Garanzie su garanzie, ma sui crediti inesigibili il pubblico salva le banche
#GaranzieDiCrisi
Matteo Cavallito
Dalla mano invisibile, alla mano pubblica. Ovvero dalla presunta provvidenza del mercato, alla presenza, discreta ma ingombrante, dello Stato. Per il sistema bancario italiano è iniziata da tempo una nuova stagione e la sensazione, secondo logica, è che a pagare il conto saranno i contribuenti. Già, perché ripresa a parte, l’eredità del passato e le conseguenze della pandemia pesano decisamente troppo. Il che significa che i default non saranno certo una rarità. Fin qui dovrebbe prevalere il realismo: tutelare la stabilità degli istituti di credito – perché di questo essenzialmente si tratta – significa evitare rischi peggiori. Ma il problema, in questi casi, è che tutto dovrebbe avvenire in modo trasparente e convincente. E a ben vedere non è questo il caso.
Da un lato, ad esempio, ci sono i dubbi sulle coperture ai prestiti per le imprese che servono in realtà a garantire soprattutto vantaggi contabili alle banche. Dall’altro c’è il sistema di vigilanza, della cui efficacia, oggi, sappiamo ancora relativamente poco. Infine ci sono le garanzie dello Stato sui titoli della cartolarizzazione, in particolare prodotti derivati usati dalle banche per dismettere i prestiti difficili da recuperare, il cui valore si starebbe riducendo, vanificando almeno in parte le scommesse degli investitori. Difficile per ora fare stime precise per il futuro. Ma è possibile capire, questo sì, cosa stia succedendo nel tormentato presente.
L'inchiesta
Questa inchiesta nasce da una ricerca commissionata da ReCommon all’autore Matteo Cavallito su come la SACE stia dando garanzie a prestiti che le banche erogano alle piccole e medie imprese messe in crisi dalla pandemia. ReCommon da tempo indaga sulle politiche attuate dalla società del Ministero dell’Economia, che secondo l’ong continua a garantire progetti a forte impatto ambientale e climatico, con buona pace della transizione ecologica.
Garantisce SACE, cioè lo Stato
Uno dei soggetti chiave di questa storia si chiama SACE, la società statale di servizi assicurativi alle imprese chiamata oggi a gestire lo schema Garanzia Italia, introdotto dal Decreto liquidità dell’8 aprile 2020 in risposta allo shock economico generato dalla pandemia. L’attività dell’azienda controllata dalla Cassa Depositi e Prestiti – ma destinata a breve a tornare presso la casa madre del Ministero dell’economia e delle finanze (MEF) – è finita da qualche tempo sotto la lente di ReCommon. All’inizio dell’anno, l’associazione aveva puntato il dito sul crescente sostegno al settore fossile italiano, destinatario di 8,6 miliardi di euro di garanzie SACE a partire dal 2016, dopo l’Accordo di Parigi sul clima.
SACE, dal commercio estero al Decreto Liquidità
Fondata nel 1977 come Sezione speciale per l’Assicurazione del Credito all’Esportazione dell’INA, SACE opera come organismo pubblico impegnato a fornire servizi assicurativi e finanziari per l’export italiano. Le sue attività per il comparto del commercio estero includono l’assicurazione del credito delle aziende che esportano beni o servizi e offrono dilazioni di pagamento alla clientela (in pratica, la copertura del rischio insolvenza dei clienti stessi).
L‘importanza dell’ente è cresciuta in modo significativo dopo l’approvazione del Decreto Liquidità dell’8 aprile 2020 che ha stanziato 200 miliardi di euro di garanzie pubbliche sui finanziamenti erogati dagli istituti di credito. Lo schema permette alle imprese colpite dalla crisi post Covid di chiedere prestiti alle banche offrendo in cambio la garanzia dello Stato. SACE, in altre parole, si impegna a saldare il credito dell’istituto bancario nei confronti dell’azienda qualora quest’ultima non riesca a restituire il prestito. Il sistema delle garanzie è pensato per favorire l’erogazione di finanziamenti da parte delle banche anche se dall’entrata in vigore dello schema la copertura pubblica è stata concessa in alcuni casi anche ai prestiti pregressi, vale a dire crediti maturati dalle banche prima della pandemia.
Nel corso della sua storia SACE è stata controllata dal Tesoro fino al 2012, quando l’allora Governo Monti approvò la cessione dell’ente alla Cassa Depositi e Prestiti (CDP), controllata dal Tesoro stesso. Oggi la struttura è sul punto di tornare sotto la direzione del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF). Nel marzo 2021 la stessa CDP aveva approvato l’accordo preliminare per il passaggio di SACE al MEF: l’intesa prevede un esborso da 4,25 miliardi in titoli di Stato. Il ritorno alla casa madre, non ancora perfezionato ma ormai ampiamente dato per scontato, segue nella logica le indicazioni offerte dallo stesso Decreto Liquidità che sanciva la governance autonoma di SACE, «non soggetta», cioè, «all’attività di direzione e coordinamento di CDP» nonché tenuta a consultare il ministero dell’Economia per le decisioni importanti concordando con quest’ultimo, in concerto con il Ministero degli Affari Esteri, i diritti di voto e le nomine.
Nei mesi successivi, l’attenzione si è spostata sulla copertura dei prestiti bancari: un’attività, sostiene ReCommon, densa di aspetti problematici, a partire dalla discutibile capacità di stimolare il credito ex novo.
Di norma funzionerebbe così: l’impresa chiede un finanziamento alla banca che, a sua volta, domanda alla SACE di apporre la garanzia. In questo modo è sempre la banca a concedere il prestito ma in caso di insolvenza il conto lo salda lo Stato. Il fatto, però, è che la garanzia può essere sollecitata anche per i prestiti pregressi determinando così un effetto positivo sui propri conti. Già, perché i crediti, come noto, sono iscritti a bilancio a un valore ponderato per il rischio. E se quest’ultimo se lo assume lo Stato, che ha una probabilità di insolvenza minore rispetto al cliente della banca, ecco che il credito “vale” improvvisamente di più. Risultato: la copertura che la banca deve mettere da parte per coprire quel rischio si riduce sensibilmente e le risorse precedentemente accantonate tornano nella disponibilità dell’istituto stesso generando un impatto positivo sugli indicatori patrimoniali.
È stato così, ad esempio, che il Monte dei Paschi di Siena ha potuto registrare un beneficio extra di 400 milioni dopo che la SACE aveva posto la garanzia su un portafoglio di crediti performing da 670 milioni alla fine del 2020. Secondo la banca, infatti, l’operazione SACE ha due effetti: «in chiave prospettica», permette «di migliorare la capacità di garantire supporto all’economia italiana nel corso dei successivi 18 mesi». Nell’immediato, invece, “alleggerisce” il bilancio dell’istituto di credito da un rischio che Mps valuta 400 milioni. La banca, in altre parole, ha migliorato i suoi conti senza concedere nell’occasione alcun credito aggiuntivo.
Glossario
Crediti non performanti (o crediti deteriorati): In inglese non-performing loans (NPL), sono prestiti di riscossione incerta nei confronti di quei debitori (borrowers) che hanno iniziato a sperimentare improvvisamente una situazione economica difficoltosa. All’interno di questa macro categoria, secondo i criteri fissati dalla Banca d’Italia, si distinguono:
- Le esposizioni scadute e/o sconfinanti, che sperimentano cioè un’insolvenza nel saldo delle rate da parte del debitore (scadute) o eccedono i limiti di affidamento (sconfinanti) da più di 90 giorni e oltre una certa soglia di rilevanza.
- Le inadempienze probabili (in inglese UTP, unlikely to pay), ovvero i crediti che la banca giudica di difficile riscossione per lo meno nella loro interezza se non tramite azioni legali o comunque previste dal contratto (l’escussione delle garanzie, ad esempio).
- La sofferenze, vale a dire i crediti verso soggetti in stato di insolvenza o in situazioni sostanzialmente equiparabili.
Cartolarizzazione: in inglese securitization. È l’operazione che consente di trasformare un credito, performante o meno, in liquidità attraverso la cessione di quest’ultimo a una società veicolo (Special purpose vehicle o SPV) che si incarica di creare titoli derivati noti come Asset-backed securities (ABS) il cui sottostante (collateral) è costituito da una quota dei crediti stessi.
Asset-backed securities (ABS): Sono titoli derivati che offrono un rendimento fisso (fixed income) e sono creati dalla SPV nel processo di cartolarizzazione dei crediti. A differenza delle comuni obbligazioni, il pagamento delle cedole periodiche e il rimborso delle ABS è strettamente legato alla capacità dell’emittente di recuperare i crediti. Questa operazione è spesso affidata a una società terza specializzata (il servicer). A fronte dei rischi, il valore delle ABS (ovvero il prezzo fissato per il loro collocamento sul mercato) è molto inferiore rispetto al valore nominale dei crediti sottostanti. Tale divario aumenta ulteriormente se questi ultimi sono già non performanti e, come tali, difficili se non impossibili da riscuotere per intero. Nel 2018, ad esempio, la banca Monte dei Paschi di Siena ha ceduto alla SPV Siena NPL 2018 Srl crediti in sofferenza per un valore nominale di 24,1 miliardi di euro. Questi ultimi sono stati posti a garanzia di un ammontare di ABS di soli 4,3 miliardi.
Tranches senior, mezzanine, junior: sono le diverse classi di rischio associate alle ABS. Nel processo di cartolarizzazione vengono emesse tipicamente tre categorie (tranches) di titoli: le ABS senior (meno rischiose e meno redditizie), le mezzanine (rischio e rendimento intermedio) e le junior (più rischiose e più redditizie). Il saldo dei titoli, che è strettamente connesso alla capacità di recupero dei crediti sottostanti, avviene secondo questo ordine: prima vengono saldate le senior, poi le mezzanine (se le senior sono state pienamente rimborsate) e infine le junior (se anche le mezzanine sono state pagate per intero). In Italia la garanzia statale del Fondo GACS copre solo le eventuali perdite sulle tranches senior.
Controlli incerti, nonostante un quadro economico preoccupante
Il problema, sottolinea però ReCommon, è che sulle garanzie SACE non vi sono abbastanza informazioni dettagliate. Le operazioni sono incluse nel Registro Nazionale degli Aiuti di Stato ma sul sistema di vigilanza permangono alcune incertezze. Nel giugno di quest’anno, in risposta a un’interrogazione parlamentare del deputato di Liberi e uguali, Luca Pastorino, il governo ha parlato di «controlli a campione atti a verificare il rispetto degli obblighi assunti e delle dichiarazioni rese». Un riferimento, in particolare, ad aspetti come la destinazione delle somme incassate, gli accordi sindacali e il divieto di distribuzione dei dividendi. L’ente a cui spettano le verifiche è sempre SACE, ma sulla base dei controlli «non sono state riscontrate significative difformità». L’esecutivo però, non ha reso noto il numero di controlli eseguiti né le modalità di verifica adottate né le imprese coinvolte. La dimensione delle irregolarità «non significative», inoltre, non è chiara.
Nell’aprile del 2020, osservava la Banca d’Italia, la somma delle garanzie attivabili attraverso il programma gestito da SACE e delle coperture previste dal Fondo per le piccole e medie imprese del Decreto Cura Italia, gestito da Mediocredito Centrale, ammontava a 450 miliardi di euro, «circa cinque volte il valore di quelle in essere alla fine del 2019». Allora via Nazionale ipotizzava tassi di insolvenza dei beneficiari delle garanzie capaci di «superare quelli del biennio 2012-2013, quando (i casi di default, ndr) si avvicinarono al 10%». Difficile ovviamente fare previsioni a distanza di un anno e mezzo ma Banca d’Italia si spinge a indicare alcuni «elementi di rischio» in termini di impatto sui conti pubblici: «Data la gravità della crisi e l’incertezza sui tempi e sulla rapidità della ripresa dell’attività economica – si legge nel rapporto -, la probabilità di una futura escussione di tali garanzie sarà verosimilmente molto più elevata che in condizioni normali». L’escussione è l’atto con cui il beneficiario incassa la sua garanzia. Nel caso di specie, è il momento in cui lo Stato, quindi, paga.
ABS e GACS: il mercato non risolve il problema dei crediti non esigibili
SACE e Mediocredito non sono nemmeno gli unici attori in campo. Perché i prestiti alle imprese sono una cosa, lo smaltimento dei crediti svalutati è un’altra. E qui, insomma, si entra in una dimensione completamente diversa dove opera un diverso soggetto pubblico: il GACS, ovvero Fondo di garanzia sulla cartolarizzazione delle sofferenze del MEF. Il suo compito? Favorire la dismissione dei prestiti solo parzialmente recuperabili che pesano sui bilanci delle banche, quei crediti deteriorati che, secondo le ultime rilevazioni di Banca Ifis, ammontano a 345 miliardi ma potrebbero salire a quota 430 nel 2023. Quasi novanta miliardi sono ancora nei libri contabili degli istituti, il resto (256 miliardi circa) è finito sul mercato.
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Ma in che cosa consiste esattamente il processo di cartolarizzazione? E come funzionano le garanzie? La risposta è essenzialmente in questo schema: la banca crea una società veicolo che acquisisce i crediti deteriorati a un prezzo molto basso (il 20 o il 30% del valore nominale, ad esempio) ed emette titoli chiamati Asset-backed securities o ABS. Di che si tratta? Essenzialmente di obbligazioni che sono garantite proprio dai crediti deteriorati e che vengono piazzate sul mercato.
La cartolarizzazione
La trasformazione di un credito in liquidità attraverso la cessione di quest’ultimo a una società veicolo (SPV) che si incarica di creare titoli derivati (ABS)
Semplificando il più possibile, gli istituti si liberano delle sofferenze e gli investitori scommettono sulle ABS che, da parte loro, offrono buoni rendimenti. Già, ma quanto buoni? Dipende dal rischio, ovviamente, che varia a seconda della categoria a cui appartengono i titoli, classificati rispettivamente come junior, mezzanine e senior. Il rimborso della tranche junior avviene solo se sono state già saldate le mezzanine le quali, a loro volta, non possono essere pagate prima che siano state liquidate per intero le senior. Teniamolo a mente, tornerà utile. Per ora è sufficiente sapere che le GACS coprono solo le tranches più pregiate. E che dal 2016 garantiscono titoli per un controvalore di 94 miliardi.
Il Fondo GACS
Il GACS, o Fondo di garanzia sulla cartolarizzazione (vedi glossario) delle sofferenze è stato istituito presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) dal decreto legge 18 del 14 febbraio 2016 e le sue attività sono state prorogate più volte con il parere favorevole della Commissione europea. La sua gestione è affidata alla Consap (Concessionaria Servizi Assicurativi Pubblici), una società controllata dal MEF stesso, con una dotazione iniziale di 220 milioni di euro, «ulteriormente alimentata – spiega il dicastero – dai corrispettivi annui delle garanzie di volta in volta concesse». Il fondo copre il rischio di insolvenza di una parte dei titoli finanziari (le asset-backed securities o ABS) immessi sul mercato dalle società veicolo che acquistano dalle banche i crediti ormai svalutati ponendoli a loro volta a garanzie dei titoli stessi. Dal recupero (molto) parziale di questi crediti deriva la possibilità di saldare le ABS comprate dagli investitori con gli interessi.
Il rimborso delle GACS passa ovviamente dalla capacità di recuperare una parte dei crediti. È qui che entrano in gioco i servicer, ovvero le società che agiscono a tale scopo. Parliamo di operatori come doValue, che in Italia occupava alla fine del 2020 la maggiore quota di mercato con 78 miliardi di asset gestiti. E ci riferiamo ovviamente ai suoi competitor come Intrum (39,4), Cerved (35,3), Prelios (32,1), Banca Ifis (23,9), Credito Fondiario (19,7) e AMCO che però, a differenza degli altri è una società pubblica controllata dal MEF con 34,2 miliardi di titoli in portafoglio. Tralasciando quest’ultimo, che agisce secondo una logica di lungo periodo, si tratta generalmente di operatori che puntano a recuperare i crediti in tempi relativamente rapidi. I loro contratti con i fondi che hanno acquistato pacchetti di ABS durano solitamente dai 3 ai 5 anni. Gli investitori, ovviamente, vogliono risultati. I servicer puntano a incassare le commissioni. Tutto normale, tutto bene. Anzi, no.
La crisi dei fondi e dei servicer
I segnali che giungono dal mercato, infatti, sono decisamente preoccupanti. A ottobre Il Sole 24 Ore ha preso in esame le maggiori transazioni censite dall’agenzia tedesca Scope Ratings analizzando la loro gestione post acquisto. Risultato: delle 26 operazioni osservate «ben 17 hanno performance peggiori rispetto alle attese dei Business Plan originari». Semplificando: i servicer stanno recuperando molto meno di quanto speravano. Con tutto quel che ne segue.
Nel giugno del 2018, ad esempio, Credito Valtellinese (Creval) e Credito Siciliano hanno ceduto un portafoglio da 1,67 miliardi di crediti deteriorati a un veicolo di cartolarizzazione, denominato Aragorn. Le ABS – che, lo ricordiamo, sono i titoli creati ex novo che hanno come garanzia i crediti deteriorati – valgono circa 586 milioni. Ebbene, la performance dei titoli emessi segnerebbe oggi -54%, il peggior risultato tra tutte le transazioni censite dal quotidiano edito da Confindustria. I servicer, quindi, stanno recuperando meno crediti del previsto. Questo produce una svalutazione del sottostante e quindi del valore di mercato delle stesse ABS. Detto in altri termini, significa che l’operazione Aragorn starebbe rendendo meno della metà di quanto previsto; segno che il recupero dei crediti, affidato in questo caso a Cerved e Credito Fondiario, risulta particolarmente complicato.
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Per capire la situazione è possibile scorrere ad esempio l’elenco dei crediti deteriorati ceduti dall’istituto lombardo: circa 6.400 voci, che identificano migliaia di soggetti già in crisi e che oggi rischiano di restituire ancor meno di quanto si pensava. Ora, quasi 510 di quei 586 milioni di euro di crediti svalutati sono entrati nella cosiddetta tranche senior, quella coperta da garanzia statale. In conclusione: se il recupero non va a buon fine lo Stato è chiamato a coprire buona parte delle perdite. Peggio va l’operazione, più alto sarà il conto da pagare.
Dai titoli più rischiosi un pessimo segnale per le garanzie pubbliche
Aragorn non è l’unica operazione capace di generare problemi alle due società. Cerved e Credito Fondiario, infatti, stanno registrando performance deludenti anche sui portafogli di Banco Desio (-15% rispetto alle attese per il primo) e BPM (-16% per il secondo) così come sulla maxi cartolarizzazione 2018 del Monte dei Paschi che ha trasformato 24,1 miliardi di sofferenze in 4,3 miliardi di ABS in cui la tranche con garanzia statale, ovviamente, fa la parte del leone (2.918 milioni). La performance fin qui registrata dai servicer coinvolti – oltre ai già citati anche Prelios e doValue – segna meno 39% rispetto al business plan di partenza.
Pessimi, infine, i segnali che arrivano dalle aree più hardcore del mercato, quelle delle tranche junior e mezzanine che, lo ricordiamo, vengono rimborsate solo dopo il completamento del saldo delle senior. Ebbene: i titoli in questione, segnala ancora Il Sole, valgono sostanzialmente zero. Nel senso, aggiungiamo noi, che il mercato ritiene pressoché impossibile che i servicer recuperino dai debitori una somma sufficiente a saldare anche le tranche più rischiose. A garantire un minimo di appeal è solo la clausola contrattuale che consente all’investitore che le compra sul mercato secondario (rilevandole cioè dai fondi che le avevano originariamente acquistate) di cambiare la società specializzata a cui affidare il recupero.
«Al momento junior e mezzanine si vendono realisticamente a 2 o 3 centesimi per euro, come dire il 2-3% del loro valore nominale», spiega una fonte di mercato. «La probabilità di ricavare in seguito qualcosa in più rispetto al prezzo di acquisto è bassa ma a fronte dei costi minimi dell’operazione può valere la pena provarci».
Le operazioni nel mirino di Bankitalia
Non sorprende, a questo punto, che Banca d’Italia voglia vederci chiaro. All’inizio di novembre, via Nazionale ha inviato una prima richiesta di informazioni ai servicer. Nel documento si sottolinea in particolare la necessità di «valutare l’operatività e l’adeguatezza degli assetti organizzativi» dei soggetti e si ricorda come negli ultimi anni siano emerse diffuse «prassi di mercato non pienamente coerenti con il quadro normativo». Tradotto, «siamo all’anticamera dell’attività ispettiva vera e propria» sottolinea la fonte di mercato.
«Non parliamo di illeciti ma è evidente che Bankitalia ipotizza vi sia stata un’eccessiva leggerezza, una certa disorganizzazione. Che alcune procedure informatiche, per dire, possano essere state non idonee». Insomma, lo Stato sa di dover pagare e il regolatore vuole perlomeno capire perché.
Già, perché? «Forse c’è stato troppo ottimismo», conclude la nostra fonte, «forse i servicer sono stati eccessivamente generosi nel prezzare i titoli. Non è un mistero che negli ultimi anni ci sia stata una grande corsa ad assicurarsi le commesse sulle operazioni anche perché la garanzia statale rendeva i crediti molto attraenti». Insomma, si torna al punto di partenza. A quell’idea di un mercato gonfiato dalle aspettative e dalla presenza discreta, sullo sfondo della mano pubblica. Forse i bassi prezzi pagati dai fondi esteri ai tempi delle maxi pulizie di bilancio degli istituti italiani non erano poi così vantaggiosi. Forse davvero il mercato degli NPL ha sperimentato nell’ultimo anno la sua piccola bolla, così come ora sperimenta la sua piccola glaciazione. E un po’ di freddo, va da sé, iniziano a sentirlo anche i contribuenti.
CREDITI
Autori
Matteo Cavallito
In collaborazione con
ReCommon