolute, perché costrette a parlare un’altra lingua e a sposare una cultura diversa, e questo ha portato alla ghettizzazione dell’area», spiega il coordinatore locale del JTF, e impiegato del Ministero delle Finanze responsabile di questo, come degli altri fondi europei, Ivan Sergejev. «Nonostante il tentativo di integrazione successivo, Ida Viru è rimasta una realtà a sé. Sembra di essere in Russia, senza esserci davvero, con la consapevolezza di essere in Europa, ma con i dovuti distinguo». 

La signora Salme sull’uscio della sua serra. Suo marito, un ex operaio nella fabbrica di Kivioli, è allo stadio terminale di un cancro alla prostata. Per chi vive nei pressi di questi impianti c’è un’aspettativa di vita bassissima – Foto: Antonio Faccilongo

Nel caso estone c’è una questione di natura sociale, che accomuna Ida Viru alle altre regioni in transizione, ma anche aspetti che la rendono unica e speciale. Nell’area con il più alto tasso di disoccupazione (prima della pandemia di Covid-19 si aggirava attorno al 10,2% a dispetto del 5,3% della media nazionale, nda) e i salari più bassi del Paese (1.161 contro 1.448 euro, nda), l’industria di scisto rappresenta un’oasi a cui è difficile, nonostante tutto, rinunciare, dato che garantisce stipendi medi pari a 1.663 euro al mese e, con essi, uno standard di vita ben al di sopra della media. Ma c’è anche, e soprattutto, una motivazione politica dietro quest’apparente impasse istituzionale. «I politici hanno deciso di non toccare la questione il più a lungo possibile, perché la gran parte dei lavoratori è di provenienza russa, e fanno leva su un argomento banale: se tocchiamo l’industria di scisto rischiamo che queste persone si rivoltino e che magari la Russia ci invada», spiegava Vasser qualche mese fa, quando la minaccia russa era meno sentita rispetto a ora. «Questa inazione non ha fatto che alzare la tensione». Mentre gli impianti funzionano a capacità ridotta e fanno difficoltà a imporsi sul mercato, perché l’elettricità che producono è molto costosa, la forza lavoro viene lasciata a casa sempre più spesso, senza possibilità di ripiego.

Kivioli

Da nessuna parte il tracollo è così evidente come a Kivioli, termine che in lingua estone indica la roccia che brucia, ovvero la pietra di scisto, ma che identifica anche una cittadina sonnolenta, fondata ai primi del Novecento come pied-à-terre dei minatori e delle loro famiglie, trasferitesi lì per contribuire alla riuscita di quest’industria. I monologhi di chi ha superato la mezza età, e quegli anni di frenesia li ricorda bene, non trovano alcun corrispettivo nell’aria deprimente che vi si respira. Se non fosse per le montagne e le cave di scisto, così lontane ormai dalla quotidianità degli abitanti da essere diventate grottesche attrazioni turistiche, sarebbe impossibile associare quella realtà agreste, priva di brio e socialità, a un centro di progresso e avanguardia. 

Di proprietà dell’azienda privata Alexela dal 2013, la centrale e raffineria di Kivioli è un simulacro del suo glorioso passato. Anche se fuori piove a dirotto, i pochissimi operai che si intravedono nel palazzo a più piani che ospita generatori e fornaci, un luogo cupo, frastornante e puzzolente, preferiscono inzupparsi a turno sui davanzali, piuttosto che esporsi di continuo a quel tormento. Poco più in là, seguendo all’inverso la lavorazione dello scisto, c’è uno stabile alto una decina di metri, dove le pietre sono lasciate scivolare sopra un rullo che sale lentamente dal basso verso l’alto e, al termine, fatte cadere all’interno di un tubo, che le conduce ai forni. 

Non c’è nessuno in giro, a parte il caporeparto assegnatoci come guida dall’azienda, che non sembra molto invogliato a parlare. Effettivamente, c’è poco da dire. Una polvere fina e compatta si appiccica sui vestiti, sulla faccia, sulle scarpe. L’atmosfera è da tempesta di sabbia, pur trovandosi ai rigidi margini settentrionali d’Europa. È appena fuori di lì, dove i camion scaricano lo scisto trasportato dalle cave poco distanti, che Leho Tinas, impiegato alla fabbrica di Kivioli da 34 anni, riassume tutto in un’unica frase: «Mi stanno facendo impazzire».

Kivioli, Estonia. Veduta notturna dell’impianto di Kivioli. Il fumo di scarico viene da uno dei tubi connessi alle fornaci della centrale elettrica – Foto: Antonio Faccilongo

Macchinario per la raccolta delle rocce di scisto usate nell’impianto di Kivioli. Ampie aree della regione sono state deforestate per permettere la raccolta di queste rocce – Foto: Antonio Faccilongo

Se l’operaio russo si riferisce alla distanza che si è creata tra lavoratori e dirigenza rispetto al passato, quando si lavorava per un obiettivo comune, dall’esterno il primo pensiero va all’ambiente malsano, in cui lui e i suoi colleghi trascorrono gran parte del tempo. Oggi l’industria di scisto, concentrata interamente a Ida Viru, conta per il 50% della CO2 prodotta in Estonia. Pro capite, il Paese è al terzo posto in Europa per emissioni con 11.3 tonnellate (contro le circa 26 tonnellate degli anni Novanta, nd), pur contribuendo appena allo 0.06% delle emissioni globali.

Sono quattro le compagnie che estraggono scisto bituminoso in Estonia. In ordine di grandezza, la più importante è la statale Eesti Energia Kaevanduste AS, seguita con notevole distacco dalle private VKG Viru Keemia Grupp, Kiviõli Keemiatööstuse OÜ e AS Kunda Nordic Cement. Quest’ultima non utilizza lo scisto per scopi energetici, ma per la produzione di cemento, quindi non è oggetto di questa ricerca. Dal 2019, data spartiacque per il destino dei combustibili fossili in Europa, la fabbrica di Kivioli ha smesso di produrre elettricità, se non in piccolissime quantità, grazie al gas di scisto, ottenuto dalla raffineria al suo interno.

«Non abbiamo alcun supporto economico né dalle banche, che non vogliono neppure sentirci nominare, né dai proprietari, che non si fidano di mettere soldi, adesso che la situazione dal punto di vista ambientale è così imprevedibile», spiega con tono rassegnato Priit Oruma, il direttore esecutivo della raffineria, mentre giocherella nervosamente con una pepita di scisto. «Significa che il destino di 500 lavoratori, di cui 300 residenti nella nostra zona, è in bilico. Così, anche il futuro della nostra cittadina». Per ora, Kivioli sta dedicando l’intera estrazione – più o meno il 10% dell’ammontare nazionale, pari a un milione di tonnellate l’anno – alla produzione di olio di scisto. Eesti Energia, e in misura sensibilmente inferiore anche VKG, continua a ricavare elettricità dallo scisto, per garantire stabilità energetica durante i momenti di necessità, come quando il mercato schizza alle stelle durante l’inverno, o durante la recente e prolungata crisi del gas mondiale. Il salto col passato è comunque evidente. Dal 2018 al 2020 la produzione è crollata di due terzi, con EE che è passata da garantire a ciascuna abitazione da 9TW a 3.8TW, a estrarre 6.4 milioni di tonnellate di scisto contro i 16 milioni di prima, e a ridurre la forza lavoro da 4500 a 3000 unità. 

Un canale artificiale usato per una cava di estrazione dello scisto nell’impianto di Kivioli. La grande necessità di acqua per questa industria contribuisce ad aggravare l’inquinamento della zona – Foto: Antonio Faccilongo

«Come azienda guardiamo ai profitti e, per questo, abbiamo deciso di interrompere l’utilizzo dello scisto come fonte di elettricità cinque, forse dieci anni prima della scadenza imposta dalle autorità, per focalizzarci, invece, sull’olio di scisto», dichiara Priit Luts, addetto stampa dell’azienda. «Nel mercato c’è grande richiesta di questa risorsa. Se non la produciamo noi, chi? E con quale impatto ambientale?»

L’olio di scisto prodotto oggi in Estonia è venduto quasi per intero all’estero come combustibile per il trasporto marittimo internazionale. Sebbene anche a questo settore sia stato richiesto recentemente di conformarsi alle misure globali volte alla riduzione delle emissioni di CO2, il suo viaggio verso un reale cambiamento è ancora lungo. L’80% del commercio mondiale avviene, infatti, via mare, grazie a flotte di enormi navi cargo difficilmente rimpiazzabili in poco tempo. Per questo, nel trovare alternative sostenibili, non è facile mettere d’accordo tutti. Anche nella migliore delle ipotesi, il trasporto marittimo continuerà a rappresentare un business sicuro almeno fino al 2040, data auspicata per la fine della produzione di olio di scisto. Ed è in quest’ottica che va interpretata la costruzione di Enefit 280 ad Auvere (piccolo centro nell’estremo nord-est del Paese non lontano da Narva), un nuovo impianto di proprietà di Eesti Energia, azienda che già annovera nel suo arsenale, noto come Enefit Power, tre centrali termoelettriche, tre fabbriche di olio di scisto e due miniere, destinato ad aprire tra la fine del 2023 e l’inizio del 2024.

Veduta di una delle montagne di cenere di Auvere formata dai residui della lavorazione dello scisto. La cenere delle fornaci viene miscelata ad acqua e trasportata da tubi in cima alla montagna. Le ceneri sedimentano in alto mentre le acque scendono a formare le “lagune blu”, estremamente alcaline e tossiche – Foto: Antonio Faccilongo

Auvere

All’entrata del gigantesco quartier generale della compagnia, che a breve ospiterà anche questo nuovo impianto, si prova una sensazione di inferiorità, mista a spaesamento. Dal palazzo di vetro a più piani dove si adoperano i vari dirigenti, tutti estoni, in giacca e cravatta, si passa all’enorme area di produzione, che in una mattinata IrpiMedia ha percorso solo in minima parte, e a bordo di un pulmino, data la sua vastità. Il sistema ferroviario è direttamente collegato alla stazione termoelettrica più nuova e all’avanguardia tra tutte, Auvere, che ha preso il nome dal vicino paesino e, oltre a bruciare olio di scisto, grazie a un sistema ibrido usa anche gas di scisto e biomassa. I tubi intrecciati sopra di noi che trasportano le pietre di scisto sono scintillanti, come se fossero stati appena lustrati; i macchinari e i generatori in funzione lavorano a pieno regime, pur senza avere l’aria minacciosa di quelli di Kivioli; e i pochi operai con cui ci è dato parlare, ne monitorano il funzionamento stando seduti davanti ai monitor nelle stanze di controllo. Andrey Zaitsev, capo del Sindacato dei Lavoratori, racconta che è “orgoglioso di lavorare lì e di fornire da 27 anni alla sua gente elettricità,” che per lui è l’essenza della vita stessa. «Non abbiamo fonti di energia alternativa e senza questo impianto, e senza lo scisto bituminoso, saremmo in costante black out», racconta con enfasi.

Se non stupisce che la dirigenza di Enefit faccia quel che può per attirare profitto, anche costruire un nuovo impianto, la posizione dello stato, proprietario di una compagnia che pur opera secondo leggi private, è meno ovvia. Nel 2020, mentre siglava accordi verdi con la Commissione Europea, il governo ha deciso di investire 125 milioni di euro in Enefit 280. «Fanno leva sul fatto che, così facendo, creeranno nuovi posti di lavoro e contribuiranno in qualche modo alla riduzione delle emissioni, ma per noi è molto grave», spiega Maris Pedaja, l’esperta di just transition del Movimento Verde. «Com’è possibile che la Commissione Europea investa soldi nella transizione a Ida Viru e, al contempo, chiuda un occhio rispetto al coinvolgimento di uno dei suoi membri in un impianto, che rischia di metterla a repentaglio?». Non è stato possibile porre questa o altre domande alla Commissione, perché ci è stato risposto che il dialogo con il Ministero delle Finanze estone – incaricato di gestire i fondi europei, tra cui quelli per la transizione – è ancora in fase preliminare.

Il caposquadra di un gruppo di minatori controlla la stabilità di uno dei tunnel – Foto: Antonio Faccilongo

Se non stupisce che la dirigenza di Enefit faccia quel che può per attirare profitto, anche costruire un nuovo impianto, la posizione dello stato, proprietario di una compagnia che pur opera secondo leggi private, è meno ovvia. Nel 2020, mentre siglava accordi verdi con la Commissione Europea, il governo ha deciso di investire 125 milioni di euro in Enefit 280.

«Com’è possibile che la Commissione Europea investa soldi nella transizione a Ida Viru e, al contempo, chiuda un occhio rispetto al coinvolgimento di uno dei suoi membri in un impianto, che rischia di metterla a repentaglio?»

«Fanno leva sul fatto che, così facendo, creeranno nuovi posti di lavoro e contribuiranno in qualche modo alla riduzione delle emissioni, ma per noi è molto grave», spiega Maris Pedaja, l’esperta di just transition del Movimento Verde. «Com’è possibile che la Commissione Europea investa soldi nella transizione a Ida Viru e, al contempo, chiuda un occhio rispetto al coinvolgimento di uno dei suoi membri in un impianto, che rischia di metterla a repentaglio?». Non è stato possibile porre questa o altre domande alla Commissione, perché ci è stato risposto che il dialogo con il Ministero delle Finanze estone – incaricato di gestire i fondi europei, tra cui quelli per la transizione – è ancora in fase preliminare.

Foto: Antonio Faccilongo

L’Italia è il secondo Paese produttore di pomodori, dopo gli Usa. La Puglia produce più della metà dei pomodori in scatola italiani, in particolare nella zona di Foggia.

Foto: Antonio Faccilongo

Se si guarda al suo intero ciclo vitale, e quindi alla questione dal punto di vista ambientale, l’olio di scisto genera dal 25 al 75% di CO2 in più rispetto agli altri carburanti liquidi. Michel Khangur, dell’Università di Tartu, sostiene, che «le emissioni sarebbero del 40% più alte di quelle prodotte per ricavare elettricità dallo scisto (che sappiamo essere già molto alte, nda), perché per ricavare l’olio dalla pietra si ha bisogno di energia, proveniente dallo scisto stesso. Successivamente, lo scisto deve essere raffinato per ottenere il carburante e questo processo richiede ulteriore energia, che, a sua volta, genera nuova CO2.»  Dato, però, che buona parte dell’anidride carbonica è rilasciata quando l’olio di scisto viene bruciato nei motori delle navi, in mare aperto e, quindi, fuori dall’Estonia, quella anidride carbonica non viene conteggiata tra quella prodotta dal paese baltico. Questo “scarico” di responsabilità aiuta la retorica dei promotori dello scisto, che sostengono che l’Estonia abbia già fatto fin troppo rispetto ai limiti posti dall’UE. Infatti, con la proclamazione dell’indipendenza, il paese ha dimezzato la produzione di scisto, per poi subire un’altra brusca frenata nel 2019, per un crollo complessivo di quasi il 70% delle emissioni (da 40 milioni a 15 milioni di tonnellate di carbonio), già ben più alto della riduzione del 55% rispetto al 1990 richiesta dall’Unione Europea. Se, però, si considera il target finale di 2.2 milioni di tonnellate di carbonio, la strada è ancora lunga.

Transizione più di nome che di fatto

Nonostante, come si è visto, vi siano ancora margini di profitto, le maglie europee si fanno sempre più strette attorno ai combustibili fossili. Ecco perché, già in tempi non sospetti, Eesti Energia ha pensato di diversificare il suo operato vendendo la sua expertise all’estero. Dopo un tentativo non riuscito in Utah, negli Stati Uniti, il colosso estone ha guidato un progetto di estrazione di olio di scisto in Giordania e, in questo momento, è coinvolto in un’operazione chiamata REM nel deserto del Negev, in Israele, a fianco di un imprenditore australiano, noto fino a poco prima solo per le sue aziende vinicole. Mentre Vasser, del MV, insinua che, «se le alternative dovessero venire meno», ad esempio nel caso in cui la Russia decidesse di chiudere i rubinetti di gas e petrolio, «alcuni paesi potrebbero prendere in considerazione di usare anche una fonte di energia sporca come lo scisto», l’intento dichiarato è di riciclare quanta più plastica possibile, mischiandola all’olio di scisto secondo un processo di pirolisi.

Senza entrare in dettagli eccessivamente tecnici, questo riutilizzo e trasformazione dello scisto, per il cui sviluppo l’Estonia non può chiedere fondi diretti a un’Europa dichiaratamente contraria ai combustibili fossili, è parte della strategia adottata dall’industria energetica, per accaparrarsi una fetta dei 340 milioni messi in palio dal Just Transition Fund. Sebbene ancora i finalisti non siano stati scelti, e tutto dipenda da quanti posti di lavoro ciascuna azienda sarà in grado di creare, IrpiMedia ha ricevuto direttamente dal Capo del Dipartimento Normativo di Eesti Energia, Andres Tropp, la lista dei progetti in lizza. Più di uno assomiglia a REM. Sia Kivioli e VKG, grazie a un esperimento congiunto chiamato Waste2Oil, che Enefit Power puntano sul riciclo di grandi quantità di plastica, facendo uso delle risorse esistenti e vantandosi di non dipendere dalla produzione di nuovi combustibili fossili. «Abbiamo macchine speciali in grado di risucchiare la plastica di tutta Europa», raccontava Oruma, direttore esecutivo della raffineria di Kivioli, l’estate scorsa, mentre tutto attorno a lui faceva pensare il contrario. «Possiamo produrre olio di scisto dai residui di olio e dalla plastica, mischiandoli con la cenere delle nostre montagne. È la luce in fondo al tunnel. Abbiamo solo bisogno di tempo per dimostrare che si tratta di un’industria pulita».

Il tempo non manca fino al 2040, ma c’è da capire se questi diciotto anni saranno utilizzati per creare valide alternative per l’ambiente e per la popolazione di Ida Viru, o ancora, come il governo ha fatto finora, serviranno a soddisfare solo le esigenze di pochi. Quello che salta all’occhio è che, «Questa non è una transizione che si lascia alle spalle i combustibili fossili», spiega Silver Sillak, ricercatore e membro del Movimento Verde, «ma una transizione dall’energia ottenuta tramite scisto», il più inquinante tra i combustibili, «verso sostanze chimiche basate a loro volta sullo scisto». Cosciente del ruolo centrale che svolge in un momento di tanta insicurezza come quello attuale, l’industria fossile è riuscita ad appropriarsi del concetto di energia circolare, sbarazzandosi quasi del tutto del tema della sostenibilità, per mettere ancora al centro soldi e profitto.

Per quanto orgoglioso del ruolo che ha svolto per così tanti anni, il sindacalista Zaitsev non vede il domani con ottimismo. «Non so cosa accadrà di qui al 2050 ma, di certo, non voglio assistere al momento in cui tutte queste persone verranno mandate via e l’intera regione collasserà per via della disoccupazione e della chiusura della fabbrica», afferma con un tono improvvisamente amareggiato, abbandonando il piglio risoluto di poco prima. 

Così, mentre a Kivioli l’era dello scisto come motore dell’economia locale sembra già lontana, nemmeno a Enefit Power è tutto oro quel che luccica.

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Nel 2021 la Commissione europea ha approvato una serie di fondi e prestiti destinati agli Stati membri per far fronte alla crisi economica portata dalla pandemia. Un pacchetto di stimoli senza precedenti nel continente: 723,8 miliardi di euro.

Per potervi accedere, i Paesi membri hanno dovuto presentare dei piani, tanto dettagliati quanto ambiziosi.

Ma le prime ricerche dimostrano che tali piani sono stati redatti in modo molto poco trasparente, senza il contributo degli attori della società civile e, nella maggior parte dei paesi Ue, senza neppure quello dei Parlamenti eletti.

L’enorme spesa è finanziata aumentando il debito pubblico. La Corte dei conti europea ha sollevato l’allarme sulla necessità di «controlli efficaci su come il denaro venga speso in realtà». Una fonte interna alla Corte dei conti ha ammesso, sotto condizione di anonimato, che l’Europa non ha sufficienti risorse per fare controlli continui e dettagliati.

Ma cosa contengono effettivamente i piani dei vari Paesi, e come sono stati negoziati con la Commissione? Chi ne trarrà il maggior vantaggio e come assicurarsi che ci sia trasparenza su tutto il processo? Per rispondere a queste domande IrpiMedia partecipa al progetto #RecoveryFiles messo in piedi dai colleghi olandesi di Follow The Money, assieme a colleghi di altre 11 testate in tutto il continente.

La trasparenza a fasi alterne del Recovery Fund

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All’inizio sembrava che la messa a disposizione dei dati sui beneficiari dovesse prevenire la corruzione. Oggi il quadro è cambiato. Così i nomi restano un segreto in tutta Europa

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Giulio Rubino

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Il Parlamento europeo a Bruxelles
(Thierry Monasse/Getty)

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Recovery Fund: il muro di gomma sui negoziati europei

#RecoveryFiles

Recovery Fund: il muro di gomma sui negoziati europei
Giulio Rubino

La questione della trasparenza sul PNRR Europeo, già affrontata dal progetto RecoveryFiles nella precedente inchiesta sulla mancata partecipazione dei Parlamenti europei alla stesura dei Recovery Plan, resta un nodo irrisolto nella gestione del piano post pandemia e nella politica europea in generale. Nonostante infatti decine di richieste di accesso agli atti (FOIA, Freedom Of Information Act) fatte dai giornalisti di Recovery Files sia alla Commissione europea che ai governi degli Stati membri, la maggior parte della documentazione riguardo i negoziati che hanno portato ai piani attuali resta segreta.

Lo strumento della richiesta di accesso agli atti, per i giornalisti come per tutti i cittadini, su carta è una garanzia di trasparenza estremamente potente. Sono infatti poche e molto ben delimitate le circostanze che permettono alle istituzioni europee, e quasi ovunque nel continente anche a quelle nazionali, di rifiutare l’accesso a qualsiasi tipo di documentazione pubblica, inclusi i verbali delle riunioni, la corrispondenza fra funzionari pubblici, i budget e le spese effettuate.

Eppure, dopo mesi di tentativi da parte dei giornalisti del progetto Recovery Files, un’inchiesta collaborativa fra testate europee coordinata dal magazine online olandese Follow The Money, bisogna constatare che tale strumento è nella pratica molto meno efficace di come appaia nel diritto, e che permane una notevole ritrosia a livello europeo nel rendere davvero trasparente il processo di spartizione della più grande torta mai messa sul piatto dell’Unione europea.

Questo atteggiamento di chiusura, oltre a danneggiare direttamente il diritto all’informazione dei cittadini, finisce per dare molti argomenti in mano ai detrattori del Recovery Fund in generale: la legittima preoccupazione per il corretto uso di questi fondi viene sempre di più associata ad una posizione di contrarietà al progetto stesso, mentre il dibattito fra coloro che supportano l’iniziativa del PNRR è messo a tacere dall’alto in nome di una realpolitik che pretende di poter agire senza supervisione pubblica.

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L'inchiesta

Questa è la seconda uscita di Recovery Files, un progetto di ricerca paneuropeo che indagherà le spese dei fondi di ripresa e resilienza nei mesi a venire. Il progetto è coordinato da Follow the Money, piattaforma di giornalismo olandese.

Il progetto d’inchiesta è importante non solo in termini di quantità di investimenti pubblici – circa 725 miliardi di euro- ma anche per il preoccupante mancato coinvolgimento dei parlamenti nazionali. Il modo in cui questa enorme quantità di denaro verrà spesa è ovviamente una materia di interesse pubblico per i cittadini di tutta Europa.

IrpiMedia lavora al progetto insieme al resto del team di Recovery Files:

  • Attila Biro, Rise (Romania)
  • Atanas Tchobanov, Bird.bg (Bulgaria)
  • Hans-Martin Tillack, Die Welt (Germania)
  • Petr Vodsedalek, Denik (Repubblica Ceca)
  • Anuska Delic/Matej Zwitter, Ostro (Slovenia)
  • Gabi Horn, Atlatszo (Ungheria)
  • Marie Charrel, Le Monde (Francia)
  • Peter Teffer/Remy Koens/Lise Witteman, Follow the Money (Paesi Bassi)
  • Piotr Maciej Kaczynski, Euractiv.com e Onet.pl (Polonia)
  • Staffan Dahllöf, DEO.dk (Danimarca/Svezia)

Sei mesi di FOIA

Quando il team di Recovery Files ha cominciato a investigare il processo, la prima cosa che abbiamo notato era che i piani sembravano esser stati decisi da gruppi ristretti di membri dei governi e della Commissione europea, con un contributo però molto forte, almeno a giudicare dalle agende dei ministri, di una selezionata schiera di interessi privati.

La mancanza di coinvolgimento dei rappresentanti eletti, nello specifico dei parlamenti nazionali, è stata la prima preoccupazione del team, che nel processo di ricerca ha individuato, per quasi tutti gli Stati membri, un periodo chiave, fra novembre 2020 e marzo 2021, quando finalmente, con vari ritardi, le varie bozze di piano hanno preso forma.

In quei mesi di febbrile lavoro gli ultimi nodi e veti incrociati si sono sciolti, le road-map delle riforme richieste dalla Commissione sono state tracciate e infine, è stata annunciata la luce verde ai vari piani nazionali, ancora con moltissime postille, dettagli da chiarire, fra rischi di green washing e richieste a gran voce di trasparenza da moltissimi attori della società civile.

Il progetto Recovery Files, fin da subito, ha deciso di concentrare gli sforzi su quei mesi chiave, e di cercare di portare alla luce il processo decisionale e i dibattiti che erano stati negati ai parlamenti nazionali.

Lo strumento scelto, inevitabilmente, è stato quello della richiesta di accesso agli atti, per poter ottenere in modo completo e trasparente tutta la documentazione ufficiale rilevante che non fosse già stata pubblicata.

Il processo ha richiesto molti mesi: la prima richiesta è stata infatti inviata dal nostro collega tedesco Hans-Martin Tillack alla Commissione verso la metà di luglio 2021. Si chiedeva la totalità dei documenti in cui si valutava il recovery plan tedesco, una manovra del valore di 25,6 miliardi di euro. Dopo le rituali due settimane di attesa, la risposta della Commissione è stata piuttosto insoddisfacente: la richiesta deve essere più specifica, perché la documentazione in questione è troppo ampia.

A questa prima risposta il nostro collega ha risposto chiedendo una lista dei documenti disponibili, per poter circoscrivere la richiesta precedente. Ancora una volta, la risposta della commissione è stata negativa: non era possibile inviare tale lista senza una «consultazione con i Paesi membri rilevanti (alla richiesta, ndr)».

Decisi a non lasciar cadere il discorso, il team di Recovery Files ha presentato un ricorso alla Mediatrice europea Emily O’Reilly. L’ufficio del Mediatore europeo (European Ombudsman) è infatti un organo indipendente creato precisamente allo scopo di richiamare le istituzioni e le agenzie dell’Ue a rispondere del loro operato, con il potere di avviare inchieste in risposta a denunce di cattiva amministrazione o abusi.

Più trasparenza per una gestione efficiente dei fondi

Di Federico Anghelè, The Good Lobby Italia

Il PNRR rappresenta una grande opportunità di sviluppo economico e sociale per l’Italia, ma anche un gigantesco banco di prova per capire se saremo in grado di agire nell’interesse pubblico. Non possiamo accettare che la gestione delle risorse avvenga senza garanzie di massima trasparenza, partecipazione e inclusività. Purtroppo quanto successo finora non va in questa direzione. Il Governo non ha previsto meccanismi di consultazione dei cittadini per orientare le scelte politiche formulate nel Piano o per vagliare il gradimento delle proposte. Italia Domani, la piattaforma online richiesta a gran voce dalla società civile, che dovrebbe permettere il monitoraggio diffuso e costante sull’uso delle risorse europee e l’andamento dei progetti, è uno strumento del tutto insufficiente a verificare lo stato di attuazione del PNRR. Abbondano i pdf e mancano i dati disponibili in formato aperto, disaggregato e interoperabile fondamentali per il monitoraggio. Per questo, assieme a molte altre organizzazioni civiche, chiediamo che venga al più presto colmata questa lacuna e che vengano inoltre pubblicate informazioni complete sulle scadenze amministrative e procedurali previste, sui beneficiari dei fondi (inclusi i subappalti), sui soggetti coinvolti, sui luoghi dove verranno realizzati gli interventi. Sono dati importantissimi per integrare l’inchiesta che realizzeremo insieme ad IrpiMedia nel corso del 2022 sui potenziali conflitti di interessi nella distribuzione e gestione del Recovery Fund e sulle attività di lobbying che ruotano intorno al PNRR.

Uno scambio di corrispondenza fra l’ufficio di O’Reilly e quello del commissario Von Der Leyen ha portato, lo scorso 15 ottobre, a una lettera di Ursula von der Leyen che echeggia quasi parola per parola la sua dichiarazione pubblica di luglio: «Le posso assicurare il nostro impegno a garantire la trasparenza del Recovery and Resilience Facility, poichè condividiamo la sua valutazione che la piena partecipazione al progetto da parte della cittadinanza europea sia un prerequisito per il suo successo».

Il ricorso al Mediatore europeo ha smosso le acque, e la commissione ha finalmente rilasciato una lista dei documenti riguardanti il PNRR tedesco. Ma, nonostante tutto, buona parte dei documenti ottenuti sono arrivati in notevole ritardo rispetto ai termini stabiliti dalla legge e, soprattutto, è stato in diversi casi (incluso quello tedesco) negato l’accesso ai documenti antecedenti l’invio ufficiale del piano nazionale alla Commissione, esattamente il periodo in cui le decisioni più importanti sono state prese.

Relazioni a rischio

Le altre istanze di accesso fatte dal resto del team in tutta Europa non sono andate tanto diversamente. Le richieste fatte da IrpiMedia riguardo all’Italia sono ancora tutte in elaborazione, nonostante le prime siano state inviate lo scorso 22 dicembre, e il termine ultimo per ottenere una risposta sia di quindici giorni lavorativi.

Gli unici dipartimenti (DG) che hanno già inviato una risposta sono quelli che hanno dichiarato di non aver nessun documento riguardo «le comunicazioni fra governo italiano e commissione». Questi includono, abbastanza sorprendentemente, il Segretariato Generale della Commissione, il Direttorato Generale per gli Affari Economici e Finanziari e quello del Budget, mentre quello di Energia ha richiesto più tempo per le risposte, che aspettiamo nel corso di questo mese di febbraio.

Il PNRR dell’Italia

La composizione del PNRR per missioni e componenti [Valori in €/mld]

Ma sono soprattutto alcune delle risposte già arrivate ai colleghi di altri Paesi a sollevare l’allarme. Nel caso della Romania, che dovrebbe ricevere 30 miliardi di euro dal PNRR, la prima risposta risale allo scorso 19 novembre: la Commissione ha negato l’accesso a una considerevole parte dei documenti richiesti, dichiarando che rivelarli metterebbe a rischio «il clima di rispettiva fiducia» con le autorità romene e avrebbe «aggravato i rapporti di lavoro» fra Bruxelles e Bucharest.

Una risposta simile è arrivata nel caso della Danimarca: anche qui è stato negato accesso ai documenti per evitare che «si vadano a logorare i rapporti di lavoro fra la Commissione europea e le autorità nazionali danesi». Per l’Olanda e la Svezia la Commissione ha risposto con una formulazione meno minacciosa, ma ugualmente negativa: «Danneggerebbe il processo decisionale», ci è stato detto.

Si tratta di una delle eccezioni usata più spesso per rifiutare le richieste di accesso agli atti fatte dal progetto Recovery Files. La pubblicazione di alcuni documenti rischierebbe di inficiare «il processo decisionale di un istituzione».

Abbiamo ricevuto tale risposta in diversi casi. Per Ungheria e Polonia, l’eccezione è anche giustificata, questi Paesi infatti ancora non hanno un PNRR ufficialmente approvato dalla Commissione. Ma nel caso della Slovenia la stessa eccezione è stata usata lo scorso dicembre, quasi sei mesi dopo che il PNRR sloveno aveva ricevuto l’approvazione ufficiale della Commissione.

Päivi Leino-Sandberg, professoressa di diritto internazionale europeo all’università di Helsinki, ritiene che la distinzione sia di primaria importanza «Laddove la decisione è già stata presa» spiega «la documentazione che può rimanere confidenziale è molto limitata». Solo i documenti che includono “opinioni per uso interno” possono essere negati. Ma le risposte della Commissione sembrerebbero indicare che un’ampia varietà di documenti dovrebbero restare segreti fino a che tutte le fasi del PNRR sono state attuate, fino cioè al 2026. «È un arco temporale molto lungo», commenta Leino-Sandberg «e che fa riferimento a processi decisionali del tutto separati».

Per approfondire

Le voci del Recovery: chi ha deciso il piano di ripartenza in Europa

La Commissione e i governi centrali ne hanno disegnato le versioni nazionali evitando il confronto con i parlamenti locali. E ascoltando, al contrario, le lobby delle grandi aziende private

Secondo la professoressa Leino-Sandberg l’uso che la Commissione sta facendo delle limitazioni all’accesso agli atti potrebbe essere politicamente controproducente: «Considerando le quantità di denaro di cui si parla, è normale che la Commissione sia sotto pressione da parte degli Stati membri. Credo – conclude Leino Sandberg – che la trasparenza sarebbe invece d’aiuto alla Commissione per mantenere una posizione imparziale e oggettiva e mostrare che non cede alle pressioni politiche».

Dello stesso parere è anche Helen Darbishire, direttore esecutivo di Access Info Europe, una ONG spagnola parte della Open Spending EU coalition. Raggiunta dal team nel suo ufficio di Madrid ci spiega il suo punto di vista: «Ci è stato detto che gli obiettivi [del PNRR] comprendono una giusta transizione energetica, supporto alla digitalizzazione e la ripresa del sistema economico dalla crisi portata dalla pandemia. Come potranno però gli scienziati del clima valutare se le azioni intraprese contribuiscono a combattere i cambiamenti climatici se non sappiamo dove vanno i soldi?». E aggiunge: «Abbiamo visto durante la pandemia come le procedure di acquisto di emergenza siano state usate per favorire soggetti vicini ai governi. Questa non è soltanto corruzione, è anche uno spreco di denaro pubblico».

Ma Darbishire inquadra il problema anche da una prospettiva politica, andando al centro del dibattito attuale: «Senza trasparenza e responsabilità, ci saranno sicuramente scandali legati all’uso che si farà dei fondi. Scandali che andranno a inficiare la fiducia del pubblico nelle istituzioni europee. Se questi fondi devono salvare le democrazie europee la trasparenza è chiave per il successo di questo piano», conclude.

Il problema centrale è che nonostante tutto la trasparenza è un concetto che fa ancora paura: secondo Helen Darbishire è un «riflesso condizionato» che risale a quando l’Europa era ancora più un circolo diplomatico che non un’istituzione legislativa. «L’idea che la trasparenza possa danneggiare le relazioni internazionali è ridicola, non si può usare il concetto di relazioni internazionali all’interno dell’Unione europea».

Eppure un simile approccio resta molto diffuso non solo a Bruxelles, ma anche fra i governi degli Stati membri. I colleghi che hanno inviato richieste di accesso agli atti anche ai propri governi nazionali hanno infatti ottenuto risultati non sempre soddisfacenti. Finlandia, Danimarca e Svezia hanno da un lato inviato migliaia di documenti alle nostre caselle di posta, ma la quantità di dati nasconde significative omissioni.

Ad esempio, apparentemente il governo finlandese non ha tenuto alcun verbale delle riunioni effettuate, e gli ordini del giorno per tali incontri sono estremamente vaghi. Il neo cancelliere tedesco Scholz ha negato l’accesso a tutti i documenti riguardo la preparazione del PNRR, citando ancora «relazioni internazionali» da proteggere. In Slovenia il ministero dello Sviluppo e delle politiche Europee (SVRK), che era incaricato di redigere il PNRR, ha risposto di non avere documenti sul processo decisionale, suggerendo di contattare gli altri ministeri. Questi, prevedibilmente, hanno risposto che bisogna rivolgersi al SVRK.

CREDITI

Autori

Giulio Rubino

In partnership con

Il team di Recovery Files

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi

Foto

Le bandiere della Ue a mezz’asta davanti al quartier general della Commissione europea il 14 gennaio 2022 in segno di lutto per la morte del Presidente del parlamento europeo, David Sassoli
(Thierry Monasse/Getty)

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La strana storia dell’aeroporto di Parma

La strana storia dell’aeroporto di Parma

Giacomo Romanini

Peter Weinzierl, austriaco CEO della Meinl Bank (AAB), 55 anni. Secondo il dipartimento di giustizia USA, potrebbe passare i prossimi 70 anni in galera: ha fatto volare 170 milioni di dollari da New York nelle tasche della Odebrecht S.A., enorme potenza industriale del Brasile. La Odebrecht ha usato quei soldi per due grossi obiettivi: aggirare il fisco brasilano – una frode di 100 milioni di dollari – e corrompere funzionari in giro per il mondo. Uno dei casi di corruzione più vasti della storia: la multa è di 3.5 miliardi di dollari. Per la Meinl Bank, il caso si somma alle accuse del 2019 di riciclaggio nell’Est Europa e in Argentina, la successiva bancarotta. In Italia, la Meinl possedeva la SO.GE.A.P., la società privata che gestisce l’Aeroporto “Giuseppe Verdi” di Parma.

Per ricomporre il puzzle occorre tornare al 2008: la Meinl Bank vince la gara di privatizzazione, ottenendo la maggioranza delle quote della SO.GE.A.P., mentre quote minoritarie rilevanti rimangono a Parma, sia sul lato pubblico (Comune, Provincia e Camera di Commercio di Parma), sia su quello privato (Unione Parmense Industriali, in varie forme). Negli anni, la storia finanziaria rimane stabilmente negativa: la società sembra ogni anno diretta alla liquidazione, ma la Meinl ripiana le perdite operative con iniezioni di capitale.

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Una società in rosso

Lo storico dei bilanci della SO.GE.A.P. (risultato pre-imposte), in positivo nel solo 2018

Nel 2016 la SO.GE.A.P. indovina la mossa giusta: affida a KPMG, una delle “Big 4”, società di revisione e consulenza, la stesura di un piano strategico di investimenti. Approvato dall’Assemblea dei soci del 7 aprile 2016, il piano ha «nello sviluppo del trasporto merci una delle sue componenti principali». Sempre nel 2016 il presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, spinge il cargo in sede ministeriale (CIPE): arrivano 12 milioni dai fondi FSC, il fondo sviluppi e coesione infrastrutture, volti a «favorire l’effettivo ampliamento del trasporto aereo delle merci». Secondo Raffaele Donini, in quegli anni assessore ai Trasporti: «l’obiettivo era quello di creare una rete regionale, includendo Parma, così come Rimini, e in prospettiva anche Forlì, in un piano condiviso». L’investimento permetterebbe di rilanciare l’aeroporto e salvare la società di gestione SO.GE.A.P. dall’ennesimo bilancio in rosso.

Cosa vuol dire essere in concessione?

La SO.GE.A.P è la società concessionaria, mentre la proprietà delle infrastrutture rimane pubblica, in capo a ENAC (Ente Nazionale Aviazione Civile). In modo simile a quasi tutti gli stadi sportivi: il Tardini è di proprietà del Comune di Parma, e la società Parma Calcio la gestisce in concessione. La gestione privata degli aeroporti non è un dogma, ma una scelta: negli USA, dove in generale il ruolo del pubblico è molto più limitato che nei Paesi europei, diversi aeroporti sono posseduti e gestiti dal pubblico. Un esempio rilevante: Atlanta (Georgia, USA), l’aeroporto con il traffico passeggeri più elevato al mondo, è gestito dal Comune, la City of Atlanta.

Il problema: le previsioni di bilancio non sono credibili

I 12 milioni di euro, pubblici, sono arrivati grazie allo studio di KPMG. Dello studio però conosciamo solamente il riassunto, contenuto nel piano economico-finanziario, presentato dalla SO.GE.A.P nel 2016. Si prevede una forte crescita in 7 anni: in una prima fase si riducono le perdite, da un rosso di 3,5 milioni per il 2017 a -1.7 per il 2019 fino a -300 mila nel 2021. Per andare in attivo di 2 milioni nel 2023. C’è un problema: non si capisce da dove vengano queste rosee previsioni.

La vita travagliata dell’aeroporto di Parma

Come spiega Emanuele Padovani, professore di finanza locale presso l’Università di Bologna: «Nel momento in cui si presenta una previsione di bilancio, bisogna fornire almeno tre scenari: migliore, peggiore e medio. In questo caso – specifica Padovani – non sappiamo neppure se gli scenari siano stati creati, o se quello presentato sia il migliore o quello medio (difficilmente si tratta del peggiore, quello maggiormente prudenziale). In mancanza degli scenari – conclude – è impossibile valutare se e quanto il piano sia solido, robusto in caso di imprevisti».

Le previsioni di bilancio 2016-2023 della SO.GE.A.P come illustrate nel Piano di sviluppo aeroportuale

Le previsioni si sono rivelate per altro poco aderenti alla realtà: per il 2019, pre-Covid, il Piano prevedeva un risultato negativo di 1,7 milioni: la perdita è stata di 3,2 milioni, quasi il doppio. Errore strategico o rischio calcolato (tecnicamente, dentro all’intervallo di confidenza)? Impossibile dirlo, visto che lo studio non è pubblico, né in mano al pubblico.

Uno studio fantasma

Dello studio di KPMG non c’è traccia. Gli unici che dichiarano di esserne in possesso, oltre a SO.GE.A.P., sono la Camera di Commercio e il Comune di Parma, soci di minoranza della SO.GE.A.P. stessa. Tuttavia, il documento non è accessibile: dopo vari tentativi di accesso agli atti con gli enti, viene comunicato a IrpiMedia che «il documento redatto da KPMG, trattandosi di Piano Strategico di Sviluppo, contiene segreti commerciali coperti, tra l’altro, da accordi di riservatezza sottoscritti con terze parti».

Ci si aspetterebbe che il documento sia in possesso degli enti pubblici che hanno preso la decisione. Chiediamo dell’esistenza dello studio, anche senza vederlo. No: né la Regione, né il Ministero dei Trasporti, neppure all’Ente nazionale dell’aviazione civile (ENAC) dicono di averlo: «ENAC non possiede ufficialmente lo studio KPMG citato ma – risponde – è a conoscenza che è stato utilizzato dal gestore aeroportuale per la definizione di alcune delle scelte strategiche su cui è stato sviluppato il Master Plan dell’aeroporto di Parma approvato tecnicamente dall’Ente stesso».
Com’è possibile aver approvato il piano di sviluppo economico e finanziario, in assenza del principale documento che ne dimostrerebbe la presunta validità? 12 milioni di euro pubblici, decisi dalla “virtuosa” Regione Emilia Romagna, quella in cima alle classifiche sui fondi europei.

La realtà è diversa: la decisione è presa senza sapere come andrà, una scommessa con i soldi pubblici, a beneficio di aziende private e banche corrotte.

La BCE ritira la licenza, ma è tutto dimenticato: iniziano i lavori, la maggioranza va agli industriali parmensi

Nell’autunno 2019 iniziano i lavori di espansione dell’aeroporto. Poco prima, il 16 Ottobre 2019, l’Unione Parmense degli Industriali (UPI) sottoscrive l’intero aumento di capitale da 8.5 milioni e diventa socio di maggioranza (60%). «Gli austriaci di Meinl scendono al 30%, il 10% resta nelle mani dei soci pubblici Comune, Provincia e Camera di Commercio». Il tempismo è perfetto: il 14 novembre 2019 la Banca centrale europea ritira la licenza bancaria alla Meinl. Per questioni di «segreto professionale nella condotta della supervisione bancaria – comunica la BCE a IrpiMedia – non è possibile rivelare informazioni o commentare su un caso specifico». Soprattutto perché – continua la BCE – c’è un ricorso della Meinl presso la Corte di giustizia. Nonostante le reticenze della BCE, è facile dedurne i motivi, vista la lunga serie di accuse di riciclaggio.

Cosa succederà ora? Abbiamo chiesto a Friederich Wendler, direttore generale della SO.GE.A.P., come verranno gestite le quote della Meinl, ma lo stesso non ha voluto rilasciare dichiarazioni a IrpiMedia.

Nemmeno le vicende di corruzione che hanno coinvolta la Meinl sono bastate a mettere il dubbio a Stato e Regione. Ci si aspetterebbe un’indagine approfondita, per lo meno l’acquisizione dello studio completo della KPMG. Nulla. L’importante è spendere, nessuno valuta i risultati.

Rilancio pubblico, profitti (e opacità) privati

Soldi pubblici, vantaggi privati: nessuno valuta i risultati, l’importante è spendere. Il caso Aeroporto di Parma rivela le opache procedure di decisione dei fondi regionali, inclusi quelli futuri del Recovery Fund (PNRR)

Giacomo Romanini

Aeroporto di Parma “Giuseppe Verdi”: atterrano 12 milioni di euro, soldi pubblici. Lo scopo è trasformare lo scalo, in rosso da decenni, in un hub logistico, sperando che questo porti profitti. Sembra una storia vecchia: la “virtuosa” Regione Emilia-Romagna è riuscita ancora una volta a ottenere dei fondi pubblici per fare crescere l’economia del suo territorio. Questa retorica si scontra però con i fatti.

I soldi pubblici non vanno a vantaggio della collettività, ma a beneficio della privata SO.GE.A.P., società che gestisce l’aeroporto, e che è riuscita a convincere Ministri e Regione a farsi dare 12 milioni del FSC, un fondo statale per investimenti regionali. I soldi sono arrivati grazie a un piano di investimenti scritto da KPMG, una delle “big 4” società di revisione e consulenza.

Come abbiamo raccontato, c’è un grosso problema: il roseo futuro che si legge sul piano di investimento è basato su un documento fantasma, senza il quale non è possibile capire l’affidabilità del piano. Chi ci ha messo i soldi (Ministero, Regione) non conoscono i dettagli dell’investimento che hanno loro stessi finanziato.

Se al pubblico manca un documento finanziario fondamentale, come hanno potuto decidere un numero: 12 milioni? A questo triste scenario c’è una sola alternativa: non è il pubblico che decide, ma il privato. In entrambi i casi, c’è un grosso problema in vista del Recovery Fund (PNRR), una larga parte dei soldi viene deciso in accordo tra Governo e Regioni. Se l’Aeroporto di Parma è il modello, c’è da preoccuparsi.

Come si sia arrivati ad assegnare i 12 milioni all’aeroporto di Parma racconta molto del processo decisionale italiano. Uniamo dati di bilancio con interviste a politici e tecnici. Si parte: prima tappa, Roma.

Dal ministro ai tecnici: unica via per lo sviluppo sono fondi pubblici

L’allora Ministro dei trasporti Graziano Delrio sostiene che fu la Regione a spingere per il progetto, i fondi FSC l’unica strada per finanziarlo. «Lupi (Maurizio Lupi, ex ministro alle Infrastrutture, ndr) lo aveva messo in lista (lista aeroporti nazionali, ndr) – dice a IrpiMedia – ma non c’erano altre fonti. Per poter rilanciare l’aeroporto come la Regione richiedeva, e anche noi pensavamo fosse utile, non c’era altro mezzo che quello dei fondi FSC». Si ricorda come venne presa la decisione, come si decise il numero, 12 milioni? «Ricordo il metodo – risponde Delrio – Parma non faceva parte delle priorità nazionali, quindi la decisione fu presa insieme alla, e su indicazione della Regione Emilia Romagna, uno sviluppo e un investimento guidato soprattutto da analisi di tipo regionale. Bisogna parlare soprattutto con loro e con gli uffici che erano in contatto con loro l’entità del finanziamento e per le modalità con le quali si è arrivati a quella cifra». Ci muoviamo dunque verso gli uffici nazionali competenti: il Ministero dei trasporti (MIT) e ENAC (l’ente pubblico proprietario dell’aeroporto).

Maria Elena Taormina, responsabile ENAC del progetto sul Verdi, comunica che la decisione dell’importo è di competenza del MIT.

Tuttavia, i tecnici del Ministero comunicano a IrpiMedia di non essere stati coinvolti nella decisione, interamente politica (cioè arriva in sede CIPE): «La DGATA (Direzione Generale per gli Aeroporti ed il Trasporto Aereo, ndr) non è stata interessata e resa partecipe ad alcuna delle fasi sopra richiamate, volte alla definizione del finanziamento di 12 milioni di euro finalizzato alla realizzazione del suddetto intervento inerente l’aeroporto di Parma, attività svolta interamente in seno al CIPE».

Cosa è il CIPE

Il Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE) viene istituito nel 1967. Dal 2021 prende il nome di CIPESS (Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile). Al tavolo del CIPE siedono i Ministri che si occupano di programmazione economica, di tutte quelle riforme che necessitano di un accordo fra vari ministeri. Sono inoltre presenti figure tecniche: il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri,il Governatore della Banca d’Italia, il Presidente dell’ISTAT, il Segretario Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri

La politica nazionale ha quindi semplicemente confermato, senza grandi verifiche, una decisione presa dalla Regione Emilia-Romagna. Presa come? Per saperlo, bisogna andare a Bologna.

Bologna: «Valutazione politica, manca l’analisi costi-benefici»

Contattato, l’allora assessore ai trasporti della regione Emilia-Romagna, Raffaele Donini, oggi con delega alla Sanità, sostiene che la decisione sull’importo fosse di natura tecnica. Seguendo il filo, chiediamo ai tecnici: Paolo Ferrecchi, direttore generale dei servizi trasporti Emilia-Romagna, ha spiegato a IrpiMedia che la Regione fosse a conoscenza delle perdite di bilancio, ma che «noi ci siamo limitati a dire ‘vale x, cofinanziamo y’, non era richiesta una valutazione sul suo bilancio».

Ma com’è stato deciso il fattore “y”, i 12 milioni? «C’è un fabbisogno (x=31,7 milioni, così come stabilito a pag. 25 della delibera di giunta, ndr), e sulla base di quello ci hanno chiesto un finanziamento. C’è stata – continua Ferrecchi – una valutazione politica della Regione di contribuire con 12 milioni di euro». Una «valutazione politica», al contrario di quanto dichiarato da Donini. Quindi, non sembra esserci stata un’accurata analisi costi-benefici, come invece richiesto dal Piano Regionale Integrato Trasporti (PRIT): «I costi sono stati indicati dalla società», spiega Ferrecchi.

Cosa è l’analisi costi-benefici

L’Analisi Costi Benefici è un metodo per decidere se fare o meno qualcosa, solitamente un progetto di investimento. Da una parte ci sono i costi, dall’altra i benefici. Nel caso di progetti pubblici (per esempio, costruzione di una diga per centrale idroelettrica), i costi includono, oltre alle spese private (i materiali, i lavoratori), anche costi come cambiamenti della biodiversità, diverso accesso all’acqua delle popolazioni lungo il fiume, eccetera. Nei benefici, oltre a quelli privati (i proventi dalla generazione dell’elettricità), ci sono anche benefici pubblici come la potenziale minor dipendenza da altre fonti energetiche e/o da altri Stati.

Tutte queste valutazioni dipendono da parametri e previsioni: i parametri sono sia tecnici (perdita di biodiversità) sia politici (un peso extra alla perdita di biodiversità). Visto che il progetto ha un impatto nel futuro, bisogna cambiare i parametri e vedere se la valutazione cambia: costruire scenari diversi, per non farsi trovare impreparati di fronte all’inevitabile incertezza di fronte a scelte future

Ma i benefici? Quelli della SO.GE.A.P sono chiari: si prevedono profitti – privati – futuri. Non è invece chiaro se e come siano stati valutati i benefici pubblici: sia quelli macroeconomici (il famoso “indotto”: quanto, per chi?) né quelli sociali (il tentativo, di per sé positivo, di rendere città medio-piccole meno dipendenti dalle città-regioni, per esempio Milano). La richiesta di ulteriori dettagli sull’analisi costi-benefici non è stata accolta da parte di Ferrecchi.

Siamo dunque nuovamente al punto di partenza: i 12 milioni sono stati una stima e una scelta della Regione? Oppure è stata la SO.GE.A.P. a indicarne l’importo? Per saperne di più non ci resta che andare a Parma e chiedere direttamente alla SO.GE.A.P.

Parma, il direttore generale Friederich Wendler continua a non rispondere

La Regione sostiene quindi che gli investimenti sono indipendenti dalle decisioni di SO.GE.A.P. Se la società fa profitti tanto meglio, ma gli investimenti vengono decisi esclusivamente sulla base delle priorità della Regione. È vero? No: è lo stesso assessore ai trasporti, Andrea Corsini, a dire che serve l’azienda per fare l’investimento: «Chiediamo che il piano industriale sia sostenibile, che risponda a degli obiettivi strategici e di vocazione dello scalo aeroportuale, e che il piano industriale abbia una copertura economica da parte dei soci proprietari dell’aeroporto».

Come abbiamo documentato, la Regione non conosce se il piano sia sostenibile: manca il documento della KPMG. Tuttavia, c’è una verità nelle parole dell’assessore: l’aeroporto risponde agli obiettivi strategici. Tutti d’accordo quindi, perché perdere tempo ad analizzare la reale solidità finanziaria del piano? KPMG, SO.GE.A.P. e Regione concordano nel rendere Parma uno scalo per cargo, e non ci è dato sapere chi abbia partorito l’idea.

Ulteriori dettagli potrebbero arrivare da Friederich Wendler, direttore generale di SO.GE.A.P e vicepresidente di AIRA, la neonata associazione nazionale degli aeroporti regionali. Come per la questione delle quote della fallita banca Meinl, ex-socio di maggioranza della SO.GE.A.P., Wendler non ha voluto rilasciare dichiarazioni a IrpiMedia.

Il Recovery Fund alle porte, nuovi soldi pubblici per i privati

Con il Recovery Fund alle porte, la Regione è pronta ad aggiungere soldi allo stesso investimento deciso dal privato: «La SO.GE.A.P. chiede un ulteriore contributo di 8 milioni per realizzare un’altra serie di investimenti al “Giuseppe Verdi” – dichiara l’assessore Corsini – Su questo dobbiamo attendere la nuova programmazione degli FSC. C’è l’intenzione di sostenere il “Giuseppe Verdi”, così come altri aeroporti: fra il Recovery Plan e i FSC contiamo di sostenere Parma, Rimini, Bologna e Forlì».

Il Recovery Fund sembra quindi una ghiotta occasione per ottenere nuovi soldi facili dei cittadini (larga parte del PNRR è a debito). La politica giustifica facilmente interventi di questo tipo con la falsa retorica del bene pubblico. Può essere un bene meritevole (come scuola, sanità), e quindi da sovvenzionare? Forse: ma né Governo né Regione lo dimostrano.

Il trasporto non è un bene pubblico

Bene pubblico significa “non escludibile e non rivale”. Lo è l’aria, la difesa nazionale. Non lo sono i trasporti aerei: una merce/persona imbarcata toglie spazio ad un’altra (rivale), ed è possibile impedire ad una merce/persona di essere imbarcata (escludibile). Quindi l’aeroporto non è un bene pubblico, ma in questo caso si tratta semplicemente di un bene di proprietà dello Stato. È classificabile come “bene meritorio”, ossia un bene, come l’educazione, potenzialmente prodotto dai mercati in quantità inferiore rispetto a quanto sarebbe desiderabile per la società.

Un bene meritorio non lo è necessariamente per sempre: la distribuzione gratuita del latte nelle scuole elementari inglesi era considerata un bene meritorio, ora invece è largamente un bene privato. I soldi non sono infiniti: bisogna quindi mettere nero su bianco l’obiettivo (tutela tessuto sociale) e dimostrare che lo strumento (trasporto) sia la soluzione migliore.

Un esempio classico è proprio nei trasporti. La linea ferroviaria che raggiunge paesi di montagna, per esempio: profitti negativi, ma il servizio tutela il tessuto economico e sociale di una determinata zona. Il trasporto cargo è meritevole di soldi pubblici? La scelta non è così ovvia: «Una linea di autobus di lusso è essenziale? Non esistono per i trasporti l’equivalente dei Livelli Essenziali di Assistenza per la sanità – riporta il prof. Emanuele Padovani, professore di finanza locale presso l’Università di Bologna – C’è discrezionalità, e questa discrezionalità è poco normabile. L’opportunità di investimenti di questo tipo, essendo fortemente discrezionali da un punto di vista delle funzioni, va dimostrata». Quindi, nel caso in cui il confine tra pubblico e privato sia sottile, tocca al pubblico dimostrare la supposta convenienza economica o sociale. La decisione va supportata con analisi e dati, che in questo caso sembrano mancare.

In assenza di valutazione, i soldi dei contribuenti sono sprecati

Riavvolgiamo il nastro. KPMG e SO.GE.A.P. decidono l’importo totale dell’investimento: 37 milioni. La Regione Emilia-Romagna è disposta a finanziare il progetto: prende quello che riesce in sede politica del CIPE: 12 milioni di fondi statali degli FSC (8 in aggiunta a breve). È tutta politica: le pressioni politiche regionali fanno sì che a Roma nessuno si faccia domande o venga interpellato. Alla Regione basta spendere senza scandali per essere etichettata come “regione virtuosa”. Vista la situazione disastrosa di altre Regioni, lo Stato non ha incentivi a controllare potenziali ingerenze private non giustificate nella pianificazione pubblica.

Se poi questi soldi producano risultati o meno, non interessa. Le valutazioni degli effetti dell’investimento sono pressoché nulle, a Bologna come a Roma.

Cosa vuol dire valutare?

Se vogliamo fare una valutazione, bisogna definire un obiettivo e degli strumenti. Voglio ridurre la povertà a Torino: dare soldi alle famiglie in difficoltà funziona? I soldi sono lo strumento, la riduzione della povertà è l’obiettivo. Guardiamo cosa succede, confrontando un gruppo che ha ricevuto i soldi e uno che non lo ha e, con alcuni accorgimenti statistici, otteniamo un numero che ci dice se l’effetto del progetto è stato positivo o negativo sulla povertà, e di quanto.

Da anni il mondo accademico lamenta l’assenza di una valutazione: «Ogni anno l’Italia spende miliardi in progetti finanziati dai fondi strutturali europei – scrivono Perotti e Teoldi in un report de lavoce.info del 2014 – eppure non abbiamo la minima idea dei loro effetti». Dal 2014 ad oggi poco è cambiato: come hanno scritto Guglielmo Barone e Carlo Stagnaro ad inizio 2021, manca trasparenza nell’obiettivo, chi fa la valutazione non è indipendente dal progetto e, aggiunge Marco Ponti, sembra mancare la volontà di valutare gli investimenti del Recovery. Una volontà, che «ha valore democratico prima che tecnico».

Non solo per l’Aeroporto di Parma: in nessuna opera. «L’obiettivo dello Stato è spendere i soldi, e spenderli coerentemente», continua il direttore generale dei servizi trasporti Emilia-Romagna, Paolo Ferrecchi. Coerentemente significa che se servono 100 euro per fare una panchina, si monitora che la panchina sia stata costruita con 100 euro.

Tuttavia, se nessuno si siede sulla panchina (perché messa in mezzo alla tangenziale) non conta: «La valutazione non è prestazionale, per quello non abbiamo chiesto i piani industriali: non c’è una relazione che noi andiamo a verificare, se l’investimento infrastrutturale ha prodotto dei risultati coerenti con quello che avevamo programmato. Non c’è questo incrocio, in nessuna opera. Abbiamo assunto che loro stessero facendo operazioni utili alla sopravvivenza dell’aeroporto e noi ci auguriamo lo sviluppo, questo è l’auspicio». Nessun documento, nessuna valutazione: un auspicio di cui beneficiano i privati, sprecando i soldi dei cittadini.

CREDITI

Autori

Giacomo Romanini

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi

Le voci del Recovery: chi ha deciso il piano di ripartenza in Europa

Le voci del Recovery: chi ha deciso il piano di ripartenza in Europa

Giulio Rubino

Come maggiore beneficiaria dei fondi messi a disposizione dell’Europa per la ricostruzione post-Covid, l’Italia è chiaramente sotto esame. Colpita forse più duramente di ogni altro Paese europeo dalla pandemia, presa da una crisi economica che pare ormai un male cronico e da una continua instabilità politica che sembra impedire ogni riforma sostanziale, non è sorprendente che il nostro Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) sia stato al centro dell’attenzione europea e che in molti abbiano tirato un gran sospiro di sollievo lo scorso giugno, quando la presidentessa della Commissione Europea Ursula von der Leyen a Roma ha dichiarato che l’Italia «ha il completo appoggio della Commissione» e che «Next Generation EU Italia Domani soddisfa chiaramente i criteri stabiliti assieme». «Sono certo che riusciremo ad attuare questo Piano», aveva detto due mesi prima il presidente del Consiglio Mario Draghi, ad aprile, nel presentare il PNRR italiano al Parlamento. «Sono certo – aveva aggiunto – che l’onestà, l’intelligenza, il gusto del futuro prevarranno sulla corruzione, la stupidità, gli interessi costituiti».

Ma, come IrpiMedia ha già analizzato nella serie di inchieste #Greenwashing, gli “interessi costituiti”, sono riusciti a far sentire la loro voce. Le lobby dei combustibili fossili infatti hanno avuto successo a far accettare, nonostante l’opposizione degli ambientalisti di tutta Europa, le controverse tecnologie del Carbon Capture and Storage (CCS), ovvero la cattura e lo stoccaggio della CO2, e la connessa produzione di idrogeno “blu” all’interno dei PNRR nazionali di diversi paesi in nome della transizione ecologica.

Per quanto riguarda l’Italia, lo scorso maggio IrpiMedia ha evidenziato le piccole ma significative differenze tra la versione del PNRR in inglese presentata alla Commissione europea e quella in italiano che è stata discussa dal Parlamento, segno evidente di come non ci sia mai stata davvero la possibilità di analizzare e discutere il documento inviato a Bruxelles. Eppure solo in tre Paesi – Italia, Danimarca e Lussemburgo – la Decisione di esecuzione del Consiglio, ovvero il documento di approvazione del Piano firmato dal Consiglio europeo, fa accenno a una discussione parlamentare sui contenuti.

E nel resto d’Europa le cose non sembrano essere andate troppo diversamente, come dimostra questa prima inchiesta del progetto #RecoveryFiles.

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L'inchiesta

Questo articolo lancia Recovery Files, un progetto di ricerca paneuropeo che indagherà le spese dei fondi di ripresa e resilienza nei mesi a venire. Il progetto è coordinato da Follow the Money, piattaforma di giornalismo olandese.

Il progetto d’inchiesta è importante non solo in termini di quantità di investimenti pubblici – circa 725 miliardi di euro- ma anche per il preoccupante mancato coinvolgimento dei parlamenti nazionali. Il modo in cui questa enorme quantità di denaro verrà spesa è ovviamente una materia di interesse pubblico per i cittadini di tutta Europa.

IrpiMedia lavora al progetto insieme al resto del team di Recovery Files:

  • Attila Biro, Rise (Romania)
  • Atanas Tchobanov, Bird.bg (Bulgaria)
  • Hans-Martin Tillack, Die Welt (Germania)
  • Petr Vodsedalek, Denik (Repubblica Ceca)
  • Anuska Delic/Matej Zwitter, Ostro (Slovenia)
  • Gabi Horn, Atlatszo (Ungheria)
  • Marie Charrel, Le Monde (Francia)
  • Peter Teffer/Remy Koens/Lise Witteman, Follow the Money (Paesi Bassi)
  • Piotr Maciej Kaczynski, Euractiv.com e Onet.pl (Polonia)
  • Staffan Dahllöf, DEO.dk (Danimarca/Svezia)

Cosa è rimasto della «piena trasparenza»

Senza la catastrofe della pandemia ogni proposta di costituire un budget comune per l’eurozona, in particolare quelle di Francia e Germania del 2018, ha sempre incontrato la ferma opposizione di molti Paesi membri, tanto che sembrava un obiettivo quasi irraggiungibile. Non che il Covid abbia istantaneamente fatto cambiare idea a tutti, certo. Le obiezioni e le preoccupazioni di diversi Paesi, primi su tutti i famosi “frugali”, hanno tenuto tutti col fiato sospeso per mesi, e ancora non cessano del tutto.

Una prudenza eccezionale è più che comprensibile. Il presidente della Corte dei Conti Europea (ECA), Klaus-Heiner Lehne, ha sottolineato come il Recovery Plan rappresenti un «cambiamento significativo nelle finanze Ue. Comporta un’evidente necessità di controlli efficaci su come il denaro europeo verrà speso, e sul raggiungimento o meno degli obiettivi che si propone».

Ma un’altra fonte all’interno della ECA, che ha chiesto di non essere identificata, ha detto ai giornalisti di Recovery Files che non ci sono sufficienti risorse né personale per tenere sotto controllo le spese di tutti i piani nazionali dei vari paesi. OLAF, l’agenzia antifrode europea, dal canto suo ha sollevato un allarme sul concreto rischio che tali fondi possano essere abusati.

Quando Ursula von der Leyen ha presentato il fondo a luglio 2020, aveva anche detto che i parlamentari europei avrebbero avuto «piena voce in capitolo sulla struttura [del fondo] e sul suo funzionamento» e che «la Commissione avrebbe garantito piena trasparenza». A oltre un anno di distanza da queste dichiarazioni, però, si può affermare che le cose non sono andate esattamente così.

PNRR e cittadini

I finanziamenti totali a disposizione di ciascun Paese e il corrispettivo pro capite

Il fondo messo in piedi dall’Unione europea, e il modo in cui dovrà essere utilizzato, è stato fondamentalmente regolamentato dai soli poteri esecutivi, cioè dalla Commissione stessa e dai governi degli Stati membri. Al contrario i parlamenti, tanto quello europeo quanto quelli nazionali, hanno avuto ben poca voce in capitolo.

Obbligo di riforme, altrimenti scatta il “freno d’emergenza”

Nei due Paesi politicamente più rilevanti per l’approvazione di questo piano, Francia e Germania, la stesura dei PNRR nazionali si sarebbe limitata a un rimaneggiamento di piani già fatti in precedenza. I Verdi tedeschi in particolare hanno lamentato questo approccio semplicistico e il fatto che non sia stata data possibilità al Bundestag di discutere e votare il piano direttamente. Anche il partito liberale (FDP) ha criticato la chiusura del dibattito: «Non abbiamo nessuna influenza diretta [sul PNRR tedesco, ndr] – ha detto il deputato liberale Otto Fricke – né sulle entrate, né sulle spese». In Francia il governo Macron ha rassicurato i parlamentari sul fatto che le richieste di riforme fatte da Bruxelles per l’approvazione del piano erano già in linea con quelle promesse in campagna elettorale: «La Commissione non ci imporrà nuove riforme che non siano state già validate dal popolo francese», ha detto lo scorso aprile il ministro dell’Economia Bruno Le Maire.

Eppure, sebbene inclusa solo in termini piuttosto vaghi, il PNRR francese include anche la riforma del sistema pensionistico, un tema potenzialmente esplosivo per la politica d’oltralpe. Infatti alcuni economisti e il socialista Arnaud Montebourg, candidato alle presidenziali del 2022, sottolineano come la presenza di tale riforma nel PNRR la renda di fatto quasi obbligatoria, anche se non è ancora calendarizzata in termini di traguardi da raggiungere.

Un problema analogo c’è anche in altri Paesi, come la Spagna, dove il nodo principale rischia di essere la riforma del mercato del lavoro, e anche in Italia, dove a preoccupare gli analisti è principalmente la riforma fiscale.

Il piano per la ripresa dell'Europa, glossario

Next Generation EU: è uno strumento temporaneo per la ripresa da oltre 800 miliardi di euro, che contribuirà a riparare i danni economici e sociali immediati causati dalla pandemia di coronavirus.

Il dispositivo per la ripresa e la resilienza: da cui prendono il nome i piani nazionali di ripresa e resilienza (PNRR) è il fulcro di NextGenerationEU, e metterà a disposizione 723,8 miliardi di euro di prestiti e sovvenzioni per sostenere le riforme e gli investimenti effettuati dagli Stati membri.

Assistenza alla ripresa per la coesione e i territori d’Europa (REACT-EU): NextGenerationEU stanzia anche 50,6 miliardi di euro per REACT-EU, una nuova iniziativa che porta avanti e amplia le misure di risposta alla crisi. Le risorse saranno ripartite tra:
– il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR)
– il Fondo sociale europeo (FSE)
– il Fondo di aiuti europei agli indigenti (FEAD)

Tali risorse aggiuntive saranno erogate nel periodo 2021-2022.

All’interno di Next Generation EU sono confluiti anche i fondi già esistenti per la transizione ecologica (Just Transition Fund) e il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale.

Queste riforme strutturali, che tendono a generare lunghi e difficoltosi dibattiti in parlamento, rischiano di essere affrettate dalla necessità di rispettare gli accordi presi ora con la Commissione, pena l’interruzione delle erogazioni di fondi anti-Covid.

Dall’entrata in vigore nel 2009 del Trattato di Lisbona, la carta fondamentale che distingue le competenze di Unione europea e Stati membri, “ce lo chiede l’Europa”, è stato il ricatto strumentale impiegato dai governi di tutta Europa per tagliare il dibattito parlamentare sul merito di alcune riforme, scegliendo a seconda delle inclinazioni politiche nell’infinito prontuario di regolamenti, direttive e procedimenti di infrazione prodotto ogni anno da Bruxelles.

Questa volta, però, non è retorica: il rischio dell’esclusione dal più grande pacchetto di aiuti comunitari mai erogato se non si rispettano le promesse di riforma è una minaccia molto concreta. È previsto dal cosiddetto “freno d’emergenza”, un meccanismo di controllo che permetterebbe il blocco dei fondi in arrivo da Bruxelles verso uno specifico Paese se determinati traguardi non sono raggiunti nei tempi previsti dai piani. È stato uno dei principali risultati della linea dei quattro “frugali”: Olanda capofila seguita da Austria, Danimarca e Svezia.

Questo sistema però rischia di avere conseguenze negative specialmente sui Paesi più poveri. David Bokhorst, ricercatore associato all’Istituto universitario europeo di Firenze, spiega che con questo sistema «i parlamenti nazionali potrebbero sentirsi obbligati ad accettare i traguardi già stabiliti perché il loro Paese ha bisogno di fondi. Questo comporta che il controllo da parte del potere esecutivo sui parlamenti si fa più forte». Jean Pisani Ferry, economista francese e membro del think tank Bruegel, ha evidenziato come ci siano da aspettarsi «accese polemiche se la Commissione rifiuta i piani inefficaci e ritarda gli esborsi quando i traguardi stabiliti non vengono raggiunti. Il rischio è che il processo finisca in un battibecco burocratico che l’opinione pubblica non riesce a decifrare ma che fornisce munizioni ai populisti».

Gli inascoltati

In diversi altri Paesi europei i parlamenti hanno lamentato di essere stati ignorati o consultati in modo insufficiente. In Danimarca, che come l’Italia ha formalmente dichiarato di aver avuto una consultazione parlamentare sul tema, questa si è in realtà limitata a una ratifica del mandato al governo per la stesura del piano. Allo stesso modo in Belgio il parlamento ha potuto solo rinnovare il mandato al governo. In Repubblica Ceca il piano è stato discusso troppo poco a detta di alcuni parlamentari e ong, e non è stato votato in aula. In Slovenia il governo ha presentato al parlamento una versione confidenziale del piano nazionale alla fine del 2020, che è stata discussa a porte chiuse alla fine di gennaio 2021. Il governo ha dichiarato di aver ascoltato oltre duemila organizzazioni, comprese ong, sindacati, municipi e associazioni professionali. La maggioranza di queste sarebbero state “consultate” in una singola mattinata durante una presentazione online del PNRR sloveno. Alcune di queste organizzazioni hanno dichiarato che sono state invitate a mandare le loro proposte in merito, ma che non hanno avuto nessuna forma di dialogo col governo. Quando la versione definitiva del piano è andata a Bruxelles lo scorso aprile, il parlamento non ha avuto modo di votarlo.

Una fonte all’interno della ECA, che ha chiesto di non essere identificata, ha detto ai giornalisti di Recovery Files che non ci sono sufficienti risorse né personale per tenere sotto controllo le spese di tutti i piani nazionali dei vari paesi.

Considerate le controversie che ci sono fra il suo governo e Bruxelles, l’Ungheria è certamente tra i “sorvegliati speciali” in Europa. Secondo l’Associazione dei Governi locali d’Ungheria (MÖSZ) il governo centrale non ha fatto nessuna consultazione significativa sul proprio PNRR. L’associazione ha minacciato di inviare una formale protesta alla Commissione se il governo di Orban avesse continuato a «prepararsi a spendere i fondi inappropriatamente». Il sindaco di Budapest, esponente di spicco dell’opposizione a Viktor Orban, lo scorso giugno ha inviato a Ursula von der Leyen una lettera in cui denuncia che, a parte quello iniziale, tutti gli altri incontri con il governo centrale in programma sono stati cancellati per volontà dell’esecutivo. L’unica consultazione pubblica è stata fatta in base a un documento di 13 pagine pubblicato a novembre 2020, che però conteneva solo dichiarazioni di intenti generali e nessun dettaglio su come le risorse sarebbero state allocate.

Le proteste hanno avuto successo e alla fine la Commissione europea ha insistito affinché il governo di Orban organizzasse una vera consultazione. Il piano è stato pubblicato il 17 aprile scorso e subito la Commissione ha criticato la riforma dell’università prevista nel piano, segnalando che rappresentava una violazione dell’indipendenza accademica.

Alla fine buona parte della riforma dell’istruzione superiore è stata tolta dal piano, ma nemmeno la seconda versione del PNRR ungherese non è passata dal parlamento e la città di Budapest è stata esclusa completamente da ogni possibilità di ricevere fondi.

Il parlamento olandese aveva inizialmente cercato di mantenere il controllo sui negoziati a Bruxelles imponendo al primo ministro Mark Rutte la linea “frugale”, cioè il rifiuto di garantire il debito di altri Paesi. La delegazione olandese, nel frattempo, ha anche spinto per ottenere finanziamenti e aiuti di Stato per “tecnologie pulite” come l’idrogeno blu, a prescindere dai negoziati sul fondo Next Generation EU. Il parlamento olandese è venuto a sapere di queste azioni di lobby solo dalla stampa, e ha ricevuto la relativa documentazione oltre un mese dopo. Nonostante a giugno avesse approvato una mozione per richiedere che le attività legate ai combustibili fossili fossero escluse dai fondi in arrivo dall’UE, questi contributi alla fine sono stati inseriti in diversi PNRR nazionali, incluso quello olandese.

La voce delle lobby

Se quindi i rappresentanti eletti delle democrazie europee hanno avuto relativamente poco spazio, sembrerebbe che al contrario interessi privati ne abbiano avuto molto di più, per discutere temi cruciali come la transizione ecologica.

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In Italia, dove il PNRR è stato steso fondamentalmente dal governo, prima da quello di Conte e poi da Draghi, l’agenda del ministro della transizione ecologica Cingolani e del suo predecessore Sergio Costa (quando ancora si chiamava ministero dell’ambiente) sono fitte di incontri con le più grandi aziende dell’energia.

Snam, Enel, Eni, Italgas, e molte altre aziende del settore energetico e petrolifero hanno avuto un numero sproporzionato di incontri sia rispetto sia alle associazioni di categoria che, prevedibilmente, alle ong come Legambiente,Greenpeace e WWF (che pure appaiono in un incontro a testa). Anche le case automobilistiche come Stellantis (la holding nata nel 2021 che raggruppa la vecchia galassia Fiat con quella di Peugeot), BMW, Mercedes, Volkswagen e Toyota hanno avuto spazio, e addirittura Costa Crociere e (ancora con il ministro Costa a gennaio 2020) Royal Carribbean.

Un rapporto dell’ong The Good Lobby, che analizza le audizioni informali nelle Commissioni della Camera dei deputati, fa un focus preciso su quelle che, fra gennaio e marzo 2021, hanno riguardato il PNRR italiano.

Secondo il report gli stakeholder esterni hanno avuto molto poco tempo per partecipare alla stesura del PNRR, ma soprattutto sono state chiamate molto tardi, tra febbraio e marzo 2021, quando sostanzialmente le decisioni importanti erano già state prese e la possibilità di contribuire era molto limitata.

Il report, in generale, sottolinea come le associazioni di categoria, anch’esse portatrici di interessi particolari, abbiano avuto enormemente più spazio di quelle della società civile, e di come il governo abbia scelto i suoi interlocutori «in modo tutt’altro che trasparente».

La partita, naturalmente, è ancora molto aperta. Mano a mano che si chiarisce dove esattamente e con che tempi arriveranno gli aiuti europei l’esigenza di un monitoraggio sull’esecuzione del PNRR è sempre più sentita. Il progetto Recovery Files è appena all’inizio e nei mesi a venire continuerà tenere alta la guardia non solo sull’efficienza del processo di riforma ma soprattutto alla sostanza dei progetti e la loro aderenza ai principi che li dovrebbero ispirare.

CREDITI

Autori

Giulio Rubino

In partnership con

Il team di Recovery Files

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Editing

Lorenzo Bagnoli

Foto

Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea
Foto: martinbertrand/Shutterstock