L’esercito di hacker al soldo del Qatar

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L’esercito di hacker al soldo del Qatar

Lorenzo Bodrero

«Posso garantirvi l’accesso all’account email e ai dispositivi della persona di vostro interesse, in qualsiasi parte del mondo». L’offerta arriva da Aditya Jain, programmatore di base in India nella città di Gurugram ed è indirizzata a due investigatori privati inglesi in cerca di hacker. L’offerta nel Paese è ampia e i due detective vogliono essere sicuri di scegliere il meglio che la pirateria informatica offre. Per convincerli, Jain confessa loro di aver appena lavorato a un progetto che coinvolge la Fifa, organo direttivo del calcio e organizzatore della Coppa del mondo: «Sono riuscito a ottenere i dati email di alcuni funzionari della Fifa di alto profilo di base nel Regno Unito, per conto di un cliente pagato da un Paese del Golfo Persico», spiega. Nel prosieguo della conversazione, Jain precisa che il cliente finale era il Qatar e che lui è stato assunto da un investigatore privato di base in Svizzera: Jonas Rey.

Ma i due detective inglesi non sono ciò che dichiarano. Il loro è un lavoro sotto copertura: vestono i panni di potenziali clienti ma sono in realtà due giornalisti del Sunday Times. Jain ne è all’oscuro, al punto che rivela loro i nomi dei suoi clienti e dei loro obiettivi di attacchi informatici. L’inchiesta, realizzata dal Sunday Times e dal Bureau of Investigative Journalism, ha svelato la rete e gli obiettivi di un gruppo di hacker indiani assoldati da detective privati di base a Londra: in tutto, più di 100 vittime, tra aziende private, personaggi politici e giornalisti.

Coppa del Mondo e Qatar: sorvegliare chi critica

Jonas Rey lavorava presso una filiale del colosso bancario Credit Suisse, salvo poi virare verso il settore dell’intelligence. Aveva trovato impiego presso la Diligence Global Business Intelligence, filiale svizzera della Diligence, una società di consulenza aziendale ben nota nella City di Londra. Nel gennaio 2019, la Diligence Global era stata ingaggiata per un progetto che riguardava la Coppa del mondo in Qatar. Doveva indagare su chi aveva messo in dubbio la capacità del Qatar di finire in tempo la realizzazione delle infrastrutture necessarie per il torneo. Rey, nel corso dell’anno successivo, si sarebbe rivolto al gruppo di hacker guidato dal programmatore indiano Aditya Jain per sorvegliare coloro che fino ad allora si erano dimostrati particolarmente critici verso il piccolo Paese del Golfo. Stando al database di clienti ottenuto dal Sunday Times, è Rey il nome più ricorrente tra i pagatori del gruppo di hacker gestito da Jain: 48 casi, dodici dei quali legati al Qatar.

QatarGate, sospetti di corruzione al Parlamento europeo

Un terremoto diplomatico ha percorso i corridoi dell’europarlamento lo scorso 9 dicembre, quando il quotidiano Le Soir ha reso noti gli esiti di un’indagine, guidata dalla magistratura belga, su presunti episodi di corruzione da parte del Qatar verso europarlamentari e funzionari dell’emiciclo. Quattro gli arresti, finora, tra cui la vicepresidente del Parlamento europeo, la greca Eva Kaili, e l’ex eurodeputato italiano Antonio Panzeri, entrambi espressione di partiti del centrosinistra. In manette sono anche finiti Francesco Giorgi (assistente dell’eurodeputato Andrea Cozzolino e compagno di Eva Kaili) e Niccolò Figà-Talamanca, segretario generale della ong No Peace Without Justice. Le accuse a loro carico sono di partecipazione ad associazione a delinquere, riciclaggio e corruzione. La Procura federale belga sospetta infatti che ai quattro sarebbero stati elargiti «importanti somme di denaro e/o regali significativi per influenzare le decisioni del Parlamento europeo». I favori avrebbero dovuto ammorbidire la posizione del Parlamento Ue nei confronti del Qatar in tema di diritti civili e dei lavoratori e ottenere, per il piccolo ma ricco emirato, un trattamento di maggiore riguardo all’interno delle istituzioni europee.

L’indagine, scrive Il Post, sembra ruotare intorno alla ong Fight Impunity, fondata da Panzeri nel 2019 dopo quindici anni di mandato da eurodeputato europeo. Attraverso questa, l’ex parlamentare e neo lobbista avrebbe messo le sue conoscenze accumulate a Bruxelles al servizio di clienti esterni. Tra le persone coinvolte figurano anche Luca Visentini, segretario generale della Confederazione europea dei sindacati, e Marc Tarabella, parlamentare Ue belga. Il Qatar, in un comunicato, si è detto estraneo ai fatti. Se confermate, le ipotesi accusatorie darebbero vita al più grande scandalo politico nella storia del Parlamento europeo.

Tra i target degli attacchi informatici figurava Jonathan Calvert, caporedattore della sezione inchieste del Sunday Times. Nel database si legge che il giornalista ha subito un attacco alla sua casella di posta elettronica poche settimane dopo l’uscita dello scoop del settimanale britannico in cui il giornalista svelava l’esistenza di una presunta tangente da 100 milioni di dollari pagata alla Fifa per aver assegnato la Coppa del mondo all’emirato. L’hacking, si legge nel database, è stato «completato». A ottobre il governo qatariota ha smentito l’attacco e ha etichettato come una «crociata politicamente motivata» il lavoro di Calvert, aggiungendo che il giornalista ha «stretti rapporti con gli Emirati Arabi Uniti», Paese confinante e storico antagonista del Qatar. Un accusa del tutto infondata, ha replicato il Sunday Times.

Un altro obiettivo dei pirati informatici guidati da Jain su mandato di Jonas Rey è Michel Platini. L’ex stella della Juventus, già presidente della Uefa (organismo di controllo del calcio europeo, affiliato alla Fifa), è stato uno dei membri del comitato esecutivo della Fifa che aveva votato a favore del Qatar nella corsa ai Mondiali. Da anni si vocifera che il suo sostegno sia stato ottenuto durante una cena avvenuta poco prima che la Fifa si riunisse per votare il Paese ospitante dei Mondiali del 2022 e che vedeva tra i commensali lo stesso Platini, l’allora presidente francese Nicolas Sarkozy e l’attuale emiro (allora principe) qatariota Tamim bin Hamad Al Thani.

Secondo l’inchiesta giornalistica, il gruppo di hacker avrebbe violato il cellulare del francese a partire dal 10 maggio 2019. Da lì a poche settimane Platini era atteso negli uffici della Gendarmeria per un interrogatorio che doveva fare luce su sospetti di corruzione nel voto a favore del Qatar. Il Sunday Times, tramite una fonte anonima interna ai finanzieri francesi, scrive che il Qatar era «ansioso» di scoprire cosa Platini si preparava a confidare agli inquirenti nell’interrogatorio che avrebbe avuto luogo il mese successivo.

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A novembre 2019, Jonas Rey lascia il suo posto alla Global Diligence per fondare la propria società di consulenza, la Athena Intelligence. Nel database a disposizione dei giornalisti inglesi si legge come Rey abbia chiesto a Jain di intercettare diversi altri obiettivi, oltre ai 16 colpiti fino a quel momento sotto sua richiesta. Tra questi, Ghanem Nuseibeh, consulente specializzato nella gestione del rischio e autore, nel 2017, di un report che metteva seriamente in dubbio la capacità del Qatar di finire in tempo i lavori in vista del torneo mondiale a causa anche di presunti episodi di corruzione nell’assegnazione degli appalti.

Ma sono molti altri ad essere finiti nella rete degli hacker di Aditya Jain: Nathalie Goulet, politica francese e voce critica verso il Qatar per presunti finanziamenti al terrorismo islamico; Nick Raudenski, ex investigatore per i comitati etici di Fifa e Uefa; Alan Suderman, giornalista dell’Associated Press che aveva scritto della campagna sottobanco del Qatar; Rokhaya Diallo, attivista, noto per aver pubblicamente denunciato lo sfruttamento lavorativo ai danni degli operai che hanno costruito le infrastrutture. Tra gli ultimi in ordine cronologico, Chris Mason, neo responsabile politico della BBC, considerato particolarmente aggiornato circa incontri riservati in seno al governo e al primo ministro britannici.

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Un altro cliente particolarmente attivo è un ex poliziotto della Metropolitan Police, Nick Del Rosso. Sarebbe stato lui a incaricare il gruppo di hacker indiani di sorvegliare in tutto 40 “bersagli”, tra cui Mark Fullbrook, ex capo del personale della ex prima ministra inglese Liz Truss durante il breve periodo a Downing Street. Philip Hammond, ex parlamentare e Cancelliere dello Scacchiere sotto la prima ministra Theresa May ed ex Segretario di Stato per gli affari esteri e del Commonwealth del governo di David Cameron, è certamente l’obiettivo politico di più alto profilo la cui sorveglianza – scrivono i colleghi inglesi – sarebbe stata commissionata da un uomo d’affari di un importante fondo di investimenti europeo. Hammond era stato parte del gruppo di governo incaricato di rispondere in maniera adeguata all’avvelenamento della ex spia sovietica naturalizzata britannica, Sergej Skripal, avvenuto nel 2018. Secondo il Sunday Times, l’hackeraggio ai danni di Hammond sarebbe avvenuto poche settimane dopo l’attacco a Skripal.

L’inchiesta apre uno squarcio su un’industria, quella del corporate intelligence, in forte ascesa negli ultimi anni. I colleghi inglesi hanno avuto modo di ascoltare diversi hacker indiani i quali, convinti di interloquire con un potenziale cliente, hanno rilasciato pesanti confessioni.

Tej Singh Rathore ha descritto nei dettagli il suo mestiere di pirata informatico, fatto di furti telematici e irruzioni in dispositivi digitali. Afferma di aver violato più di 500 account email, la maggior parte per conto di clienti inglesi. La maggior parte delle società di investigazione private assoldano hacker indiani, ha detto. Un sistema di “hacker in affitto” che regna impunito, a causa di leggi morbide in India sulla sicurezza informatica e della difficoltà di indagare committenze in arrivo dall’estero. Alla domanda se qualcuno fosse mai stato preso, un hacker ha risposto: «Mai, neanche uno».

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Qatar, il miraggio ecosostenibile di un Mondiale nel deserto

Comincia il 20 novembre la prima Coppa del mondo in un Paese del Golfo. La Fifa promette sia a impatto zero. Le trasformazioni del territorio e i calcoli reali delle emissioni dicono il contrario

Buona parte delle società di sicurezza informatica dipingono se stesse come portatrici di quella sicurezza digitale che poi loro stesse contribuiscono a infrangere. In gergo si chiamano “white hat”, hacker “buoni”. Formati da aziende di sicurezza informatica, sono in realtà istruiti a utilizzare le loro competenze in maniera illegale.

Una dei precursori del settore in India è la società Appin, aperta a Delhi dodici anni fa con l’intento di formare una nuova generazione di hacker “etici” ma oggi sospettata, invece, di aver cresciuto al suo interno hacker al servizio del miglior offerente. Aditya Jain, uno dei protagonisti negativi dell’inchiesta, ha lavorato per Appin. Secondo un altro ex dipendente, il Qatar è stato uno dei clienti della società, affermazione respinta dall’emirato. Appin ha cessato di esistere nel 2013 quando degli esperti di sicurezza informatica norvegesi hanno scoperto che l’azienda si era resa responsabile di una serie di attacchi informatici ai danni di una dozzina di Paesi.

Dalle sue ceneri sono emersi decine di giovani hacker in cerca di lavoro e nuove società dedite al “lato oscuro”, ben più remunerativo della sicurezza online. Tra queste, la più nota era la BellTroX. Il direttore, anche lui con un passato nella Appin, è stato inserito nella lista dei ricercati dal Dipartimento di giustizia americano per aver partecipato a operazioni di hackeraggio su larga scala dietro commissione di due investigatori privati a stelle e strisce.

Dai divorzi agli omicidi

Davanti a un caffè, seduti nella hall di un anonimo albergo nella periferia di Delhi, Tej Singh Rathore spiega ai suoi finti potenziali clienti come è diventato un hacker. Dopo gli studi in informatica all’università, vira verso l’ “ethical hacking” perché gli sembra «un settore in forte crescita». Dopo la laurea trova impiego in una società di cybersecurity. Un giorno il suo capo gli confessa che svolgere un lavoro “offensivo” è molto più remunerativo di un lavoro “difensivo”. Si mette in proprio, dunque, e su Linkedin comincia a fare sfoggio delle sue doti in cerca di clienti.

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L’esercito di hacker al soldo del Qatar

Assoldati attraverso investigatori privati, hanno colpito chi voleva scavare nella tangente pagata dall’emirato alla Fifa in cambio dei Mondiali. Un’inchiesta del Sunday Times e del TBIJ

Il primo a offrirgli un lavoro è un produttore di vino del New Jersey che voleva ottenere l’accesso al cellulare della moglie e capirne la sua condizione finanziaria, prima di avviare le pratiche di divorzio; il cliente successivo, l’amante di un commerciante di diamanti di Hong Kong alla ricerca di informazioni sensibili con cui estorcere denaro all’uomo. Da allora, le commesse sono lievitate per Rathore, il quale incassava tra i 3.000 e i 20.000 dollari per ciascun account violato. Aveva clienti dal Nord America, Hong Kong, Romania, Belgio, Svizzera. Quasi tutti, ha spiegato ai giornalisti inglesi, utilizzavano studi legali come tramite per arrivare a lui.

Rathore si è persino trovato invischiato in uno dei più noti casi di omicidio irrisolti in Canada. Nel dicembre 2017, il milionario canadese Barry Sherman è stato trovato morto insieme alla moglie nella sua villa di Toronto. Rathore riceve una chiamata da un investigatore privato che gli chiede di violare il cellulare di Sherman. Il lavoro non riesce, ma prosegue. Gli viene commissionata la sorveglianza di un uomo che in quel momento era considerato di interesse per gli inquirenti. Stesso obiettivo: infiltrare il suo cellulare. La polizia alla fine cambia pista ma il lavoro svolto ai danni dell’uomo aveva «impressionato molto» il suo cliente.

Le mille vie dell’hacking

Lo strumento dell’attacco informatico è utilizzato anche dai governi. Un altro hacker intercettato dai colleghi inglesi ha spiegato come, una volta uscito da un corso di “hacking etico”, lui e gli altri suoi 17 compagni di corso sono stati assunti da una «società di sicurezza nazionale» che lavorava per conto del governo indiano.

Utkarsh Bhargava lavora come pirata informatico da dieci anni. Anche lui, come tanti altri “colleghi”, è passato per la Appin, la quale fungeva da braccio di addestramento per la società di sicurezza nazionale. I clienti della Appin «erano in Qatar, a Dubai, in Bahrain, in Kuwait, in Arabia Saudita», Paesi per i quali gli hacker dell’azienda hanno sottratto «di tutto», ha confidato Bhargava. «Il nostro compito era quello di impossessarci di determinati dati e consegnarli alla società» che li avrebbe poi passati al governo indiano. I target erano prevalentemente ministeri di altri Paesi. Bhargava ha poi lasciato il suo posto da dipendente per mettere in piedi la sua personale società di intelligence, con clienti – dice – dalla Francia, Italia, Austria, Germania e Thailandia.

Esistono un’infinità di modi per colpire un obiettivo: indurre la vittima a consegnare le proprie password o a scaricare uno spyware sui loro dispositivi sono due dei più utilizzati. E per rendere l’attacco efficace, tutti gli hacker concordano su un punto: dedicare del tempo a conoscere la vittima, perlopiù attraverso i social media. Bhargava spiega come per una vittima nel Regno Unito con problemi di salute ha creato una copia esatta del sito web del servizio sanitario nazionale. Una volta che il malcapitato inseriva le proprie credenziali per il login, l’hacker si impossessava della password, che il più delle volte è la stessa di quella utilizzata per l’account di posta elettronica. Un altro hacker aveva notato che il suo obiettivo, una donna, frequentava spesso la palestra. Fingendosi il titolare, le ha inviato su Whatsapp una foto, aggiungendo che se l’avesse mostrata all’ingresso avrebbe ottenuto uno sconto mensile. La foto conteneva il file di installazione di uno spyware il quale, una volta scaricata l’immagine, ha consentito all’hacker totale accesso al cellulare della vittima.

Bhargava ha inoltre confidato ai giornalisti inglesi di aver fatto uso dello spyware Pegasus. Sviluppato dalla NSO Group, azienda israeliana specializzata nello sviluppo di software di sorveglianza, Pegasus è tra i software-spia più potenti del settore. Le sue funzionalità, in grado di acquisire qualsiasi tipo di informazione contenuta nei telefoni dei bersagli comprese le chat crittografate di Whatsapp, Signal e Telegram, sono particolarmente gradite a governi autoritari e regimi repressivi. Bhargava afferma di essere entrato in possesso del codice di Pegasus nel 2019 e di averlo utilizzato per crearne una copia così da utilizzarlo per i propri scopi.

«Ti consente di fare ciò che vuoi», ha spiegato Bhargava, «una volta installato hai il controllo totale» del dispositivo. Il software-spia consente di attivare microfono e telecamera all’insaputa della vittima e di monitorarne gli spostamenti in tempo reale, se il Gps è attivo. Ma c’è una controindicazione. Il dispositivo si scalda e la sua operatività rallenta nel periodo in cui i contenuti vengono scaricati. Per questo risulta fondamentale studiare le abitudini del bersaglio e capire quali sono le fasce orarie in cui il telefono non è utilizzato. «La copia dei dati viene fatta nelle ore piccole, quando la vittima dorme».

Jonas Rey ha ammesso ai cronisti inglesi di aver svolto operazioni di hackeraggio in passato ma di non averne compiute da diversi anni. Ha affermato, inoltre, di non conoscere alcune delle persone presenti nel database e ha negato di averne hackerate altre. Ha aggiunto di non aver mai commissionato la sorveglianza digitale e che i giornalisti inglesi sono stati indotti a screditarlo. La società londinese Diligence Global ha negato di aver commesso qualsivoglia illecito, aggiungendo che «la nostra società pone la massima attenzione affinché i nostri investigatori rispettino tutte le leggi e le regole vigenti».

CREDITI

Autori

Lorenzo Bodrero

Traduzione e adattamento

Lorenzo Bodrero

Editing

Lorenzo Bagnoli

Foto di copertina

Karim Jaafar/Getty

L’Italia e i Mondiali in Qatar: dagli stadi alle armi

18 Novembre 2022 | di Lorenzo Bodrero

Per la partita inaugurale della Coppa del mondo, il 20 novembre l’ospitante Qatar giocherà contro l’Ecuador allo stadio Al Bayt, nella città di Al-Khor, 50 chilometri a nord del centro di Doha. Tra i più iconici della manifestazione, lo stadio ha una struttura che riprende l’idea delle tende utilizzate dai beduini del deserto, le “bayt al sha’ar”, dalle quali prende il nome. L’impianto, scrive la società WeBuild in un comunicato del novembre 2018, si è aggiudicato la «classe A* del Global Sustainability Assessment System per l’eccellenza e l’attenzione ai temi di sostenibilità ambientale durante la sua fase di costruzione».

L’etichetta dell’ecosostenibilità di Al-Bayt e degli altri sette stadi in Qatar è stata impiegata dalla Fifa e dal Paese ospitante come argomento centrale per comunicare l’immagine di un Mondiale a impatto zero, «il primo green nella storia della competizione», ha più volte dichiarato Gianni Infantino, presidente della Fifa. La strada che ha portato al Mondiale in Qatar è stata però attraversata finora da accuse di tangenti, problemi in fase di realizzazione degli impianti e una campagna di boicottaggio e di protesta per la morte di migliaia di operai e le violazioni di diritti umani all’interno del Paese che ha già coinvolto persino i calciatori di alcune delle nazionali partecipanti, come Inghilterra, Danimarca, e Australia.

La serie di arbitrati a seguito della costruzione dello stadio

Lo stadio Al-Bayt è stato realizzato dall’italiana WeBuild, fino al maggio 2020 Salini Impregilo, che si è aggiudicata l’appalto da 770 milioni di euro insieme alla Cimolai Spa e all’azienda qatarina Galfar Misna. Le tre aziende formano insieme la joint venture GSIC JV. La realizzazione dell’opera ha avuto pesanti ritardi che si sono tradotti in due diversi ricorsi alla Corte arbitrale internazionale tra alcune delle aziende italiane protagoniste dell’impresa.

Il primo riguarda la joint venture GSIC e un’altra associazione tra imprese italiane, la L&P JV formata da Leonardo e PSC Spa, che nel 2016 si è aggiudicata la gara per l’installazione e il testing di alcune componenti dello stadio. Nella Relazione annuale del 2019 di Leonardo Spa si legge che «il regolare avanzamento della commessa è stato fortemente condizionato da una serie di ritardi non imputabili alla L&P nonché dalla introduzione di numerose integrazioni e modifiche al progetto iniziale, rivelatosi in fase esecutiva incompleto». Le varianti del progetto sono state alla fine 32. Ritardi ed extracosti sono il motivo per il quale Leonardo e PSC hanno aperto un contenzioso alla Corte arbitrale di Parigi nel 2019 per 258 milioni di euro contro GSIC. WeBuild e le altre imprese hanno ribattuto con una contro richiesta di 173 milioni di euro per ritardi e negligenze. La decisione sul caso è attesa entro il 30 aprile 2023.

Lo stadio Al Bayt, costruito da un consorzio di imprese guidato dall’italiana WeBuild, durante e al termine dei lavori – Foto: PlaceMarks

Per Leonardo, però, questo non è l’unico arbitrato scaturito a seguito del subappalto per la realizzazione dello stadio Al-Bayt. Un secondo caso si è aperto all’interno della joint venture L&P: Leonardo, infatti, nel 2018 è «subentrata nei diritti ed obblighi di PSC nei confronti della società appaltatrice GSIC», si legge nel bilancio consolidato 2020 (l’ultimo disponibile) di PSC Spa, a seguito di una scrittura privata. Leonardo, però, non avrebbe rispettato quanto è stato pattuito, sostiene PSC, con un prolungamento dei lavori a carico di PSC per altri 643 giorni. Il ritardo è costato a PSC l’inserimento nella black list dei fornitori di servizi di WeBuild. PSC ha quindi notificato presso il Tribunale di Roma un atto di citazione in cui chiede a Leonardo 361 milioni di euro come compensazione per ritardi, inadempienze e danni reputazionali. Durante l’assemblea dei soci di Leonardo del 2022 l’azienda ha invece spiegato che «la valutazione del rischio a esso associato ha portato la società a ritenerne non necessario il richiamo in nota integrativa». La Nota integrativa è un documento finanziario in cui, tra il resto, una società deve spiegare l’entità di crediti e debiti. Escludere l’arbitrato con PSC equivale quindi a dire che per Leonardo al momento non c’è un rischio concreto che si trasformi in una voce di passivo.

L’altra azienda italiana della partita, Cimolai Spa, si trova attualmente in pessime acque a causa della sua esposizione sul mercato dei derivati, esplosa a settembre 2022. Il risultato è una perdita secca di 200 milioni di euro che ha portato alla richiesta di concordato preventivo e ristrutturazione del debito depositata al Tribunale di Trieste. Tra i candidati ad acquisire il gruppo, la stampa locale cita anche WeBuild.

Morti sul lavoro in Qatar

Da quando nel 2010 il Qatar si è assicurato il diritto a ospitare la Coppa del mondo sono morti almeno 6.500 operai, secondo una stima del Guardian pubblicata nel 2021. Il quotidiano britannico aveva contattato le ambasciate in Qatar di India, Pakistan, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka e ottenuto il numero dei rispettivi connazionali morti nel piccolo Paese del Golfo dal 2010 in poi. Su una popolazione di 2,9 milioni di persone, quasi due milioni sono lavoratori stranieri i quali rappresentano il 90% della forza lavoro in Qatar. Il Guardian ha più volte raccolto testimonianze dirette secondo le quali un operaio veniva pagato tra i 45 e 60 centesimi di sterline all’ora, mentre la campagna #PayUpFifa per la creazione di una cassa con cui compensare almeno economicamente le famiglie degli operai deceduti non è ancora stata accolta dalla Fifa.

IrpiMedia ha chiesto a WeBuild se è a conoscenza di morti o infortuni occorsi agli operai durante la realizzazione dell’impianto, senza però ottenere risposta. No comment anche dal Gruppo Marcegaglia, la società della ex presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, fornitrice delle impalcature per gli stadi Al Bayt, Lusail e 974, tre dei più importanti realizzati per il Mondiale.

Uno dei campi destinati all’alloggio degli operai, non lontano dallo stadio Al Bayt – Foto: PlaceMarks

La stima del Guardian è molto probabilmente al ribasso poiché almeno un’altra dozzina sono i Paesi di provenienza dei migranti che arrivano nel Golfo alla ricerca di un impiego. Questa – con stime che vanno dagli otto miliardi di dollari ai 220 miliardi – sarà una delle edizioni Mondiali più costose nella storia. Il vero costo della Coppa del mondo è però umano, peraltro mai corrisposto agli operai che la rendono possibile. La nazione a pagare il prezzo più alto in termini di vite, scrive il New York Times, è il Nepal. Il quotidiano americano riporta che almeno 2.100 migranti nepalesi sono morti in Qatar dal 2010. Dal Paese in cui il reddito medio si basa per il 25% sulle rimesse in arrivo dall’estero, solo lo scorso anno sarebbero partiti 185.000 lavoratori verso il Qatar. Loro e altre decine di migliaia di lavoratori dall’Asia e dall’Africa hanno realizzato stadi, strade, parcheggi e linee metropolitane funzionali allo svolgimento della Coppa del mondo. Un’urbanizzazione selvaggia che, secondo un’analisi di IrpiMedia e PlaceMarks svolta attraverso una serie di rilievi satellitari, ha cementificato almeno otto milioni di metri quadrati di terra, l’equivalente di 1.140 campi di calcio.

Da circa cinque anni diverse organizzazioni umanitarie di tutto il mondo denunciano le condizioni inumane in cui sono costretti a vivere gli operai. Nel 2016, Amnesty International ha accusato il Paese di fare uso di «lavoro forzato». Simili conclusioni sono state raggiunte dall’Organizzazione internazionale del lavoro che ha documentato nel 2020 almeno 9.000 casi di lavoratori sottoposti a condizioni di lavoro forzato. Un report pubblicato da Human Rights Watch nel 2021 include numerose testimonianze di mensilità pagate in grave ritardo, riduzione degli stipendi ingiustificata, ore extra non retribuite e condizioni disumane all’interno degli “alloggi” assegnati ai lavoratori, tra cui sovraffollamento e scarsità di cibo e acqua.

La kafala, un sistema di schiavitù moderna

Le violazioni dei diritti dei lavoratori stranieri in Qatar sono legittimate dalla kafala, un’istituzione di diritto islamico utilizzata per monitorare i lavoratori stranieri impiegati soprattutto nel settore edilizio. Di fatto, quando applicato sui lavoratori migranti, può diventare un sistema di schiavitù moderna dove il datore di lavoro è “proprietario” del dipendente e ha il diritto di sequestrarne i documenti generando così gravi forme di sfruttamento. Lo Stato concede alle società dei permessi di “sponsorizzazione” per assumere manodopera straniera mentre il lavoratore è obbligato a legarsi a uno “sponsor” (kafeel, in arabo) sulla base di un contratto. Lo sponsor in linea teorica copre le spese di viaggio e di alloggio e assicura la regolare residenza del lavoratore all’interno del Paese. Di fatto, però, esercita su questi un potere quasi assoluto potendone limitare la libertà personale e impedire al lavoratore di trovare un altro impiego, nonché dettare le condizioni di lavoro in merito a orari, retribuzione, sicurezza e salute. Le condizioni lavorative sono migliorate, almeno su carta, dal 2019 quando a seguito di pressioni della comunità internazionale il Qatar ha limitato i poteri della kafala ma le riforme previste non sembrano trovare riscontro nei fatti: «Nonostante l’evoluzione positiva delle norme di legge sul lavoro – ha dichiarato Amnesty International – le violazioni dei diritti umani persistono in maniera significativa».

Le autorità di Doha hanno sempre minimizzato o respinto le accuse. Pochi giorni fa il Ministro del lavoro qatariota ha invitato i media a «non politicizzare l’evento», aggiungendo che è in corso «una campagna del fango» ai danni del Qatar. Secondo le loro stime, alla realizzazione degli stadi in cui si disputano i Mondiali hanno preso parte 30.000 lavoratori stranieri e tra il 2014 e il 2017 sono morti 37 operai, di cui soltanto tre sarebbero deceduti per cause riconducenti al lavoro svolto. I dati non convincono neanche l’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), l’agenzia Onu per i diritti dei lavoratori, che li ha definiti una sottostima. Intanto, the show must go on. Il presidente della Fifa pochi giorni fa ha inviato una lettera a tutte le 32 nazionali partecipanti, invitandole a non «trascinare» il torneo verso «battaglie ideologiche e politiche» e di «concentrarsi invece sul calcio».

La società francese accusata di abusi verso i lavoratori

La Vinci Constructions Grands Projets (VCGP), società di costruzioni francese, è accusata di abusi verso i lavoratori per «le condizioni lavorative e di accoglienza incompatibili con la dignità umana», ha scritto un Gip parigino. Tra le accuse mosse da sette ex dipendenti dell’azienda si legge che gli operai lavoravano fino a 77 ore alla settimana, che i loro passaporti erano stati sequestrati e di essere stati obbligati a vivere in strutture indecenti durante il servizio prestato in cantieri collegati alla Coppa del mondo in Qatar, in particolare quelli per la realizzazione di trasporti pubblici. L’accusa, secondo la giurisprudenza francese, non implica l’immediata istruzione di un processo e consente all’accusato di fare appello. La VCGP ha respinto le accuse.

Tangenti e mazzette: la strada verso Qatar

L’evento è la sintesi di «tutte le metastasi di un cancro ultraliberale», attacca Mediapart in un editoriale, la prima delle quali si è palesata pochi mesi dopo l’assegnazione del Mondiale, ufficializzata a dicembre 2010, quando il comitato qatariota fu accusato di aver corrotto funzionari della Fifa perché assegnassero l’evento al Paese del Golfo.

Per oltre un decennio l’assegnazione dei Mondiali al Qatar è stata circondata da un alone di corruzione e mazzette e nel corso degli anni i sospetti si sono fatti sempre più fondati. Era il 2011 quando Phaedra Al-Majid, ex dipendente dell’ufficio comunicazione del comitato qatariota per la corsa ai Mondiali, dichiara che il Paese aveva elargito mazzette per 1,5 milioni di dollari a tre membri della Fifa per assicurarsi il loro voto, salvo poi ritirare le accuse pochi mesi più tardi. Lo stesso anno l’allora ex presidente della Fifa, Jack Warner, rese pubblica una mail a lui indirizzata da Jerome Valcke, segretario generale della Fifa, in cui quest’ultimo affermava che il Qatar «aveva comprato i Mondiali». La whistleblower qatariota fa una seconda marcia indietro nel 2014 quando afferma di essere stata obbligata dal Qatar a ritrattare la sua iniziale dichiarazione dietro minacce legali.

Uno degli artefici della vittoria del Qatar è l’uomo d’affari Mohamed bin Hammam. Ex candidato alla presidenza Fifa, ha ricoperto i ruoli di più alto dirigente della Lega calcio qatariota e della Asian Football Confederation, la federazione asiatica membro della Fifa. È lui al centro di un’inchiesta del Sunday Times del 2014 in cui Hammam risultava responsabile della distribuzione di cinque milioni di dollari di mazzette a funzionari della Fifa perché favorissero la corsa del Qatar alla Coppa del mondo. Una fonte interna alla Fifa aveva consegnato milioni di documenti al giornale britannico, attraverso i quali è stato possibile ricostruire una serie di bonifici in uscita dai conti bancari riconducibili alla Kemco, società di costruzioni qatariota di proprietà di Hammam, verso personaggi chiave all’interno dell’organismo che regola il calcio mondiale.

L’ex numero uno del calcio qatariota era già stato sospeso a vita dalla Fifa per un presunto giro di tangenti indirizzate a condizionare l’elezione del presidente Fifa. Annullata la sospensione da parte del Tribunale arbitrale dello sport (TAS), il Comitato etico della Fifa ha comminato una seconda e definitiva sospensione a vita nel 2012 per conflitto di interessi durante il suo mandato di presidente della Asian Football Confederation

Come decide la Fifa
Il sistema di voto della Fifa per l’assegnazione della Coppa del mondo, allora come oggi, è in mano al Comitato esecutivo dell’organismo, composto da 24 membri, e si svolge a porte chiuse. Al primo round di votazione partecipano tutti i Paesi candidati e quello con meno voti viene escluso dal round successivo, e così via fino al vincitore.

Nel 2015 è poi deflagrato il Fifagate. L’inchiesta, condotta dall’FBI e dalla IRS (il fisco americano) e allargatasi poi ad altri Paesi, è partita da gravi episodi di corruzione tra funzionari della Fifa appartenenti alle federazioni nord e sud americane e società di marketing per la compravendita di diritti alla trasmissione televisiva di competizioni continentali. Dei 24 membri che hanno votato per l’assegnazione della Coppa del mondo in Qatar, solo otto ne sono usciti indenni, tra incarcerazioni, accuse e provvedimenti disciplinari.

Le accuse di corruzione, invece, sempre respinte dal governo qatariota, non hanno mai raggiunto un’aula di tribunale. Nel 2019 è però di nuovo il Sunday Times a portare il Paese del Golfo al centro dell’attenzione. Il settimanale ha rivelato che attraverso Al Jazeera, emittente televisiva statale controllata dall’emiro, il Qatar aveva offerto un contratto del valore di 880 milioni di dollari in due rate alla Fifa per la cessione dei diritti televisivi della competizione. L’accordo, stipulato tre settimane prima del voto, includeva un bonus da 100 milioni da corrispondere alla Fifa solo se il Paese avesse ottenuto il diritto a ospitare il torneo iridato. Allo scoop non ha fatto seguito alcun procedimento giudiziario.

Per vedere la vicenda citata all’interno di documenti di tribunale bisogna aspettare il 2020. In uno dei filoni del Fifagate, la procura del distretto Est di New York nominava Ricardo Teixeira, Nicolas Leoz, Rafael Salguero – tutti membri del Comitato esecutivo della Fifa al tempo dei fatti contestati – quali destinatari di mazzette «in relazione ai loro voti» per l’assegnazione dell’evento al Qatar, confermando in parte le inchieste del Sunday Times. È la prima volta che episodi di corruzione intorno alla votazione che ha portato la Coppa del mondo nel piccolo emirato vengono citati in documenti ufficiali dalla rilevanza penale.

Uno stralcio dell’indagine americana in cui si associa l’elezione del Qatar quale Paese ospitante dei Mondiali a episodi di corruzione

Le violazioni dei diritti umani in Qatar

Gran parte della diffusione a livello mondiale che chiede il boicottaggio del Mondiale in Qatar è dovuta alle violazioni dei diritti umani che caratterizzano il Paese ospitante. Lunga è la lista delle caselle vuote alla voce “diritti civili” in Qatar. È vietato «indurre o sedurre un uomo in qualsivoglia maniera per commettere sodomia o sregolatezza» e «indurre o sedurre uomo o donna in modo da commettere azioni illegali o immorali», recita il Codice penale. Comportamenti di tipo omosessuale sono un reato in Qatar e possono costare fino a sette anni di carcere. Le donne, in particolare, sono soggette a un rigido sistema discriminatorio. La loro custodia legale è detenuta da un uomo, generalmente il marito oppure il padre fino a un fratello, il quale ha potere decisionale sulla vita di una donna, come chi sposare, se studiare all’estero o lavorare nel settore pubblico, se viaggiare (entro un limite di età) o ricevere assistenza sanitaria. Naturalmente, il divorzio è fortemente disincentivato e una donna divorziata perde la custodia legale dei propri figli.

Non esistono leggi che riconoscono né tantomeno puniscono la violenza domestica, considerata una faccenda famigliare privata. La violenza sessuale è reato ma cessa di esserlo se a compierla è lo sposo. Il sesso al di fuori di un rapporto di coppia è punibile fino a sette anni di carcere e con la fustigazione, per una coppia non sposata, e persino con la morte, per i coniugi. Mentre in carcere può finirci per 12 mesi una donna che partorisce al di fuori del matrimonio.

Tra i sostenitori del movimento per il boicottaggio di Qatar 2022 si percepisce una certa trepidazione sulla possibilità di mettere in atto gesti di protesta durante le gare. Episodi di questo tipo si fanno sempre più frequenti sul palcoscenico sportivo internazionale, soprattutto all’interno del movimento ambientalista. Just Stop Oil ha interrotto diversi match della Premier League inglese pochi mesi fa mentre un attivista di Derniere Renovation si è legata alla rete di un campo da tennis durante l’ultimo Roland Garros. Eventuali proteste volte a sensibilizzare sulla violazione dei diritti civili in Qatar potrebbero costare fino a cinque anni di carcere qualora «creino agitazione nell’opinione pubblica», come riportato nel Codice penale qatariota.

Un attivista mentre interrompe il match di Champions League tra FC Copenaghen e Borussia Dortmund a novembre 2022 per protesta contro la Coppa del mondo in Qatar – Foto: Marvin Ibo Guengoer/Getty

Controlli al limite dello spionaggio

Una categoria che più di altre sarà tenuta sotto controllo è quella dei giornalisti. Per accreditarsi, e ottenere dunque il permesso per documentare la competizione, i giornalisti devono compilare un modulo accettando il quale acconsentono a rispettare una serie di condizioni «vaghe, ambigue e propense a un’interpretazione arbitraria», scrive Reporter senza frontiere (Rsf), organizzazione per la tutela della libertà dei giornalisti. L’obiettivo del Qatar, ha aggiunto il presidente di Rsf, «è di scoraggiare se non impedire ai media stranieri di parlare e scrivere di nient’altro che di calcio». Nel modulo si precisa che è fatto divieto di filmare o fotografare «proprietà residenziali, proprietà private e zone industriali». Quest’ultima, aggiunge Rsf, «è un chiaro riferimento a quelle zone in cui di recente dei giornalisti hanno rivelato violazioni dei diritti dei lavoratori stranieri».

Gli stessi tifosi non saranno immuni dal Grande fratello qatariota. Lo scorso 15 novembre il Garante tedesco per la protezione dei dati personali e della libertà informatica ha emanato una nota in cui suggerisce a coloro che scaricheranno due applicazioni – obbligatorie per l’ingresso in Qatar – di prestare la massima attenzione ai propri dati e di «rimuovere completamente il sistema operativo e tutti i contenuti, dopo il loro utilizzo». Il riferimento è alle applicazioni Ehteraz e Hayya. La prima è utilizzata per il tracciamento dei casi di Covid-19, la seconda dovrebbe invece fornire dati sui match e sulle linee metropolitane. Ma per il garante tedesco, le applicazioni «vanno ben oltre quanto dichiarato nelle rispettive licenze sulla privacy» e ha aggiunto che è preferibile usare un burner phone per lo scopo.

Lo stesso consiglio arriva dall’emittente norvegese NRK. Uno degli esperti di sicurezza informatica del canale pubblico scandinavo, dopo una approfondita analisi delle applicazioni, sostiene che «Ehteraz e Hayya in sostanza consentono di modificare i contenuti di tutto il telefono e di controllare ogni tipo di informazione memorizzata al suo interno». Impedire l’entrata in sleep mode, tracciamento del Gps, memorizzazione delle reti Bluetooth e Wi-fi utilizzate, estrapolazione di dati depositati su altre applicazioni, leggere, cancellare e modificare contenuti, tracciare i cellulari vicini, sono solo alcune delle potenzialità degli applicativi.

Quel filo che unisce Italia e Qatar: armi ed energia

Il Qatar ha acquistato rilevanza internazionale a partire dagli anni Quaranta, quando sono stati scoperti gli immensi giacimenti di gas e petrolio. La famiglia Al Thani, che guida il Paese da oltre un secolo, trainandolo oltre il protettorato della Corona inglese fino all’indipendenza nel 1971, è stata la responsabile delle principali violazioni dei diritti umani nel Paese. Con un’operazione di sport washing, la famiglia a capo degli Emirati spera di conquistarsi un po’ di pubblicità positiva. Il Mondiale di calcio rappresenta un’occasione per consolidare alleanze internazionali e stringerne di nuove, oltre che uno «strumento di soft power per la sicurezza nazionale», ha dichiarato al Deutsche Welle Kieran Maguire, professore di finanza dello sport all’Università di Liverpool.

Il Qatar ha infatti incentrato la propria politica estera sulla diversificazione. Si spiegano così i 450 miliardi di dollari investiti dalla Qatar Investments Authority (Qia), il fondo sovrano in mano all’emiro, dal 2005 a oggi. Solo nel Regno Unito, ad esempio, il piccolo emirato ha investito circa 40 miliardi di euro acquisendo Harrods, il 20% dell’aeroporto di Heathrow, quasi un quarto delle quote della catena di supermercati Sainsbury, il villaggio olimpico di Londra, senza contare che la Qatar Airways detiene il 20% della società proprietaria della British Airways, e molto altro. Anche la Germania non è rimasta immune ai petroldollari, con investimenti del Qatar in Volkswagen, Deutsche Bank e Siemens ma non solo, per un totale di circa 20 miliardi di euro. Quanto allo sport, è noto l’acquisto del Paris Saint-Germain avvenuto nel 2011 da parte del fondo qatariota che ha portato il club francese nell’Olimpo del calcio europeo. La stessa Qatar Airways è sponsor di diversi club europei. Particolarmente strategica è la creazione di beIN Media Group, società intermediaria per la cessione dei diritti televisivi delle competizioni europee nel mondo arabo e oggi emittente televisiva ufficiale della Coppa del mondo.

Il Paese deve comunque la sua ricchezza alle risorse naturali. È infatti il sesto Paese al mondo per produzione di gas naturale, il quale provvede al 60% del prodotto interno lordo. Del prezioso combustibile fossile il Qatar mira a diventarne il leader mondiale a discapito della Russia e un contributo fondamentale arriverà dall’Italia. L’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, e il Ministro dell’energia nonché Ad del colosso energetico QatarEnergy, Saad al-Kaabi, hanno firmato lo scorso giugno un accordo per la creazione di una joint venture per lo sfruttamento di quella che è considerata una “bomba climatica”. Si chiama North Field East, un giacimento offshore a nord-est dell’emirato che si stima possa contenere il 10% delle riserve di gas naturale liquefatto (Gnl) al mondo. Una volta operativo, il giacimento potrebbe aumentare del 60% la capacità produttiva di Gnl del Qatar oltre a scaldare buona parte delle case italiane a partire dal 2026.

Cos’è una “bomba climatica”

Con “bomba climatica” (in inglese carbon bomb) si intende un progetto per l’estrazione di combustibili fossili che si stima contribuisca sensibilmente ad allontanare l’obiettivo di stabilizzare le concentrazioni di gas serra per mantenere il riscaldamento globale al di sotto della soglia di 1,5° C rispetto ai livelli preindustriali. Il termine non si riferisce ai rischi connessi alla struttura del progetto in sé quanto invece al contributo in termini di emissioni che il singolo progetto prevede.

Il Guardian ha tracciato 195 bombe climatiche al mondo, il 60% delle quali è già operativo e il resto in corso di realizzazione. Durante il loro arco di vita, questi progetti emetteranno non meno di un miliardo di tonnellate di emissioni di anidride carbonica ciascuno, l’equivalente di 18 anni di CO2 emessa nell’ambiente a livello globale. Il North East Field è tra questi. È considerato il giacimento di gas naturale liquefatto più grande al mondo. L’accordo prevede che l’Eni controlli il 25% della joint venture, il restante 75% sarà in mano alla QatarEnergy per un affare che nel complesso vale 30 miliardi di dollari.

Negli Stati Uniti si concentra la quantità maggiore di CO2 emessa da bombe climatiche (140.000.000.000 di tonnellate), seguiti da Arabia Saudita (107 Gt), Russia (83 Gt) e Qatar (43 Gt). Complessivamente, i 195 progetti tracciati produrranno 646.000.000.000 di tonnellate di anidride carbonica.

Accanto alla questione energetica, ci sono le forniture di armi, per le quali anche l’italiana Leonardo è un partner rilevante. Come riporta FriuliSera, solo nel 2022 il gruppo ha fornito all’aeronautica militare del Qatar sei caccia addestratori nell’ambito di un accordo che prevede anche la formazione di piloti qatarioti presso le basi aeree di Galatina (Lecce), Decimomannu (Cagliari) e Salto di Quirra (Nuoro). L’ex Finmeccanica ha inoltre consegnato quest’anno due elicotteri multiruolo e due pattugliatori offshore. E sempre a Leonardo la Marina militare del Qatar ha commissionato la fornitura di un Centro operativo navale per il monitoraggio delle proprie acque territoriali.

Da ultimo, l’Italia fornirà al Qatar supporto in una missione congiunta che si occuperà di garantire la sicureza dell’evento. Un contingente militare italiano farà infatti parte della Combined Joint Task Force Qatar, che si avvarrà di circa cinquemila militari da USA, Regno Unito, Francia, Turchia, Repubblica Ceca, Romania e Slovacchia, oltre che dall’Italia. Il nostro Paese parteciperà con 560 unità di personale militare, 46 mezzi terrestri, un mezzo navale e due mezzi aerei, per un costo totale di quasi 11 milioni di euro, per contribuire «al sistema di difesa e sicurezza dei Mondiali di calcio». In Qatar sono vietate manifestazioni di dissenso politico, resta dunque da vedere se e come il contingente italiano reagirà in caso di proteste o episodi giudicati offensivi dall’emirato. La missione militare, approvata a fine luglio dalle Commissioni esteri e difesa della Camera, è uno degli ultimi lasciti del governo Draghi il quale prima di lasciare Palazzo Chigi ha indirizzato non pochi sforzi alla diversificazione energetica. Per renderla possibile, il piccolo emirato è diventato un partner irrinunciabile, specie a seguito della crisi energetica esacerbata dall’invasione russa dell’Ucraina. Al di là della Coppa del Mondo, è già da lungo tempo che gli Emirati partecipano ai principali tavoli della politica e dell’economia internazionale.

Foto: L’emiro del Qatar, Tamim bin Hamad al-Thani, con Gianni Infantino, presidente della Fifa, al Doha Exhibition Center lo scorso aprile – Markus Gilliar/Getty
Ha collaborato: Federico Monica/PlaceMarks
Editing: Lorenzo Bagnoli

Qatar, il miraggio ecosostenibile di un Mondiale nel deserto

#FuoriGioco

Qatar, il miraggio ecosostenibile di un Mondiale nel deserto

Lorenzo Bodrero
Michele Luppi

Èil primo in Medio oriente. Il primo, nella secolare storia della Coppa del mondo, a disputarsi nel deserto e non in estate. Ma c’è un altro primato che rende il Mondiale in Qatar speciale, a detta della Fifa, le Nazioni Unite del calcio, e del Paese ospitante: sarà il primo «a impatto zero». Con questa espressione gli organizzatori sostengono che le emissioni inquinanti di gas serra – ovvero principalmente biossido di carbonio (CO2), metano e protossido di azoto – prodotte durante la fase di costruzione degli impianti, di svolgimento del torneo e di smaltimento di alcune strutture a fine manifestazione saranno compensate finanziando progetti eco-sostenibili in giro per il mondo.

L’inchiesta di IrpiMedia e PlaceMarks, svolta attraverso una serie di rilievi satellitari, mostra l’impatto che il maxi-evento ha già avuto sul territorio: negli ultimi dieci anni sono stati asfaltati e cementificati almeno otto milioni di metri quadrati – l’equivalente di 1.140 campi di calcio – per realizzare stadi, strade, parcheggi e linee metropolitane funzionali allo svolgimento del torneo. Nemmeno la previsione sulle emissioni inquinanti torna: secondo il centro di ricerca Carbon Market Watch «affermare che un evento del genere sia a impatto zero non è credibile» a causa delle stime «fuorvianti» di Fifa e Qatar circa la quantità di anidride carbonica emessa e del modo in cui gli organizzatori prevedono di compensarla.

PlaceMarks è un progetto di ricerca specializzato nell’analisi e nell’elaborazione di immagini aeree e satellitari per indagare temi e dinamiche ambientali, sociali e umanitarie.

Trentadue squadre in gara, otto stadi distribuiti su cinque città, 64 incontri da disputarsi in 28 giorni: sono i numeri di un torneo che gli organizzatori stimano accoglierà 1,2 milioni di spettatori. Un numero importante considerata l’area geografica ma che, se confermato, rappresenterebbe il record negativo della competizione degli ultimi 60 anni, su cui ha influito il boicottaggio a livello globale in corso da mesi per le sistematiche violazioni dei diritti umani all’interno del Paese nonché per le morti sospette e le condizioni di vita degli operai stranieri che hanno costruito le infrastrutture.

Gli stadi del mondiale in Qatar, dall’alto a sinistra: Al Bayt, 60.000 posti; Lusail, 86.000; Ahmad bin Ali, 44.000; Al Janoub, 45.000; Thumama, 40.000; Education city, 45.000; Khalifa, 40.000 e 974 stadium, 45.000

La promessa del primo Mondiale green si ripete a intervalli regolari dal dicembre 2010 quando il Qatar, a sorpresa di molti, si è aggiudicato il diritto di organizzare l’evento sportivo più seguito al mondo. Un articolo pubblicato sul sito ufficiale dei Mondiali nel settembre 2021 (in una pagina ora non più disponibile ma reperibile qui) delineava tre macro strategie per raggiungere l’obiettivo: primo, il basso impatto ambientale generato dalla costruzione degli stadi utilizzando tecniche all’avanguardia per la protezione dell’ambiente; secondo, compensare l’anidride carbonica emessa con progetti energetici sostenibili finanziati da Fifa e Qatar; infine, la natura “compatta” del torneo, con tifosi e squadre che avrebbero evitato lunghi trasferimenti aerei interni a causa della prossimità degli stadi, tutti raggiungibili nel raggio di 18 chilometri (ad eccezione di uno distante circa 35 chilometri), riducendo così i consumi.

Stadi e consumo di suolo

Le partite del Mondiale in Qatar si disputeranno in otto stadi, uno solo dei quali era pre esistente. Gli altri sette sono quindi stati costruiti da zero, di cui uno – il 974 – è il primo impianto smontabile della storia, realizzato completamente con moduli prefabbricati che potranno essere spostati e montati altrove.

Nel rapporto della Fifa sulle emissioni di gas serra previste, Fifa e Qatar hanno quantificato un totale di 3,6 milioni di tonnellate di gas serra rilasciate nell’atmosfera dalla prima fase di realizzazione fino al disallestimento dell’intera competizione. Di queste emissioni, 893 mila sarebbero generate per la costruzione degli stadi permanenti, di quello decomponibile e della rimozione di parte delle gradinate di quasi tutte le strutture a torneo concluso. Nel complesso, dunque, questa voce impatterebbe per il 25% sul totale delle emissioni.

Lo stadio 974 durante la costruzione. L’impianto è stato progettato per essere smantellato alla fine del torneo ed è realizzato utilizzando containers da nave come elementi principali

La spiegazione sta nell’approccio utilizzato dalla Fifa per il calcolo della produzione di CO2. Immaginando che la durata degli impianti sia di circa 60 anni gli organizzatori hanno spalmato le emissioni prodotte durante la fase costruttiva sull’intero periodo attribuendo successivamente alla Coppa del mondo solo l’equivalente di un mese di emissioni; praticamente quasi nulla.

Una scelta metodologica che Gilles Dufresne, capo ricercatore di Carbon Market Watch, associazione non profit che si occupa di mercato dell’energia, definisce «illogica». Lo stadio 974 e le gradinate di alcuni stadi verranno, sostengono gli organizzatori, smontate a fine torneo per essere assemblate altrove. È plausibile che questa caratteristica abbia influito sul calcolo, molto al ribasso, sulla stima delle emissioni attribuite agli stadi ma i documenti ufficiali non offrono spiegazioni a riguardo.

In diversi documenti si sostiene che il nuovo stadio Ahmad bin Ali sia stato realizzato ristrutturandone uno precedente. Le immagini satellitari dimostrano invece che il vecchio impianto è stato completamente demolito e che il consumo di suolo è stato considerevole

La quantità di CO2 emessa per la costruzione dei soli stadi permanenti è almeno otto volte superiore rispetto a quanto previsto da Fifa e Qatar, secondo Carbon Market Watch: in tutto, 1,6 milioni di tonnellate, portando la stima di impatto ambientale dell’intero torneo a circa 5,4 milioni di tonnellate gas serra: l’equivalente di quanto emettono annualmente nell’atmosfera Paesi come Cipro, Panama o la Liberia. «E quasi sicuramente sono stime al ribasso», aggiunge Dufresne.

La cementificazione seguita alla costruzione di mastodontiche infrastrutture si è resa ancora più evidente da parcheggi immensi adiacenti agli stadi, insieme a centrali elettriche che renderanno possibile il condizionamento dell’aria, sia per gli spettatori sia per i giocatori.

L’analisi di IrpiMedia e PlaceMarks rivela che per i nuovi stadi e gli edifici o piazze di pertinenza sono stati cementificati circa 1,4 milioni di metri quadrati. Il più impattante da questo punto di vista è lo stadio di Al Bayt che occupa una superficie di 440 mila metri quadrati ed è circondato da ben 1,2 milioni di metri quadrati di nuove aree dedicate ai parcheggi.

Lo stadio di Al Bayt, l’unico esterno all’area metropolitana di Doha, è quello che ha generato maggior consumo di suolo. Per realizzarlo è stata cementificata una superficie pari a 235 campi da calcio
Uno dei nuovi parcheggi che circondano lo stadio di Lusail; la superficie asfaltata è di oltre 200.000 metri quadrati, l’equivalente di 30 campi da calcio e può ospitare circa 6.500 veicoli

Tutto ciò senza contare la già considerevole impronta ecologica pre-Mondiale: il Qatar è infatti il Paese al mondo con la più alta emissione di anidride carbonica pro-capite (vedi grafico) e registra tra i più alti consumi di acqua per abitante, mentre il 99% dell’elettricità utilizzata è generata da combustibili fossili.

Emissioni fuori controllo

Confronto di emissioni pro capite, in tonnellate di CO2, tra Qatar, Italia e media mondiale

La questione delle strutture decomponibili coinvolge anche i fan village, strutture realizzate per accogliere una parte degli spettatori in arrivo (uno dei quali, vicino all’aeroporto, con una capacità massima di 12 mila posti). La dimensione e le strutture ricettive del piccolo Paese del Golfo non consentono di accomodare 1,2 milioni di persone senza predisporre impianti alternativi. Sette fan village sono quindi dislocati sull’intero territorio, fatti di campi tendati (dai 400 ai 200 dollari a notte a seconda delle caratteristiche), villaggi di container e case mobili. Per risolvere la questione ospitalità è stata anche stretta una partnership con MSC Crociere la quale metterà a disposizione le motonavi “Poesia” e “World Europa” per un totale di 3.898 cabine disponibili.

Diversi fan village, villaggi temporanei per garantire l’ospitalità ai tifosi, sono composti da decine di file di containers distanziati fra loro da passaggi larghi 4 metri. Nelle immagini, il village di Rawdat (in basso) e il Cabin free zone (in alto, il più esteso, con 40 ettari di superficie)

Il gran bazar dei crediti di carbonio

Per raggiungere l’impatto zero, gli organizzatori dichiarano di voler compensare le 3,6 milioni di tonnellate di emissioni di gas serra con altrettanti crediti di carbonio. Questo meccanismo finanziario funziona affidandosi ad appositi enti certificatori che registrano lo sviluppo di progetti eco-sostenibili nel mondo attraverso cui si prevede di “inquinare meno”.

Per tentare di dimostrare un impatto ambientale zero serve prima di tutto una stima quanto più dettagliata e precisa possibile delle emissioni inquinanti. «Nessuna dichiarazione di impatto zero è credibile senza che si faccia il massimo per ridurre tutte quelle emissioni che possono essere ridotte», spiega Dufresne. Infine, di fondamentale importanza è finanziare progetti ecosostenibili attraverso l’emissione di crediti di carbonio nonché dimostrare che questi progetti non sarebbero stati realizzati altrimenti. Gran parte della tesi di Fifa e Qatar per un Mondiale green ruota attorno all’acquisto di milioni di crediti.

Enti certificatori e “addizionalità”: cosa sono i crediti di carbonio

Inclusi per la prima volta all’interno del Protocollo di Kyoto nel 1997 e successivamente rilanciati dagli Accordi di Parigi del 2015, i crediti di carbonio sono prodotti finanziari attraverso cui le aziende investono nella produzione di energia pulita per compensare il loro impatto ambientale. Con il loro acquisto le aziende possono comprare la carbon neutrality, l’impatto zero. Il meccanismo, già analizzato da IrpiMedia, appare teoricamente semplice: un’azienda inquinante, una volta calcolata la quantità di CO2 o altri gas serra che emette nell’atmosfera, può decidere di compensarla in modo parziale o totale, acquistando sul mercato dei crediti di carbonio.

I principali enti certificatori del mercato volontario dei crediti di carbonio, che verificano l’impatto dei progetti eco-sostenibili e gestiscono gli acquisti di carbon credit, sono quattro: Verified Carbon Standards – Verra (VCS), Gold Standard (GS), American Carbon Registry (ACR) e Climate Action Reserve (CAR).

Il concetto di “addizionalità” è il requisito più critico per progetti di questo tipo: per poter generare un credito, la riduzione di emissioni deve essere infatti “aggiuntiva”. L’esistenza del progetto deve cioè produrre un effetto positivo in termini di emissioni, tale da meritarsi dei crediti attraverso cui renderlo sostenibile anche sul piano economico. Infatti, solo se le riduzioni sono effettivamente addizionali non si ha un aumento delle emissioni complessive. L’obiettivo da perseguire è sostanzialmente quello della maggiore efficienza energetica e da fonti rinnovabili.

Per “rastrellarne” il numero necessario, gli organizzatori hanno stretto un accordo con il centro di ricerca qatarino Gulf Organisation for Research and Development (Gord) e creato uno standard ad hoc per il mercato dei crediti: il Global Carbon Council (Gcc), il primo ente certificatore nel mercato del Golfo. Al momento della pubblicazione di questo articolo, sul sito web della Gcc risultano 587 progetti in attesa dei quali solo cinque sono stati già “approvati”, per un totale provvisorio di 540 mila crediti, ben lontani dai 3,6 milioni necessari. Ma non è una mera questione di quantità.

«La maggior parte dei progetti in lista di attesa non soddisfa il criterio di “addizionalità”- spiega Dufresne – sono cioè già avviati a prescindere dal fatto che siano in grado di emettere crediti di carbonio».

La stragrande maggioranza di progetti simili non è più accolta da due dei più noti standard per il mercato dei crediti – Verra e Gold Standard – poiché sono giudicati irrilevanti nel compensare le emissioni di gas serra. Fifa e Qatar hanno aggirato il problema creando un proprio sistema di crediti, «il che va contro ogni logica dell’avere una parte terza a garanzia della qualità dei crediti stessi», aggiunge Dufresne. La Fifa ha annunciato che attraverso la Gcc emetterà 1,8 milioni di crediti, dell’altra metà non vi è però nemmeno traccia.

Cosa sono le strategie di mitigazione

Con il concetto di mitigazione dei cambiamenti climatici si indicano tutte quelle attività volte a limitare la presenza di gas serra nell’atmosfera attraverso una diminuzione delle emissioni (ad esempio attraverso il potenziamento di fonti di energia rinnovabile o la riduzione dei consumi) o il potenziamento delle fonti di assorbimento come oceani, foreste e suoli. L’obiettivo è stabilizzare le concentrazioni di gas serra per mantenere il riscaldamento globale al di sotto della soglia di 1,5° C rispetto ai livelli preindustriali.

L’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite) ha evidenziato la necessità di ridurre, entro il 2030, le emissioni di gas serra del 45% rispetto ai livelli del 2010, per arrivare all’obiettivo di zero emissioni entro il 2050. Accanto alle misure di mitigazione sarà però necessario lavorare anche su quelle di adattamento ovvero su tutte quelle azioni necessarie a prevenire e contenere le conseguenze provocate dai cambiamenti climatici.

La centrale di raffreddamento dell’aria, in alto a destra, che dovrà garantire il condizionamento dello stadio di Lusail avrà una potenza paragonabile a quella di oltre diecimila condizionatori domestici

La centrale di condizionamento, in alto a sinistra, dello stadio Education city e degli spazi commerciali che lo circondano occupa una superficie analoga a quella di un campo da calcio regolamentare

Oltre alla costruzione degli impianti sportivi il mondiale è stato l’occasione per realizzare imponenti infrastrutture stradali: svincoli e parcheggi occupano interamente le aree intorno allo stadio di Thumama

Stadi vicini, tifosi lontani

Ulteriore punto di forza a favore di una competizione a impatto zero, a detta degli organizzatori, è la natura compatta dell’evento. La distribuzione degli stadi in soli 18 chilometri di raggio dovrebbe favorire un minore utilizzo del mezzo aereo a beneficio di un minore impatto dei trasporti sull’ambiente. «L’idea di un torneo “compatto” è in linea teorica interessante dal punto di vista delle emissioni – spiega Gilles Dufresne – ma il rischio è che si ritorca contro dal punto di vista logistico e delle strutture ricettive».

Degli spettatori attesi, la Fifa stima che 750 mila arriveranno via aerea. Secondo gli organizzatori, con il 52% del totale la voce “viaggi” sarà quella più rilevante in fatto di emissioni. «In questo contesto, comunicare che il torneo sarà a impatto zero significa ingannare il pubblico e generare in loro l’impressione che viaggiare in aereo non avrà effetti sul clima, il che è falso».

La collocazione degli otto stadi nella città di Doha messa a confronto con le aree metropolitane di Milano e Roma

Compensare il settore aviazione è particolarmente complicato. Il sistema attivo al momento nella maggior parte delle compagnie aeree prevede l’acquisto facoltativo di crediti di carbonio da parte dell’utente nel momento dell’acquisto del biglietto.

«In teoria potrebbe anche funzionare ma in realtà la compensazione di questi crediti è di bassa qualità, inoltre è poco praticabile», spiega Dufresne. «Il rischio di un sistema simile è che rompe l’incentivo a volare meno, che di fatto è l’unico vero modo per diminuire significativamente l’impatto ambientale dell’industria aerea».

L’areoporto di Doha, inaugurato nel 2013 su una penisola artificiale, è stato ampliato in maniera considerevole per poter gestire l’enorme afflusso di passeggeri attesi in occasione del Mondiale

Il vivaio dei miracoli

IrpiMedia e PlaceMarks hanno individuato l’immenso vivaio a pochi chilometri a nord di Doha che secondo Fifa e Qatar «contribuirà ad assorbire migliaia di tonnellate di anidride carbonica all’anno». Dai nostri calcoli, copre un’area di circa 74 ettari (740 mila metri quadrati, l’equivalente di 124 campi di calcio) e sorge a ridosso di un impianto di depurazione che, secondo gli organizzatori, servirà anche per irrigare erba e piante lì coltivate. Il manto erboso sarà utilizzato per rizollare i terreni di gioco e di allenamento, mentre le piante andranno a decorare le aree adiacenti agli stadi. Fifa e Qatar sostengono che la struttura sia parte integrante nella mitigazione dell’impatto ambientale del torneo.

Il Tree and Turf nursery: l’area realizzata a partire dal 2017 a nord ovest di Doha per produrre l’erba necessaria a ricoprire i campi del torneo.

I ricercatori di Carbon Market Watch non sono dello stesso avviso. Nel loro report dello scorso maggio, scrivono: «L’anidride carbonica deve essere immagazzinata per almeno 200-300 anni prima di poter dichiarare che la sua rimozione dall’atmosfera contribuisca alla mitigazione ambientale. È evidente che nel caso del vivaio le piante e l’erba che ne fanno parte, non vivranno tanto a lungo, considerato l’uso che ne sarà fatto e l’acqua necessaria per il loro mantenimento».

Acqua dolce a caro prezzo

L’organizzazione del mondiale impatterà anche sul già fragile equilibrio idrico del Paese. L’acqua è un problema cronico per l’intera regione al quale si sopperisce attraverso la rimozione della componente salina dall’acqua di mare. Secondo una ricerca dell’Università del Qatar, il 99% dell’acqua dolce utilizzata nel Golfo Persico è “prodotta” da centrali di dissalazione. Il processo è uno tra i più inquinanti per i mari, dove vengono riversati salamoia, metalli pesanti e cloruri vari che nuocciono alle barriere coralline e agli organismi marini. Il Qatar al momento conta 12 dissalatori, la maggior parte dei quali è alimentata a combustibili fossili.

Ventidue ciminiere sovrastano l’impianto di Ras Abu Fintas, alla periferia di Doha. Si tratta della centrale a gas necessaria a produrre l’energia per alimentare i processi di dissalazione
L’impianto di desalinizzazione di Ras Laffan, a 80 chilometri da Doha, è il più grande del Qatar e permette di ottenere oltre 286.000 metri cubi di acqua dolce al giorno

Per avere un’idea della capacità energivora di questi impianti, una ricerca datata 2012 stima siano necessari 300.000 barili di petrolio giornalieri per alimentare le 30 centrali dell’Arabia Saudita.

Inoltre la Coppa del mondo non farà che aumentare il bisogno di acqua. La Reuters ha stimato che ne serviranno 10 mila litri al giorno per il mantenimento del manto erboso di ciascuno stadio, senza contare gli ulteriori 130 campi di calcio dislocati nei centri di allenamento che accoglieranno le 32 compagini nazionali in gara e dell’acqua necessaria per mantenere in maniera impeccabile gli innumerevoli giardini, le aree verdi e le fontane dislocate lungo tutte le principali aree urbane.

Nonostante i recenti sforzi per aumentare il riciclo, la maggior parte dei rifiuti domestici del Qatar è ancora stoccato in discariche indifferenziate come quella di Umm al Afai che occupa una superficie di oltre 300 ettari

Il governo qatarino negli ultimi trent’anni ha approvato una serie di misure per cercare di migliorare la gestione idrica eppure il Paese continua ad avere uno dei consumi pro-capite di acqua più alti al mondo: 557 litri al giorno per ogni residente dove, a puro titolo comparativo, la Francia ne consuma 164, l’Australia 290. Ad oggi il fabbisogno idrico del Qatar è assicurato da falde (24%), dissalatori (61%) e riuso (15%).

Sole poco sfruttato

Pensando al peso che i combustibili fossili – gas in primis – hanno avuto nel vorticoso sviluppo economico del Qatar dal 1970 ad oggi (con un reddito pro-capite passato da 2.756 dollari a oltre 61 mila) appare evidente come – nonostante le grandi potenzialità – il settore dell’energia solare sia rimasto pressoché fermo in questi anni. Ci sono voluti i Mondiali di calcio e, forse, anche la necessità di mostrare un volto più verde, perché le autorità qatarine lanciassero la costruzione del primo impianto di produzione di energia solare del Paese che è stato inaugurato lo scorso 18 ottobre alla presenza dell’emiro.

Il nuovo campo fotovoltaico di Al Kharsaah, 80 chilometri a ovest di Doha, attivo a partire da ottobre 2022 è il primo grande impianto di energie rinnovabili del Paese

A realizzarlo un consorzio pubblico-privato che vede la francese Total e la giapponese Marubeni al fianco di due agenzie governative. L’impianto di Al Kharsaah con i suoi 1,8 milioni di pannelli si estende su una superficie di dieci chilometri quadrati in pieno deserto a circa 80 chilometri a ovest di Doha ed ha una capacità di 800 MWp. Una volta a pieno regime l’impianto – affermano i costruttori – potrà coprire nelle fasi di picco produttivo fino al 10% della domanda interna di energia.

Seguendo quest’onda nello scorso mese di agosto il governo del Qatar ha annunciato la costruzione di due nuovi impianti. Bisogna però notare come, prima dell’entrata in funzione dell’impianto di Al Kharsaah, dunque per tutta la fase di preparazione dei mondiali, le energie rinnovabili coprivano meno dell’1% del fabbisogno e la potenza di energia solare installata era di soli 5 MW.

Per realizzare il nuovo stadio di Lusail, in cui si disputerà la finale del torneo, sono stati cementificati 1.385.000 metri quadrati di suolo prima inedificato, principalmente destinati a parcheggi
Per realizzare i parcheggi adiacenti agli stadi del mondiale è stata asfaltata una superficie complessiva di oltre 6,5 milioni di metri quadrati, pari a oltre 900 campi da calcio
Gli enormi parcheggi realizzati nei pressi degli stadi prevedono anche una quota di stalli per disabili. In alcuni casi però questi sono stati concentrati in una stessa area, peraltro lontana dagli accessi

Il Qatar intende utilizzare l’energia solare per alimentare i sistemi di condizionamento all’interno di sette stadi (lo stadio 974 prevede un sistema di ventilazione naturale).

Gilles Dufresne rimane scettico sul tema, affermando che l’energia prodotta dalla solar farm è indirizzata verso una rete elettrica la quale a sua volta alimenta gli stadi: «Non è un elemento rivoluzionario – conclude Dufresne – e dichiarare che un evento simile sia a impatto zero equivale essenzialmente a fare greenwashing». Che la giovane industria delle rinnovabili qatarina possa produrre energia a sufficienza per tutti i partecipanti è un miraggio tanto quanto l’idea di un maxi evento senza emissioni.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bodrero
Michele Luppi

Analisi satellitare

Federico Monica

Map data

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Editing

Lorenzo Bagnoli

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Mappe & Infografiche

Lorenzo Bodrero
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Foto di copertina

Lo stadio Al Bayt (capienza 60.000), costruito da un consorzio guidato dall’italiana WeBuild