(Dis)onora i tuoi debiti

07 Ottobre 2022 | di Alice Facchini

«La Bibbia dice che bisogna tenere fede alla parola data e onorare i propri debiti, ma tutto dipende da come vengono letti questi precetti. Nel mio modo di vedere, se una donna viene portata in Europa dietro a false promesse e si ritrova in strada obbligata a prostituirsi, il debito che ha nei confronti della madame non è valido, perché a monte non c’era un accordo chiaro e consensuale». Princess Inyang Okokon ha gli occhi pensierosi e la voce profonda. È una mediatrice culturale per l’associazione Piam Asti, che ha contribuito a fondare 22 anni fa per aiutare le donne vittime di tratta a uscire dallo sfruttamento. Ed è anche una pastora pentecostale nella sua chiesa, la Liberation foundation international ministry.

L’arrivo in Italia

Anche Princess Okokon è arrivata in Italia attraverso la rete della tratta, come tante delle ragazze che oggi supporta. Nel 1998, nel suo ristorante a Benin City, conosce una donna che le promette di aiutarla ad andare in Europa. Le dice che lì si può guadagnare molto aprendo un ristorante africano: Okokon si fida e decide di partire. Viaggia in aereo con documenti falsi e atterra a Torino, dove viene venduta a un’altra madame. È solo in quel momento che scopre di avere un debito di 45 mila euro da saldare.

Così viene obbligata a prostituirsi. «La madame mi picchiava, una volta mi ha anche mandata all’ospedale aprendomi la testa con il tacco di una scarpa», racconta. Dopo sei mesi, non ce la fa più. «Qualche anno prima, un pastore mi aveva detto che sarei andata in Europa a liberare le anime che erano schiave. In quel periodo pregavo e chiedevo allo spirito santo: ma non sono qui per diventare profeta? O sono arrivata solo per vendere il mio corpo?».

Breve storia delle migrazioni, tra aerei e barconi

di Lorenzo Bagnoli

Quando Princess Okokon è entrata in Italia via aereo, l’immigrazione irregolare era diversa da quella di oggi. L’anno in cui è arrivata, il 1998, è entrato in vigore il testo Unico sull’Immigrazione, noto come legge Turco-Napolitano. È stato il primo tentativo – fallimentare – di costruire un flusso regolare d’ingresso e disincentivare l’attraversamento delle frontiere senza documenti. In quegli anni erano tanti i migranti che entravano in Italia con un visto turistico e restavano anche dopo la sua scadenza, diventando overstayer. È accaduto anche che il documento fosse concesso a suon di mazzette: a Torino, nel 1996, la procura aveva aperto un’inchiesta per concessione di visti facili, anche a organizzazioni dedite alla tratta delle donne. Erano gli anni in cui la migrazione dall’Africa cominciava a prendere delle dimensioni più importanti.

È in questo contesto che il governo di Silvio Berlusconi, nel 2002, ha introdotto la legge Bossi-Fini. Come spiega ad Altreconomia l’avvocato Livio Neri, socio dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), con la Bossi-Fini il governo ha cominciato a trattare l’immigrazione come un problema di ordine pubblico, da risolvere con un approccio repressivo. È stata la legge che ha introdotto la dipendenza tra permesso di soggiorno e lavoro: per restare in Italia si deve avere un permesso di soggiorno, che però è molto difficile da ottenere senza un lavoro. Questo circolo vizioso è ancora oggi un serbatoio di irregolarità.

A dicembre 1996, davanti alle coste di Portopalo, in Sicilia, il mare inghiottì 283 migranti provenienti da Pakistan, India e Bangladesh. È una delle date spartiacque nella storia delle migrazioni. Nonostante già si registrassero in quegli anni tragedie del genere lungo la rotta del Mediterraneo Centrale, la maggioranza dei migranti irregolari nei primi anni Duemila erano overstayer. «Secondo i dati forniti dal ministero dell’Interno – scriveva Italia Oggi nel 2004 – il 75% degli irregolari attualmente presenti nel Paese è arrivato con il permesso di soggiorno e alla sua scadenza non è più rientrato nella terra d’origine». La considerazione seguente, che circola ancora oggi, riguarda il numero di identificazioni e di respingimenti degli irregolari troppo bassa, intorno al 30%. Questo elemento è rimasto costante nei dati del Ministero dell’Interno anche quando, a partire dalla cosiddetta “Emergenza Nord Africa” del 2011, gli sbarchi sono diventati maggioranza, fino a superare le 180 mila unità nel 2016. La frontiera marittima, di conseguenza, è diventata la più calda sul fronte della migrazione irregolare.

Nel rapporto della Fondazione Migrantes del 2020, però, si legge un ricorso storico: l’81,9% dei respingimenti del 2019 è stato effettuato agli aeroporti. «Si è dunque invertito, nel corso del 2019, il trend che aveva caratterizzato gli anni scorsi, che avevano registrato prevalenti e copiosi arrivi via mare», si legge nel rapporto. Si vedrà dopo il Covid come cambierà il trend.

Nel 1999 conosce Alberto Mossino, oggi suo marito, e grazie al suo aiuto scappa dalla madame e la denuncia. Durante il processo, testimonia di fronte a lei e la fa condannare a quattro anni di carcere. Poi fonda l’associazione Piam Asti: «Abbiamo iniziato con l’unità di strada, aiutavamo le donne che avevano problemi di salute e che avevano bisogno di un accompagnamento in ospedale, oppure le supportavamo nella ricerca di un lavoro», racconta. «Nel tempo abbiamo attivato un progetto sociale che offre ospitalità in case protette: lì abbiamo dato vita a una scuola di italiano, oltre a vari corsi specializzanti come quelli di aiuto cuoca, barista, pizzaiola, addetta alle pulizie, badante. Lavoriamo molto sull’autonomia».

L’«esempio vivente» che si può evitare di estinguere il debito

Per il suo impegno, Princess Okokon ha ricevuto nel 2022 la nomination all’Ypres Peace Prize, premio internazionale dedicato alla pace, conferito ogni tre anni dalla città di Ypres, in Belgio. «Per aiutare le donne che vogliono uscire dallo sfruttamento, un aspetto fondamentale che si tende a sottovalutare è quello spirituale – spiega -. Queste ragazze, spesso molto giovani, hanno fatto un rituale voodoo o juju per sancire il proprio patto con la madame: questo le lega indissolubilmente fino a che non avranno ripagato il proprio debito».

Questi rituali hanno origine nei culti africani animisti: una sorta di stregone utilizza capelli, unghie o peli pubici della ragazza per legarla alla sua madame, fino alla restituzione della somma anticipata. Se i soldi non dovessero essere resi, malattie e sfortune colpiranno la donna e i suoi familiari. «Queste ragazze sono terrorizzate – dice Princess -. Ecco perché nella mia chiesa io organizzo le deliverance, rituali per rompere i giuramenti fatti attraverso il voodoo e il juju. In questo modo queste persone riacquisiscono la propria libertà».

Per approfondire

Un momento di preghiera presso la chiesa pentecostale Salvation Ministries a Port Harcourt (Nigeria) nel febbraio 2019 - Foto: Yasuyoshi Chiba/Getty

Il silenzio delle chiese pentecostali sulla tratta delle donne nigeriane

Sono il fulcro delle comunità nigeriane all’estero. A volte proteggono criminali e sfruttatrici. Nessuna indagine ha mai chiarito il loro ruolo

Princess non ha paura di schierarsi contro la tratta di esseri umani e contro chi è nella rete, e lo fa anche all’interno della sua chiesa: «Certo non posso essere io a decidere chi entra e chi no, cacciando le madame o chi fa parte dei gruppi criminali – afferma -. Quello che posso fare però è esortare la mia comunità a comportarsi come bravi cristiani. Durante l’omelia, dico esplicitamente di non compiere attività illecite: le madame si innervosiscono e se ne vanno, ma a me non interessa. Sono stata anche in altre chiese a portare la mia testimonianza: io sono l’esempio vivente che si può sopravvivere anche senza aver pagato il proprio debito, e per le ragazze ascoltare queste storie è importante».

Pastori e cult

Ci sono invece altri pastori pentecostali che hanno interesse a ospitare le madame, tra le altre cose anche per le offerte che portano alla chiesa. In particolare c’è la decima, un’offerta che equivale a un decimo del proprio guadagno. «La decima di una madame vale molto di più della decima di una ragazza sfruttata, visto che i suoi guadagni sono maggiori – spiega Princess -. Ci sono pastori che non hanno un altro lavoro e che vivono della propria attività religiosa: io invece faccio anche un altro mestiere e non sono interessata a quel tipo di offerte. Ma ce ne sono anche molti altri che si attivano per aiutare le ragazze a uscire dalla rete, e che le indirizzano alla mia associazione».

In alcuni casi, c’è stato chi ha provato a fare donazioni alla sua chiesa o all’associazione per comprare il suo silenzio: «Un giorno delle persone mi hanno chiamato, dicevano che volevano avviare una collaborazione e darci un finanziamento, avevano molta fretta – racconta -. Abbiamo indagato e ci siamo resi conto che si trattava di membri dei cult, le confraternite nigeriane che agiscono con metodi mafiosi. Abbiamo subito declinato l’offerta: successivamente c’è stata una retata, hanno arrestato 69 nigeriani del cult De Norsemen Kclub».

Per quanto l’Italia riconosca i metodi di certi cult come mafiosi, in Nigeria, Gran Bretagna e Stati Uniti il Kclub è legittimamente registrato e descritto come «organizzazione umanitaria» da alcuni media locali. Si legge sul sito dell’organizzazione che il nome rimanda ai Norreni, «”marinai” che regnarono nell’VIII-XI secolo nei Paesi scandinavi come Danimarca, Norvegia e Svezia» in una società che aveva come motto «servizio all’umanità», mutuato anche dal Kclub nigeriano. I Norreni, prosegue la descrizione del Kclub, si sono contraddistinti per «audacia e coraggio» nella «lotta per l’uguaglianza di tutti», che ispira gli aderenti al cult anche in Nigeria.

Nata come organizzazione giovanile negli anni Ottanta per promuovere la pace in un momento di forti tensioni interne al Paese, oggi il Kclub è considerato dai suoi sostenitori uno strumento per la gestione dei conflitti e dai suoi detrattori come un gruppo di gangster. Di certo si esprimono su temi di pubblico interesse e hanno spazio sui giornali locali, anche in vista delle elezioni in Nigeria del prossimo febbraio.

Andare contro organizzazioni del genere costa: per la sua attività, Princess subisce intimidazioni e minacce telefoniche da parte di chi non vede di buon occhio il suo impegno. Ma lei va avanti per la sua strada. «Non mi lascio spaventare – conclude – Ho fede in Dio, mi sento protetta: non ho paura perché ho in me il potere di Cristo».

Il silenzio delle chiese pentecostali sulla tratta delle donne nigeriane

Il silenzio delle chiese pentecostali sulla tratta delle donne nigeriane

Alice Facchini

«I’m gonna praise the Lord. The devil cannot stop me. I’m gonna praise the Lord, in every situation. In the wilderness, in the prison-yard. I’m gonna praise the Lord for his faithfulness, alleluja». [«Prego Dio. Il diavolo non può fermarmi. Prego Dio in ogni situazione. In mezzo alla natura, nel cortile di una prigione. Prego Dio per la sua fedeltà, alleluja»]

Le casse a tutto volume sparano fuori la voce di quattro coriste, mentre il basso elettrico, la tastiera e la batteria accompagnano la preghiera con sonorità rock. Dentro la chiesa pentecostale, uno stanzone ricoperto di drappi azzurri e addobbi natalizi, ci saranno 40 gradi, ma il pastore non si scompone nel suo completo con giacca, doppiopetto e scarpe di vernice. Mentre il pubblico balla tra le sedie in plastica bianca, lui si inginocchia a terra, alza le braccia al cielo e poi appoggia la fronte sulla sua stola sacra: prega ad alta voce, ma le sue parole sono coperte dai canti. Sale sul palco solo nel momento dell’omelia: al microfono legge e commenta la Bibbia, mentre i testi vengono proiettati sul muro dietro di lui. Ricorda alla comunità i propri doveri, gli appuntamenti settimanali, le feste in programma.

Le chiese pentecostali sono un punto di riferimento per la comunità nigeriana. Qui le persone si conoscono, pregano, mangiano insieme, trascorrono il tempo libero. La chiesa è aperta a tutti e la domenica a messa si possono incontrare sia le madame che le prostitute, sfruttatrici e sfruttate, sedute le une vicino alle altre. Alcune chiese hanno un ruolo ambiguo in queste dinamiche: diverse associazioni, esperti e magistrati raccontano di pastori che invitano le ragazze a pagare il loro debito nei confronti delle madame e a non denunciare. Si parla di riunioni della rete criminale che si tengono all’interno degli spazi sacri. Messe dove in prima fila c’è sempre un posto per le madame e i membri dei cosiddetti cult, organizzazioni che operano con modalità simili alle nostre mafie. Chi lavora nel settore affronta l’argomento come se fosse il segreto di Pulcinella, che in realtà tutti conoscono e che quindi segreto non è.

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Le parole della tratta

Madame: Nel contesto della tratta, indica la trafficante che sfrutta le ragazze che vendono prestazioni sessuali. Le madame raccolgono i soldi del debito. Spesso sono state anche loro prostitute. Oga è il corrispettivo maschile delle madame.

Debito: Somma che le vittime di tratta devono restituire alle organizzazioni criminali per pagare il loro viaggio in Europa. Per estinguere il debito, le vittime sono costrette a prostituirsi oppure a spacciare. Se non lo fanno, le organizzazioni minacciano ritorsioni nei confronti della famiglia di origine.

Native doctor: È uno sciamano che sottopone le vittime di tratta a riti voodoo (juju è il termine che usa la comunità nigeriana). Attraverso il juju le ragazze sono costrette a ripagare il loro debito alle madame. È lo strumento di coercizione spirituale alla quale sono sottoposte le ragazze.

Boga: È la persona che accompagna le vittime. È in perenne contatto con i trafficanti e con le madame.

Connection man: È colui che organizza i viaggi dalla Nigeria all’Italia, il più delle volte passando dalla Libia. L’imbarcazione con la quale le donne sono costrette ad attraversare il Mediterraneo è chiamata la palapa.

Connection House: È il termine attraverso cui le vittime di tratta definiscono i bordelli dove sono costrette a prostituirsi. Si trovano principalmente in Libia, ma ne esistono anche in alcuni ghetti italiani.

Non tutte le chiese però sono uguali: ci sono anche pastori pentecostali che denunciano le attività delle organizzazioni criminali nigeriane e aiutano le ragazze a uscire dalla tratta. È anche grazie ad alcuni di loro che sono stati arrestati criminali appartenenti ai cult o alla rete del traffico di esseri umani. Negli ultimi anni, in Italia la lotta alla tratta ha ottenuto diversi risultati, in particolar modo grazie a una strategia di contrasto “multiagenzia” che vede la collaborazione degli enti antitratta e delle reti del territorio nelle indagini: molti criminali sono stati arrestati, e le forze dell’ordine hanno oggi una conoscenza più profonda di come funziona il traffico. Ma c’è una sfera che resta ancora poco conosciuta: proprio quella che riguarda il ruolo delle chiese.

«I am a winner all the time. I am a success not a failure. I am a victor not a victim, I am the head and not the tail. Jesus is a winner man, Jesus is a winner. He’s a winner man all the time» [«Sono sempre un vincitore. Sono un successo, non un fallimento. Sono un vincente, non una vittima. Sono la testa, non la coda. Gesù è un uomo che vince, Gesù è un vincitore. È sempre un vincitore»].

La messa è finita, i fedeli si radunano fuori dalla chiesa. È il compleanno di un bambino della comunità, i palloncini vengono appesi per addobbare il cortile, mentre su un grosso vassoio vengono portate due grandi torte ricoperte di pasta di zucchero coloratissima. «Per un periodo sono stata lontana dalla chiesa, poi pian piano mi sono riavvicinata», racconta a bassa voce la madre del bambino festeggiato. «Non tutte le chiese sono uguali: ho sentito pastori che durante l’omelia dicevano pubblicamente “Onorate i vostri debiti”, indirizzandosi implicitamente alle donne costrette a prostituirsi. Alla fine ho comunque scelto di ritornare qui, perché è qui che trovo speranza e famiglia, anche se so che le contraddizioni sono tante».

Una zona grigia che sfugge alle indagini della magistratura

In Italia, diverse inchieste della magistratura hanno fatto luce sulle confraternite nigeriane, i cosiddetti cult: da Torino a Catania, passando per Brescia, Bologna, L’Aquila, Castel Volturno, Palermo, molti membri sono stati condannati per diversi reati, in particolare legati al traffico di droga. Spesso è stato riconosciuta l’aggravante prevista dall’articolo 416-bis del codice penale, l’associazione di tipo mafioso.

Il nostro Paese è quello che più di tutti in Europa ha perseguito le confraternite nigeriane, proprio grazie al suo ordinamento che prevede degli strumenti speciali nella lotta alle organizzazioni mafiose. E anche altri criminali nigeriani, che agivano in maniera autonoma o in gruppi, ma senza essere affiliati a una rete così ampia e strutturata, sono stati arrestati per aver preso parte al traffico di esseri umani o allo sfruttamento sessuale. Quello che manca però è un’indagine sulle chiese e sul ruolo di alcuni pastori.

«Non è mai stata fatta un’inchiesta specifica sul rapporto tra chiese pentecostali e organizzazioni criminali nigeriane – spiega il magistrato Stefano Orsi, già pm della Direzione distrettuale antimafia, poi passato alla Procura generale della Corte d’appello di Bologna -. Questo perché è un tema molto delicato, che tocca diversi aspetti spinosi».

Fedeli durante una preghiera presso la chiesa pentecostale Salvation Ministries a Port Harcourt (Nigeria) nel febbraio 2019 - Foto: Yasuyoshi Chiba/Getty
Fedeli durante una preghiera presso la chiesa pentecostale Salvation Ministries a Port Harcourt (Nigeria) nel febbraio 2019 – Foto: Yasuyoshi Chiba/Getty

Orsi spiega che la mafia nigeriana è molto pervasiva: si infiltra in tutte le strutture sociali, e quindi anche nelle chiese. «Nelle comunità nigeriane all’estero, le organizzazioni criminali provano a ricreare la stessa rete che avevano costituito in Nigeria – continua -. Nelle indagini, abbiamo riscontrato più volte che i soggetti affiliati si ritrovassero nelle chiese per fare le proprie riunioni. Spesso i pastori provano a convincere le ragazze sfruttate a non sporgere denuncia, o comunque a trovare un punto d’incontro con la madame senza arrivare alla rottura. C’è una situazione di estrema contiguità, che fa pensare. Non mi sentirei di affermare che la mafia nigeriana non ha le mani nella chiesa, ma al momento non ci sono prove per dimostrarlo».

Anche la procuratrice del Tribunale di Catania Lina Trovato, che ha indagato a lungo sul fenomeno della tratta, parla di uno «scarto tra la statistica giudiziaria e la reale entità del fenomeno»: «In numerose attività di indagine è emerso il coinvolgimento dei pastori nel reclutamento delle ragazze in Nigeria: i pastori mettono in contatto le ragazze con la madame e percepiscono un corrispettivo», racconta Trovato. «Le ragazze vedono il pastore come una buona persona – aggiunge -, si fidano e così entrano nella rete: lo abbiamo riscontrato varie volte dalle intercettazioni ma anche dalle testimonianze di alcune vittime. Nonostante questo, l’estrema difficoltà nell’identificare questi soggetti che agiscono all’estero non consente di perseguirli».

In altri Paesi, alcuni pastori sono stati processati per aver messo in contatto le ragazze che frequentavano la loro chiesa con le madame. In Nigeria, il pastore Endurance Ehioze è stato arrestato nel 2017 dalla polizia di Edo State per il presunto coinvolgimento nel traffico di ragazze in Russia. Nello stesso anno in Sudafrica il pastore nigeriano Timothy Omotoso è stato accusato di traffico di esseri umani, stupro e racket, e ora è in attesa della sentenza della Corte suprema d’appello. Su di lui pendono quasi cento capi d’accusa. In Francia, nel 2019 il pastore nigeriano Stanley Omoregie è stato processato per aver trafficato sette ragazze tra i 17 e i 38 anni: è accusato di sfruttamento della prostituzione aggravata e schiavitù.

Anche in Italia, spiega Trovato, ci si chiede se ci sia un coinvolgimento da parte di alcuni pastori: «A noi non sono mai pervenute denunce di pastori sulla tratta, e questo già è un dato – dice -. Si può ipotizzare che per loro quello che accade sia normale: la madame ha anticipato i soldi, e ora la ragazza deve ripagare il debito. Quello che è certo è che le chiese pentecostali rappresentano dei centri di aggregazione importantissimi per la comunità nigeriana, dove vengono accolti tutti: in alcuni è capitato che gli organi minorili dello Stato non dessero il consenso per partecipare alla messa alle ragazze minorenni vittime di tratta, per evitare di esporle a eventuali rischi dovuti all’incontro con certe persone proprio dentro la chiesa».

La struttura delle chiese pentecostali

Le chiese pentecostali fanno parte del vasto gruppo di chiese evangeliche. Il movimento pentecostale è nato all’inizio del Novecento negli Stati Uniti e si è diffuso capillarmente negli anni Sessanta in Africa e, in seguito ai flussi migratori degli ultimi decenni, anche in Europa. Al mondo oggi ci sono più di 640 milioni di fedeli pentecostali: solo in Nigeria si contano più di 500 chiese, alcune delle quali hanno ramificazioni anche in altri Paesi. Nel continente europeo la rete Pentacostal European Fellowship mette insieme 60 movimenti in 37 Paesi.

Per quanto riguarda i nigeriani che vivono in Italia, i pentecostali sono il gruppo maggioritario subito dopo i cattolici. Nel rapporto Immigrati e religioni in Italia, pubblicato dalla fondazione Ismu, si stima che nel nostro Paese ci siano 42 mila nigeriani cattolici, 28 mila evangelici e 26 mila “altri cristiani” (quindi non cattolici né ortodossi, né evangelici, né copti). I pentecostali dovrebbero rientrare nella categoria “evangelici”, ma non si esclude che molti di loro nel sondaggio abbiano scelto l’opzione “altri cristiani” e che dunque le stime non siano precise.

Come nascono le chiese pentecostali? E come si diventa pastori?

Il pentecostalismo è un movimento religioso senza strutture centralizzate: ci sono federazioni di chiese pentecostali diffuse a livello nazionale o mondiale, che coesistono con piccole chiese indipendenti nate a livello locale su spinta di un singolo pastore che ha ricevuto la chiamata dello spirito santo. I pastori sono figure carismatiche, con una forte leadership e una grande capacità di trascinare la comunità. «In Italia esistono due tipi di chiese pentecostali: quelle che hanno il quartier generale in Africa, che sono come “succursali” di una casa madre, e quelle che nascono spontaneamente da un nuovo pastore che improvvisamente riceve il dono dello spirito santo – spiega Annalisa Butticci, antropologa esperta di religioni e diaspora africana della Georgetown University -. Per ricevere il dono basta un sogno, una premonizione o un evento rivelatore, oppure sentire di avere poteri di guarigione o di premonizione, o ricevere un’investitura ad opera di un altro pastore. Anche le donne possono diventare pastore e aprire una propria chiesa».

Dal punto di vista legislativo, in Italia le chiese pentecostali sono registrate come associazioni che svolgono attività di culto. Questo dà la possibilità di fondarne di nuove – o eventualmente chiuderle – con grande facilità e rapidità. Per finanziarsi, queste chiese ricorrono alle offerte: in particolare, in ambito pentecostale i fedeli sono chiamati a versare “la decima”, ossia un decimo del proprio guadagno. «Ci sono pastori che hanno anche un altro lavoro e che non dipendono dalle offerte, mentre altri contano sulle donazioni per mantenersi», racconta Butticci. «Del resto le chiese pentecostali offrono servizi spirituali ai fedeli, e i fedeli pagano: se guardiamo a questo con una prospettiva occidentale ci può sembrare strano o addirittura scandaloso, ma se contestualizziamo ha senso. Anche nella chiesa cattolica, del resto, si paga per i matrimoni o i funerali: dovrebbe trattarsi solo di un’offerta, ma spesso questa è obbligatoria e ha una base fissa».

Pecore bianche, pecore nere: il ruolo di collante delle chiese pentecostali

La “decima”, l’offerta che viene chiesta nelle chiese pentecostali e che equivale a un decimo del proprio guadagno, lega indissolubilmente la sopravvivenza delle chiese ai propri sovvenzionatori, ossia i fedeli. Alcuni pastori hanno allora un certo interesse ad accogliere anche le madame o i membri dei cult, il cui apporto economico è ben più determinante di quello delle ragazze sfruttate. Oltre a questo, nelle chiese pentecostali vige la concezione protestante del successo economico come segno della grazia divina: detto in parole povere, più sei ricco, più sei benvoluto dal Signore, a prescindere da quale sia la fonte dei tuoi guadagni. Durante la celebrazione, a un certo punto il pastore chiede ai fedeli di portare le proprie offerte all’altare: si tratta di un momento altamente simbolico, in cui le madame o i membri dei cult fanno vedere pubblicamente quanti soldi donano, in modo da mostrare alla comunità il proprio potere.

«Le gerarchie tra madame, boyfriend (sorta di collaboratori delle madame), prostitute ed ex prostitute si riproducono in chiesa in vari modi: nella disposizione spaziale, nell’ostentazione di gioielli o altri segni di ricchezza, nelle modalità di rappresentazione del rapporto con il divino – scrive Ambra Formenti nel suo studio sulle chiese pentecostali a Torino – Le madame, che occupano spesso ruoli di rilievo nei gruppi della chiesa, sono anche quelle che “cadono” più frequentemente (una sorta di svenimento simile a una possessione, ndr), mostrando l’effusione dello spirito santo nei loro corpi. Per le madame il culto è dunque un’occasione per esibire il loro potere, tanto materiale quanto spirituale. Questa esibizione diventa uno strumento di soggezione e di controllo nelle mani delle sfruttatrici, una conferma della loro superiorità nei confronti delle giovani prostitute».

Nelle chiese pentecostali, insomma, la dimensione spirituale e quella economica sono legate indissolubilmente. Allo stesso modo, il patto che lega le donne alla loro madame è di tipo sia monetario, sia rituale: tutto ha inizio in Nigeria, quando la madame offre alla ragazza l’opportunità di emigrare in Europa, promettendo i documenti necessari e organizzando il viaggio. In cambio, la ragazza si impegna a restituire il debito attraverso il denaro guadagnato con il suo lavoro: ad alcune viene raccontato che faranno le parrucchiere, le babysitter, le commesse, ad altre viene detto chiaramente che si prostituiranno. L’acquisto della ragazza spesso avviene con il beneplacito della famiglia, che si impegna insieme alla ragazza a onorare il debito. Per sancire questo accordo viene eseguito un rituale voodoo o juju, che ha origine nei culti africani animisti: una sorta di stregone utilizza capelli, unghie o peli pubici della ragazza per legarla alla sua madame, fino alla restituzione della somma anticipata. Se i soldi non dovessero essere resi, malattie e sfortune colpiranno la donna e i suoi familiari.

«Parlare semplicemente di credulità popolare significa non cogliere l’essenza di questo strumento che, invece, costituisce il mezzo principale usato dalla madame per sottoporre la ragazza a violente pressioni psicologiche», spiega Sergio Nazzaro, giornalista e sociologo esperto di criminalità nigeriana. «Teniamo presente che anche le stesse madame, che spesso in passato sono state a loro volta vittime di tratta, credono nel rito magico: sfruttate e sfruttatrici ritengono che il patto vada onorato se non si vuole attirare l’ira degli dei».

Il rapporto con la madame è ambivalente: quest’ultima è considerata al contempo una sfruttatrice e una donna più esperta, che proviene dallo stesso percorso, a cui si devono rispetto e riconoscenza perché comunque offre protezione e un’opportunità di arricchirsi. «I riti sono parte di una cultura, e in sé non sono necessariamente violenti o malvagi – afferma Nazzaro -. Sono le organizzazioni criminali che fanno leva sulle credenze delle persone per perseguire i propri obiettivi, piegando i riti alle logiche dello sfruttamento».

Un momento di preghiera presso la chiesa pentecostale Salvation Ministries a Port Harcourt (Nigeria) nel febbraio 2019 - Foto: Yasuyoshi Chiba/Getty
Un momento di preghiera presso la chiesa pentecostale Salvation Ministries a Port Harcourt (Nigeria) nel febbraio 2019 – Foto: Yasuyoshi Chiba/Getty

I pastori sanno benissimo chi sono le madame e cosa fanno nella vita. Ma non tutti adottano verso di loro lo stesso tipo di atteggiamento. «Un pastore una volta mi disse che lui era lì per accogliere tutti: le pecore bianche e le pecore nere -, racconta Stefania Russello, coordinatrice del progetto Maddalena della Casa dei giovani di Palermo, che fa parte della rete nazionale antitratta -. Io accompagnavo una ragazza che era entrata in un percorso protetto: il pastore mi disse che non avevo nessun diritto di consigliarle di non frequentare più la chiesa solo perché lì c’era anche la sua madame. Successivamente offrì un lavoro alla ragazza, e alla fine lei lasciò il nostro percorso. Adesso quella chiesa non esiste più».

Pastori contro la tratta

Ci sono anche chiese che aiutano le donne a denunciare le proprie sfruttatrici e a uscire dalla rete, mettendole in contatto con le associazioni antitratta. Nella memoria di una vittima, consegnata alla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, si legge ad esempio: «La richiedente nigeriana U. racconta che frequentava abitualmente la chiesa che si trova vicino la stazione di Palermo e di avere proprio qui subìto un’aggressione da quella che poi si sarebbe esplicitata essere la sua madame, da parte del fratello di quest’ultima. Da qualche tempo la ragazza, che risiedeva in un centro per minori a Palermo, riceveva telefonate minatorie da parte di un uomo che solo successivamente capisce di conoscere in quanto frequentavano la stessa chiesa. U. e le amiche cercano di risolvere la questione chiedendo l’aiuto del pastore della chiesa, ma l’intromissione di quest’ultimo causa una reazione di grande collera dell’uomo e della madame, che sfocia in un’aggressione all’interno della chiesa a spese di U., che viene brutalmente pestata. A seguito di quanto successo, U. e il pastore denunciano gli aggressori. La donna non viene fermata perché in stato di gravidanza, il fratello si rende irreperibile».

E poi c’è chi ha avuto un’esperienza personale di sfruttamento, che sceglie coraggiosamente di portare la propria testimonianza in chiesa per fare sensibilizzazione: «Tante volte durante la messa ho raccontato la mia storia: anche io avevo una madame, anche io mi sono dovuta prostituire, anche io sono stata picchiata e minacciata – racconta Princess Okokon, ex vittima di tratta, oggi pastora pentecostale della chiesa Liberation foundation international ministry di Asti -. Alla fine mi sono ribellata e ho denunciato: sono l’esempio vivente che si può sopravvivere anche senza aver pagato il proprio debito. Durante l’omelia, dico esplicitamente di non trafficare esseri umani e di non fare attività illecite: le madame si innervosiscono e se ne vanno, ma a me non interessa. Nella mia chiesa organizzo anche le deliverance, riti che liberano le ragazze dagli spiriti del male, rompendo il giuramento con la madame».

Nel 1999 Princess Okokon, dopo aver denunciato la sua madame (poi condannata a quattro anni di carcere), ha fondato l’associazione Piam Asti, che assiste le ragazze vittime di tratta: oggi lavora come mediatrice per aiutarle a uscire dalla rete. «Insieme all’associazione, anche la chiesa ha un ruolo fondamentale di sostegno, soprattutto dal punto di vista spirituale – racconta -. Ho ricevuto tante minacce per quello che faccio, ma io ho fede in Dio, mi sento protetta: non ho paura perché ho in me il potere di Cristo».

La “zona grigia” delle chiese in Grecia

di Kostas Koukoumakas

La “zona grigia” che riguarda il ruolo dei pastori e delle Chiese non esiste solo in Italia. Anche in Grecia sono state riscontrate dinamiche simili: «Le vittime di tratta che sono arrivate in Grecia ci hanno raccontato che in alcune chiese locali, principalmente protestanti e per lo più nelle chiese nazionali collegate ai Paesi di origine, si trovavano persone che reclutavano o sfruttavano giovani donne», spiega Dimitris Kontoudis, responsabile della formazione di A21, organizzazione con sede a Salonicco che da anni supporta le vittime di tratta.

«Solo in un’intervista è stato menzionato un pastore con nome e cognome – continua Kontoudis -. Con il consenso delle vittime, le informazioni sono state trasmesse al Dipartimento antitratta della polizia. Sfortunatamente, però, non sono state confermate». A21 ha condiviso due testimonianze di vittime di tratta che sono rivelatrici: le interviste sono state condotte nel 2018 e nel 2019, quando le vittime hanno ricevuto sostegno dall’organizzazione.

Faith, originaria del Ghana (il nome della donna e il Paese sono stati modificati, per proteggere l’identità della vittima), ha perso suo marito ed è stata costretta a sposare il fratello di lui, un uomo estremamente violento, che la maltrattava. Un giorno lascia i suoi figli a casa di alcuni parenti e visita una chiesa protestante in una città vicina: è lì che una donna che frequenta la stessa chiesa le offre un lavoro in un Paese mediorientale, dicendo che può pagarle il viaggio e provvedere al rilascio dei documenti. Sul volo aereo, Faith incontra altre quattro ragazze che aveva conosciuto in chiesa. Arrivate in Grecia, un uomo va a prenderle all’aeroporto e prende i loro passaporti, con la scusa di voler procedere con la pratica di rilascio del permesso di lavoro. Le porta in una casa di tre piani, dove ognuna viene rinchiusa in una stanza: è in quel momento che Faith si rende conto di essere stata venduta a un trafficante. Viene poi costretta a prostituirsi: ci sono volte un cui ha anche trenta clienti al giorno. Qualche volta, il pasto consiste solamente in latte e caramelle. Alla fine Faith riesce a scappare, anche grazie all’aiuto di un cliente che vuole liberarla.

Poi c’è Marie (nome e origine di fantasia), dal Camerun, aveva solo 15 anni quando è stata costretta a sposare un uomo molto più anziano, che abusava di lei. A 25 anni decide di scappare e trova rifugio nel centro di accoglienza di una chiesa cattolica. Un uomo che lavorava lì le dice che può aiutarla a lasciare il Paese, dato che aveva alcuni conoscenti in Turchia. La accompagna all’Autorità per il rilascio del passaporto e del visto, e vanno insieme a Istanbul. Marie si trova con altre donne in un appartamento sotterraneo. Le hanno rubato i documenti. L’uomo nel frattempo è scomparso, lasciandola con altri che le chiedono di ripagare il debito. La chiudono in una stanza, dove resta per tre mesi: quando rifiuta di prostituirsi, la picchiano e la minacciano. Un giorno Marie scappa insieme a un’altra donna.

Il futuro della lotta alla tratta

Come abbiamo visto, i numeri delle vittime di tratta in Italia si sono molto ridotti negli ultimi anni. Da un lato c’è stata la pandemia, dall’altro il calo degli sbarchi e i risultati delle indagini giudiziarie su alcuni gruppi criminali. Queste circostanze hanno avuto delle conseguenze in particolare sulla tratta delle donne nigeriane.

La pandemia ha comportato anche la chiusura di diverse chiese pentecostali: celebrare le funzioni era diventato sempre più complesso a causa delle disposizioni sanitarie, che si sommavano alle difficoltà economiche dovute al blocco delle attività. Molte chiese non riuscivano più a pagare l’affitto degli spazi e così hanno chiuso o si sono trasferite. L’emblema di questa tendenza è la città di Castel Volturno, in provincia di Caserta, dove ha sede una delle più grandi comunità di nigeriani d’Italia, che fino a pochi anni fa ospitava più di 40 chiese pentecostali. «Oggi ne sono rimaste pochissime – racconta Vincenzo Ammaliato, giornalista de Il Mattino -. Parallelamente, non ci sono più ragazze per strada. Viene spontaneo pensare che le due cose vadano insieme».

Quello che manca oggi per essere più efficaci nel contrasto alla tratta di esseri umani è una rete che metta in collegamento i soggetti che si sono occupati negli anni, a vario titolo, di contrastare i gruppi criminali nigeriani, per mettere insieme le informazioni a disposizione e per coordinare le indagini future. Questo servirebbe anche a fare luce su questioni ancora poco conosciute, come il legame tra alcune chiese pentecostali e questi gruppi criminali.

«La mafia nigeriana è la quinta più potente al mondo, ma ancora si conosce pochissimo – conclude Fabrizio Lotito, che è stato coordinatore della Squadra anti tratta di Torino e che oggi è consulente del comitato Mafie straniere in Commissione parlamentare antimafia -. L’Europa sta chiedendo di realizzare una raccolta dati e istituire un osservatorio, ma siamo ancora indietro. È un fenomeno molto fluido, che cambia velocemente: bisogna riuscire a mettere insieme le informazioni, valutarle, compararle, e trarre le dovute valutazioni, se vogliamo combattere efficacemente queste organizzazioni. È necessario costituire un gruppo specializzato con il compito di seguire queste attività criminose, altrimenti basta che passino pochi mesi e ogni volta le indagini devono ricominciare da capo».

CREDITI

Autori

Alice Facchini

Hanno collaborato

Kostas Koukoumakas

Elena Ledda

In partnership con

News 24/7 (Grecia)

El Pais (Spagna)

Editing

Lorenzo Bagnoli

Foto di copertina

Un momento di preghiera presso la chiesa pentecostale Salvation Ministries a Port Harcourt (Nigeria) nel febbraio 2019
(Yasuyoshi Chiba/Getty)

Con il sostegno di

Freepress Unlimited

Come cambia la tratta delle donne dalla Nigeria

29 Luglio 2022 | di Antonella Mautone

Inumeri delle persone costrette a vendere sesso per strada sono in calo. Eppure dietro questa notizia positiva ci potrebbero essere delle nuove forme di sfruttamento. «Questo è un momento di passaggio – sostiene Gianfranco Della Valle, responsabile del Numero verde antitratta, un servizio messo in piedi dal Dipartimento delle pari opportunità per aiutare le vittime di sfruttamento sessuale o lavorativo -. La tratta sta cambiando». Vengono soprattutto dalla Nigeria le sex worker costrette a vendere il loro corpo in Italia. Sono tra coloro che sono sempre meno visibili in strada: «Alcune iniziano a prostituirsi in appartamento – spiega Della Valle -. ma non abbiamo dati reali del fenomeno».

Per la maggior parte si tratta di donne già arrivate da tempo in Italia, che faticano a regolarizzarsi. Gli operatori sentono sempre più di frequente che alcune di loro sono costrette anche a vendere droga, soprattutto al nord Italia. Anche i risultati positivi ottenuti dalla magistratura potrebbero nascondere qualche effetto collaterale: «A fine 2019 nel territorio di nostra pertinenza ci sono state numerose operazioni di polizia che hanno colpito la criminalità nigeriana – racconta Lina Trovato, sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia a Catania, da anni impegnata nella lotta alla tratta -. Da quel momento abbiamo notato una diminuzione di ragazze e, a inizio 2020, la totale assenza di minori in strada. Questo ci fa pensare che il timore di un’azione giudiziaria troppo aggressiva abbia portato le organizzazioni a “spostare” le ragazze”».

La procuratrice ipotizza che le donne che gestiscono i guadagni delle prostitute, le madame, «abbiano deciso di abbandonare le ragazze in Libia» perché non riuscivano a organizzare il viaggio. Lo sfruttamento che non si vede in Italia potrebbe quindi essersi fermato sulle coste libiche.

Le parole della tratta

Madame: Nel contesto della tratta, indica la trafficante che sfrutta le ragazze che vendono prestazioni sessuali. Le madame raccolgono i soldi del debito. Spesso sono state anche loro prostitute. Oga è il corrispettivo maschile delle madame.

Debito: Somma che le vittime di tratta devono restituire alle organizzazioni criminali per pagare il loro viaggio in Europa. Per estinguere il debito, le vittime sono costrette a prostituirsi oppure a spacciare. Se non lo fanno, le organizzazioni minacciano ritorsioni nei confronti della famiglia di origine.

Native doctor: È uno sciamano che sottopone le vittime di tratta a riti voodoo (juju è il termine che usa la comunità nigeriana). Attraverso il juju le ragazze sono costrette a ripagare il loro debito alle madame. È lo strumento di coercizione spirituale alla quale sono sottoposte le ragazze.

Boga: È la persona che accompagna le vittime. È in perenne contatto con i trafficanti e con le madame.

Connection man: È colui che organizza i viaggi dalla Nigeria all’Italia, il più delle volte passando dalla Libia. L’imbarcazione con la quale le donne sono costrette ad attraversare il Mediterraneo è chiamata la palapa.

Connection House: È il termine attraverso cui le vittime di tratta definiscono i bordelli dove sono costrette a prostituirsi. Si trovano principalmente in Libia, ma ne esistono anche in alcuni ghetti italiani.

Le “organizzazioni”

Sono ipotesi, perché sono ancora molti i lati poco conosciuti della tratta delle schiave sessuali dalla Nigeria. Il mercato è appannaggio sia di organizzazioni di piccole dimensioni, sia di strutture criminali che sono state condannate in Italia con l’aggravante mafiosa. Questi gruppi criminali organizzati in Nigeria si chiamano cult.

«Normalmente – spiega la pm della procura antimafia di Catania Lina Trovato – la prostituzione è gestita da una o due persone in concorso, oppure da piccole associazioni criminali che prendono una ragazza e dalla Nigeria la fanno arrivare qui».

I cult, invece, commettono una serie di reati «concernenti soprattutto il traffico di stupefacenti nel nord Italia – specifica Trovato -. Questo non vuol dire che il cultismo non abbia nulla a che fare con la tratta, ma non è lo scopo principale dell’associazione: capita talvolta che ci siano membri dei cult che abbiano una fidanzata vittima di tratta o che siano sposati con una madame, oppure gestendo una connection house (bordello, vedi box) in Libia, la mafia nigeriana chieda alle madame di pagare una percentuale sui guadagni».

“Mafia nigeriana” è una categoria molto strumentalizzata dal punto di vista politico, tanto è vero che Giorgia Meloni, insieme allo psichiatra Alessandro Meluzzi e a Valentina Mercurio, l’ha usata come titolo di un libro: Mafia nigeriana. Origini, rituali, crimini. L’argomento ricorre di frequente nei comizi del suo partito Fratelli d’Italia e della Lega. Al netto della propaganda sull’invasione dei migranti, però, è un fatto che i tribunali italiani riconoscano l’aggravante del metodo mafioso per alcuni cult nigeriani.

Uno dei più potenti in Italia è la Black Axe. Secondo un’inchiesta di BBC Africa Eye, nasce all’interno del Neo Black Movement of Africa (NBM), movimento studentesco formatosi all’Università di Benin negli anni Settanta. In origine si trattava puramente di una formazione anti-aparthaid che voleva combattere ogni forma di sfruttamento. Il simbolo è tutt’oggi una catena spezzata da un’ascia nera. Il movimento ha smentito ogni collegamento con le attività criminali degli affiliati ai Black Axe. Nonostante le prese di posizione contro la violenza, il movimento universitario è tuttavia ritenuto assimilabile alla Black Axe dagli inquirenti statunitensi, canadesi e sudafricani e dall’Interpol.

In Italia, scrive il Ministero dell’interno in un focus del 2021, ci sono stati 154 cittadini nigeriani segnalati per 416 bis contro 28 nell’anno precedente. L’esito giudiziario di questi processi con l’aggravante del metodo mafioso non è tuttavia scontato.

A Palermo a seguito di un’operazione del 2016 sono scaturiti due processi: nel filone ordinario, il 416 bis è decaduto; in quello abbreviato, su 14 imputati, dodici sono stati condannati in appello. Nella sentenza di condanna di primo grado, che risale al 2018, si legge che l’organizzazione ha «interessi solo nel settore della prostituzione o dello smercio di sostanze stupefacenti, nell’ambito del quale poteva vantare i giusti canali di approvvigionamento grazie alla rete dei connazionali sparsi in tutta Europa, ed era altresì disposta ad assumersi il maggior rischio di andare incontro a conseguenze giudiziarie». Ma la situazione oggi sembra essere diversa da quella fotografata dalla sentenza di allora.

Il calo degli sbarchi

I dati del monitoraggio nazionale fatto dal Numero verde antitratta, il cui dipartimento dipende direttamente dalla Presidenza del Consiglio, dicono che nel maggio 2017 le persone presenti in strada in orario notturno erano 3.178, mentre a giugno 2021 ne sono state segnalate “solo” 1.623. Sotto la voce “Africa” al 90% si parla della nazionalità nigeriana. Sotto la voce “Europa” al 50% sono rumene, 25- 30% albanesi, e il resto bulgare. Secondo il Ministero della Giustizia anche le denunce per lo sfruttamento della prostituzione sono passate da 1.761 del 2015 a 524 nel 2019.

L’ultimo rapporto del Servizio analisi criminali del Viminale ha evidenziato che ancora «le nazionalità più attive nella tratta degli esseri umani sono quella nigeriana, seguita da quella romena, italiana e albanese». Il Ministero delle Pari opportunità registra nel 2020 (il dato più recente) 1.475 donne nigeriane assistite dagli operatori del servizio antitratta, il 72,3% del totale.

Prima del 2014, le vittime di tratta nigeriane arrivavano in Italia principalmente via aereo. Poi hanno cominciato ad arrivare con i barconi: tra il 2014 e il 2016, il numero è cresciuto esponenzialmente (+600%). Tra il 2015 e il 2017 ne sono arrivate oltre 22 mila, poi, dopo il 2017, meno di 500. «Se vediamo meno donne dell’est in strada, si può pensare che una volta rimaste in Italia siano passate all’indoor – spiega Gianfranco Della Valle, responsabile del Numero verde antitratta -. Per le nigeriane è diverso: non ne arrivano più».

Il motivo principale è legato alla generale riduzione degli sbarchi: dopo i numeri del 2016 (181.000) e del 2017 (119.310), c’è stato un netto calo di arrivi in Italia che ha toccato il minimo con 11.471 migranti nel 2019. Stesso andamento per gli ingressi delle vittime di tratta nigeriane: il picco di entrate è stato registrato nel 2016, con 11.000 ingressi, per poi passare a 5.400 nel 2017, 324 nel 2018, 41 nel 2019, 82 nel 2020, e 215 nel 2021 (dati del Numero verde antitratta).

Poi c’è la pandemia, che ha avuto delle conseguenze su tutto il mercato del sesso a pagamento. Luca Scopetti lavora per Parsec, una cooperativa romana che da circa trent’anni si occupa di contrastare i fenomeni delle dipendenze e della tratta di esseri umani: «Quando il virus ha iniziato a diffondersi, la maggioranza delle donne rumene è rientrata a casa – racconta – mentre le altre non erano presenti in strada, rendendo più difficile per gli operatori contattarle e cercare di favorire, per chi volesse, eventuali fuoriuscite».

Dalla strada alle piazze di spaccio

«Da quando ho iniziato a occuparmi di tratta, circa venti anni fa, sono cambiate molte cose per le ragazze», racconta Elizabeth, mediatrice nigeriana che in Veneto lavora con le vittime del mercato dello sfruttamento, sue connazionali. Ricorda il caso di una ragazza arrivata a Roma nel 2015: «Per pagare il debito dovuto alle organizzazioni criminali che minacciavano la sua famiglia, ha iniziato a trasportare droga fino a Padova, dove la polizia l’ha beccata. Aveva ventitré anni».

Il “debito” (vedi box) è ciò che lega la vittima ai propri sfruttatori: fino a che non si estingue, la persona trafficata avrà il timore che i criminali possano rivalersi sulla propria famiglia di origine, a casa. Solo una piccola parte è quanto serve davvero per il viaggio, il resto arricchisce i criminali. Al debito economico, si aggiunge anche il juju, un rito particolare che soggioga le vittime di tratta anche sul piano psicologico (vedi box). Agli inizi degli anni Novanta, quando il viaggio era principalmente via aereo, il debito era anche di 60-75 mila euro, mentre nel 2015-2016, quando sono diventate più comuni le traversate via mare, si è abbassato a 25-35 mila. A volte il legame non si spezza nemmeno quando è stato ripagato, perché oltre a quello economico le vittime sono sottoposte a un giogo spirituale, sancito attraverso dei riti particolari. Per pagare il debito, quindi, si comincia a lavorare. Prima la merce pressoché esclusiva delle donne era il sesso, ora sono costrette anche a vendere droga, con nuovi rischi.

«Le organizzazioni criminali – aggiunge Gianfranco Della Valle – chiedono alle ragazze di continuare a guadagnare, non più prostituendosi, ma trasportando qualsiasi tipo di droga». Eroina, cocaina ma anche il Tramadol, un anestetico inserito nella lista delle sostanze psicotrope che la Nigeria importa dal mercato asiatico o produce clandestinamente, costa poco ed è usato per “sballarsi” dai giovani e nelle periferie di Lagos. Il suo abuso provoca euforia, inibisce stanchezza e fame, per questo molte ragazze lo assumono anche prima di intraprendere il viaggio che le porterà qui. «In Italia le ragazze acquistano il Tramadol online e lo vendono al minuto, alcune ne rimangono schiave per sempre», conferma Elizabeth, la mediatrice culturale.

Il trasporto della droga – che ha come destinazione principale l’Italia settentrionale – può diventare in alcuni casi lo strumento per saldare il debito. Questo fenomeno, secondo Della Valle, è diventato sempre più evidente con la pandemia, che ha reso più difficile la prostituzione di strada. «Le ragazze – afferma il responsabile del numero verde antitratta – vengono usate per azioni per cui rischiano molto di più dal punto di vista penale». Della Valle sottolinea che secondo i dati delle direzioni distrettuali antimafia, tra il 2019 e il 2020 le rimesse economiche che dall’Italia vanno in Nigeria si sono quadruplicate. Ritiene che le stesse organizzazioni abbiano portato in Italia anche giovani uomini, anche loro con un proprio debito da estinguere, di solito intorno ai 15 mila euro. Questi sono poi finiti nelle piazze di spaccio, dove oggi si trovano anche ragazze vittime di tratta.

«La mafia nigeriana – prosegue Della Valle – è stata etichettata come quella delle tre “d”: donne, denaro e droga. Il viaggio fino all’Italia secondo alcuni studi non è mai costato più di 3-4 mila euro. Il resto del debito è guadagno netto per l’organizzazione».

La crisi dell’articolo 18

Secondo Della Valle, il sistema di contrasto alle organizzazioni criminali dedite alla tratta – nonostante il recente calo dei numeri delle persone in strada – è molto in difficoltà. Il sistema in Italia è fondato sull’applicazione dell’articolo 18 del testo unico dell’immigrazione promulgato nel 1998. Prevede per le vittime il rilascio del permesso «per protezione sociale» valido sei mesi, rinnovabili per altri dodici e convertibile in un permesso per lavoro. La vittima lo ottiene quando collabora con la polizia denunciando i propri sfruttatori. La gestione di questo tipo di documenti è in carico al Dipartimento delle pari opportunità che dipende dalla Presidenza del consiglio. Gianfranco Della Valle lo ritiene l’unico strumento davvero valido per incentivare le denunce delle vittime.

Al contrario, però, come ogni altro migrante le donne nigeriane vittime di tratta possono ottenere una forma di protezione anche partecipando al normale percorso di richiesta di asilo, che non prevede segnalazioni in merito ai propri aguzzini. Questo sistema è in carico al ministero dell’Interno e può finire o con un diniego oppure con l’approvazione di una forma di protezione internazionale: l’asilo politico, la protezione sussidiaria oppure quella umanitaria, che viene concessa con maggiore facilità perché dura solo un anno.

Il sistema della protezione internazionale, spiega Della Valle, è diventato sempre più importante a partire dal 2015, cioè dal momento in cui sono aumentati gli sbarchi. Così il sistema è andato in difficoltà: è previsto infatti che la domanda di asilo possa essere fatta subito dopo lo sbarco. Le Commissioni territoriali, gli organismi che dipendono dal ministero dell’Interno ai quali spetta valutare le richieste di asilo politico, hanno sentito spesso dalle ragazze storie di sfruttamento, eppure solo il 7% di queste è entrato nel sistema di protezione sociale ideato in origine per le vittime di tratta.

Durante il periodo di attesa per il verdetto, che in media tra il 2015 e il 2019 durava di solito due anni, le vittime di tratta si trovano in centri di accoglienza con gli altri richiedenti asilo, senza particolari sistemi di protezione. Così capita molto di frequente che le vittime continuino a prostituirsi per ripagare il debito.

«L’articolo 18 è andato in crisi nella misura in cui la maggior parte delle persone otteneva la protezione internazionale – afferma Della Valle, lapidario -. Mettiamo sotto protezione chi è vittima di tratta, indipendentemente dal fatto che queste persone denuncino chi le sfrutta, eliminando così la possibilità di colpire le organizzazioni criminali».